Neet
Anche nel cosiddetto Primo Mondo è in atto una pulizia etnica. Anzi, una doppia pulizia etnica, condotta con cinismo e sistematicità da quei quarantenni che in America chiamerebbero boomers. In Italia sono 9,5 milioni e si battono come forsennati su due fronti: sia contro i trentenni, che sono 8,3 milioni, sia contro i cinquantenni che sono 7,8 milioni. Qualcosa di analogo sta avvenendo in tutti i Paesi postindustriali.
I cinquantenni sono braccati dai quarantenni nelle aziende, nelle pubbliche amministrazioni, in tutti i luoghi di lavoro. Ogni innovazione tecnologica, ogni fusione, ogni modifica organizzativa si traduce puntualmente in riduzione degli organici, cioè in espulsione dei cinquantenni. Terrorizzati dalle crescenti eventualità di disoccupazione, sempre in agguato, mortificati da forme vessatorie di mobbing, blanditi con buonuscite che sul momento appaiono allettanti ma che, pochi mesi dopo averle accettate, si riveleranno truffaldine, i cinquantenni finiscono per essere considerati e per considerarsi come «esuberi», propensi ad accettare le proposte di dimissioni che gli vengono ventilate ora con blandizie, ora con minacce. Così un’intera generazione di lavoratori, ricca di esperienza e di professionalità, viene precocemente gettata nel limbo del prepensionamento, dove l’attende un trentennio di inutilità sociale e di lento declino verso la morte.
Ma i quarantenni non si accontentano di anticipare l’uscita forzata dei più anziani dal mercato del lavoro per annettersi il loro potere e consolidare il proprio. Con pari arroganza essi ritardano l’entrata dei più giovani nel mercato del lavoro, per evitare la loro concorrenza e per calmierare le loro pretese. Dietro di loro e avanti a loro, i quarantenni fanno il deserto, e chiamano questo deserto libero mercato.
In Italia vi sono 14,7 milioni di ventenni e trentenni. Il loro tasso di disoccupazione si aggira intorno al 40 per cento. Secondo i dati Eurostat in Italia i cosiddetti Neet che prima della crisi, nel 2007, erano il 19 per cento, ora sono 2,4 milioni, pari al 26 per cento dei giovani compresi tra i 15 e i 29 anni. Si tratta di persone fornite di titolo di studio, spesso di laurea e di master, costrette alla marginalità cronica, senza risorse per mettere su famiglia, senza prospettive, esposte alla depressione e alla violenza. Tra le donne e nelle regioni meno ricche, i Neet superano la metà della popolazione attiva. Condannati a consumare quel poco che possono, senza produrre ciò che potrebbero, essi scontano la stessa maledizione che nel Deuteronomio Mosè minacciò agli Israeliti se avessero infranto i comandamenti del Signore: «Cercherete di vendervi ai vostri nemici come schiavi e come schiave, ma nessuno vorrà comprarvi». A quei tempi gli schiavi invenduti venivano ammazzati. Oggi i Neet sono ridotti a «stracci al vento», come Marx definiva i sottoproletari. E forse rappresentano l’avvisaglia di una massa sconfinata di cittadini di serie B, sfamati con il reddito di cittadinanza e condannati a consumare senza produrre che, in un futuro prossimo, circonderà minacciosa e questuante il nucleo centrale dei pochi fortunati che, oltre a consumare, godranno del privilegio di lavorare.
Ormai, nei Paesi postindustriali, milioni di giovani, nel pieno delle loro forze, sono relegati in una sorta di limbo professionale connotato dall’assenza di una propria famiglia, di un proprio lavoro, di una propria ideologia, di un proprio partito, di un proprio sindacato, di una propria meta. Fin quando i loro genitori saranno occupati, essi potranno contare sulla generosità familiare, che ridistribuisce la ricchezza consentendo la sopravvivenza o persino l’agiatezza di tutti i membri del clan. Ma si tratta di una generosità transitoria, destinata a finire con gli anni, che fin da ora non offre alcuna sicurezza e non consente di progettare un matrimonio, dei figli, una vita autonoma e un tenore decoroso.
A questi milioni di giovani è stato insegnato che tutto dipende dal lavoro: la dignità, il prestigio, i mezzi di sostentamento, la socializzazione, persino il riscatto dal peccato originale. Ma, per un numero crescente di essi, il lavoro manca del tutto o si riduce a «lavoretti» transitori, dequalificati, sottopagati, che non permettono di impostare un percorso di vita, un percorso intellettuale e professionale. A questi lavoretti, per quanto piacevoli, essi preferirebbero il posto più sicuro dello spazzino, ormai linguisticamente promosso a operatore ecologico.
In tutta la sua lunga genealogia familiare, questo trentenne è il primo nato dopo il microprocessore, cresciuto interamente nella società postindustriale, esposto ai mass media fin dalla nascita e con un’intensità prima sconosciuta, separato dai genitori separati e comunque assenti per impegni di lavoro, per bisogno di libertà, per relazioni extraconiugali.
Egli è il primo che ha avuto più nonni che zii. Il primo che ha navigato su internet. Il primo che ha molte probabilità di conoscere i suoi bisnonni, di festeggiare la sconfitta definitiva del cancro e dell’Aids, di riparare il proprio corpo con pezzi di ricambio stampati in 3D e persino di essere clonato.
Deprivato di certezze, oggi questo trentenne non sa cosa progettare, chi imitare, chi ringraziare per le cose che gli vanno bene, contro chi prendersela per le cose che gli vanno male.
Capitato in un capriccioso interstizio della storia, in cui le regole industriali non valgono più e quelle postindustriali non sono ancora nate, questo trentenne si presenta vergine e inerme di fronte al proprio destino, che non dipenderà da lui ma dai due maggiori tiranni di tutti i tempi: il caso e il caos.
Però l’egoismo dei quarantenni, che lo ha privato del lavoro, della sicurezza e dell’autonomia, senza volerlo e senza accorgersene gli ha lasciato due grandi risorse. Se è disoccupato, egli ha a disposizione molto tempo che potrà impiegare per sé, per la sua introspezione, per i suoi giochi, le sue amicizie, i suoi amori e la sua convivialità. Se è sottoccupato, egli vivrà il proprio lavoro senza mitizzarlo, senza sovraccaricarlo ideologicamente, senza subirne stress psichici, finalmente liberato dall’assillo della competitività distruttiva che ora corrode la vita dei boomers. Prima o poi perderà ogni interesse per il lavoro che non ha e per il lavoro di chi ce l’ha. E prenderà coscienza di essere stato designato dalla grande mutazione naturale a fare da anello di congiunzione tra l’epoca industriale, segnata dalla priorità del lavoro, e l’epoca postindustriale, segnata dalla priorità del non-lavoro.