Rivoluzione
Il lavoro e la sua mancanza sono oggi ai primi posti nelle agende dei governi e nei media di tutto il mondo. Ma l’ottica con cui si affronta il problema è esclusivamente economica e sindacale mentre il pianeta lavoro è di natura plurima e non può essere esplorato senza l’apporto di molte altre discipline: la psicologia, la sociologia, le scienze organizzative, l’antropologia, la medicina eccetera. Qualsiasi soluzione unidimensionale di un problema così complesso porta a esiti inadeguati o controproducenti.
Quando mio padre parlava di lavoro pensava ai braccianti agricoli; quando io, da giovane, parlavo di lavoro, pensavo ai metalmeccanici della catena di montaggio. Ma oggi, cosa è il lavoro? Chi sono i lavoratori? È possibile dire, indifferentemente, che un tornitore lavora, un bancario lavora, un artista lavora, uno scienziato lavora? Già lo scrittore Joseph Conrad si chiedeva: «Come faccio a spiegare a mia moglie che, quando guardo dalla finestra, io sto lavorando?».
Il fatto stesso di usare una parola sola per esprimere realtà profondamente diverse induce a comprimerle in un’unica camicia di forza normativa. È logico, ad esempio, che un giornalista vada in pensione anche se volesse scrivere ancora e il suo editore fosse contento di tenerselo? Ed è logico che debba andare in pensione, obbligatoriamente, alla stessa età di un minatore?
Data la loro schiacciante preponderanza, nella società industriale quasi tutto lo studio, l’organizzazione e la legislazione del lavoro si sono riferiti agli operai e al lavoro in fabbrica, ignorando i knowledge worker, che ormai rappresentano i due terzi della popolazione attiva. Gli uffici, il lay out degli open space, i marcatempi, i tornelli, i regolamenti, le gerarchie, gli stili di leadership, la gestione del tempo e dello spazio, tutto ricalca i capannoni industriali, i cameroni ministeriali, l’unità di tempo e di luogo dell’opificio, i riti finalizzati al «tutto sotto controllo», anche se si tratta di una banca o della redazione di un giornale.
Occorre dunque una vera e propria rivoluzione nella cultura del lavoro per forzarne il passaggio dalla fase industriale alla fase postindustriale; una rivoluzione profonda almeno come quella che Taylor intraprese quando, con il suo scientific management, accelerò il passaggio dal lavoro rurale e artigianale al lavoro industriale.
Allora, per la prima volta dopo migliaia di anni, l’uomo-lavoratore subiva una trasformazione radicale non solo del proprio lavoro ma anche della propria vita: non lavorava più nella sua bottega o nel suo campo, non dormiva più nel quartiere in cui lavorava, non cooperava più con i suoi familiari ma con persone estranee, non obbediva più a suo padre ma al proprio caposquadra, non consumava più i cibi fatti in casa ma quelli della mensa, non vestiva più con abiti cuciti su misura dal suo sarto ma con abiti fatti in serie chissà dove e da chi, non conosceva più personalmente i destinatari dei propri prodotti, e spesso non conosceva neppure a che cosa servissero i pezzi che egli era chiamato a produrre nell’ambito della produzione parcellizzata. Ne derivavano squilibri psicologici e sociali ma, a conti fatti, i vantaggi apparivano maggiori degli svantaggi e il nuovo sistema di vita urbano-industriale appariva più pratico, più conveniente, persino più civile del vecchio sistema di vita rurale.
In cambio del benessere materiale e di maggiore tempo libero, Taylor chiedeva ai lavoratori una completa rivoluzione mentale. Deponendo, nel 1912, davanti a una commissione d’indagine istituita dal senato americano, Taylor disse: «L’organizzazione scientifica non è un modo per aumentare o garantire l’efficienza; non è un sistema per calcolare i costi, né un sistema di pagamento; non è un sistema a premio o a buoni; non è un sistema di cottimo; non significa cronometrare il lavoro di un uomo; non è uno studio dei tempi di lavorazione, né uno studio dei metodi; non consiste nel preparare o stampare una o due tonnellate di moduli e scaricarli su un gruppo di persone dicendo: “Questo è il vostro sistema, usatelo!”; non è una direzione tecnica che suddivide compiti e funzioni; non è nessuno di quei congegni che l’uomo comune ha in mente quando si nomina l’organizzazione scientifica, essa non è nulla di tutto ciò… Credo in tutte queste cose, ma voglio sottolineare il fatto che queste nuove idee vengano considerate globalmente o singolarmente, non si identificano con l’organizzazione scientifica… L’organizzazione scientifica esige, sostanzialmente, una completa rivoluzione mentale da parte degli operai di qualsiasi stabilimento o settore industriale; essi devono cambiare radicalmente il modo di considerare il proprio lavoro, i propri colleghi e datori di lavoro. La stessa radicale trasformazione mentale coinvolge anche i dirigenti – il capofabbrica, il sovrintendente, il proprietario dell’impresa, il consiglio di amministrazione – e implica un modo nuovo di affrontare i propri doveri verso i colleghi dirigenti e verso i problemi quotidiani degli operai. Senza questa completa rivoluzione mentale non può esserci organizzazione scientifica».
Questo concetto di rivoluzione mentale era cruciale ieri per il superamento della mentalità contadino-artigiana e per la sua conversione alla mentalità industriale non più di quanto sia cruciale oggi per il superamento della mentalità urbano-industriale e la sua conversione alla mentalità postindustriale. Perciò potremmo parafrasare Taylor e dire che l’organizzazione postindustriale non è la partecipazione al pacchetto azionario, non è la partecipazione agli utili o all’organizzazione, non è l’office automation, non è il telelavoro, non è la globalizzazione, non è la motivazione, non è il network, non è la posta elettronica, non è la qualità totale, non è ciascuna di queste cose, né tutte queste cose prese nel loro insieme. L’organizzazione postindustriale del lavoro è una completa e radicale trasformazione mentale grazie alla quale gli operai, gli impiegati, i manager, i professionals, i dirigenti, i proprietari, i consumatori debbono introiettare un modo nuovo di considerare le categorie del tempo, dello spazio, dell’utile, della solidarietà, dell’ecosistema, della produzione, del consumo, della qualità del lavoro e della vita.
Taylor, anticipando l’idillio con cui, dieci anni più tardi, Fritz Lang chiude il film Metropolis, dice: «La grande rivoluzione nell’atteggiamento mentale che viene ad attuarsi con l’organizzazione scientifica fa sì che le due parti antagoniste distolgano il proprio interesse dalla suddivisione del surplus – che è l’argomento principale di contrasto – e concentrino i propri sforzi nell’aumentarne l’entità in modo tale da scongiurare l’insorgere di ulteriori disordini. Ambo le parti giungono a riconoscere che la cooperazione e l’aiuto reciproco, subentrati alla lotta e ai contrasti, procurano un tale incremento del surplus da permettere grandi aumenti nei salari degli operai e nei profitti dell’imprenditore».
Oggi, a nostra volta, potremmo dire che la grande rivoluzione mentale richiesta all’uomo postindustriale per aderire all’organizzazione rivoluzionata fa sì che le parti antagoniste riducano il loro interesse dalla produzione di surplus (ormai garantito dalle macchine e dal Terzo Mondo) e concentrino i loro sforzi nella ridistribuzione del lavoro, della ricchezza, del sapere, del potere, delle opportunità e delle tutele, nella costruzione di un nuovo welfare, nella creazione di un sistema cooperativo internazionale capace di assicurare a tutti maggiore quantità e migliore qualità della vita.
Questa rivoluzione postindustriale porterebbe all’umanità vantaggi non meno preziosi di quelli che le furono assicurati dalla rivoluzione industriale. Eppure ritrova oggi, moltiplicati, gli stessi antagonismi che incontrò a suo tempo la proposta taylorista: resistenza culturale ai cambiamenti psicologici e sociali; resistenza politica alla ridistribuzione del potere.
Che fare, dunque? Per prima cosa occorre proibire lo straordinario ai workaholic. In Italia ci sono almeno 2 milioni di impiegati e di manager che, più per odio della famiglia che per amore del lavoro, ogni giorno fanno un paio di ore di overtime non retribuite. Per quale ragione? Perché 4 milioni di ore al giorno, moltiplicate per 220 giorni di lavoro all’anno, formano un monte di 880 milioni di ore, pari a 520.000 posti di lavoro.
Per quanto riguarda in particolare i lavoratori che svolgono compiti ripetitivi ed esecutivi, siano essi operai o impiegati, occorre mettere mano a una drastica riduzione degli orari di lavoro e a un ricalcolo dei salari, degli stipendi e delle pensioni in base alla produzione (che aumenta), non al lavoro (che diminuisce). Riducendo l’orario, non solo si eliminerebbe la disoccupazione, ma si otterrebbe che tutti i lavoratori esecutivi, alle loro skill addestrate nel lavoro, potrebbero sommare una maggiore crescita culturale, sociale e affettiva acquisita fuori del lavoro, contribuendo così alla crescita propria, della famiglia e della società, oltre che dell’azienda.
Per quanto riguarda i lavoratori che svolgono attività creative (liberi professionisti, artigiani, scienziati, giornalisti, manager, scrittori, imprenditori, insegnanti: almeno un terzo di tutta la popolazione attiva, destinato a crescere ulteriormente), bisogna tenere conto che la produzione di idee originali segue regole completamente diverse dalla produzione di oggetti in serie e di servizi standardizzati.
Mentre il tornitore, quando suona la sirena, lascia il tornio in fabbrica e se ne va a casa, dove evita di pensare al lavoro fino al giorno successivo, il creativo lavora con il cervello, che lo accompagna dovunque, giorno e notte. Si può dire a un operaio: «Vieni domani mattina alle 7 e comincia a produrre bulloni»; non si può dire a un creativo: «Vieni domani mattina alle 7 e comincia a produrre idee».
Dunque non è possibile applicare lo scientific management a tutto il lavoro intellettuale, come pretendono di fare le aziende malate di cultural gap, infliggendo perfino ai lavoratori creativi la stessa unità di tempo e di luogo imposta agli operai metalmeccanici, con tutto l’armamentario di recinzioni, tornelli, limitazioni, procedure, guardiani e cartellini.
Un creativo «lavora» tutti i giorni, ventiquattro ore su ventiquattro. Anche se non è in ufficio, anche se gioca o dorme, la sua mente assorbe, metabolizza, elabora stimoli, idee, spunti, progetti. La sua produttività non dipende né dal luogo né dal tempo né dai controlli cui è sottoposto: dipende dalla sua competenza, dalla sua motivazione, dalla sua passione, dalle risorse a sua disposizione, dal carisma del suo capo, dalla composizione e dall’entusiasmo del suo team di lavoro.
Con l’irrompere dell’attività intellettuale, e di quella creativa in particolare, cade il concetto di orario fisso, di controllo gerarchico sul processo lavorativo, di lavoro straordinario, di pensionamento. Occorre lasciare al creativo la piena libertà di tempo e di luogo, offrirgli un’organizzazione per obiettivi, puntare sulla sua motivazione piuttosto che sul controllo esercitato dall’organizzazione, eliminare un’età di pensionamento fissa e comune per tutti, sostituendola con un accordo tra datore di lavoro e lavoratore, da raggiungere caso per caso. La creatività è il regno della soggettività.
Da una parte, dunque, i policy makers dovrebbero differenziare nettamente i criteri organizzativi a seconda che si tratti di mansioni operaie di tipo fisico, di compiti impiegatizi di tipo intellettuale ed esecutivo, di attività intellettuali di natura creativa. Dall’altra, l’intera società e, prima di tutto i lavoratori, dovrebbero modificare profondamente la loro concezione del lavoro e del peso che gli va conferito.
Questa nuova rivoluzione è necessaria ma non è semplice perché, come ha scritto Ralf Dahrendorf, «la società della crescita è stata anche una società di lavoro. La vita degli uomini era costruita intorno al lavoro. L’educazione era orientata come preparazione al mondo del lavoro, il tempo libero come riposo per nuovo lavoro, la pensione come compenso per una vita di lavoro. Il lavoro, inoltre, non era considerato soltanto necessario per guadagnarsi da vivere, ma anche come valore in se stesso. C’era orgoglio per il proprio lavoro e per le realizzazioni lavorative. La pigrizia era severamente stigmatizzata. Si può dire addirittura che la figura dell’uomo lavoratore ha rappresentato l’ideale di questa società. Resta da chiedersi: che succede quando – per dirla con Hannah Arendt – alla società del lavoro il lavoro stesso viene a mancare?».
Ecco cosa succede: mentre il lavoro esecutivo è delegato alle macchine, mentre l’apporto umano si concentra soprattutto nella produzione di idee e nei servizi alla persona, mentre nelle attività creative si dissolve l’unità di tempo e di luogo, mentre aumenta a vista d’occhio il numero di donne che sostituiscono uomini anche in posti di comando, nella società si impongono nuovi soggetti, il lavoro perde centralità, il tempo destinato alla formazione, alla riproduzione e allo svago prevale nettamente sul tempo destinato al lavoro, la sfera emotiva viene rivalutata accanto a quella razionale, la dimensione soggettiva riconquista un posto dignitoso accanto alla dimensione collettiva, l’estetica viene apprezzata non meno della pratica.
Intanto la vecchia, già gloriosa azienda tayloristica stenta a morire, assistita bocca a bocca da un esercito in rotta, composto da vecchi capi del personale ostinati nella riproduzione di inutili contratti collettivi, vecchi dirigenti organizzativi addestrati all’arte del controllo, vecchi ingegneri chiusi nel catafratto delle presunte scienze esatte, consulenti abbarbicati a giochetti mentali tanto più apprezzati quanto più insulsi, commercianti di idee in viaggio continuo tra California e Giappone alla ricerca di mercanzie manageriali di seconda mano. La vecchia impresa, incapace di motivare coloro che si ostina a controllare, produce per l’esterno disoccupazione e merci sempre più inutili, mentre produce per l’interno procedure sempre più insensate e persone sempre più infelici.
Intanto l’efficienza crescente delle tecnologie avvicina di giorno in giorno la realizzazione del sogno di Taylor, di Lafargue, di Bertrand Russell, di Hermann Hesse: liberare l’uomo da tutto il lavoro per restituirlo all’Eden delle attività ideative o dell’ozio creativo.
Secondo Taylor, il suo sistema organizzativo permetteva di «aumentare la produzione, ridurre i costi, e contemporaneamente incrementare i guadagni dei lavoratori, evitando tensioni, ma basandosi soltanto sulla forza silenziosa del desiderio di guadagnare di più». Oggi una parte sempre più rilevante di quella «forza silenziosa» non è desiderio di guadagno ma desiderio di felicità.