Silicon

La Silicon Valley rappresenta il caso più recente di straordinario addensamento creativo: 4 milioni di abitanti distribuiti in una ventina di agglomerati urbani (da Cupertino a Newark, da Berkeley a Palo Alto, da Fremont a Redwood City) in uno Stato come la California servita da dieci campus universitari (tra cui Stanford, Berkeley, San José, San Diego, Santa Barbara e Santa Clara), con migliaia di aziende ad alta tecnologia, tra cui Apple, Facebook, Google, Hewlett-Packard, Intel, Microsoft, Cisco e Yahoo! Un grande laboratorio di geni giovanissimi, che senza neppure conoscersi reciprocamente, hanno contribuito in misura determinante a una delle più grandi avventure del genere umano: la rivoluzione digitale.

I protagonisti di questa storia sono persone in cui fantasia e concretezza convergono per esprimersi in una creatività inedita, di tipo postindustriale, a mezza strada tra la scienza e il business, il gioco goliardico e la disciplina professionale. Tuttavia questi geni apparentemente isolati l’uno dall’altro hanno composto una polifonia fatta di rapporti intrinseci tra università, enti pubblici, imprese private, singoli ricercatori, lobby e corporazioni, che di volta in volta hanno collaborato o sono entrati in concorrenza sullo sfondo del Paese più ricco e potente del mondo, che grazie a loro è diventato ancora più ricco e più potente.

Le questioni che questo fenomeno implica sono fondamentali per chiunque si interessi all’alchimia misteriosa e affascinante della creatività umana quando si dispiega in forme collettive: quali discipline (la sociologia, l’antropologia, le scienze organizzative o altre) meglio contribuiscono a svelarcene i segreti? Ogni gruppo può essere creativo o solo quelli in possesso di determinate caratteristiche? E quali? Che stimolo esercitano, sulle capacità creative di un gruppo, la personalità, la professionalità, le nevrosi dei suoi singoli membri, la loro motivazione al denaro, al successo, alla solidarietà, alla bellezza? Quali sono le fonti di potere e gli stili di leadership che meglio si addicono a chi dirige un gruppo creativo? Come si svolgono i processi informativi e decisionali al suo interno? Quali sono le cause e le possibili soluzioni dei conflitti che vi insorgono? Come si può valutare, dall’interno e dall’esterno, il grado di creatività di un gruppo? Come si formano, come e perché si sciolgono i gruppi creativi? Di quali risorse hanno bisogno? Che influenza esercita su di loro il contesto in cui operano?

Mentre, in biologia, il progetto Genoma è stato appunto un «progetto», pensato da un unico motore organizzativo ed eseguito secondo un piano centralizzato, la rivoluzione digitale è avvenuta attraverso l’opera individuale o di molteplici piccoli nuclei di ricercatori che, pur agendo singolarmente, con deboli legami reciproci, hanno tuttavia formato un mosaico unitario di cui solo a ritroso si riesce a leggere la trama connettiva.

Dunque, le questioni implicate dalle scoperte e dalle invenzioni digitali, che hanno costruito un nuovo mondo di bit accanto al vecchio mondo degli atomi, riguardano ancora una volta il mistero della creatività: in che cosa essa consiste, come mai è diventata sempre più collettiva, in quale modo può essere organizzata per raggiungere gradi sempre più elevati di fecondità.

I protagonisti e l’avventura della rivoluzione digitale ci offrono la possibilità di proseguire oltre nell’esplorazione dei gruppi creativi che ormai trovano il loro humus più favorevole negli Stati Uniti piuttosto che in Europa, anche se, come abbiamo visto, una delle invenzioni più importanti del settore – quella del web – è dovuta a Tim Berners-Lee, ricercatore inglese presso il Cern di Ginevra.

A Palo Alto o nella Route 128 di Boston ritroviamo, infatti, lo stesso entusiasmo collettivo, la stessa disposizione al rischio, lo stesso gusto della sorpresa e dell’esplorazione, la stessa fiducia nelle capacità innovative dell’uomo e nella potenza del suo cervello che connotarono, nell’Europa della prima metà del Novecento, l’avventura dei gruppi creativi pionieristici che abbiamo già incontrato.

Dalla Silicon Valley ricaviamo imprevedibili contributi alla conoscenza dei meccanismi che regolano la vita e l’organizzazione delle attività creative nel settore dell’informatica, dove un numero imprecisabile di protagonisti ha operato, si è agitato, ha inventato, intuito, fondato, rischiato, sperperato, truffato, sempre sullo sfondo di qualche comunità e di qualche università. Nella Silicon Valley l’America ha condotto un esperimento creativo d’importanza rivoluzionaria: fecondare migliaia di idee concatenate l’una all’altra, in un laboratorio che, da singole aree del Paese, si è allargato fino a comprendere l’America intera, con propaggini su tutto il pianeta.

Se si escludono pochissimi casi – Esther Dyson, Meg Whitman, Donna Dubinsky, Carly Fiorina – questa rivoluzione è squisitamente maschile. Certamente dietro i protagonisti si è agitato tutto un mondo femminile di collaboratrici, di mogli, di segretarie. Ma la rivoluzione digitale è griffata dai maschi. Ciò ne connota non solo i pregi ma anche i limiti: la capacità di sfornare idee a getto continuo, imprimendo alla ricerca tecnologica l’accelerazione di una corsa frenetica, ma anche l’asservimento della scienza all’aridità di valori e leve come il denaro e il successo.

Le preziose scoperte elettroniche e informatiche sono nate quasi tutte in contesti nevrotizzanti in cui l’estetica, l’emotività, l’universalismo, la solidarietà sono subordinate al delirio di onnipotenza, alla consapevolezza di un’egemonia planetaria che si intende rafforzare, a un’idolatria del successo che si misura in termini di fatturato e di profitto.

Abbiamo già analizzato nel capitolo Globalizzazione l’escamotage trovato dalla Apple di Steve Jobs di pagare le tasse assegnando i profitti a una filiale estera. E in Italia? Tra il 2008 e il 2013 la Apple ha «assegnato» gli incassi fatti nel nostro Paese alla Apple Sales International situata in Irlanda. In altri termini, il computer sul quale sto scrivendo, comprato e pagato a Roma, dal punto di vista fiscale è come se fosse stato comprato e pagato a Dublino. Con questa manipolazione contabile, che in gergo viene graziosamente chiamata «esterovestizione», ma che i magistrati italiani hanno esplicitamente rubricato come «omessa dichiarazione dei redditi», l’erario italiano è stato truffato di ben 880 milioni di imposte Ires. Truffe analoghe, ai danni dell’erario italiano, sono state commesse da Amazon, Western Digital e Credit Suisse.

Come si vede, la rivoluzione digitale è forse la prima in ordine di tempo che nasce non da una cultura a tutto tondo, dove saggezza e coraggio, conoscenze scientifiche e umanistiche, intenti pratici e aspirazioni universali convivono armoniosamente come nell’Atene ellenica, nella Firenze medicea, nella Vienna asburgica, nella Londra postvittoriana, ma nasce negli Stati Uniti ubriachi dei loro successi bellici ed economici, nevrotizzati dal consumismo sfrenato, abbacinati dalle rapide scalate che la new economy consente e brucia.

Il paradosso che ne emerge è di marca squisitamente americana e postindustriale: una rivoluzione elitaria, provocata da maschi, giovani, bianchi, anglosassoni, protestanti, laureati, specializzati, superpagati, che agiscono entro un sociogramma esclusivo di straricchi e strapotenti, partorisce internet, cioè la più democratica (almeno per ora) delle rivoluzioni umane, che finalmente consente ai singoli di fare rete restando individui, di fare corpo restando cellule.

Una semplice rivoluzione
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