Ricchezza
Si dice che la ricchezza non fa la felicità, ma bisogna ammettere che la simula molto bene. La questione non è di poco conto. Basti pensare che il primo libro di storia di tutti i tempi, quello scritto da Erodoto cinque secoli prima di Cristo, si apre proprio con un capitolo sul rapporto tra ricchezza e felicità.
Vi si racconta che Solone, dopo avere portato a termine la promulgazione delle sue leggi ad Atene, si dette a lunghi viaggi in tutto il mondo per arricchire la propria saggezza con nuove esperienze.
In questo suo girovagare arrivò fino alla Lidia, dove regnava Creso, il più ricco di tutti i re. Dopo essersi pavoneggiato con Solone, esibendo lo sfarzo della sua reggia, Creso non seppe resistere alla tentazione di chiedergli chi fosse l’uomo più felice incontrato in tutti i suoi viaggi. «Questo egli domandava nella segreta speranza di essere lui stesso indicato come il più felice degli uomini.»
Solone, invece, citò un certo Tello di Atene, uomo semplice, padre di due splendidi figli, morto in battaglia per la difesa della propria città la quale, per questo, gli aveva reso grandi onori.
Sperando di essere considerato almeno al secondo posto nella graduatoria degli uomini più felici del mondo, Creso chiese a Solone chi altro ricordasse dopo Tello. Allora questi descrisse la sorte felice di Cleobi e Bitone, due giovani belli, forti e generosi, per i quali la madre aveva chiesto alla dea Era tutto ciò che un uomo può ottenere di meglio. La dea accolse la preghiera: i due giovani si addormentarono e morirono serenamente nel sonno. I concittadini, per ricordare la loro eccellenza, consacrarono nel tempio di Delfi due statue con le loro sembianze.
Creso si stizzì e disse: «Ospite di Atene, la nostra felicità è da te così poco considerata che non ci stimi degni di rivaleggiare nemmeno con dei semplici cittadini privati?».
Solone, rapportandosi alla vita media della sua epoca, gli rispose che ogni uomo vive mediamente settant’anni, pari a circa 26.000 giorni. Poiché in ciascuno di questi giorni avviene qualcosa di diverso, ogni vivente, fino alla sua fine, resta sempre in balìa degli eventi. «Non è vero» disse «che chi è molto ricco sia più felice di chi ha da vivere alla giornata, se non l’accompagna la fortuna di terminare la vita in una completa felicità.»
Un uomo straricco ha due vantaggi: la possibilità di affrontare meglio le disgrazie improvvise e la possibilità di soddisfare un numero maggiore di desideri. Sotto questo aspetto può dirsi fortunato ma non ancora felice. Se un povero è bello e in buona salute, se ha una bella figliolanza e se riesce a chiudere in bellezza la propria vita, ecco un caso realmente e compiutamente felice. Fino alla morte, inoltre, nessuno può considerarsi autosufficiente (un bel proverbio napoletano dice: «Anche la regina ebbe bisogno della vicina»).
Erodoto conclude il suo racconto riferendo che Creso, infuriato, scacciò Solone ma di lì a poco suo figlio morì per un incidente di caccia e Ciro conquistò il suo regno. Salvato per fortuna dal rogo al quale era stato condannato, Creso si ricordò di Solone. Se prima si sentiva ricco per l’opulenza delle sue proprietà, ora si sentiva ricchissimo per il semplice fatto di sopravvivere. L’abbondanza, dunque, non fa la felicità perché è minata dall’assillo dell’insicurezza.
E allora, che fare? Per i credenti c’è la speranza dell’eterna felicità ultraterrena, facile per i poveri, difficilissima per i ricchi. «Che tu abbia in abbondanza ricchezze e altri beni terreni» dice la famosa enciclica sociale di Leone XIII Rerum Novarum (1891) «o che tu ne sia privo, ciò all’eterna felicità non importa nulla. I fortunati del secolo sono dunque avvertiti che le ricchezze non liberano dal loro dolore, e che esse, per la felicità a venire, nonché giovare, nuocciono.»
Per i non credenti, privi della felicità ultraterrena, basta la saggia convinzione che la ricchezza e la povertà sono entrambe accompagnate da troppi grattacapi, per cui la condizione auspicabile è quella intermedia: né ricca né povera, purché duratura.