Sfrontatezza
Philippe-Auguste-Mathias, conte di Villiers de L’Isle-Adam (Mathias per la famiglia, Villiers per gli amici, Auguste per i suoi lettori), figlio unico di famiglia tanto nobile quanto decaduta e squattrinata, visse tra il 1838 e il 1889 passando dalla Bretagna a Parigi, dai caffè ai salotti, dal giornalismo alla poesia, da una demi-mondaine a una vedova illetterata e alla figlia di Théophile Gautier, da Baudelaire a Flaubert, da Mallarmé a Wagner e a Léon Bloy.
Simbolista, idealista, cupamente ironico, di sbrigliata fantasia (è suo il conio della parola «androide») questo «dormiglione sveglio, prosatore magnifico, pieno di armonia e di splendore», come lo definì Anatole France, ci ha lasciato dei Racconti crudeli (1883) così straordinari che Jorge Luis Borges li inserì nella fascinosa collezione di racconti da lui curata per Franco Maria Ricci.
In uno di questi racconti, L’avventura di Tse-i-La, obliqua parabola in cui Auguste anticipa l’abusato «dilemma del prigioniero», il nostro nobile brillante e squattrinato rappresenta il potere messo in ginocchio sotto la sferza dell’intelligenza e dell’amore. Eccone una sintesi, ovviamente scialba rispetto all’originale.
Narra Auguste che, in una remota provincia cinese a nord del Tonchino, soltanto l’imperatore Tche-Tang, benché crudele e odiatissimo, riuscì a morire di morte naturale dopo lunga vecchiaia.
Ed ecco la causa di tanta immeritata longevità. Un giorno, assai prima della sua morte, le guardie gli portarono incatenato un giovane di nome Tse-i-La, acciuffato mentre osava scavalcare furtivamente le mura del palazzo imperiale. Intenzionato a mandarlo a morte, l’imperatore lo interrogò secondo la procedura di rito, in presenza dei suoi infidi cortigiani.
Tse-i-La, per nulla impaurito, gli raccontò di avere sfidato un simile pericolo perché il giorno prima aveva incontrato gli dèi della foresta che gli avevano rivelato un segreto da riferire soltanto all’imperatore in persona. Grazie a questo segreto, l’odiato imperatore avrebbe potuto sventare in anticipo qualsiasi congiura, individuando i congiurati nel momento stesso in cui essi concepivano le loro trame.
I cortigiani, spaventati da una simile prospettiva, incitarono l’imperatore a non ascoltare oltre Tse-i-La e mandarlo a morte senza ulteriori indugi. Ma l’imperatore, incuriosito dalle parole del giovane, gli ingiunse di svelare pubblicamente il segreto.
Tse-i-La tenne duro e gli rispose che, secondo il volere tassativo degli dèi della foresta, il segreto doveva essere scrupolosamente riferito solo all’imperatore. Inoltre, Tse-i-La non gli avrebbe mai svelato il segreto se, in cambio, non gli fosse stato riconosciuto un triplice premio: 50.000 liang d’oro; il titolo nobiliare di mandarino; la mano della bellissima principessa Li-tien-Se.
Il crudele monarca, benché infuriato, abboccò: condusse Tse-i-La in un sotterraneo accanto alla camera della tortura, dove nessuno poteva origliare, e tacque in attesa che il giovane gli svelasse l’arcano. «Il mio segreto non esiste» disse finalmente Tse-i-La. «Ma se tu mi ammazzi, i tuoi cortigiani sapranno che ho detto una bugia e che essi non hanno nulla da temere. Rideranno della tua credulità beffata e forse oggi stesso cadrai vittima dei loro pugnali. Se, invece, tu uscirai da questo nostro colloquio con il volto raggiante e mi darai i tre premi concordati, essi si convinceranno che il mistero che ti ho confidato è straordinariamente efficace e che, d’ora in poi, non è più il caso di tramare contro di te.» All’imperatore, crudele e avaro ma tutt’altro che stupido, non restò che accettare: concesse al giovane sfrontato la propria amatissima figlia e il titolo nobiliare, aggiungendo in sovrappiù, ai liang d’oro, il prezioso collare imperiale.
Ogni volta che si parla di sfrontatezza, mi viene in mente questo racconto obliquo. Ai miei occhi, infatti, Tse-i-La rappresenta l’esempio lampante del puro folle – il Parsifal di Wagner – capace di spingersi oltre ogni prudente immaginazione pur di vedere premiato il suo programmato coraggio.
Ha ragione quella scuola di psicologia secondo cui in ciascuno di noi convive un fanciullo, un adulto e un vecchio. Agisce dentro di noi il fanciullo quando ci innamoriamo o ci adiriamo, quando partiamo in quarta per una crociata impossibile e quando prendiamo la vita come gioco. Agisce in noi l’adulto quando la ragione prevale sul sentimento, quando progettiamo con cura un’impresa, quando riusciamo a imbrigliare le nostre passioni in un contesto di serietà. Agisce in noi il vecchio quando ci assale la paura della morte e quando ci sentiamo stanchi di combattere, quando smettiamo di sperare, creare, amare e procreare. Dice Baudelaire che non si è mai vecchi fin quando si desidera sedurre ed essere sedotti.
Mentre interagiamo con gli altri, a volte è il nostro io-fanciullo che opera; altre volte è il nostro io-adulto; altre volte, infine, è il nostro io-vecchio. E, a loro volta, anche i nostri interlocutori possono risponderci con la loro parte infantile, o con la loro parte adulta, o con la loro parte senile. Ad esempio, nel racconto di Villiers, il giovane Tse-i-La si affida prevalentemente alla sua parte bambina, l’imperatore alla sua parte adulta, i cortigiani alla loro parte senile.
L’importante è che nessuna delle nostre tre personalità sia privilegiata in modo permanente a scapito delle altre due ma che, di volta in volta, si faccia leva su quella tra esse che meglio risponde alle esigenze del momento. Il mondo delle burocrazie, ad esempio, tende a utilizzare soltanto la parte decrepita dei propri funzionari, mentre il mondo industriale tende a utilizzare solo la parte adulta dei propri manager. In entrambi i casi, resta mortificato l’adorabile fanciullo che è dentro di loro: la loro dimensione creativa e capricciosa cui è affidata la qualità della loro vita, il benessere del loro corpo e della loro mente.
Ognuno di noi, interrogando il giovane sfrontato, il saggio imperatore, il decrepito cortigiano che opera nel profondo della propria personalità, può ben comprendere quale dei tre esageratamente prevale e come ripristinare il necessario equilibrio interiore, rafforzando la componente debole. È questo, io credo, che intenda dire George Braque quando confessa: «Amo la regola che corregge l’emozione»; o Juan Gris quando ribatte: «Amo l’emozione che corregge la regola». O anche Gilberto Freyre quando scrive: «Se dipendesse da me, non sarei mai maturo né nello stile, né nelle idee, ma sarei sempre verde, incompiuto, sperimentale».