Liberazione
A ben guardare, il progresso umano è null’altro che un lungo itinerario dell’umanità verso l’intenzionale liberazione dalla fatica fisica prima e dallo stress intellettuale poi. Dalle origini della nostra storia al Medioevo l’uomo è riuscito a realizzare la propria liberazione dalla schiavitù; dal Medioevo alla prima metà del Novecento ha realizzato la sua liberazione dalla fatica; dalla Seconda guerra mondiale mira alla liberazione dal lavoro tout court, realizzando il sogno di Aristotele.
Forse è stato proprio con Taylor che, per la prima volta, si è affacciata l’idea – genialmente colta come ipotesi e non come utopia – che il lavoro possa essere via via ridotto fino alla sua completa eliminazione organizzandolo scientificamente e scaricandolo sulle macchine. Secondo le parole dello stesso Taylor, se la sua generazione era riuscita a raddoppiare o a quadruplicare la produzione grazie al vapore, all’energia elettrica, al progresso tecnologico, la generazione successiva, grazie all’adozione dello scientific management avrebbe ulteriormente raddoppiato la produzione, arrivando a creare maggiore benessere, a ridurre ulteriormente l’orario di lavoro, a eliminare del tutto i conflitti. A supporto della sua tesi, Taylor ricorda che a Manchester, tra il 1840 e il 1912, il numero degli operai era aumentato di 53 volte mentre la produzione di stoffe era aumentata di 400-500 volte.
Taylor, dunque, vagheggiava la progressiva riduzione della fatica umana fino al trionfo definitivo del tempo libero sul tempo di lavoro. E, con estrema coerenza tra la sua ipotesi e la sua vita, giunto a 45 anni, egli stesso si ritirò dal lavoro e, coadiuvato da 35 giardinieri, si dedicò all’hobby del giardinaggio nella sua splendida villa di Filadelfia.
Oggi la liberazione dal lavoro rappresenta l’essenza del progresso quando riguarda le mansioni faticose, pericolose, noiose, banali e quando è compensata da un simmetrico incremento di attività libere e creative.
In una famosa conferenza del 1930 (Possibilità economiche per i nostri nipoti), Keynes salutò con entusiasmo questa prospettiva e profetizzò che essa si sarebbe realizzata in tre tappe. Nella prima, grazie soprattutto al progresso tecnologico, il lavoro sarebbe diminuito senza ancora scomparire del tutto; dunque, sarebbe stato necessario ridistribuirne il residuo affinché nessuno restasse disoccupato. «Lavorare meno, lavorare tutti» avrebbero gridato gli studenti del Sessantotto, con maggiore lucidità dei loro professori. Nella tappa seguente, di natura culturale, «per la prima volta dalla sua creazione, l’uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza». Nella terza tappa, di natura etica, la mutazione del codice morale si sarebbe sommata alla mutazione organizzativa e a quella culturale, consentendo ai nipoti di Keynes una vita finalmente liberata dal lavoro e pienamente realizzata. I nipoti di Keynes siamo noi e i nostri figli.
Negli anni successivi a Possibilità economiche per i nostri nipoti, l’azione congiunta del progresso tecnologico, del management scientifico e della globalizzazione ha impresso alla produttività un ulteriore incremento esponenziale. Quando ancora l’informatica non si era diffusa come oggi, Hyman G. Rickover scrisse in Prospect for the Rest of Century che una volta occorrevano 20 uomini per sostituire la forza muscolare di un cavallo e poi, grazie ai moderni elettrodomestici, ogni casalinga ha potuto godere di un aiuto paragonabile a quello che in Grecia si otteneva da 33 schiavi. Già ai tempi di Rickover, negli anni Cinquanta, l’energia di cui disponeva ciascun operaio nel suo lavoro di fabbrica equivaleva alla forza di 244 schiavi e un’automobile di media cilindrata sviluppava la forza di 1000 schiavi.
Serge Latouche, nel suo Breve trattato sulla decrescita serena, fa osservare che «un barile di petrolio contiene l’equivalente energetico di 25.000 ore di lavoro umano… Il nostro consumo quotidiano di idrocarburi equivale al lavoro quotidiano di più di 300 milioni di esseri umani, come se ogni abitante della terra avesse a disposizione cinquanta schiavi».
Se vent’anni fa occorrevano 60.000 operai per costruire un milione di automobili, oggi, grazie ai robot e ai nuovi espedienti organizzativi, ne bastano 20.000. Migliorando del 90 per cento le tecnologie e aumentando del 126 per cento lo sforzo di lavoro, la Fiat e il suo guru giapponese Hajime Yamashina sono riusciti a far produrre 270.000 vetture agli stessi 5000 operai che nel 2008 ne producevano 78.500. Nei prossimi vent’anni persino organi umani come il fegato, i reni e il cuore potranno essere riprodotti rapidamente in bioprinting, cioè con stampanti 3D capaci di stampare con materiali a base di cellule. Già a Mosca la 3D Bioprinting Solutions ha stampato una tiroide e in America la Organovo sta mettendo a punto la stampa 3D di un fegato mentre alla Wake Forest University, Carolina del Nord, è stato realizzato un primo modello di tessuto cardiaco con la capacità di pulsare autonomamente. Presso Italian Medical Network for 3D Printing and Bioprinting in Medicine vengono utilizzate protesi stampate in 3D che non impiegano ancora cellule ma già materiali biocompatibili.
Tutto il progresso scientifico e tecnologico porta a un prolungamento della vita media e a un’accelerazione della produttività, cioè della produzione di più beni e più servizi con meno lavoro umano. L’economista Nicola Cacace ha calcolato che nel 1891 gli italiani erano meno di 40 milioni e lavoravano complessivamente 70 miliardi di ore. Cento anni dopo, nel 1991, erano diventati 57 milioni eppure ne hanno lavorate solo 60 miliardi. Però hanno prodotto ben 13 volte di più. In Francia – come dimostrano Olivier Marchand e Claude Thélot – nell’arco di due secoli, la durata del lavoro individuale si è dimezzata, l’occupazione è aumentata di 1,75 volte, la produzione è aumentata di 26 volte, la produttività oraria del lavoro è aumentata di 30 volte.
È questo il jobless growth, lo sviluppo senza lavoro. Già in tempi di tecnologie meccaniche Alexis Leontiev scrisse: «Illudersi che i lavoratori sostituiti dalle nuove macchine possano essere reimpiegati nella produzione di altre macchine, è come illudersi che i cavalli sostituiti dalle automobili possano essere reimpiegati nelle industrie automobilistiche». Cosa direbbe ora Leontiev di fronte alle tecnologie elettroniche?
Man mano che il progresso tecnologico e lo sviluppo organizzativo provocano ondate di disoccupazione, gli economisti, invece di prendere atto del fenomeno del jobless growth e cercare i rimedi coerenti, incolpano la crisi e alzano l’asticella della disoccupazione promuovendola al rango di «fisiologica». Negli anni Trenta gli economisti sostenevano che un Paese moderno può tollerare tranquillamente il 2 per cento di disoccupati e che, anzi, questa percentuale è utile per calmierare il mercato del lavoro. Negli anni Quaranta hanno elevato questo limite al 3 per cento. Poi gli esperti kennediani lo portarono al 4 per cento. Negli anni Settanta si disse che anche il 5 per cento poteva andare. Negli anni Ottanta si è elogiata l’America perché aveva «solo» il 6 per cento di disoccupati e ora il governo italiano è orgoglioso di avere ridotto la disoccupazione al 12 per cento. Oggi nel mondo ci sono 205 milioni di persone senza lavoro, di cui 75 milioni sono giovani. I posti di lavoro diminuiscono soprattutto nei Paesi più avanzati, proprio a causa della loro modernità tecnologica e organizzativa. Negli Stati Uniti e in Europa, nell’arco di sei anni, il settore manifatturiero ha perso 6.118.000 posti; il settore delle costruzioni ne ha persi 4.500.000; il settore della logistica 770.000.
Ciò che gli economisti si ostinano a negare è appunto il fatto ormai evidente e consolante che abbiamo imparato a produrre sempre più beni e servizi con sempre meno lavoro umano. In altri termini, siamo diventati più civili e più umani. Ma, di fronte al diminuire del lavoro, invece di ridistribuirne equamente la parte residua, continuiamo a far sgobbare dieci ore al giorno i genitori mentre i loro figli restano disoccupati.
Anche in passato ci sono state epoche e regioni in cui il lavoro costituiva un miraggio: a cavallo tra Ottocento e Novecento, ad esempio, milioni di persone hanno lasciato avventurosamente la Polonia, l’Irlanda, l’Italia, l’Ungheria per affrontare l’incognita dell’oceano e tentare la fortuna nel Nuovo Mondo. Ma, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, il lavoro è diventato la questione economica, politica e morale più allarmante in tutti i Paesi del mondo, a prescindere dal loro Pil.
Molto probabilmente occorre mettersi l’anima in pace: negli uffici come nelle officine, la maggior parte dei posti andati perduti negli ultimi decenni non tornerà mai più perché il lavoro che veniva svolto dagli attuali disoccupati è ormai inutile. Alcuni di essi, infatti, producevano cose che servono sempre meno (come l’acciaio); altri producevano cose che ora sono fatte egregiamente dalle macchine (come il montaggio o la verniciatura di automobili, la consegna di denaro contante, le analisi cliniche, la distribuzione di biglietti ferroviari); altri ancora facevano cose che ora ciascuno fa per proprio conto (come i test di gravidanza, il rifornimento di benzina, la produzione diretta di oggetti tramite la stampante 3D).
Per molti anni, finché le macchine sono state solo automatiche, la tecnologia sottraeva posti di lavoro ai cavalli e, quando anche li sottraeva agli uomini, riusciva comunque a creare nuovi posti in misura superiore a quelli distrutti. Così è stato, ad esempio, per la progettazione e la produzione di automobili e di locomotive. Ma, a partire dall’avvento dell’elettronica, dell’informatica, delle nanotecnologie, delle biotecnologie, dei laser, dei nuovi materiali e, da ultima, dell’intelligenza artificiale, questo equilibrio si è rotto forse per sempre e i posti di lavoro assorbiti dalle macchine non vengono più compensati dai nuovi investimenti e dalle nuove occupazioni necessarie per costruire quelle macchine o nuovi prodotti. Per ogni posto di lavoro che offre, un centro commerciale ne distrugge sette; il bancomat fa fuori migliaia di cassieri; i tablet sostituiscono milioni di addetti alle cartiere, alle tipografie e alle edicole. Ogni app che, per essere inventata, quasi sempre richiede la creatività di una o due persone, toglie lavoro a migliaia di uomini. E quando anche le nuove macchine creano nuovi posti di lavoro, spesso questi posti sono dislocati in Paesi o in continenti diversi da quelli in cui queste macchine distruggono lavoro. La progettazione di un computer crea occupazione in America e la sua produzione crea occupazione in Cina, ma quel computer sostituisce lavoro umano in tutto il pianeta.
Di fronte a questa situazione incresciosa per milioni di cittadini, i governi sono corsi ai ripari lanciando le campagne di job creation: acuire l’ingegno per inventare nuovi posti è stata la parola d’ordine di tutti i ministri del Lavoro in ogni Paese postindustriale. Sulla carta, lo sforzo sembrerebbe coronato dal successo: in mezzo secolo l’America, il Giappone, l’Europa sono stati capaci di realizzare milioni di nuovi posti di lavoro, ma la maggior parte di essi consiste in quelli che gli americani chiamano hamburger-flipping jobs: occupazioni a mezzo tempo, di bassa qualità e bassa paga, svolti per la maggior parte da immigrati e part timer.
A questo punto, incalzati da una tecnologia onnivora che ingoia con la stessa velocità sia le mansioni operaie che quelle impiegatizie e manageriali, invece di ridurre drasticamente gli orari e i carichi di lavoro, i governi si sono messi a detassare i datori di lavoro, a corteggiare gli investimenti stranieri nel proprio Paese, a riesumare forme larvate di protezionismo e a incentivare la flessibilità contrattuale. Nessuno dei policy maker ha provveduto a formulare un piano B basato sull’ipotesi di una progressiva riduzione del lavoro sufficiente a produrre tutto ciò che è necessario a fronte di un progressivo aumento della popolazione attiva. Parlando di robot, Maurizio Ricci si chiedeva recentemente sulla «Repubblica»: «Il problema non è se comandiamo noi o loro, ma cosa mangiamo noi se lavorano loro». Rispunta così il problema cruciale del capitalismo, che sa produrre ma non sa distribuire. Siamo abituati da secoli a considerare giusto che la ricchezza vada solo a chi l’ha prodotta. Ora che disponiamo di beni e servizi in abbondanza, ma prodotti dalle macchine che non sanno cosa farsene, ci manca un piano distributivo capace di offrire all’umanità intera una vita finalmente liberata dal lavoro e dai conflitti economici. Nel 2015 Martin Ford, autore di Rise of the Robots: Technology and the Threat of a Jobless Future, suggerisce di distribuire un reddito minimo universale garantito, come del resto già avviene nelle socialdemocrazie scandinave. Ma 7 miliardi di cervelli hanno il dovere di creare con urgenza sistemi ben più avanzati e completi per rendere più felice l’umanità finalmente liberata dal sistema economico.
Solo di recente, ma troppo lentamente, si va diffondendo l’esatta percezione che la società postindustriale, a differenza di quella rurale e di quella industriale che l’hanno preceduta, è caratterizzata da una progressiva delega del lavoro alle tecnologie, da un rapporto sempre più sbilanciato tra tempo di lavoro e tempo libero, a favore di quest’ultimo, da un progressivo meticciato tra studio, lavoro e vita per cui l’esistenza di un lavoratore postindustriale potrà somigliare sempre più – senza ripeterne gli inconvenienti – a quella di un contadino rurale e sempre meno a quella di un operaio industriale. Nella Lettera ai contadini sulla povertà e la pace del 1938, il poeta pacifista Jean Giono scrive: «Non si può sapere quale sia il vero lavoro del contadino: se è arare, seminare, falciare o se è nello stesso tempo mangiare e bere alimenti freschi, fare figli e respirare liberamente, poiché tutte queste cose sono intimamente unite e quando egli fa una cosa completa l’altra. È tutto lavoro, e niente è lavoro, nel senso sociale del termine. È la sua vita».