Edipo
Raffaello era figlio di un pittore e Mozart era figlio di un musicista. A quei tempi i giovani erano obbligati a seguire le orme paterne e, se il padre di Raffaello fosse stato un falegname o quello di Mozart un macellaio, noi avremmo perso due artisti supremi. Invece la fortunata coincidenza professionale ci ha assicurato capolavori come Le nozze di Figaro e Lo sposalizio della Vergine. Oggi la situazione è diversa e, accanto alla mobilità verticale, per cui è più facile scalare la gerarchia sociale, è cresciuta anche la mobilità orizzontale, per cui, sempre più spesso, i figli imboccano professioni diverse da quella paterna.
Gregory Bateson, lo psicologo e sociologo (ma figlio di un genetista), ispiratore della famosa Scuola di Palo Alto, ci ha fornito una buona chiave di lettura per capire come mai tanti figli di imprenditori, manager, ingegneri, dirottano le loro scelte verso professioni artistiche. Dice Bateson: «La razionalità meramente finalizzata, senza il sostegno di fenomeni quale l’arte, la religione, il sogno e simili, è necessariamente patogena e distruttiva della vita». Dunque, molti figli nati in contesti dedicati all’utile, per non morire di aridità migrano verso contesti dedicati al bello. Così facendo risolvono il conflitto, conscio o inconscio, tra i loro desideri personali e il percorso tracciato per essi dalla famiglia, tra il mistero della loro nascita e l’incognita del loro avvenire. Per conquistarsi un’identità, essi debbono prima scoprire chi sono e da dove vengono per poi scegliere il loro futuro senza sentirsi prigionieri del passato.
In questo percorso, la psicanalisi soccorre più della sociologia perché si appella al mito, cioè a quel genere di narrazione che, più di ogni altro, contiene le radici profonde della condotta umana. Si può sfuggire al destino cui la famiglia ci ha votati? Si ha il diritto di preferire a un percorso più conveniente sul piano economico, un percorso più avvincente sul piano emotivo? Si ha il diritto di intraprendere la ricerca di una nuova via, faticosa e incerta, quando si ha la fortuna di avere una via già tracciata e comoda? Il diritto nasce dal fatto stesso di essere uomini umani, dal momento che la creatività, e il bisogno di ricerca che ne deriva, sono istinti naturali dell’uomo e tratti distintivi della sua umanità.
Sofocle rappresentò questa ricerca e questa scelta con due tragedie immortali: Edipo re, scritta quando il drammaturgo era ancora giovane, e Edipo a Colono, scritta quando aveva ormai ottantaquattro anni.
Nella prima, Edipo regna su Tebe, saggio e rispettato, quando in città scoppia una pestilenza. L’Oracolo fa sapere che la spietata epidemia cesserà solo nel momento in cui si verrà a sapere chi ammazzò, in una rissa di alcuni anni addietro, l’allora re Laio.
Da qui comincia l’esplorazione di Edipo nell’abisso della sua identità. Man mano, grazie alle rivelazioni del profeta Tiresia, egli sarà costretto a scoprire che era stato proprio lui l’assassino. Ma non basta: appurerà che il re Laio era suo padre e che sua moglie, la regina Giocasta, è la stessa donna che poi Edipo ha sposato. Il suo viaggio negli abissi della propria identità lo porta a scoprirsi assassino e incestuoso, lo spinge a strapparsi gli occhi che hanno visto l’orribile realtà e lo condanna a fuggire dalla sua città, affrontando il doppio buio della cecità e dell’esilio. La natura esploratrice dell’uomo non si ferma neppure davanti al terrore. «Devo sapere chiaramente come stanno le cose» dice Edipo, «irrompa ciò che deve. Io voglio conoscere.»
Anche i giovani che, per autorealizzarsi, vanificano le speranze paterne e imboccano vie nuove, coerenti con la loro vocazione, fanno un salto nel buio, dal rassicurante universo familiare a un vagabondaggio volontario, privo di protezioni. Per entrambe le parti in causa – genitori e figli – non si tratta di una scelta volontaria e indolore, ma di una scelta dolorosa e obbligata.
L’allontanamento del figlio dal gruppo originario, la sua ricerca di una nuova vita e un nuovo equilibrio, l’integrazione, infine, in una nuova comunità trovano una calzante metafora nella seconda tragedia, Edipo a Colono scritta da un Sofocle ormai ottantenne per descrivere un Edipo non più alla ricerca di se stesso, ma della collettività che ha scelto. «Gli dèi che ti distrussero un tempo, ora ti sollevano» gli dice la figlia Ismene.
Questa volta Tebe e Atene sono in guerra e l’Oracolo ha fatto sapere che la città in cui Edipo fisserà la sua ultima dimora e in cui riposeranno le sue spoglie mortali, vincerà e vivrà felicemente pacifica. Allora sia Tebe che Atene gareggiano nell’accaparrarsi il povero vecchio cieco e moribondo. Ma Edipo, nel suo peregrinare, ha potuto riflettere sul suo crudele destino e ha capito che il suo duplice delitto era inconsapevole, dunque incolpevole. Lui non sapeva che Laio fosse suo padre, né che Giocasta fosse sua madre: «Come mi si può rimproverare di un fatto involontario?… Sono puro di fronte alla legge perché non sapevo nulla».
Dopo essersi assolto, Edipo non torna a Tebe, città delle sue origini, ma va ad Atene, città della sua libera scelta perché, come dice Rollo May, «ama solo coloro che sceglie di amare». Edipo ha capito che, dopo avere portato la peste a Tebe inconsapevolmente, ora può portare la gioia ad Atene intenzionalmente. Ha scoperto il rapporto fecondo che può instaurarsi tra l’individuo, la sua famiglia, la sua collettività: «Non avrete mai da nessuno un amore più grande del mio».
Qualcosa di analogo fanno quei figli che, con uno strappo crudo, hanno il coraggio di infrangere i sogni dei genitori e scegliere strade diverse da quelle che gli sono assegnate dalla famiglia. In essi vince il bisogno di dare un significato alla propria esistenza, liberandosi dal clan e consegnandosi a un’avventura più aderente ai propri sogni, che gli consentirà di amare solo coloro che hanno scelto di amare.
È questo amore per un nido suo proprio che spinge alla ricerca anche un altro mitico eroe – Ulisse – disposto ad affrontare mille pericoli pur di recuperare il calore della propria isola, ma poi deciso a staccarsene di nuovo per esplorare il mondo ignoto oltre Gibilterra. Omero ce ne descrive le mille peripezie creando il prototipo dell’uomo coraggioso che non si ferma davanti alla violenza dei ciclopi e alla seduzione delle sirene pur di tornare alla terra dove le sue radici affondano. E Kavafis, nella sua fortunata poesia su Itaca che abbiamo già ricordato, ci svela i tesori di conoscenze che Ulisse può accumulare durante il suo lungo viaggio, tanto più ricco quanto più lungo. «Devi augurarti che la strada sia lunga… Soprattutto, non affrettare il viaggio.» Perché è nel lungo peregrinare che si possono accumulare tesori, è indugiando negli empori fenici che si possono acquistare madreperle coralli ebano ambre e profumi; è sostando nelle città egizie che si può imparare una quantità di cose dai dotti e, fatto savio, con tutta la propria esperienza addosso, si può tornare nella Itaca che, per il fatto di esistere, ci ha dato la possibilità di partirne.
Dante inizia là dove Omero e Kavafis terminano. Il suo Ulisse antepone alla pietà verso il vecchio padre, alla dolcezza del rapporto con il figlio bambino, al debito d’amore verso la moglie, il bisogno irrefrenabile di «divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore». Una volta tornato a Itaca, la sua inquietudine non si placa. Recuperati i compagni di avventura, armata una nuova nave, egli se ne riparte per sempre, veleggiando sfrontatamente verso l’ignoto che lo attende oltre le colonne d’Ercole. «De’ remi facemmo ali al folle volo.» Trasformati i remi in ali, l’istinto creativo di Ulisse mette la temerarietà e il coraggio al servizio della crescita intellettuale e sprona i compagni all’estrema avventura facendo appello alla missione intellettuale cui ogni essere vivente è votato per sua stessa natura: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».