Grand Tour

Il Grand Tour – o, come lo chiamavano i tedeschi, il Kavalierstour – e, con esso, il diario di viaggio, è covato nella storia europea prendendo le mosse dal pellegrinaggio religioso medievale ed evolvendo attraverso l’Inghilterra elisabettiana, la Francia di Montaigne e di Sade, la Germania di Paul Schede per fiorire via via in forme sempre meglio organizzate, più estese, più accuratamente descritte, quasi crescendo su se stesso attraverso quell’apprendimento silenzioso che oggi chiameremmo learning organization.

Gli scopi del Grand Tour erano molteplici: la sfida, l’avventura, l’apprendimento, il piacere, lo svezzamento dall’adolescenza, lo status symbol. Tornare da un Grand Tour significava averla scampata bella, aver visto cose mirabili, aver consolidato rapporti con luoghi lontani, con gente strana o di classe, avere aggiunto un blasone culturale a quello del censo o del casato, aver dimostrato a se stessi e agli altri la propria conquistata maturità.

Per l’aristocratico che partiva dalla Russia alla volta della nostra penisola, si facevano scommesse tanto più alte quanto più il viaggiatore intendesse spingersi a sud dell’Italia e, quindi, a sud della civiltà: in Campania o addirittura oltre, fino alla Sicilia. E il viaggiatore, da parte sua, esagerava nei suoi resoconti la quantità e la qualità dei pericoli affrontati per stupire le donne amate e gli uomini invidiosi, rimasti ad attenderlo in patria. Ne fanno bella prova le pagine del Viaggio in Italia dedicate da Goethe alle sue scalate del Vesuvio, in cui semplici gite, poco più che passeggiate, vengono descritte come avventure di spericolata temerarietà.

Quelle gite avvenivano nella primavera del 1787 ma già quasi due secoli prima, nel 1625, con la precisione scientifica che tutti gli conosciamo, Francesco Bacone aveva pubblicato addirittura un trattatello – Of Travel – in cui erano accuratamente spiegati i motivi per cui avventurarsi in un Grand Tour e i modi con cui portarlo a termine col massimo profitto.

Leggiamone qualche passo: «Se volete che il giovane apprenda il più possibile durante il viaggio dovrete così comportarvi. Primo, egli deve conoscere qualcosa della lingua del paese in cui si reca; poi deve avere un servo o un tutore come guida del paese. Dategli da portare qualche libro che descriva i paesi che visiterà; fate che tenga un diario. Fate che non rimanga troppo tempo in un paese o in una città; fate che cambi spesso dimora da una parte all’altra della città. Ciò contribuirà a renderlo più pratico della città, ma fate in modo che frequenti il miglior ambiente della città dove si trova; procurategli delle lettere di presentazione per persone che abitano nei paesi che visita: queste gli serviranno per facilitarlo nelle visite che più gli interessano. Altro fatto importante è fargli fare conoscenza con il seguito degli ambasciatori; fate che visiti persone molto conosciute in patria, così che possa rendersi conto se la fama di questi è usurpata o no».

Come si vede, siamo sulla stessa lunghezza d’onda ma a distanza siderale rispetto alle raccomandazioni che, ancora oggi, ogni padre ambizioso e ogni mamma apprensiva fanno al proprio figlio o alla propria figlia quando partono per un mese au pair in un Paese o per un continente lontano. Allora il giovane inglese o tedesco veniva nel Sud soprattutto con l’intento di farsi incantare dai monumenti; oggi il giovane del Sud si reca a Londra più per apprendere «sul posto» il nuovo esperanto della lingua inglese o per vedersi svelati gli arcani della finanza presso la London School of Economics che per ammirare con i propri occhi i capolavori della Tate Gallery o ascoltare con le proprie orecchie la London Simphony Orchestra.

Se vogliamo sapere più in dettaglio con quale viatico di raccomandazioni si intraprendeva il vecchio Grand Tour a cavallo tra Cinque e Seicento, basta continuare a leggere il nostro venerato Bacone. «Le cose da vedere e da osservare» egli scrive «sono: le corti dei principi, specialmente quando esse danno udienza agli ambasciatori; le corti di giustizia, mentre tengono sedute e ascoltano le cause; e così i concistori ecclesiastici; le chiese e i monasteri, coi monumenti che vi rimangono; i valli e le fortificazioni di città e cittadelle; e così le baie e i porti; le antichità e le rovine; le biblioteche, i collegi, le dispute e le lezioni, dove ve ne sono; la flotta mercantile e da guerra; i palazzi, i giardini pubblici e i parchi vicini alle grandi città; le armerie, gli arsenali; i magazzini; i cambi; le borse; i depositi; i maneggi di equitazione; la scherma, l’addestramento dei soldati, e simili; le commedie frequentate dalla migliore società; i tesori di gioielli e abiti; curiosità e rarità; e, per concludere, qualunque cosa sia celebre nei luoghi in cui viaggiano. Su tutto ciò, tutori o domestici dovranno fare diligente inchiesta. Quando a trionfi, mascherate, feste, sponsali, funerali, esecuzioni capitali e spettacoli simili, non c’è bisogno d’introdurli nella mente umana: tuttavia non sono da trascurare.»

In realtà, ognuno degli illustri viaggiatori che ci hanno lasciato i loro diari, ha poi seguito il proprio estro nel privilegiare questo o quell’aspetto, senza mai arrivare alla completezza filologica pretesa da Bacone, che snocciola minuzie quasi più dettagliate di quelle – dettagliatissime – con cui Lévy-Strauss si preparerà nei tempi nostri a partire per i tristi tropici.

Charles Burney, ad esempio, nel 1770 partì alla volta della Francia e dell’Italia soltanto per eseguirvi una ricognizione completa circa The Present State of Music (in France and Italy). Resterà a Napoli e dintorni per tre settimane, cercando sia di raccogliere notizie sui conservatori e sulle altre istituzioni musicali, sia gustando e criticando i due Scarlatti, Vinci, Leo, Pergolesi, Porpora, Farinelli, Jommelli, Piccinni, Traetta, Sacchini e tutta l’inclita corte dei musici a servizio del re e degli aristocratici.

Stendhal, a sua volta, fu mosso da interessi culturali assai vicini a quelli di Burney e si soffermò sugli artisti, sul pubblico, sui programmi, sui pettegolezzi dei teatri di Roma, Napoli e Firenze, assai più che sulla società civile che quei teatri aveva espresso.

Intorno al 1770 è tutto un fervore di viaggi dall’Inghilterra, dalla Francia, dalla Germania verso le terre della grande madre mediterranea. Interessi principalmente legati all’arte e all’archeologia spingeranno verso il Sud il ventisettenne Edward Gibbon e l’équipe di disegnatori guidata da Dominique Vivant Denon che batte Napoli e la Sicilia per conto dell’abate di Saint-Non fino a comporre quel miracolo di riproduzioni che è il Voyage pittoresque.

Intenti dichiaratamente scientifici ebbero l’astronomo Lalande, attento soprattutto agli aspetti geografici delle regioni visitate; e Wolfgang Goethe, il più sorprendente, acuto, sociologico di tutti, che andrà in cerca di foglie e di pietre ma troverà e si interesserà soprattutto a uomini, donne, cervelli e anime.

Sade, come può ben immaginarsi, girò l’Italia con morbosa curiosità per tutto ciò che vi si poteva incontrare di più truculento. Le sue descrizioni della cuccagna napoletana, cruenta e casereccia come un sanguinaccio nostrano, si avvicineranno a quelle punte gotiche che solo Ceronetti riuscirà a conquistare centocinquanta anni più tardi con il suo Un viaggio in Italia.

Col passare degli anni il viaggio si farà sempre più tecnologico, rapido e, per certi versi, superficiale. Quasi fulmineo sarà quello di Strindberg, che tornerà indietro inorridito non appena varcate le Alpi; poco più meditato sarà quello di Keynes, che scenderà in Italia soprattutto per compiacere l’ansia pedagogica del padre, così come oggi tanti giovani italiani salgono in Inghilterra per apprendere l’inglese e placare così l’ansia anglofona dei genitori.

Ma, ormai, non si tratta più di aristocratici, bensì di borghesi che ricalcano le orme degli aristocratici settecenteschi per scimmiottarne abitudini e status. Il progresso ferroviario e aereo si incaricherà, di lì a poco, di scaraventare sul Sud i fiumi in piena del turismo di massa, fatto di piccoloborghesi spinti dai tour operator a imitare i borghesi. Benché oceanico, si tratterà, comunque, di un petit tour.

Una semplice rivoluzione
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