Squilibri
Cosa hanno in comune i palazzi postmoderni di Berlino con i templi cambogiani di Angkor, il teatro greco di Siracusa, le isolette thailandesi Koh Kood e Koh Chang? Hanno in comune la superficie terrestre su cui poggiano e l’appartenenza a questo nostro pianeta, sempre più familiare ma sempre più bizzarro.
Per secoli ne abbiamo avuto un’idea parziale come quella del cowboy che attraversava le praterie; ora – incitati da Serge Latouche – dobbiamo imparare ad averne un’idea complessiva come quella dell’astronauta che contempla il pianeta dall’esterno.
Da una navicella spaziale la Terra appare azzurra anche perché la sua superficie è coperta prevalentemente dall’acqua. Solo il 2 per cento di quell’acqua è dolce ma un americano ne usa 575 litri al giorno, soprattutto per innaffiare prati e lavare auto; un europeo ne usa 250 litri; un abitante dell’Africa subsahariana ne usa meno di 19 litri e le donne camminano una media di 10 chilometri al giorno per trasportarla.
Altrettanto bizzarro è il nostro rapporto con il cibo. Oggi le bocche da sfamare sono circa 7 miliardi ma, fortunatamente, gli agricoltori coltivano prodotti pari a 2800 calorie per ogni essere vivente: più che sufficienti, dunque, per assicurare una sana nutrizione a tutto il genere umano. Invece la bizzarra distribuzione di questi prodotti comporta che l’India spenda per mangiare la stessa somma che gli Stati Uniti spendono per il packaging del loro cibo; una mucca da latte in Europa riceve un sussidio di 913 dollari mentre un abitante dell’Africa subsahariana ne riceve appena 8.
Il reddito del mondo supera ormai i 65 trilioni di dollari e, mediamente, aumenta del 3 per cento ogni anno. Secondo il rapporto Onu sullo Sviluppo umano, basterebbero 100 miliardi di dollari ogni anno per sradicare dal pianeta la fame e la povertà estrema. Invece 795 milioni di persone soffrono la fame e ogni sera una persona su nove va a dormire affamata. Nell’Africa subsahariana è denutrita una persona su quattro. La fame attanaglia i due terzi della popolazione asiatica e il 13 per cento della popolazione dei Paesi in via di sviluppo, dove 100 milioni di bambini sono sottopeso e ogni anno 3 milioni di bambini con meno di 5 anni muoiono per denutrizione.
Milioni di persone nel Terzo Mondo e nelle periferie del Primo Mondo non riescono a lavorare perché denutrite, e sono denutrite a causa della povertà che non consente di acquistare sementi, a causa dell’insufficienza di infrastrutture agricole come strade, stalle e irrigazione, a causa della cattiva educazione contadina e gastronomica, a causa della siccità, dei cambiamenti climatici, dei disastri naturali, delle guerre, delle persecuzioni, delle ondate migratorie, delle crisi economiche, di malattie come l’Aids, la malaria e la tubercolosi. Intanto, nei Paesi ricchi, un terzo di tutto il cibo prodotto, pari a 1,3 miliardi di tonnellate, viene sprecato pur avendo assorbito un volume d’acqua pari a quello del fiume Volga e pur avendo incrementato di 3,3 miliardi di tonnellate l’emissione di gas serra nell’atmosfera.
Nel 2007, alla vigilia della grande crisi mondiale, tutta la ricchezza posseduta da 3,5 miliardi di persone (corrispondenti alla metà povera del genere umano vivente), era pari alla ricchezza posseduta dagli 85 più ricchi della classifica «Forbes». Oggi, come abbiamo visto, la ricchezza si è ulteriormente accentrata, per cui è pari a quella dei 62 più ricchi. Qualcosa di analogo è avvenuto in Italia, dove nel 2007 le 10 persone più ricche avevano una ricchezza pari a quella dei 3,5 milioni di italiani più poveri. Oggi gli stessi 10 più ricchi hanno la ricchezza di 6 milioni di poveri.
Non meno bizzarra è la distribuzione geografica degli esseri umani. Nel 1950 abitavano nelle città 746 milioni di persone, pari al 29 per cento di tutta la popolazione mondiale; oggi sono 3,6 miliardi, pari al 51 per cento. Nel 1950 solo 83 metropoli superavano il milione di abitanti; oggi sono 480 mentre ben 28 megalopoli superano i 10 milioni, ospitano 453 milioni di persone, occupano il 2 per cento della superficie terrestre ma utilizzano il 60 per cento dell’acqua potabile e sono responsabili dell’80 per cento di tutte le emissioni di carbonio prodotte dall’umanità. La Cina, che oggi ha una popolazione rurale di 635 milioni, entro il 2030 avrà 15 megalopoli, con una media di 25 milioni di abitanti ciascuna. L’India, che oggi ha la più grande popolazione rurale del mondo, con 857 milioni di abitanti, può vantare pure una megalopoli come Delhi, che attualmente possiede più di 16 milioni di abitanti e che fra quindici anni raggiungerà Tokyo con 37 milioni.
New York rappresenta il 10 per cento del Pil degli Stati Uniti e, da sola, supera il Pil di tutto il Brasile. Londra e Parigi, messe insieme, hanno lo stesso Pil dell’India intera. Il peso economico di Osaka supera quello della Spagna.
Il 10 per cento della popolazione mondiale, pari a 700 milioni di persone, è insoddisfatta del proprio Paese e vorrebbe emigrare. In questi ultimi dieci anni il numero degli emigranti internazionali è quasi raddoppiato. L’emigrazione va ad arricchire i Paesi già ricchi: la metà dei laureati del Ghana vive all’estero; nel Regno Unito il 37 per cento dei medici è composto da immigrati dal Terzo Mondo.
Gli esseri umani come corrono ai ripari di fronte a queste bizzarrie del pianeta, che essi stessi hanno contribuito ad accentuare? Noi sappiamo che un pianeta dalle risorse limitate non può consentirci una crescita illimitata. Tuttavia, fra dieci anni il pianeta nel suo insieme produrrà una ricchezza che, se fosse distribuita in parti uguali, assicurerebbe a ogni abitante della Terra un reddito di 15.000 dollari, contro gli attuali 8000. Sappiamo pure che i quattro Paesi chiamati Bric (Brasile, Russia, India, Cina) insieme ad altri sei Paesi chiamati Civets (Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia, Sudafrica) avranno una crescita economica impetuosa, con un parallelo incremento dei consumi e dell’inquinamento.
A questo punto i 196 Paesi del mondo si troveranno probabilmente di fronte a un bivio: o adotteranno un modello di tipo americano, che i politologi chiamano Washington Consensus, caratterizzato da una crescita lenta dell’economia di mercato, dal consumismo, dalle stridenti disuguaglianze, dal pluralismo politico, dalle libere elezioni e dalla libertà di espressione; o adotteranno un modello di tipo cinese, che i politologi chiamano Beijing Consensus, caratterizzato da una crescita veloce dell’economia pianificata, da un partito unico, dall’autoritarismo, dall’assenza di libertà di stampa e di libere elezioni.
Ciò che resta difficile è considerare queste laceranti bizzarrie del nostro creato come una prova dell’esistenza di un suo creatore.