Heller

Cleobulo dice che «ottima è la misura!». Ma qual è il metro di misura? Protagora, amico e ispiratore di Pericle, risponderebbe: «È l’uomo la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono». Dunque l’uomo, il singolo individuo, la sua comunità, la sua cultura e l’umanità tutta intera sono arbitri supremi del bene e del male. Ma questa è la porta del relativismo. Tant’è vero che Protagora aggiunge: «Quali le singole cose appaiono a me, tali sono per me e quali appaiono a te, tali sono per te: giacché uomo sei tu e uomo sono io».

Ognuno di noi conosce bene qual è la sua misura: quanto cibo o quante sigarette può reggere il suo fisico, quante persone può amare il suo cuore, quante verità può comprendere la sua mente. Ma nessuno di noi è un’isola, come sottolinea il poeta John Donne, edificante decano della cattedrale di Saint Paul, in un passo del Devotions upon Emergent Occasions che ha avuto il raro privilegio di suggerire il titolo a ben due libri importanti. Nessun uomo è un’isola è infatti il titolo di un saggio famoso del monaco trappista Thomas Merton, che scrive: «Quello che faccio viene dunque fatto per gli altri, con loro e da loro: quello che essi fanno è fatto in me, da me e per me. Ma a ognuno di noi rimane la responsabilità della parte che egli ha nella vita dell’intero corpo».

Invece Per chi suona la campana è il titolo del celebre romanzo di Ernest Hemingway, anch’esso derivato dalla medesima poesia di John Donne, che, letta per intero, dice: «Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del continente, una parte della Terra. Se una zolla viene portata via dall’onda del mare, l’Europa ne è sminuita, come se un promontorio fosse stato al suo posto, o una casa amica o la tua stessa casa. Ogni morte d’uomo mi sminuisce perché io partecipo all’umanità. Perciò non mandare mai a chiedere per chi suona a morto la campana: essa suona per te».

Più tardi lo stesso concetto sarebbe stato riproposto da Hegel con una formula più laica e meno poetica: «Nel corso dell’attuale raggiungimento di fini egoistici, c’è un sistema completamente formato di interdipendenze, in cui la vita, la felicità e la condizione giuridica di ciascuno è legata alla vita, alla felicità e ai diritti di tutti. Da questo sistema dipende la felicità individuale».

Al relativismo di Protagora, che definisce l’uomo come misura di ogni cosa, John Donne contrappone l’every man is a piece of the continent, una sorta di panteismo che tutto mette a sistema. Un secolo più tardi gli illuministi avrebbero riaffermato il concetto di libertà individuale, per cui l’uomo è misura di tutte le cose, ma avrebbero temperato la mia libertà con l’obbligo di tenere conto della libertà di tutti gli altri, nel rispetto dell’uguaglianza. E avrebbero regolato i rapporti di uguaglianza in base al principio della fraternità dal momento che siamo tutti involved in mankind, come avrebbe detto John Donne. Immanuel Kant è molto netto su questo punto: «Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo (come cioè egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo».

Ma ognuno, nel misurare le cose con il suo metro, stabilisce il metro in base ai suoi bisogni, i quali chiedono di essere soddisfatti nel tempo giusto e nella misura giusta. Di qui il tentativo, da parte di psicologi, filosofi e sociologi, di classificare i bisogni: dai più materiali ai più spirituali, dai più imperiosi ai più deboli.

Tra le tante classificazioni, più di tutte mi convince quella formulata da Ágnes Heller, una geniale filosofa ungherese che, insieme al suo grande maestro Lukács, contrastò coraggiosamente le gerarchie comuniste e fu costretta all’esilio. Nel suo libro Sociologia della vita quotidiana, la Heller constata che tutti gli esseri viventi – da una pianta a un animale a un uomo – sono accomunati dai bisogni esistenziali connessi alla sopravvivenza fisica: aria, cibo, riposo, metabolismo.

Ma esistono bisogni esclusivi della specie umana, che condizionano l’intera dinamica delle nostre società. Alcuni di questi bisogni hanno un carattere quantitativo, si riferiscono cioè all’acquisizione di cose che possono essere misurate. Si tratta soprattutto del bisogno di ricchezza, che può essere soddisfatto attraverso il denaro accumulato; del bisogno di potere, che può essere soddisfatto attraverso il consenso e l’obbedienza ottenuti dagli altri; del bisogno di possesso, che può essere soddisfatto attraverso l’acquisto e la disponibilità di oggetti, case, terreni, cibo, informazioni.

Questi bisogni, essendo quantitativi, non hanno mai fine e vengono eccitati dal paragone con gli altri. L’erba del vicino è sempre più verde e l’invidia che ne deriva, o anche solo il senso di emulazione, mi spinge a curare il mio prato fino a superare il prato confinante. Le infinite classifiche imbandite dalle riviste patinate, su chi sia l’uomo più ricco, o più elegante, o più affascinante, non fanno altro che solleticare questo smisurato bisogno di avere e di superare. Immagino che i paperoni di tutto il mondo attendano con ansia la classifica annuale di «Forbes» per sapere in che posizione si trovano, e recentemente mi è capitato tra le mani un numero di «Time» che addirittura azzardava una graduatoria dei dieci uomini più ricchi di tutti i tempi. Al primo posto si è piazzato Mansa Musa (1280-1337), re del Mali, il più grande produttore d’oro di tutti i tempi; al secondo posto Cesare Augusto che possedeva un quinto del valore dell’Impero romano; al terzo posto l’imperatore cinese Shen Zong (1048-1085) che produceva tra il 25 e il 30 per cento del Pil mondiale; al quarto posto l’imperatore dell’India Akbar I (1542-1605); al quinto posto Iosif Stalin; al sesto posto l’imprenditore americano Andrew Carnegie (1835-1919), che vendette la U.S. Steel per una cifra che oggi equivarrebbe a 372 trilioni di dollari; al settimo posto il petroliere americano John D. Rockefeller (1839-1937), che possedeva una fortuna pari a 341 miliardi di dollari attuali; all’ottavo posto il nobile francese Alan Rufus detto «il rosso» (1040-1093), che alla sua morte possedeva un patrimonio pari a 194 miliardi di dollari attuali; al nono posto Bill Gates, il più ricco vivente, che possiede un patrimonio personale di 79 miliardi di dollari; infine l’imperatore mongolo Gengis Khan (1162-1227) i cui possedimenti andavano dalla Cina all’Europa.

Qui, per tutti noi esclusi da queste classifiche, torna conveniente il concetto di «misura»: cioè la giusta via di mezzo tra gli inconvenienti del troppo e gli inconvenienti del poco; tra la dolorosa mancanza del necessario e l’incresciosa opulenza del superfluo, per cui ci conviene morire né ricchi né poveri, ma in quella mediocrità poco aurea che i ricchi schifano e i poveri invidiano.

Tutta la filosofia greca e latina cercava di indirizzare sulla via della sobrietà, partendo dalla convinzione che la vita è un nettare raro e prezioso, da sorseggiare, non da tracannare. Invece la Heller, resa più prudente dall’esplosione consumista dei nostri tempi, ritiene che sia difficile evitare gli eccessi cui induce l’attuale competitività sfrenata, a meno che non si dirotti gran parte delle nostre pulsioni e dei nostri desideri verso bisogni di tutt’altro genere, segnati dalla qualità piuttosto che dalla quantità.

Quali sono questi bisogni? La Heller ne indica cinque, ma io ve ne aggiungerei un altro paio. Il bisogno di introspezione richiede che ogni tanto ci si possa isolare dal mondo per ripiegarci su noi stessi e riflettere sul nostro destino. Il bisogno di amicizia richiede che una parte di noi si realizzi attraverso persone fidate, capaci di completare la nostra vita con la loro. Il bisogno di amore esige un rapporto esclusivo, incandescente, pervasivo con persone che ci appaiono diverse da tutte le altre, e più di ogni altra degne della nostra dedizione incondizionata. Il bisogno di gioco lascia spazio al bambino che è dentro di noi, con i suoi stupori, le sue curiosità, le sue avventure, le sue ingenuità. Il bisogno di comunismo e di convivialità esige il nostro riconoscerci in una collettività etnica, geografica, politica, ideologica, comunque capace di farci sentire parte di un tutto per il quale valga la pena di impegnarsi.

A questi, aggiungerei il bisogno di bellezza, che esige intorno a noi un universo di segni e di oggetti coerenti con la nostra sensibilità. E pure il bisogno di serenità, che esige il rispetto reciproco e la consapevolezza della fugacità, scritta nel nostro umano destino.

Avere il senso della misura, anteporre i bisogni qualitativi a quelli quantitativi sono espressioni di compiuta saggezza. Ma non basta: occorre essere così saggi da arrivare a capire che la saggezza non è tutto. È a quest’approdo sublime di metasaggezza che arriva Jorge Luis Borges quando, giunto a ottantacinque anni, scrive: «Se io potessi vivere nuovamente la mia vita, nella prossima cercherei di commettere più errori. Non tenterei di essere tanto perfetto, mi rilasserei di più, sarei più stolto di quello che sono stato, in verità prenderei poche cose sul serio. Correrei più rischi, viaggerei di più, scalerei più montagne, contemplerei più tramonti e attraverserei più fiumi, andrei in posti dove mai sono stato, avrei più problemi reali e meno problemi immaginari. Io sono stato una di quelle persone che vivono sensatamente, producendo ogni minuto della vita. È chiaro che ho avuto momenti di allegria. Ma, se potessi tornare a vivere, cercherei di avere solamente dei momenti buoni. Perché di questo è fatta la vita, solo da momenti da non perdere. Io ero una di quelle persone che mai andava da qualche parte senza un termometro, una borsa d’acqua calda, un ombrello e un paracadute: se tornassi a vivere, viaggerei più leggero. Se io potessi tornare a vivere, comincerei ad andare scalzo all’inizio della primavera e continuerei così fino alla fine dell’autunno. Girerei più volte nella mia strada, contemplerei più aurore e giocherei di più con i bambini. Se avessi un’altra volta la vita davanti… Ma, vedete, ho ottantacinque anni e non ho un’altra possibilità».

Una semplice rivoluzione
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