Design
Betlemme è nota a tutti per una culla, la più famosa culla del mondo. Ma pochi sanno che a Betlemme è stata rinvenuta anche la prima tomba. Novantamila anni fa, proprio in quella cittadina della Giordania dove un bue e un asinello riscaldarono Gesù bambino, un nostro lontano progenitore ebbe il sospetto che, anche dopo la morte, qualcosa di noi potesse sopravvivere e che, quindi, valesse la pena di preservare il corpo dagli avvoltoi e dalle intemperie. L’invenzione dell’aldilà è uno dei due espedienti con cui gli esseri umani hanno cercato di esorcizzare l’ineluttabile infelicità della morte.
Il secondo espediente arriverà molto più tardi, circa diciannovemila anni fa, quando a Lascaux in Francia, ad Altamira in Spagna, a Serra da Capivara in Brasile, inventammo l’arte, con cui esorcizzare l’ingrata infelicità della bruttezza. Allora un altro nostro lontanissimo antenato, dopo avere lavorato a lungo per scheggiare una pietra e ricavarne delle punte di frecce, decise di prolungare la sua fatica per incidervi sopra dei piccoli disegni puramente ornamentali. «Foglie di lauro», così i paleontologi hanno poi chiamato queste primissime espressioni artistiche, dalle quali deriverà via via tutta l’estetica.
Da allora in poi, per migliaia di secoli, l’arte rimase appannaggio dei potenti: il re e il Comune si riservarono il privilegio di sontuose dimore, pensate per allietare i potenti e stupire le masse; la Chiesa ornò cattedrali e santuari, offrendo al popolo la possibilità di ammirarvi le opere d’arte concepite per elevare lo spirito, educare e ammansire la plebe.
Occorrerà arrivare alla metà dell’Ottocento perché l’arte uscisse dai palazzi aristocratici e dalle chiese per entrare nelle case borghesi, passando – senza degradarsi – dalle grandi occasioni festive alla quotidianità feriale. Fino a quegli anni le case aristocratiche di tutta Europa erano cariche di mobili stile Impero, in cui il ridondante gusto napoleonico traboccava di fregi presi in prestito dall’Egitto, dalla Grecia e dalla Roma antica. Poi, man mano che l’aristocrazia venne spiazzata dalla borghesia, anche le suppellettili si democratizzarono abbandonando i decori e gli orpelli dello stile neoclassico per sostituirli con l’ordine bonario dello stile Biedermeier indeciso tra solennità e sobrietà.
La borghesia prosperava, ma le sue case restavano tristi. Fu allora che Michael Thonet vi fece irruzione dando loro un’identità.
Se, come è probabile, in casa vostra c’è ancora una sedia Thonet numero 14, non datela al rigattiere. Tenetevela perché, se anche non vale molto dal punto di vista economico, è però impagabile dal punto di vista estetico e storico. Quel pezzo così leggero, flessuoso, pratico e senza apparenti pretese rappresenta una pietra miliare nella storia del design, tanto che uno dei massimi architetti del Novecento, Adolf Loos, quando la vide per la prima volta non poté fare a meno di esclamare: «Nulla di più bello dopo il Partenone!».
In quegli anni tutto ciò che accadeva a Vienna era fuori dell’ordinario. In città come a palazzo, insieme all’austero imperatore Francesco Giuseppe e alla fascinosa principessa Sissi regnavano Ruhe und Ordnung, legge e ordine. Ogni famiglia aveva il suo gruzzolo, ogni fanciulla aveva il suo corredo, ogni quartiere aveva il suo caffè, ogni disciplina aveva i suoi geni. In pittura primeggiavano Klimt, Schiele e Kokoschka; in psicologia Freud e Adler; in architettura Otto Wagner e Hoffmann; in musica Mahler e Strauss; in letteratura Musil e Hofmannsthal.
Francesco Giuseppe odiava tutte le novità tecnologiche, dall’ascensore all’elettricità, dal treno al gas, ma incoraggiava le avanguardie letterarie e artistiche. Vienna divenne il laboratorio dove poteva succedere di tutto: un governo clericale dirigeva lo Stato liberale perseguendo obiettivi reazionari con mezzi rivoluzionari; un formalismo testardo contrastava invano il caos culturale; una esasperata sessuofobia conviveva con il più diffuso libertinaggio; una totale ingratitudine verso i geni non impediva ai pubblici poteri di essere generosi verso gli artisti.
Così l’amore borghese per la stabilità, la famiglia, la casa, il matrimonio induceva a progettare in forma eccellente ogni oggetto della vita quotidiana, destinandolo a conferire decoro alla classe media in ascesa.
In questa classe nascente, che non poteva permettersi i costosi mobili Biedermeier delle case più ricche, ma tuttavia aspirava a rendere più belle le proprie, il genio artistico e imprenditoriale del falegname Michael Thonet intravide il suo mercato e la sua fortuna. Per essa elaborò uno stile inedito, leggero e armonioso, che non a caso sarà chiamato Liberty o Floreale, o Jugendstil. E poi tradurrà quello stile in centinaia di oggetti: dalle culle agli attaccapanni, dalle sedie agli inginocchiatoi, dai tavoli ai letti. Arredando la loro dimora con quei mobili, i borghesi di tutto il mondo dimostreranno di essere più ricchi e raffinati dei proletari, più pratici e innovatori degli aristocratici.
All’originalità dello stile, Thonet aggiunse altre due trovate geniali: un nuovo processo di produzione per costringere il faggio nelle casse-bande fino a piegarsi come fosse metallo sfornato in serie; un marketing rivoluzionario basato sulla diffusione capillare in tutto il mondo di cataloghi semplici ed esaurienti. Ai compratori, dispersi da Mosca al Far West, bastava scegliere i mobili sul catalogo, ordinarli per posta e poi montare i pezzi arrivati a domicilio, così come avviene oggi con i prodotti Ikea. Grazie a queste idee vincenti, la notissima sedia numero 14, messa sul mercato nel 1848, prima del 1901 aveva già venduto 50 milioni di copie e ancora oggi è forse l’oggetto più diffuso nel mondo, debordato dalle case delle nostre nonne e delle nostre zie fino a invadere i caffè, i teatri, gli alberghi.
Nel 1853 Michael fondò ufficialmente la Gebrüder Thonet e via via la bottega artigianale si trasformò in una grande impresa industriale a struttura familiare, che già alla fine dell’Ottocento era in grado di produrre 4000 mobili al giorno. Oggi, se andate al cimitero di Vienna, nello spazio riservato ai più grandi geni austriaci, trovate la tomba di Michael Thonet e dei suoi cinque figli accanto a quella di Strauss e di Brahms.
Conciliando la praticità dei prodotti fatti in serie, l’economia della produzione, l’intelligenza del marketing, la convenienza dei prezzi, la bellezza e l’originalità delle forme, l’attenzione ai mutevoli bisogni quotidiani dei consumatori, Casa Thonet costituì il punto di riferimento per tutto il successivo design, destinato a diventare una delle massime espressioni estetiche del Novecento. Prima di allora il bello era separato dall’utile e l’opera d’arte ammetteva soltanto una pura contemplazione. Da quel momento in poi, l’utile si sposò con il dilettevole e in tutto il mondo fiorirono artisti-artigiani come William Morris in Inghilterra, Charles Rennie Mackintosh in Scozia, Kolo Moser in Austria, Walter Gropius in Germania, Ernesto Basile in Sicilia, Charles Lewis Tiffany negli Stati Uniti, in gara fra loro nell’abbellire gli oggetti d’uso domestico fino a trasformarli in piccole incantevoli occasioni di godimento quotidiano.
Con questi pionieri, il design è diventato fattore decisivo dell’economia, punto di forza nella competizione aziendale, elemento modernizzatore del nostro modo di abitare, matrimonio indissolubile tra pratica ed estetica. Adriano Olivetti ne farà uno dei punti di forza delle sue macchine da scrivere e, cinquant’anni dopo, Steve Jobs dei suoi computer.
Prima dell’avvento del design, l’arredo opulento delle splendide dimore aristocratiche era composto da oggetti-capolavori ideati da pochi artisti per pochi fruitori. Con il design, invece, l’intero universo materiale che ci circonda – dal cucchiaio alla città – si è animato di oggetti bellissimi, creati da molti produttori per molti consumatori, allo scopo di trasferire il bello dai luoghi esclusivi alla vita quotidiana. Le case, i negozi, i ristoranti, gli uffici diventeranno banco di prova per nuove estetiche e per nuovi modi di vivere. Gli oggetti si moltiplicheranno ma il loro accostamento diventerà sempre più impegnativo e, quindi, ansiogeno. Nascerà perciò, accanto al designer che crea oggetti, l’interior designer che li sceglie e li accosta, trasformando gli spazi secondo il proprio stile. Così la signora della buona borghesia, estromessa dalle scelte estetiche riguardanti la sua casa, le subirà docilmente, appagata dalla griffe dell’arredatore e dalle foto del proprio appartamento pubblicate su «Casa Vogue».
Scopo e sogno di ogni designer è l’opera «totale», quella che Hoffmann e Klimt realizzarono con il Palazzo Stoclet di Bruxelles, dove tutto – dall’edificio alle decorazioni, dai mobili ai complementi d’arredo, fino ai merletti, alle posate, ai portapane e alle forme del pane – era previsto e disegnato nei minimi dettagli per creare l’effetto desiderato. A seconda dei designer, questo effetto sarà di sorpresa o di soggezione, di opulenza o di semplicità, di ridondanza o di minimalismo, di lindore o di trash, di fastidio o di repulsione.
Il design ha democratizzato non solo la bellezza mettendola alla portata di tutti, ma anche il modo di produrla, affidandolo alla collaborazione integrata di artisti e artigiani. A differenza degli artisti puri, infatti, i designer hanno spesso preferito operare in gruppo, creando cooperative interdisciplinari in cui il fabbro e il tipografo, il falegname, il rilegatore e il sarto lavorano fianco a fianco, costruendo piccoli capolavori destinati a colonizzare con la loro bellezza tutta la casa e tutta la vita. Anche se è il designer-star a firmare gli oggetti, quasi sempre la loro realizzazione è frutto di un’opera corale in cui l’artista e i suoi collaboratori operano gomito a gomito. Come testimoniò William Morris in un discorso del 1889, applicando l’arte agli oggetti quotidiani, non solo si aggiunge bellezza a questi oggetti, ma si rende gioioso il lavoro necessario per costruirli. Un parato o un bicchiere non potrebbero mai essere fatti da un uomo solo, ma nascono da «milioni e milioni di colpi di martello, di cesello, di scalpello, di pennello, di navetta… espressione dell’armonica cooperazione di tanti artisti e artigiani, e del piacere che essi vi hanno provato».
Qualcosa del genere avveniva anche nella famosa cooperativa austriaca Wiener Werkstätte fondata da Hoffmann nel 1903, dove maestri del calibro di Kolo Moser o di Kokoschka lavoravano accanto a operai e artigiani della carta, della stoffa, dell’acciaio, del vetro, della ceramica, dell’argento, per produrre di tutto: cartoline postali e parati, mobili e gioielli, vasellame, vestiti e giocattoli. Come scrisse una rivista dell’epoca, «nella Wiener Werkstätte non mancano macchine, ma qui la macchina non è la dominatrice e la tiranna, bensì l’aiutante e la serva volenterosa, e non è lei a determinare la fisionomia dei prodotti, ma lo spirito dei loro creatori e la precisione di mani esercitate all’arte… Ogni oggetto non è disegnato soltanto dall’artista-progettista, ma anche dall’esecutore, l’artigiano, l’operaio».
Così il design, oltre a fornirci oggetti belli e utili, ci ha suggerito anche una società più armoniosa, capace di valorizzare ogni cervello, ogni materiale, ogni occasione, ogni spunto per generare bellezza. Come ha osservato Bruno Munari, «l’uovo è la forma più bella che esiste in natura. Eppure la gallina lo fa col culo».