Paesi
Ogni volta che, di notte, l’aereo sorvola il mondo, mi sorprendo a guardare i tanti grumi di luce che costellano in basso il paesaggio: paesi in cui, mentre io guardo dall’altro, qualcuno soffre, qualcuno gode, quasi tutti si sentono parte della stessa piccola comunità, con la sua storia, le sue speranze, i suoi amori, i suoi odi, i suoi cinismi, le sue generosità, le sue ricorrenze tristi, le sue feste gioiose. Domani potranno pure essere accorpati amministrativamente, per ignote macchinazioni burocratiche nate sulla carta, ma ognuno di questi paesi resterà sempre se stesso, separato e spesso ostile a tutti gli altri, perché ogni paese è una storia a parte, una storia d’amore e di odio tra persone e case, tra natura e cultura, tra passato e futuro.
A guardarli dall’alto, sembrano tutti uguali, e uguali, al loro interno, sembrano tra loro le case, le pietre, la gente: come uguali, a chi le ascolta distrattamente, sembrano le Suite di Bach e, all’interno di ciascuna di esse, la trama e l’ordito del violoncello.
Occorre a lungo ammaestrare il gusto e familiarizzarlo con queste antiche terre per scoprire le sfumature, le differenze, gli stridori persino, celati sotto la comune scorza di tegole e pietre e linguaggi monodici.
Eppure ogni pietra, ogni porta è diversa dall’altra sotto la comune duttilità del travertino scheggiato dai sapienti scalpellini senza tempo. Ogni scala è diversa dall’altra sotto il comune mistero del salire e dello scendere quotidiano. Ogni finestra è diversa dall’altra sotto la comune meraviglia del guardare fuori dal circoscritto orizzonte della famiglia, nel circoscritto orizzonte della strada, del vicolo, della piazzetta. Ogni volto è diverso dall’altro sotto il comune intaglio di arcaici lineamenti densi di sole e di boschi.
In questi paesi senza tempo, la sabbia del tempo fluisce lenta nella clessidra delle opere e dei giorni. Gli uomini avvertono con ansia rassegnata le premonizioni del cielo. Gli anni sono un arco teso tra le ere geologiche con i loro lenti smottamenti e le loro repentine catastrofi. Le pietre e le zolle hanno un loro interiore sortilegio che le muove e le ravviva e le rende portatrici di vita, testimoni di morte, senza che i mortali ne possano comprendere il fine e la ragione.
A girare in questi paesi si ha sempre la sensazione di profanare reliquie che non meritano di essere profanate. Chi ha salito quelle scale? Chi ha guardato – cosa ha guardato – da quelle finestre? Che vita era tra queste cose, quando le cose avevano altra vita? Che rapporto si è instaurato tra gli antichi e i nuovi fermenti che vi ribollono sotto la superficie senza increspature apparenti?
Qui, da secoli, si è amato e odiato come in tutti i paesi dove l’uomo nidifica. Qui sono stati consumati tradimenti e alleanze, incontri furtivi, legami tenaci. E queste cose – la strada, la finestra, la porta, la pietra, l’albero – hanno assistito e cospirato, sopravvivendo perenni ai sentimenti e agli uomini da esse stesse alimentati e via via sostituiti con quel distacco che noi chiamiamo «storia».
Eppure in ognuno di questi paesi qualcosa è cambiato. Solo qualche anno fa, quando, al tramonto, i vecchi contadini passavano lenti, non più a dorso di un mulo ma sempre con panieri e fagotti, e con il loro passo un po’ obliquo scansavano i sassi nel cammino, non ce n’era uno che non salutasse o che non rispondesse al saluto del viandante sconosciuto.
Solo qualche anno fa, quando i giovani passavano frettolosi, non più con panieri e fagotti, ma sempre con l’antico sguardo – mitezza e furore – dei loro padri, già più non salutavano, né si salutavano tra loro. È questa, forse, la mancanza di rapporto umano e solidale, che incrina le metropoli dove la convivenza ti toglie la solitudine senza darti la compagnia. La moto e il cellulare si scontano con la morte del saluto.
Questi paesi, ormai, sono periferia dell’Impero, sempre più permeati dall’onda lunga del progresso tecnologico, che qui batte lenta come su spiagge remote, ma comunque implacabile. La sfida che la postmodernità lancia a questi paesi inermi è come farsi modernizzare senza perdere i propri connotati storici, fragili, tenaci e intangibili al tempo stesso.