LIBRO SETTIMO
3. Vitellio
1. Sull’origine dei Vitellî ci sono varie tradizioni, tra loro anche assai discordanti. Alcuni la considerano antica e nobile, altri invece recente, oscura e volgare. Penserei che tali contraddizioni siano da metter sul conto di adulatori e denigratori dell’imperatore Vitellio; se non che già da prima esistevano contrastanti pareri sulla condizione della famiglia.
Ci resta un opuscolo di Quinto Elogio, dedicato a Quinto Vitellio questore del divo Augusto 1, in cui si sostiene che i Vitelli, discesi da Fauno, re degli Aborigeni, e da Vitellia, venerata in molti luoghi come una divinità 2, avrebbero dominato su tutto il Lazio; che un loro ultimo ramo si sarebbe trasferito dalla Sabina a Roma e sarebbe stato accolto nel rango senatorio; che, testimonianza della stirpe, sarebbero rimaste a lungo una via Vitellia, dal Gianicolo fino al mare, e una colonia dello stesso nome: colonia che una volta la gens avrebbe chiesto di difendere, con le sue sole forze, contro gli Equi 3; che infine, al tempo delle guerre sannitiche, alcuni dei Vitellî, mandati a presidiare l’Apulia, si sarebbero fermati a Nocera 4, da dove la loro progenie, dopo lungo intervallo, sarebbe tornata a Roma reintegrandosi nella dignità senatoria.
2. Di contro, molti invece hanno sostenuto che il capostipite della famiglia sarebbe stato uno schiavo affrancato. Anzi Cassio Severo 5 e altri analogamente hanno precisato che costui era un ciabattino; il cui figlio, trovato il modo di arricchire con i proventi di aste ed esazioni 6, da una prostituta, figlia di tale Antioco fornaio, ebbe un discendente che fu cavaliere romano. Ma resti pure in sospeso ciò che è controverso.
Ad ogni modo un Publio Vitellio originario di Nocera – fosse antica la sua stirpe o provenisse da ignobile discendenza – fu certamente cavaliere romano e procuratore dei beni di Augusto 7 ed ebbe quattro figli tutti insigniti della massima dignità. Tutti portarono il medesimo cognome, distinguendosi solo per il prenome: Aulo, Quinto, Publio e Lucio.
Aulo morì durante il suo consolato, che aveva assunto insieme con Domizio, padre dell’imperatore Nerone 8. Fu uomo di sfarzo ostentato e famoso soprattutto per la magnificenza dei suoi conviti.
Quinto fu escluso dal rango senatorio quando, per volere di Tiberio, si decise di epurare da quell’ordine i meno idonei.
Publio perseguì in giudizio Gneo Pisone come avversario e uccisore di Germanico 9, di cui era stato compagno, e lo fece condannare. Ma, dopo aver esercitato la pretura, fu arrestato come complice di Seiano 10. Affidato alla custodia del proprio fratello, si aprì le vene con un temperino da copista; poi, non tanto per paura della morte quanto cedendo alle preghiere dei suoi, acconsentì a farsi fasciare e curare la ferita; ma, sempre agli arresti, morì di malattia.
Lucio, dopo il consolato, ebbe il governo della Siria. In tale occasione con grande abilità diplomatica indusse il re dei Parti Artabano non solo a venire a colloquio con lui, ma anche a venerare le insegne delle legioni 11. Ricoperse ancora, insieme con Claudio, due consolati ordinari 12 e la carica di censore, e, durante l’assenza del principe per la spedizione in Britannia, tenne nelle sue mani la responsabilità dell’impero. Fu persona onesta e operosa, ma si guastò la reputazione per amore di una ex schiava: della saliva di lei, mescolandola al miele, faceva uso come di un rimedio contro il mal di gola, e nemmeno di rado e di nascosto, ma ogni giorno e pubblicamente.
Abilissimo nell’arte dell’adulazione, inaugurò per primo il costume di adorare Gaio Cesare 13 come un dio, allorché, di ritorno dalla Siria, non volle più comparire alla sua presenza se non col capo velato, inchinandosi e genuflettendosi davanti a lui.
Quando poi vide Claudio asservito alle sue donne e ai suoi liberti, escogitò ogni mezzo per ingraziarselo. Chiese a Messalina come massima degnazione di porgergli il piede perché lui le levasse i calzari; e, presole il sandalo destro, se lo portò sempre tra la veste e la toga, baciandolo di quando in quando.
Venerò pure, tra i suoi Lari, le immagini effigiate in oro di Narciso e Pallante 14. Ancora: è sua la frase famosa pronunciata per congratularsi con Claudio all’inaugurazione dei Ludi Secolari 15: «Che tu possa farlo più di una volta».
3. Morì di paralisi, il giorno dopo esserne stato colpito. Gli sopravvissero due figli, che aveva avuti da Sestilia, donna onorata e di nobili natali. Potè vederli consoli entrambi, tutti e due nello stesso anno, in quanto il minore succedette al maggiore nel secondo semestre.
Alla sua morte il Senato lo onorò con un pubblico funerale e con una statua eretta davanti ai Rostri 16 con questa iscrizione: Fermissimo nell’amore del principe.
L’imperatore Aulo Vitellio, figlio di Lucio, nacque il 25 settembre – o, come altri sostengono, il 25 agosto – sotto il consolato di Druso Cesare e Norbano Fiacco 17. Il suo oroscopo, così com’era stato formulato dagli astrologi, suscitò un tale terrore nei suoi genitori che suo padre si adoperò sempre in ogni modo per evitare che, lui vivo, fosse assegnato al figlio il governo di una provincia, e la madre, quando Vitellio fu inviato presso le legioni 18 e acclamato imperatore, ne pianse come per una sventura.
Trascorse la fanciullezza e la prima giovinezza tra le amanti di Tiberio, anche lui bollato per sempre con il soprannome di invertito; e si ritenne anzi che l’aver prostituito il suo corpo fosse origine e causa dei successi del padre.
4. Anche nel periodo seguente, ormai coinvolto in ogni vizio più deplorevole, tenne a corte un posto di primo piano. A Gaio fu vicino nella passione di guidare il carro, a Claudio in quella dei dadi, e ancora più gradito a Nerone non solo per questi stessi passatempi, ma anche per un merito particolare. Una volta presiedeva appunto i Ludi Neroniani. Il principe aveva una gran voglia di cimentarsi in gara coi suonatori di cetra, ma – benché tutti insistessero – non osava promettere di esibirsi, e anzi era uscito dal teatro. Vitellio lo aveva richiamato indietro, e – come facendosi interprete delle insistenze del pubblico – lo aveva presentato al proscenio perché si facesse pregare.
5. Così, col favore di ben tre prìncipi, ottenne non solo incarichi politici, ma anche sacerdozi di grande prestigio. Dopo di che ebbe ancora il proconsolato in Africa e resse l’amministrazione di opere pubbliche 19, con impegno disuguale e non sempre ottenendo la stessa considerazione. Nel governo della provincia dette prova di straordinaria onestà, e ciò per un intero biennio, essendo rimasto come legato di suo fratello che gli subentrava nella stessa carica. Ma negli incarichi urbani si diceva che avesse sottratto beni e ornamenti dai templi, facendoli in parte sostituire e falsificando oro e argento con stagno e ottone.
6. Prese in moglie Petronia, figlia di un ex console, e da lei ebbe Petroniano, guercio d’un occhio. Costui era stato istituito erede dalla madre a patto che fosse affrancato dalla patria potestà. Vitellio lo emancipò, ma poco dopo (così almeno si potè sospettare) lo fece eliminare, dopo averlo falsamente accusato di parricidio e insinuato che avesse trangugiato, per rimorso di coscienza, il veleno già predisposto al delitto.
In seguito sposò Galeria Fundana, il cui padre aveva ricoperto la pretura. Anche da lei ebbe due figli, un maschio e una femmina: ma il maschio era così incapace di parola, per via della balbuzie, da risultare quasi muto.
7. Da Galba, contro ogni aspettativa, fu inviato a governare la Germania inferiore. Si pensa che gli giovò l’appoggio di Tito Vinio 20, allora potentissimo, a cui già da un pezzo si era legato per la comune simpatia verso la squadra circense degli azzurri21. Se non che Galba dichiarò esplicitamente che nessuno era meno temibile di coloro che pensano solo a riempirsi il ventre: la gola insaziabile di Vitellio avrebbe potuto placarsi coi beni della provincia. Così risulta evidente per chiunque che quella scelta era dettata più da disistima che da favore.
Si sa che, al momento di partire, mancavano a Vitellio i fondi per il viaggio. Il suo patrimonio era così malandato che, relegati moglie e figli, che rimanevano a Roma, in una stanza presa a pigione, dovette affittare la propria casa per il resto dell’anno. Non solo: per far fronte alle spese del viaggio impegnò anche una grossa perla tolta all’orecchio di sua madre.
Era tuttavia assediato e trattenuto da una folla di creditori; tra i quali spiccavano quelli di Sinuessa e di Fondi, che egli aveva defraudati delle pubbliche entrate 22. Potè a stento levarseli di torno solo spaventandoli con false accuse. Così per esempio a un liberto, che con più insistenza di altri reclamava il dovuto, intentò causa per ingiuria, facendo credere che lo avesse colpito con un calcio, e non si fermò se non dopo avergli estorto cinquantamila sesterzi.
L’esercito, maldisposto verso il principe e incline all’insurrezione, al suo arrivo lo accolse di buon grado e a braccia tese, quasi un dono piovuto dal cielo, figlio com’era di uno che era stato console per ben tre volte, nel pieno delle forze, d’animo prodigo e cordiale. Questa buona rinomanza, già acquistata in passato, Vitellio l’aveva anche accresciuta con dimostrazioni recenti. Lungo tutto il cammino 23 aveva fatto mille carezze a ogni fantaccino che incontrava, ostentando grande familiarità, nei luoghi di posta e nelle locande, con mulattieri e viandanti: al punto di chiedere a ciascuno se aveva fatto uno spuntino, assicurando con un rutto che lui, sì, già l’aveva fatto.
8. Arrivato dunque all’accampamento, non oppose rifiuto a nessuna petizione. Anzi, di sua iniziativa, tolse le note di demerito ai degradati, le vesti di lutto 24 ai colpevoli, le pene ai condannati.
Perciò, trascorso nemmeno un mese, all’improvviso, senza badare né al giorno né all’ora – si era appunto all’imbrunire – fu tratto fuori dai soldati, così com’era, in veste da camera. E, salutato imperatore, fu portato in giro tra i vicoli più affollati 25 : teneva stretta nella mano la spada del divo Giulio 26, che un ammiratore, felicitandosi con lui tra i primi, gli aveva recata.
Non rientrò nella sua tenda se non per un incendio scoppiato nella stanza del triclinio, dovuto all’intasamento del camino. Allora, mentre tutti erano costernati e angosciati come per un presagio funesto, li rincuorò dicendo: «State di buon animo: per noi si è fatta luce». E non volle tenere nessun altro discorso ai soldati.
Quindi, poiché aveva dato il suo assenso anche l’armata della Germania superiore, quella che per prima si era pronunciata contro Galba e in favore del Senato 27, egli accolse molto di buon grado il titolo di Germanico 28 che gli veniva universalmente accordato, mentre differì ad altro tempo quello di Augusto e rifiutò per sempre quello di Cesare.
9. Dopo non molto gli fu annunciata la morte di Galba.
Sistemate allora le cose in Germania, divise le sue truppe in due eserciti: l’uno l’avrebbe mandato innanzi a incontrare Otone, l’altro l’avrebbe capitanato di persona.
Alla partenza della prima colonna si verificò un lieto auspicio: d’improvviso dalla destra scese a volo un’aquila che, sfiorate le insegne, precedette per un tratto l’esercito in cammino. Viceversa, quando invece mosse Vitellio, le statue equestri che d’ogni parte gli venivano poste, rovinarono tutte insieme con le gambe spezzate; e la corona d’alloro, di cui con grande solennità si era cinto il capo, cadde in un fiume. Più tardi, mentre a Vienne 29 amministrava la giustizia dalla tribuna, un gallo gli si posò sulla spalla e poi sul capo 30. A questi segni corrisposero in pieno gli eventi: infatti egli di per sé non seppe mantenere quel potere che i suoi generali gli avevano assicurato.
10. Ebbe notizia della vittoria di Bedriaco e della morte di Otone 31 mentre era ancora in Gallia. Senza indugio con un unico editto esautorò tutte le coorti dei pretoriani, quante ce n’erano, per il pessimo esempio che avevano offerto e ordinò che consegnassero le armi nelle mani dei loro ufficiali. Inoltre fece ricercare e condannare centoventi pretoriani di cui aveva trovato le petizioni rivolte a Otone con la richiesta di un premio per essersi impegnati nell’uccisione di Galba. Fu un gesto, il suo, davvero apprezzabile e nobile, tale da far nascere la speranza di un ottimo principato, se le altre sue azioni non fossero state intonate più al suo temperamento e alla sua vita precedente che alla maestà dell’impero.
In realtà, messosi in cammino, si fece portare in mezzo alle città come un trionfatore e attraversò i fiumi su raffinate imbarcazioni inghirlandate di corone d’ogni genere in una profusione di feste e di banchetti. Domestici e soldati erano privi ormai di ogni freno, ma egli volgeva a scherzo le loro ruberie e le loro insolenze; e quelli del suo seguito, non contenti dei conviti imbanditi dovunque a spese pubbliche, affrancavano gli schiavi secondo il loro capriccio, ripagando quanti tentavano di fare opposizione con bastonature e sferzate, spesso con ferite e non di rado con la morte.
Quando visitò i campi dove si era combattuto, mentre non pochi inorridivano al lezzo dei cadaveri in decomposizione, egli ebbe l’ardire di rincuorarli con questa battuta spregevole: «Ha sempre un buonissimo odore il nemico ucciso, meglio ancora se è un concittadino». Però, per l’orribile fetore, bevve davanti a tutti una gran sorsata di vino, e vino fece distribuire agli astanti.
Con una simile fatua vanità, guardando la lapide con l’iscrizione posta a memoria di Otone, esclamò che era proprio degna di quel mausoleo 32; e mandò il pugnale con cui Otone si era ucciso a Colonia Agrippinense 33 perché fosse dedicato al tempio di Marte. Poi, in cima agli Appennini, volle celebrare una veglia di ringraziamento.
11. Infine fece il suo ingresso in Roma al suono delle trombe paludato da generale e con la spada al fianco. Tra insegne e vessilli lo seguivano i suoi compagni con il mantello militare e i suoi soldati con le armi sguainate. Poi, di giorno in giorno sempre più spregiando ogni legge umana e divina, nell’anniversario dell’Allia 34 assunse il pontificato massimo, dispose le elezioni per i prossimi dieci anni e prese per sé il consolato a vita. E perché nessuno avesse dubbi sul modello che egli sceglieva per reggere le sorti dello Stato, in mezzo al Campo di Marte con gran concorso di pubblici sacerdoti celebrò i riti funebri in onore di Nerone. Inoltre, in un convito solenne, invitò alla presenza di tutti un famoso citaredo a intonare qualche brano del Dominico 35, e, mentre quello attaccava un cantico di Nerone, applaudì per primo con entusiasmo.
12. Dopo tali inizi abbandonò gran parte del suo potere al senno e all'arbitrio dei più spregevoli tra gli aurighi e gli istrioni e soprattutto del suo liberto Asiatico. Costui egli l’aveva adescato, quando era ancor giovinetto, per una reciproca passione dei sensi. Dopo che per disgusto se n’era andato, lo ripescò a Pozzuoli dove si era messo a vendere aceto. Lo mise in ceppi; ma subito dopo lo liberò e di nuovo ne godette i piaceri. Poi ancora, seccato per l’eccessiva sua protervia e l’inclinazione al furto, lo vendette a un maestro di gladiatori ambulante; ma d’improvviso, siccome era stato destinato allo spettacolo di chiusura 36, se lo riprese, e, quando ottenne il governo di provincia 37, lo affrancò. Infine, il primo giorno del principato, durante il pranzo gli fece dono dell’anello d’oro 38; mentre, ancora quella stessa mattina, allorché tutti intercedevano per lui, aveva con estrema severità rifiutato dicendo che sarebbe stata una macchia per l’ordine equestre.
13. Era incline soprattutto alla crapula e alla crudeltà.
I pasti li divideva sempre in tre o talvolta in quattro momenti: colazione, pranzo, cena e baldoria; e tutti quanti riusciva a sostenere per l’abitudine a vomitare. Si invitava da sé, ora da uno ora dall’altro, nello stesso giorno; e ogni imbandigione non costò mai a nessuno meno di quattrocentomila sesterzi. Famosissima fra tutte fu la cena di benvenuto offertagli per il suo arrivo dal fratello, durante la quale si dice che fossero serviti duemila pesci tra i più prelibati e settemila uccelli. Eppure lui superò anche questa con l’invenzione di un piatto che, per la sua smisurata grandezza, usava chiamare «scudo di Minerva protettrice della città» 39. Vi aveva mescolato fegati di scaro 40, cervella di fagiano e di pavone, lingue di fenicotteri, latte di murena fatto venire fin dalla Partia e dallo stretto di Gibilterra con l’ausilio di triremi e dei loro capitani.
Ma siccome era uomo di voracità non solo straordinaria, ma anche sordida e fuori luogo, non riusciva a trattenersi mai – nemmeno in viaggio o durante i riti sacri – dal mangiarsi lì per lì le viscere o il pane di farro quasi rubandoli al fuoco dell’altare o, nelle osterie lungo la via, le vivande ancora fumanti o persino del giorno prima e lasciate a metà.
14. Era poi sempre pronto a mettere a morte o al supplizio chiunque e per qualunque motivo. Ricorrendo a ogni specie d’inganno, fece uccidere persone di rango, suoi condiscepoli e coetanei, dopo averli blanditi con ogni lusinga, fin quasi a promettere di associarli all’impero. A uno porse anzi il veleno di sua mano, sciogliendolo in un bicchiere d’acqua fresca che quello, febbricitante, gli aveva domandato.
Quanto agli usurai, ai creditori ed esattori che mai gli avessero chiesto a Roma di pagare un debito o, quand’era in viaggio, un diritto di transito, difficilmente ne risparmiò qualcuno. Uno di costoro condannò al supplizio proprio mentre veniva a porgergli il saluto del mattino. Di lì a poco lo richiamò indietro; ma, quando già tutti lodavano la sua clemenza, lo fece mettere a morte davanti a loro dicendo che «voleva saziarsi gli occhi» 41.
Alla condanna di un padre aggiunse quella di due figli che avevano tentato di intercedere per lui. A un cavaliere romano che, portato al supplizio, gli diceva: «Tu sei il mio erede», fece esibire il testamento: come vide che vi era indicato come coerede anche un liberto, lo fece sgozzare assieme al liberto.
Fece mettere a morte anche gente del popolo solo per il motivo che avevano apertamente sparlato della fazione degli azzurri, persuaso che avessero osato tanto per disprezzo verso di lui e con la speranza di una rivolta. Verso nessuno tuttavia era tanto ostile quanto verso i buffoni e gli indovini. Appena uno di costoro gli veniva denunciato, lo condannava a morte senza concedere udienza. La sua irritazione derivava dal fatto che – in risposta a un suo editto in cui si ordinava l’espulsione, entro le calende di ottobre 42, di tutti gli astrologi da Roma e dall’Italia – subito era comparso un manifesto di questo tenore: «Pace e prosperità! Ordinano a loro volta i Caldei: entro il medesimo termine delle calende doversi Vitellio Germanico espellere da questo mondo» 43.
Fu sospettato anche per la morte della propria madre. Egli avrebbe vietato che le si portasse il cibo mentre era malata: e ciò per dare ascolto a una maga dei Catti 44 alla quale credeva come a un oracolo e secondo cui avrebbe avuto un impero saldo davvero e lunghissimo se fosse sopravvissuto a chi l’aveva generato. Ma altri dicevano che fu lei, la madre, per disgusto del presente e paura del futuro, a chiedere al figlio il veleno: che, ad ogni modo, le fu concesso senza troppa difficoltà.
15. Dopo sette mesi da quando aveva assunto il potere 45 fecero defezione le armate delle due Mesie 46 e della Pannonia. Analogamente, tra quelle d’oltremare, le armate di Giudea e di Siria si dichiararono per Vespasiano, l’una essendo lui presente, l’altra benché fosse lontano.
Allora, pur di conservare il favore e la fedeltà delle truppe che gli rimanevano, Vitellio si abbandonò a ogni concessione, in pubblico e in privato, senza più limiti. In Roma fece anche una leva, promettendo ai volontari non solo il congedo dopo la vittoria, ma anche tutti i vantaggi spettanti ai veterani dopo un regolare servizio.
Quindi al nemico che incalzava per terra e per mare oppose da una parte il fratello con la flotta, i soldati di leva e una squadra di gladiatori, dall’altra gli eserciti di Bedriaco con i loro comandanti. Ma, sconfitto dovunque o sul campo o per tradimento, venne a patti col fratello di Vespasiano, Flavio Sabino 47, per aver salva la vita e un appannaggio di cento milioni di sesterzi.
Subito dopo, sui gradini del palazzo, davanti a una folla di soldati dichiarò di voler abbandonare quel potere che aveva assunto suo malgrado. Ma, di fronte alle generali proteste, differì la questione e, fatta passare una notte, si ripresentò ai Rostri alle prime luci del giorno: in veste dimessa e tra i singhiozzi ripetè le stesse dichiarazioni, questa volta leggendole da un testo scritto.
Ma, poiché soldati e popolo lo interrompevano e lo esortavano a non cedere promettendogli a gara tutto il loro impegno, di nuovo riprese animo. Con un improvviso colpo di mano sospinse sul Campidoglio Sabino e gli altri Flaviani che se ne stavano senza più timori e, appiccato il fuoco al tempio di Giove Ottimo Massimo 48, li annientò. Intanto lui banchettando assisteva alla battaglia e all’incendio dal palazzo di Tiberio.
Ma di lì a poco, pentitosi di quel che aveva fatto e cercando di addossarne ad altri la colpa, convocò l’assemblea e giurò – e volle che tutti quanti giurassero – che niente avrebbe avuto più a cuore della pubblica pace. Quindi, toltosi il pugnale dal fianco, lo porse dapprima al console 49, poi, siccome quello lo rifiutava, agli altri magistrati e, infine, ai singoli senatori. Poiché nessuno voleva accettarlo, fece per allontanarsi con l’intenzione di deporlo nel tempio della Concordia. Ma alcuni gridarono che «era lui la Concordia». Tornò allora sui suoi passi e affermò che non solo voleva conservare quella lama, ma che anzi accettava per sé il soprannome di Concordia.
16. Convinse il Senato a mandare una delegazione accompagnata dalle vergini Vestali a chiedere la pace o almeno un po’ di tempo per prendere una decisione. L’indomani, mentre aspettava una risposta, da qualcuno mandato in avanscoperta gli fu riferito che i nemici si avvicinavano. Allora subito, nascosto in una portantina con due soli compagni, un pasticciere e un cuoco, si diresse segretamente sull’Aventino alla casa patema. Da qui pensava di rifugiarsi in Campania. Ma dopo un po’, credendo in base a una voce vaga e incerta che la pace fosse stata accordata, acconsentì a farsi riportare a Palazzo. Vi trovò ogni cosa in abbandono, perché anche quelli del suo seguito si stavano dileguando.
Si cinse allora ai fianchi una fascia piena di monete d’oro e si rifugiò nella guardiola del portiere, dopo aver legato il cane davanti alla porta ed essersi barricato col letto e un materasso.
17. Avevano già fatto irruzione i primi drappelli dell’esercito nemico e, non trovando nessun ostacolo sul proprio cammino, frugavano – come avviene – dappertutto. Lo trascinarono fuori dal suo nascondiglio e, senza riconoscerlo, gli domandarono chi fosse e se sapesse dov’era Vitellio. Tentò di ingannarli con una menzogna; ma poi, vistosi scoperto, non la smetteva più di pregarli perché lo prendessero in custodia, e magari in prigione, con la scusa che doveva fare certe rivelazioni e che ne andava della vita stessa di Vespasiano.
Alla fine, con le mani legate dietro la schiena e un laccio passato attorno al collo, seminudo, con la veste a brandelli, fu trascinato verso il foro, fatto segno, per quanto è lunga la Via Sacra, a gesti e parole di ludibrio. Gli torcevano il capo tirandolo per i capelli, come si fa con i criminali, con la punta di una spada premuta sotto il mento perché mostrasse il volto senza abbassarlo. C’era chi gli gettava sterco e fango e chi gli gridava incendiario e crapulone. La plebaglia gli rinfacciava anche i difetti fisici: e in realtà aveva una statura spropositata, una faccia rubizza da avvinazzato, il ventre obeso, una gamba malconcia per via di una botta che si era presa una volta nell’urto con la quadriga guidata da Caligola, mentre lui gli faceva da aiutante.
Fu finito presso le Gemonie 50, dopo esser stato scarnificato da mille piccoli tagli; e da lì con un uncino fu trascinato nel Tevere.
18. Morì, insieme con il fratello e il figlio, all’età di cinquantasette anni. Non era sbagliata la congettura di quanti nell’episodio di Vienne (del quale abbiamo già riferito 51) avevano colto questo presagio: che sarebbe finito in balìa di uno venuto dalla Gallia. In realtà fu sconfitto da Antonio Primo 52 che guidava la fazione avversaria; e costui, nativo di Tolosa, nell’infanzia aveva avuto il soprannome di Becco, che equivale, appunto, a rostro di gallo.