Las Vegas
«L’economia di Las Vegas» ha scritto Michael J. Wolf, che di queste cose se ne intende «cresce annualmente a un tasso dell’8,5 per cento. Qual è il segreto di Las Vegas? L’entertainment. Non ci sono altre attività. Si gioca d’azzardo, si vedono spettacoli, si gioca a golf, si organizzano i tour delle varie attrazioni. La crescita costante – e senza precedenti – che si registra a Las Vegas si può attribuire a un’unica fonte, l’entertainment.»
Per capire tutta la carica eversiva contenuta in questa affermazione di un esperto che campa su questa materia, occorre fare un passo indietro. La società industriale, come abbiamo visto, era figlia dell’Illuminismo e basata sui valori della razionalità, della specializzazione, dell’ordine gerarchico, dell’efficienza, dei bilanci preventivi e consuntivi, del rischio calcolato. La città industriale era quella razionale di Le Corbusier, dove ogni quartiere doveva avere la sua precisa e distinta funzione: produttiva, riproduttiva, finanziaria, commerciale, religiosa, ludica. Le strade sopra e le metropolitane sotto s’incaricavano di spostare masse di uomini e cose da un quartiere all’altro, a seconda dell’orario.
Dopo la Seconda guerra mondiale e per tutti gli anni Sessanta, l’azione sindacale e le lotte di classe dei poveri contro i ricchi riuscirono a conquistare al proletariato qualche diritto di civiltà, una timida ridistribuzione della ricchezza e delle tutele. Dopo quegli anni, la reazione della borghesia è stata implacabile e la lotta di classe si è ribaltata contro i poveri, riducendone i margini di libertà e il welfare.
Intanto il nerbo dell’economia, prima fondato sulla produzione in grandi serie dei beni materiali, si è affidato in particolare alla produzione di beni immateriali, soprattutto informatica e finanza. L’India, la Cina e il Brasile sono diventati attori protagonisti sulla scena planetaria. Negli orari della città il tempo libero ha soppiantato il tempo di lavoro; nel paesaggio urbano la Borsa ha preso il posto della fabbrica come simbolo di progresso e come fonte di ricchezza; la ricchezza è diventata infinitamente più veloce sia nel suo crearsi che nel suo passare di mano e dileguarsi.
Se la società industriale ha prodotto la cultura moderna e, con essa, l’architettura modernista di Le Corbusier, di van der Rohe, di Gropius, di Wright, di Aalto, la società postindustriale ha prodotto la cultura postmoderna e, con essa, l’architettura teorizzata da Robert Venturi (Complessità e contraddizioni nell’architettura), da Aldo Rossi (L’architettura della città), da Rob Krier (Lo spazio della città), da Paolo Portoghesi (Dopo l’architettura moderna) e tradotta in cemento da questi stessi teorici e poi dal gruppo Site, da James Stirling, da Charles Moore, da Michael Graves, da Philip Johnson, e poi ancora da Frank Gehry e Rem Koolhaas.
A questo punto, la città di riferimento non è più Atene o Roma, Firenze o Parigi e neppure Tokyo o New York, ma è Las Vegas, nel deserto e nello Stato del Nevada.
Nell’antichità, i centri urbani di Mileto, Priene, Pergamo erano frutto di un preciso atto d’imperio e rappresentavano la realizzazione concreta di una pianta astratta, tracciata da un architetto preciso su commissione di un signore preciso. Alessandria e Costantinopoli recano anche nel nome il loro marchio di fabbrica. Aquisgrana esce soprattutto dalla mente di Carlo Magno. Le città catalane dell’America Latina, progettate dagli spagnoli nei minimi particolari per sfruttare al meglio il clima, i venti, i crocevia, sono sorte tutte sulla base di un piano regolatore disegnato sulla carta, che ha preceduto la costruzione effettiva delle piazze, delle strade, dei palazzi. Sérgio Buarque de Holanda dice che, nel costruirle, si procedeva secondo l’ordine dei lastricatori, costretti entro l’inflessibilità geometrica della linea retta. Analogamente in Italia, dopo il terremoto siciliano del 1693, il duca di Camastra decise dove e come ricostruire le singole città barocche che oggi ammiriamo in Val di Noto.
Tutt’altra cosa è la struttura delle tante città venute su a casaccio, sulla base di esigenze contingenti. Ne sono esempio i centri lusitani costruiti dai portoghesi in Brasile, cresciuti alla rinfusa, senza una mappa prefissata né uno scopo di lungo termine, ispirati all’irregolarità, alla transitorietà, all’instabilità, allo spreco, all’imprecisione. Secondo Sérgio Buarque de Holanda sembrano costruite da un seminatore che sparge i suoi semi affidandoli al capriccio del vento. Con gli stessi criteri è costruita Positano nel Sud dell’Italia: ogni edificio sfrutta i minimi appigli offerti dalla parete scoscesa della collina e risponde agli interessi immediati del singolo costruttore, dando vita a ciò che Le Corbusier chiamò appunto «modello Positano»: accozzaglia di case, chiese, scale e viuzze belle da vedere a distanza, scomode da abitarci.
Arriviamo così a Las Vegas, che delle città irrazionali rappresenta ormai il prototipo e assurge a canone. Nata nella metà dell’Ottocento come insediamento di missionari mormoni, snodo carovaniero e poi stazione ferroviaria, divenuta ufficialmente città nel 1911, autorizzata al gioco d’azzardo nel 1931, oggi questa Entertainment Capital of the World è anche chiamata, in forma più sintetica e appropriata, Sin City, città del peccato o del vizio. Le sue parole chiave sono kitsch, rumore, megagalattico, sorpresa, pop, bizzarria, spreco, speculazione, assemblaggio, azzardo, virtualità, media, maxischermi, gioco, reality show e soldi, soldi, soldi.
In un mondo in cui il business si identifica prevalentemente nella finanza, niente meglio del gioco d’azzardo e del turismo d’affari potevano fornire la materia prima a questa macchina insonne del turbocapitalismo, con le sue fortune rampanti e le sue sfortune improvvise, i suoi vizi pubblici e le sue inesistenti virtù.
Se l’organo è la rappresentazione plastica della funzione, o se vale l’incitamento attribuito a Louis Sullivan «form follows function», la forma segua la funzione, le due funzioni di Las Vegas – gioco d’azzardo e convention – hanno trovato perfetta corrispondenza nella struttura e nell’estetica di questa città-simbolo del pop. Qui le funzioni non consistono, come a Brasilia, nel governare uno Stato socialista e un popolo stanziale ma nell’assicurare al capitalismo puritano dell’America opulenta una valvola di sfogo, un porto franco dove, vietata la prostituzione, tutto si possa prostituire. Lo scenario ideale in cui Coppola ambienterà Il padrino e Scorsese Casinò.
Per accogliere le funzioni del gioco e delle grandi assise aziendali all’insegna dell’automobile, della velocità, della libertà, dello spreco, dello shopping, non occorrono la cattedrale, il foro, il palazzo del governo: bastano, affastellati alla rinfusa, i drive in, gli shopping mall, i fast food, i saloni megagalattici, i megaresort, gli alberghi, i casinò, i ristoranti, i teatri, i motel, i distributori, le wedding chapels, la cartellonistica pubblicitaria, i neon, i laser, la musica a tutto volume. Luce, folla, viavai, rumore, effimero, dollari, alcol.
Nella Germania medievale vigeva il motto: «Stadtluft macht frei», l’aria della città rende liberi, per dire che nei centri urbani non c’erano signori cui obbedire ma solo, remota e cangiante, l’autorità dell’imperatore. Stessa cosa a Las Vegas, dove lo Stato con le sue leggi e i suoi magistrati è lontano, oltre il deserto del Mojave, e dove è possibile cancellare ogni limite tra giorno e notte, tra giorni festivi e giorni feriali, tra bello e brutto, tra vero e falso, tra dentro e fuori, tra reale e virtuale. Dove l’unica etica è quella dei croupier e dei bodyguard, l’unica estetica è quella affidata alle rutilanti insegne luminose, allo sciupio d’acqua che sbeffeggia l’aridità del deserto circostante, all’imitazione pop dei canali veneziani e dei colossei romani.
Il primo ad accorgersi che tutto questo non era solo degrado intellettuale ma anche nascita di una nuova estetica e di una nuova antropologia, fu Giancarlo De Carlo. Già nel 1971 il grande urbanista e architetto italiano sostenne che Las Vegas e la sua essenza pop hanno «allargato lo spettro della comunicazione umana perché hanno introdotto nell’uso comune alcune forme di espressione che sino ad allora erano state considerate irrilevanti o addirittura esecrabili… La scoperta della trivialità, d’altra parte, rappresenta soprattutto un’ultima scrollata dissacrante al vecchio principio secondo il quale l’Arte è rappresentazione del Bello».
Per sdoganare compiutamente la città simbolo del kitsch, per decifrare l’originalità del suo messaggio estetico e trasformarla in esempio rispettabile di architettura e urbanistica postmoderne, occorrerà attendere qualche mese. Nel 1972, infatti, comparirà Imparare da Las Vegas in cui Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour riportano i risultati di una loro acuta ricerca condotta sul campo.
Sei anni prima, nel 1966, Robert Venturi aveva pubblicato Complessità e contraddizioni nell’architettura, accolto dalla critica come il più importante testo in materia, dopo Verso una architettura di Le Corbusier (1923), e considerato come un vero e proprio manifesto del postmoderno. Secondo il teorema dell’incompletezza di Gödel, ogni sistema assiomatico è incoerente al proprio interno. Allo stesso modo – sosteneva Venturi nel suo manifesto – ogni città è complessa e contraddittoria.
Dove stanno la complessità, la contraddizione e l’originalità di Las Vegas?
Imparare da Las Vegas ce lo spiega attribuendo alla sin city del Nevada la stessa forza dirompente che avevano avuto in Europa le città murate, la polis greca, l’urbis Romae, le architetture realizzate da Michelangelo e quelle disegnate da Vitruvio.
Secondo Venturi, sotto la spinta della postmodernizzazione, tutte le metropoli del mondo somiglieranno sempre più al «modello Las Vegas» che già oggi non è solo una megalopoli milionaria fatta di centri urbani incorporati e di aree unincorporated, ma è una città-mondo, una città globale, come la definirebbe Saskia Sassen, connotata da potere economico e influenza culturale, capace di ideare e realizzare nuove idee, creare e attivare nuovi mercati.
Las Vegas è città dell’eccesso: del disordine spinto fino al caos, della velocità spinta fino al real time, del peccato spinto fino alla mafia, della produzione di denaro tramite denaro, della forma che diventa sostanza, del simbolo che diventa la cosa simbolizzata, dei cartelloni pubblicitari che diventano essi stessi paesaggio, dell’architettura che da razionale si fa euforica e che, invece di proteggere e rappresentare, intende persuadere, manipolare, indurre alla regressione infantile nello stupore e nell’azzardo.
In questo frullatore della storia s’incontrano, scontrano, combinano capitelli, gondole, piramidi e pagode. «La grande invenzione (involontaria) di Las Vegas» scrive Francesco Longo «riguarda certamente l’eclettismo degli stili fusi in questa città e la totale mancanza di gerarchia tra cultura alta ed estetica popolare. Colonne greche, neon ritorti, mosaici paleocristiani, lastre barocche, chioschi a forma di hamburger, statue greche, Bauhaus hawaiano e scritte anni Trenta collassano tutti in un’unica cifra stilistica che frulla la storia dell’arte rendendola un’esperienza ludica, vertiginosa, priva di contesto e di differenze.»
Questo, in fin dei conti, è il volto cafone del capitalismo finanziario: una esagerazione economica che diventa esagerazione visiva. Dunque Las Vegas, più di ogni altra città al mondo, segna il passaggio dall’economia produttiva, dalla società industriale e dalla cultura moderna, all’economia finanziaria, alla società postindustriale e alla cultura postmoderna. Come – secondo Ernst Haeckel – l’ontogenesi ricapitola la filogenesi, così Las Vegas ricapitola nel suo ambito la più generale caratteristica della società postindustriale: quella di navigare a vista senza una meta e senza una rotta predefinite, senza un modello concettuale di riferimento che le consenta di distinguere il vero dal falso, il bello dal brutto, il bene dal male.
Il postmoderno – preso atto che siamo in questa società eccentrica, la prima della storia umana sorta a casaccio senza rispettare una precedente mappa concettuale – da questa mancanza di modello non ricava un senso di vuoto da riempire, di carenza da compensare: anzi ne fa la ragione stessa della sua esistenza, la sua connotazione e persino il suo vanto. Così la mancanza di modello si propone essa stessa come modello in forma di vertigine.
Questo è il postmoderno, questa è Las Vegas, questo – secondo Venturi – si avvia a essere la città in ogni parte del mondo: una Disneyland globale anticipata da Singapore, Dubai, Doha o Abu Dhabi. Ma non è tramite questa vertigine che si può approdare alla felicità.