Libro primo

 

Ai primordi, Roma appartenne ai re. Lucio Bruto introdusse la libertà e il consolato. Le dittature venivano assunte temporaneamente, il potere dei decemviri mai per più di due anni né più a lungo il potere consolare dei tribuni militari1.

La dominazione di Cinna e di Silla non ebbe lunga durata; la signoria di Crasso ben presto passò a Cesare, le forze armate di Lepido e di Antonio ad Augusto; questi, con il titolo di principe, assunse il potere supremo dello Stato, stremato dalle guerre civili2.

Ma gli eventi prosperi e le sventure del popolo romano nel tempo antico sono stati consegnati alla memoria da scrittori insigni, né mancarono alti ingegni per narrare i tempi di Augusto; ben presto furono dissuasi dal farlo per Paumento strisciante dell’adulazione. Le gesta di Tiberio, di Caio, di Claudio e di Nerone furono alterate per paura fino a che erano in vita, deformate da odii recenti dopo la loro morte. Sì che io mi sono proposto di narrare pochi atti di Augusto, gli ultimi; indi il principato di Tiberio e gli avvenimenti che seguirono, senza astio né parzialità, poiché l’uno e l’altra mi sono estranei.

 

2. Dopo che, spenti Bruto e Cassio, il popolo non ebbe più armi, Pompeo fu sconfitto nelle acque di Sicilia, Lepido spodestato, Antonio soppresso3, ai seguaci di Giulio Cesare non rimase altro capo che Ottaviano. Deposto il titolo di triunviro, agiva da console; pago della carica di tribuno a tutela della plebe, egli si propiziò le truppe con i donativi, il popolo con le distribuzioni annonarie, tutti con la dolcezza della pace; poco a poco incominciò a salire, a usurpare le funzioni del Senato, dei magistrati, delle leggi; non gli si opponeva alcuno poiché i più fieri erano caduti in battaglia o vittime delle proscrizioni, i nobili rimasti venivano elevati in ricchezze ed onori quanto più disposti a servire; e preferivano la sicurezza del presente ai rischi del passato.

Né si opponevano le province al nuovo regime, poiché quello che era stato il governo del Senato e del popolo ispirava diffidenza per la discordia tra i grandi e la cupidigia dei magistrati; né era più valida la tutela delle leggi, sovvertite dalla violenza, dalla corruzione, infine dalla potenza dell’oro.

 

3. Augusto inoltre, per consolidare la sua signoria, conferì la carica di Pontefice e l’edilità curule al figlio di sua sorella, Claudio Marcello, poco più che adolescente; il consolato per due volte di seguito a Marco Agrippa, di oscuri natali, ma prode in guerra e compagno nella vittoria; alla morte di Marcello, ne fece suo genero; conferì il titolo di imperator ai figliastri, Druso e Tiberio, benché in quel momento la sua famiglia fosse ancora intatta. Vi aveva introdotto i figli di Agrippa, Caio e Lucio, poiché, pur fingendo di ricusarlo, desiderava ardentemente che fossero chiamati «principi della gioventù» e designati consoli, benché non avessero ancora deposto la toga pretesta dei fanciulli4.

Quando venne a mancare Agrippa, morte immatura – o trama della matrigna Livia – rapì Lucio Cesare mentre raggiungeva gli eserciti in Ispagna, Caio mentre rientrava dall’Armenia, sofferente per una ferita. Poiché Druso era già morto da tempo, dei figliastri restava solo Tiberio Nerone; su di lui allora si riversò tutto: adottato come figlio, assunto collega di governo, insignito della potestà tribunicia, in questa veste fu presentato agli eserciti, non, come prima, per occulte manovre della madre, ma per espressa volontà. Livia, infatti, dominava l’animo di Augusto ormai vecchio a tal punto da indurlo a esiliare nell’isola di Pianosa l’unico nipote rimasto, Agrippa Postumo, rozzo in effetti e privo di cultura e stolidamente fiero della sua forza fisica, ma tuttavia non riconosciuto reo di alcuna colpa5.

Inoltre affidò a Germanico, figlio di Druso, le otto legioni sul Reno e ingiunse a Tiberio di adottarlo, benché questi avesse già un figlio giovinetto, ma al fine di poggiare su più di un sostegno.

In quel momento non c’era guerra alcuna, solo durava quella contro i Germani, più per cancellare l’onta dell’esercito perduto con Quintilio Varo che per desiderio di estendere il dominio o per cospicuo profitto. All’interno la situazione era tranquilla, gli stessi i nomi dei magistrati. I più giovani erano nati dopo la vittoria di Azio, gli anziani, per la maggior parte, durante le guerre civili: chi c’era ancora che aveva visto la repubblica?

 

4. Sovvertito dunque l’ordinamento dello Stato, dell’antico e retto costume nulla restava. Tutti, tramontata ormai l’eguaglianza, aspettavano gli ordini del principe, senza inquietudine per il momento, fino a che Augusto nel vigore dell’età sostenne sé, la sua famiglia e la pace. Ma quando, l’età avanzata e le infermità lo indebolirono e parve imminente la fine, rifiorì la speranza; pochi dissertavano a vanvera sui vantaggi della libertà, molti temevano la guerra, altri l’auspicavano. La massima parte con varie dicerie criticava i padroni imminenti: Agrippa Postumo d’indole feroce e inasprito per l’offesa patita, non adeguato a un incarico così importante né per l’età, né per l’esperienza; Tiberio Nerone maturo d’anni, eccellente soldato, ma di antica superbia, congenita nei Claudii; da lui trapelavano molti indizi di crudeltà, benché repressi. Educato sin dall’infanzia in casa di sovrani, colmato da giovane di consolati, di trionfi, negli anni trascorsi da esule a Rodi con l’apparenza di volontario isolamento, altro non aveva maturato che rancore, simulazione e piaceri innominabili; si aggiunga la madre, ambiziosa quanto può esserlo una donna. E dunque si sarebbe dovuto sottostare a una femmina e per di più a due giovani, che intanto avrebbero calpestato lo Stato per poi dilaniarlo.

 

5. Mentre si parlava di queste cose e di altre simili, le condizioni di salute di Augusto si aggravavano e alcuni sospettavano la moglie di assassinio. Poiché s’era sparsa la voce che pochi mesi prima Augusto, confidatosi con pochi e accompagnato dal solo Fabio Massimo, si fosse recato a Pianosa per incontrare Agrippa; ivi, tra lacrime e dimostrazioni reciproche d’affetto, era sorta la speranza che il giovane potesse esser reso alla famiglia dell’avo. Fabio Massimo avrebbe riferito il fatto alla moglie Marcia, questa a sua volta a Livia. Cesare ne sarebbe stato informato. E non molto tempo dopo, spentosi Fabio – non si sa se di morte volontaria – ai funerali si sarebbe udita Marcia accusare piangendo se stessa d’esser stata la causa della morte del marito.

Comunque sia andata, Tiberio era appena arrivato nell'Illirico, quando fu richiamato precipitosamente da una lettera della madre. E non è stato mai chiaro se abbia trovato Augusto in fin di vita, nei pressi di Nola, o già spirato. Livia infatti teneva il palazzo e le vie sbarrate con rigorosa custodia sì che di tanto in tanto correvano voci d’un miglioramento; fino a che, presi i provvedimenti che il momento esigeva, si seppe nello stesso momento che Augusto era deceduto e che Tiberio assumeva il potere6.

 

6. Il primo avvenimento del nuovo principato fu l’assassinio di Agrippa Postumo; benché preso alla sprovvista e inerme, non fu facile al centurione, che pure era uomo d’animo fermo, sopprimerlo. Tiberio in Senato non fé cenno dell’accaduto, fingendo che fosse un ordine del padre, il quale avrebbe ordinato al tribuno incaricato della custodia di non indugiare a uccidere Agrippa, non appena egli fosse giunto al giorno estremo.

Senza dubbio Augusto aveva deplorato amaramente l’indole selvatica del giovane per ottenere che il Senato ne sancisse con un decreto l’esilio, ma non s’era mai spinto fino alla condanna capitale per uno dei suoi, né si poteva credere che avesse voluto spento il nipote per la sicurezza del figliastro; piuttosto che Tiberio e Livia, il primo per paura, la seconda per odio di matrigna, avessero affrettato l’omicidio del giovane, sospetto all’uno, inviso all’altra.

Al centurione che, conforme all’uso militare, gli annunziò d’aver eseguito l’ordine, Tiberio disse di non averglielo ordinato affatto e che si doveva render conto del fatto al Senato. Al che Crispo Sallustio7, che era a parte dei segreti era stato lui a mandare l’ordine scritto al centurione – temendo d’esser ritenuto responsabile, sia che mentisse sia che deponesse la verità, cose egualmente pericolose, ammonì Livia «che non era opportuno mettere in piazza i segreti di famiglia, i pareri degli intimi, gli ordini impartiti ai militari, né svigorire l’autorità del principato di Tiberio con il deferire ogni cosa al Senato. La logica del potere è questa: i conti tornano soltanto se si rendono a uno solo».

 

7. A Roma intanto consoli, senatori, equestri si precipitarono a prestare ossequio, ciascuno quanto più altolocato, tanto più pronto a simulare; atteggiato il volto a non mostrarsi né lieto per la morte del principe né troppo spiacente per l’avvento del nuovo, esprimevano al tempo stesso lacrime ed esultanza, rammarico e adulazione. I consoli Sesto Pompeo, Seio Strabone e Sesto Apuleio giurarono per primi fedeltà a Tiberio; dopo di loro Caio Turrano, quello Prefetto delle coorti pretoriane, questo dell’Annona.

Subito dopo il Senato, l’esercito e il popolo. Tiberio intanto non prendeva una iniziativa se non attraverso i consoli, come al tempo della repubblica, quasi fosse insicuro del suo potere; persino l’editto con il quale convocò i padri nella curia lo promulgò con la sola intestazione dell’autorità tribunicia che aveva ricevuta da Augusto. Breve l’editto e molto misurato: intendeva consultare i senatori a proposito delle onoranze da rendere al padre; quanto a lui, non si sarebbe allontanato dalla salma: questa sola, tra le funzioni pubbliche, si assumeva. Ma, non appena Augusto ebbe chiuso gli occhi, egli dettò la parola d’ordine ai pretoriani da imperatore, pretese sentinelle, armi e tutto ciò che si addice a una corte; si fece accompagnare da armati, sia che si recasse al foro o al Senato. Inviò messaggi agli eserciti come chi è in possesso del principato, mostrandosi esitante solo quando parlava in Senato. La ragione principale consisteva nel timore che Germanico, al comando di tante legioni e immense forze ausiliarie nonché estremamente amato dal popolo, preferisse aver subito il potere, anziché aspettarlo e Tiberio cercava di apparire chiamato ed eletto dalla repubblica, anziché per le manovre d’una moglie e l’adozione d’un vecchio.

In seguito fu chiaro che s’era mostrato incerto per indagare le intenzioni dei notabili; e conservava nella mente espressioni dei volti e parole, interpretandole a loro danno.

 

8. Il primo giorno non permise si parlasse d’altro che delle esequie di Augusto, il cui testamento, recato dalle Vergini Vestali, designò eredi Tiberio e Livia; questa, adottata nella famiglia Julia, assumeva il titolo di Augusta; come secondi eredi, i nipoti e pronipoti, in terzo luogo i cittadini più eminenti, che per la maggior parte gli erano invisi, ma per ostentazione e gloria presso la posterità. Lasciò poi legati all’uso dei privati, tranne che settantacinque milioni di sesterzi alla plebe e al popolo, mille nummi ciascuno ai militari delle coorti pretoriane, cinquecento ciascuno a quelli delle coorti urbane, trecento ai legionari e alle milizie dell’Urbe.

Poi si parlò delle onoranze funebri. Le più solenni parvero quelle proposte da Asinio Gallo, che il feretro passasse sotto l’arco trionfale e, secondo Lucio Arrunzio, lo precedessero i titoli delle leggi emanate e i nomi dei popoli vinti. Valerio Messalla aggiunse la proposta che si rinnovasse ogni anno il giuramento a Tiberio, al che questi gli chiese: te l’ho forse suggerito io? e quello a protestare d’averlo detto di testa sua, ché anzi per tutto ciò che riguardava lo Stato non si sarebbe mai valso d’altra opinione che della propria, anche a rischio di offendere: la sola forma di adulazione che mancava.

I senatori poi a una voce gridarono che il corpo doveva esser portato al rogo su le loro spalle. Cesare acconsentì con misurata alterigia e con un editto ammonì il popolo che non si avventurasse, com’era accaduto per eccessiva devozione, ai funerali del divo Giulio, a voler cremare la salma di Augusto nel Foro anziché in Campo Marzio, luogo deputato a quest’uso8.

Il giorno dei funerali si vide uno schieramento di forze a presidio dell’ordine. Ridevano quelli che avevano assistito personalmente – o l’avevano sentito raccontare dai genitori – a quel giorno di servitù ancora acerba o di libertà recuperata in modo infausto, quando l’assassinio del dittatore Cesare era parso ad alcuni un avvenimento nefasto, ad altri invece estremamente fausto: e ora, ci voleva davvero un servizio d’ordine per far sì che si svolgessero senza incidenti le esequie d’un vecchio principe, che governava già da tanto tempo, con gli eredi già al potere!

 

9. Si fece un gran parlare di Augusto, i più meravigliandosi di cose futili: che fosse morto lo stesso giorno in cui aveva assunto il potere e proprio a Nola, nella stessa casa, nella stessa camera in cui s’era spento suo padre Ottavio. Alcuni celebravano il numero dei suoi consolati, tanti quanti quelli di Valerio Corvo e Caio Mario messi assieme, la potestà tribunicia esercitata ininterrottamente per trentasette anni, il titolo d’imperatore ottenuto ventuno volte e altri onori, ripetuti e nuovi. Le persone di giudizio lodavano o criticavano in vario modo la sua esistenza: per alcuni era stato spinto alla guerra civile dalla devozione verso il padre e dalla situazione della repubblica, nella quale in quel momento non c’era legge che vigesse e, del resto, le guerre civili non si possono né preparare né combattere con mezzi legali. Dicevano che aveva fatto molte concessioni sia ad Antonio sia a Lepido pur di vendicarsi su gli assassini del padre. Mentre questo invecchiava nell’inerzia, quello degenerava nei piaceri, non vi fu altro rimedio alle discordie della patria se non il governo di uno solo. E tuttavia non aveva retto la repubblica da re o da dittatore, ma con il solo titolo di principe; l’impero aveva avuto per confini l’Oceano e fiumi lontani; legioni, province, flotte, composta insieme ogni cosa, regnava il diritto verso i cittadini, la moderazione verso gli alleati; l’urbe stessa splendidamente abbellita; raramente s’era fatto ricorso alla forza, al fine di assicurare la tranquillità di tutti.

 

10. Alcuni al contrario dicevano che la devozione verso il padre e la situazione della repubblica erano state un pretesto; che per avidità di potere mediante largizioni aveva sollevato i veterani, ancora adolescente e semplice privato aveva adunato un esercito, corrotto le legioni del console, simulando d’esser sostenitore del partito di Sesto Pompeo. Poi, quando – a seguito d’un decreto del Senato – aveva usurpato i fasci e i diritti del pretore, caduti Irzio e Pansa, uccisi dal nemico, oppure Pansa per un veleno iniettato nella ferita, Irzio per mano dei suoi soldati per una trama ordita da chi si era impadronito degli eserciti di entrambi. Estorse il consolato, benché il Senato fosse contrario, volse contro la repubblica le armate tolte ad Antonio; la proscrizione dei cittadini, le spartizioni dei campi non furono lodate neppure da quelli che le eseguirono9. Fossero pure Cassio e i due Bruti immolati all’odio del padre, benché sia sacro dovere rinunziare agli odii privati per il bene pubblico, ma Pompeo fu ingannato con una parvenza di pace, Lepido sotto il velo dell’amicizia; quanto poi ad Antonio, adescato con l’accordo di Brindisi e di Taranto e le nozze con la sorella, pagò con la morte quella insidiosa parentela. Indubbiamente, dopo questi fatti vi fu pace, ma grondante sangue: le sconfitte di Lollio e di Varo e a Roma le uccisioni di Varrone, Egnazio e Julo10. Né ci si asteneva dai fatti privati: la moglie portata via a Nerone e consultati per ischerno i pontefici, se potesse sposarsi secondo il rito una donna che aveva concepito ma non ancora partorito; le dissipazioni di Q. Tedio e di Vedio Pollione; e infine Livia, madre funesta per la repubblica, matrigna funesta per la casa dei Cesari.

Non aveva lasciato nulla per le onoranze agli dèi, mentre aveva voluto esser adorato nei templi da flàmini e sacerdoti nell’aspetto d’un dio. Tiberio, inoltre, non l’aveva assunto a successore per affetto o sollecitudine verso la repubblica, ma avendone intuito la boria e la crudeltà, aveva voluto procurarsi gloria attraverso un paragone ignobile. Pochi anni prima, infatti, quando aveva chiesto al Senato di conferire la potestà tribunicia a Tiberio per la seconda volta, benché nel suo discorso gli facesse onore, s’era lasciato sfuggire qualche allusione alle maniere, alla condotta e ai costumi di lui che sembrava volerlo scusare, ma in realtà lo riprovava. Comunque, celebrate le esequie secondo il costume, ad Augusto furono decretati un tempio e culto divino.

 

11. Dopo di che si incominciò a rivolgere preghiere a Tiberio. Ed egli in vario modo dissertava su la vastità dell’impero, su la propria inadeguatezza: soltanto la mente del divo Augusto diceva, era stata capace d’un compito così gravoso. Chiamato da lui a far parte del governo, aveva imparato per esperienza quanto arduo ed esposto ai colpi della sorte fosse il peso del potere. Di conseguenza, in uno stato sorretto da tanti uomini insigni, non si doveva conferire tutti i poteri a uno solo; agli obblighi di governo si sarebbe adempiuto meglio con l’opera solidale di più persone. Un discorso più dignitoso che sincero; in Tiberio, anche quando non mentiva, sia per natura sia per consuetudine, le parole erano sempre ambigue e oscure; quando poi cercava di nascondere il suo pensiero, ancor più cadeva in espressioni esitanti ed equivoche. Ma i senatori avevano una sola paura, che si vedesse che avevano capito; quindi si abbandonarono a lamenti, a lacrime, a suppliche; tendevano le mani agli dèi, alla statua di Augusto, gli stringevano le ginocchia, fino a che Tiberio ordinò che si portasse il quadro dello Stato e se ne desse lettura. Vi erano registrate le forze dell’impero, il numero dei cittadini e degli alleati sotto le armi, le flotte, i regni, le province, le imposte dirette e indirette, le uscite, le largizioni. Dati che Augusto aveva elencati di suo pugno; aveva aggiunto il consiglio di contenere l’impero entro i confini, non è chiaro se per timore o per gelosia.

 

12. Intanto, mentre il Senato scendeva alle implorazioni più umilianti, Tiberio con tono indifferente disse, dato che si sentiva impari al governo di tutto lo Stato, che era disposto ad assumersi quella parte dell’amministrazione che gli venisse affidata. Al che Asinio Gallo disse: «Domando, Cesare, quale parte del governo vorresti ti fosse affidata». Sconcertato da quell’interrogazione improvvisa, rimase per pochi istanti in silenzio; indi, riacquistato il controllo di sé, rispose che non sarebbe stato dignitoso da parte sua scegliere o rifiutare alcunché di quel compito al quale avrebbe preferito sottrarsi interamente. Al che Gallo, che dall’espressione del volto aveva intuito la sua irritazione, disse che non gliel’aveva chiesto affinché dividesse ciò che non era divisibile, ma affinché riconoscesse da sé che il corpo dello Stato è unico e dev’essere retto dall’intelletto d’uno solo. Aggiunse un elogio di Augusto, rammentò a Tiberio stesso le sue vittorie e le azioni civili da lui compiute egregiamente per tanti anni. Ma queste parole non placarono il risentimento di Tiberio, che già lo detestava perché s’era unito in matrimonio con Vipsania, la figlia di Agrippa che era stata sua sposa e forse perché mirava più in alto d’un semplice cittadino, inoltre aveva conservato la tracotanza del padre, Asinio Pollione.

 

13. In seguito, con parole non molto diverse da quelle di Gallo, L. Arrunzio a sua volta gli dispiacque; benché Tiberio non nutrisse alcun risentimento antico contro di lui, l’aveva in sospetto perché ricco, risoluto, dotato di qualità, egregio per riconoscimento unanime. Augusto infatti nei suoi ultimi ragionamenti, quando discorreva di chi avrebbe ricusato di occupare la carica di principe essendone degno, chi la avrebbe voluta ma non era all’altezza, e chi sarebbe stato disposto ad assumere quella carica ed essendone capace, aveva definito M. Lepido idoneo ma noncurante, Asinio Gallo desideroso ma inetto, L. Arrunzio non indegno e, se si fosse presentato il destro, pronto ad osare. A proposito dei primi due non c’è contrasto, ma anziché L. Arrunzio alcuni hanno fatto il nome di Cn. Pisone: tutti, tranne Lepido, ben presto per insidia di Tiberio coinvolti in varie denunce. Anche Q. Aterio e Mamerco Scauro offesero queU’animo sospettoso, Aterio per aver detto: «Fino a quando, Cesare, lascerai la repubblica senza un capo?», Scauro che si poteva sperare non sarebbero state vane le preghiere del Senato, dato che Tiberio non si era valso del diritto di veto alla proposta dei consoli, diritto inerente alla potestà tribunicia. Rispose subito ad Aterio aspramente; lasciò correre in silenzio le parole di Scauro, contro il quale covava un’ira più implacabile. Finalmente, stanco per il clamore di tutti e le preghiere dei singoli, poco a poco cedette, non fino a dichiarare che avrebbe assunto il potere, ma a desistere dal rifiutarlo e farsi pregare. È noto che Aterio, il quale era entrato nel Palazzo per scolparsi, e abbracciò le ginocchia di Tiberio mentre passava, poco mancò che fosse ucciso dalle guardie, poiché Tiberio per caso o perché impacciato dalle mani di lui, era caduto. E tuttavia non apparve placato dal pericolo corso da un uomo così eminente; tanto che Aterio si rivolse ad Augusta e fu protetto dalle sollecite preghiere di lei.

 

14. I senatori rivolsero molte adulazioni anche ad Augusta. Alcuni proposero che la si chiamasse genitrice della patria, altri madre; i più che al nome di Tiberio si aggiungesse il titolo «figlio di Julia». Egli però seguitava a dire che nel dedicare onori alle donne bisognava andar cauti e che egli avrebbe usato la stessa moderazione riguardo a quelli che avrebbero rivolto a lui. In realtà, lacerato dall’invidia, considerava una menomazione di sé l’esaltazione della donna; non permise che le fosse assegnato neppure un littore e vietò l’ara dell’adozione e altri onori del genere. Ma chiese la potestà proconsolare per Germanico Cesare; e furono inviati legati che gli comunicassero la carica e al tempo stesso lo confortassero della morte di Augusto. E se non chiese lo stesso a favore di suo figlio Druso fu perché era designato console e presente. Nominò dodici candidati alla pretura, numero trasmesso da Augusto; e mentre il Senato lo esortava ad aumentarlo, egli si impegnò con giuramento che non l’avrebbe oltrepassato.

 

15. Fu allora che i comizi passarono per la prima volta dal Campo Marzio al Senato. Fino a quel giorno infatti, benché le elezioni più importanti avvenissero a piacere del principe, alcune tuttavia si svolgevano secondo i voti delle tribù.

Il popolo non si lamentò del diritto che gli era stato sottratto se non con parole a vuoto, mentre i senatori, esonerati da largizioni e sollecitazioni umilianti, lo accolsero ben volentieri; Tiberio intanto stabiliva che non avrebbe raccomandato più di quattro candidati, da designare senza rifiuti né brogli11. I tribuni della plebe intanto presentarono la richiesta di celebrare a loro spese i giochi, che dal nome di Augusto fossero aggiunti ai fasti e chiamati Augustali; ma i fondi furono attinti all’erario e fu deciso che i tribuni comparissero nel circo in veste trionfale, senza però l’autorizzazione a farsi portare sul cocchio. In seguito, la celebrazione annuale fu trasferita al pretore incaricato della giurisdizione tra cittadini e stranieri.

 

16. Questa era la situazione nell’Urbe quando scoppiò la rivolta nelle legioni di stanza in Pannonia, non per motivi nuovi, ma perché, mutato il principe, ne conseguirono disordini e dalla guerra civile si speravano profitti. Negli accampamenti estivi soggiornavano contemporaneamente tre legioni, al comando di Giunio Bleso; appresa la morte di Augusto, e l’avvento di Tiberio, in segno di lutto o di letizia questi aveva trascurato le esercitazioni abituali; da questo i militari presero a sfrenarsi, a litigare, a prestare ascolto alle parole dei peggiori, infine a chiedere divertimenti e riposo e rifiutare la disciplina e la fatica. Nell’accampamento c’era un certo Percennio, che era stato impresario di applausi teatrali, poi soldato semplice, di parola facile e abile a provocare tumulti per l’esperienza fatta a teatro. Pian piano di notte incominciò ad accendere l’animo dei più ingenui, i quali dubitavano su la sorte dell’esercito dopo la morte di Augusto; oppure, quando scendeva la sera, e i migliori s’erano allontanati, adunò attorno a sé i peggiori.

 

17. Alla fine, come ebbe sottomano altri promotori di disordini, con atteggiamento da oratore si mise a interrogare i soldati, perché mai obbedivano come schiavi a pochi centurioni e ancor minore numero di tribuni12. Quando avrebbero avuto il coraggio di pretendere condizioni migliori, se non si rivolgevano ora con preghiere o con le armi a un principe nuovo, e non ancora sicuro? Abbastanza s’era peccato di codardia per tanti anni, sopportando, già vecchi e i più mutilati per le ferite, trenta o quarant’anni di servizio! E nemmeno per i congedati aveva fine; trattenuti sotto le insegne, sopportavano le stesse fatiche se pure con nome diverso. E se qualcuno restava in vita dopo tante vicende, veniva trascinato in terre lontane, dove col nome di fondi rustici ricevevano distese di paludi e terre montuose. In effetti il servizio era pesante e tutt’altro che redditizio: anima e corpo erano valutati dieci assi al giorno. Con quella cifra dovevano procurarsi indumenti, armi e tende, nonché placare la durezza dei centurioni e comprarsi l’esonero dai servizi; ma, per Ercole, nerbate, ferite, aspri inverni, estati torride, guerre feroci o paci senza profitto in eterno. Non c’era rimedio se non entrare nell’esercito a condizioni ben chiare: che ciascuno prendesse un denario al giorno, che il servizio avesse termine dopo sedici anni e non si fosse tenuti sotto le armi ancora, ma esser pagati sùbito, al campo. Le coorti dei pretoriani percepivano due denari a testa e dopo sedici anni se ne tornavano a casa; affrontavano forse pericoli più gravi? lunge da lui denigrare le milizie urbane, ma erano loro a vivere accanto a genti feroci e dalle tende si scorgeva il nemico.

 

18. La turba assentiva con clamore, incitata da varie ragioni, questi esibivano le cicatrici delle nerbate, quelli la canizie, la maggior parte gli indumenti logori e il corpo seminudo. Finirono infuriati a tal punto da proporre di fondere tre legioni in una sola. Accesi da emulazione, poiché ciascuno aspirava a quell’onore per la propria legione, mutano proposito e pongono insieme le tre aquile e le insegne delle coorti ed erigono un tumulo di zolle, affinché sia più visibile13. Mentre sono tutti intenti, sopraggiunge Bleso, il quale si mette a rimproverarli, a dissuaderli uno a uno: «Piuttosto macchiatevi le mani col mio sangue!», grida, «sarà meno disonorevole uccidere il vostro capo che ribellarsi all’imperatore! O riuscirò a mantenere incolume la fede delle legioni o sgozzato affretterò il loro pentimento!».

 

19. E tuttavia il tumulo cresceva ed era già all’altezza del petto quando, vinti dalla fermezza del capo, desistettero dall’impresa. Bleso, con molta arte oratoria, disse che le richieste dei soldati non dovevano esser esposte a Cesare con sedizioni e tumulti; che non erano mai state fatte richieste tanto insolite dai veterani agli imperatori precedenti né da loro stessi al divo Augusto; e non era il momento di aggravare le difficoltà d’un principe agli inizii. Se tuttavia insistevano a esporre in tempo di pace pretese quali non avevano osato neppure i vincitori delle guerre civili, perché si proponevano di ricorrere alla violenza, contro il rispetto usato, contro i precetti della disciplina? Scegliessero legati e in sua presenza affidassero loro il mandato. Gridarono a una voce che adempisse a quel compito il tribuno, figlio di Bleso, e chiedesse per i soldati la ferma di sedici anni; gli avrebbero affidato altre richieste, quando le prime fossero state accolte.

Come il giovane fu partito, tornò una relativa calma; e i soldati erano fieri che si fosse fatto interprete della causa comune proprio il figlio del comandante, cosa che dimostrava a sufficienza che con la violenza si era raggiunto ciò che non era stato ottenuto mai con la subordinazione.

 

20. Nel frattempo, i manipoli che erano stati mandati a Nauporto prima che iniziasse la sedizione, al fine di costruire strade, ponti e provvedere ad altre bisogne, come appresero la rivolta scoppiata nel campo, abbattono le insegne, saccheggiano i villaggi vicini e la stessa Nauporto14, che aveva il livello di municipio, oltraggiano i centurioni che cercavano di calmarli con scherni, insulti e alla fine persino con nerbate, particolarmente infuriati contro Aufidieno Rufo, il Prefetto del campo. Trascinatolo giù dal suo cocchio, lo caricano di bagagli, lo spingono alla testa della schiera e per ¡scherno gli chiedono se è contento di portare un carico così pesante per un percorso così lungo. Rufo infatti, che era stato soldato semplice per molto tempo, poi centurione e infine prefetto del campo, ripristinava la dura disciplina d’un tempo, vigilava con rigore su i lavori e le fatiche, tanto più severo in quanto le aveva sopportate.

 

21. Come questi arrivarono, la sedizione si riaccende e gli uomini si sbandano attorno a saccheggiare. Bleso ordina di colpire con le verghe e mettere in carcere alcuni, i più carichi di prede, per spaventare gli altri; fino a quel momento infatti i centurioni e i migliori dei gregari obbedivano ancora al comandante. Ma quelli resistono a chi li trascinava, abbracciano le ginocchia dei presenti, ora ne chiamano alcuni per nome, ora la centuria alla quale ciascuno apparteneva, la coorte, la legione, e gridano che la stessa sorte è imminente per tutti. Al tempo stesso raddoppiano gli insulti contro il comandante, invocano il cielo e gli dèi, non tralasciano nulla per ispirare odio, pietà, paura e sdegno. Accorrono tutti, forzano la prigione, sciolgono le catene e accolgono tra loro i disertori e i condannati a morte.

 

22. La rivolta divampa sempre più forte, si moltiplicano i caporioni. Un soldato semplice, un certo Vibulento, sollevato su le spalle dei compagni davanti al seggio di Bleso, si volse a quegli uomini eccitati e intenti a vedere che cosa si proponeva di fare e disse: «Voi avete restituito la luce e lo spirito a questi infelici innocenti; ma chi renderà a mio fratello la vita, a me il fratello? vi era stato mandato dall'esercito di Germania per trattare degli interessi comuni; ebbene, la notte stessa questi l’ha fatto massacrare dai suoi gladiatori, che tiene in armi per il danno dei soldati. Rispondi, Bleso: dove hai nascosto il cadavere? Quando avrò dato sfogo al mio dolore con baci, con lacrime, ordina che sia trucidato io pure, affinché gli uomini ci seppelliscano insieme, uccisi non per aver commesso un delitto, ma perché ci adoperavamo a vantaggio delle legioni».

 

23. Rendeva ancor più acceso il suo dire col pianto, si percoteva con le mani il petto e il volto. Poi, allontanò quelli che lo sostenevano su le spalle, balzò a terra e prostrandosi ai piedi di ciascuno, suscitò costernazione e furore a tal punto che alcuni dei soldati incatenarono i gladiatori di Bleso, alcuni i suoi schiavi, altri si sparsero alla ricerca del cadavere. E se ben presto non si fosse visto che non si trovava nessun cadavere e gli schiavi, sottoposti a tortura, non avessero dichiarato che non c’era stata alcuna uccisione e che quello non aveva mai avuto un fratello, non sarebbero andati molto lontano dall’assassinare il comandante. Comunque, espulsero i tribuni e il Prefetto dell’accampamento e distrussero i loro bagagli mentre fuggivano e uccisero il centurione Lucilio, al quale i soldati per ischerno avevano appioppato il soprannome: «Un’altra!», perché quando gli si spezzava una verga su la schiena d’un soldato subito a gran voce ne chiedeva un’altra e poi un’altra ancora. Gli altri centurioni si rifugiarono in nascondigli; fu trattenuto uno, Giulio Clemente, ritenuto atto a farsi latore delle richieste dei soldati per la sua prontezza. E già la legione ottava e la quindicesima15 si apprestavano a impugnare le armi, poiché quella chiedeva la morte d’un centurione di nome Sirpico, questa lo difendeva, fino a che intervennero i soldati della nona con preghiere e, con quelli che non li ascoltavano, con minacce.

 

24. Queste notizie indussero Tiberio, ad onta del suo carattere dissimulatore e incline a tacere i fatti spiacevoli, a inviare suo figlio Druso con alcuni notabili e due coorti pretorie, senza un mandato ben preciso ma per provvedere a seconda della situazione; le coorti inoltre rafforzate più del solito con milizie scelte. Si aggiunse gran parte della cavalleria pretoriana e un rinforzo di Germani16, che in quel momento erano addetti come guardie del corpo dell’imperatore, più il Prefetto del Pretorio, Elio Seiano, nominato collega del padre Strabone, molto autorevole presso Tiberio, incaricato di consigliare il giovane e far comprendere agli altri sia i pericoli sia le ricompense. Mentre Druso si avvicinava, gli si fecero incontro i legionari quasi per rendergli omaggio, ma non festanti, come voleva l’uso, né adorni delle loro insegne, ma sudici e trasandati, e sul volto, benché volessero mostrare mestizia, piuttosto un’espressione ostile.

 

25. Come Druso supera la palizzata, gli uomini del seguito rafforzano le porte con sentinelle, ordinano che siano disposti picchetti armati in determinati punti del campo. Tutti in gran numero si affollano attorno al podio. Druso, in piedi, impone silenzio con un cenno. E gli uomini ogni volta che volgevano gli occhi alla moltitudine, levavano grida furenti, quando invece li posavano su Cesare, tremavano: un vago sussurro, un clamore terribile, poi improvvisamente il silenzio; gli animi, turbati da sentimenti contrastanti, provavano terrore e lo incutevano. Finalmente, quando cessò lo strepito, Druso lesse ad alta voce una lettera del padre, nella quale era scritto che il suo primo pensiero era per le valorose legioni, con le quali aveva sostenuto tante guerre e, non appena l’animo suo si fosse ripreso dalla grave perdita, avrebbe trattato con i senatori su le loro istanze. Per il momento, aveva inviato il figlio, affinché senza indugio concedesse tutto quello che era possibile accordare sùbito. Il resto si doveva riserbarlo al Senato. Poiché non era lecito privarlo della parte che gli competeva sia di clemenza sia di rigore.

 

26. Dall’assemblea fu risposto che avevano dato mandato al centurione Clemente di esporre le loro richieste. Questi incominciò a dire che si voleva il congedo dopo sedici anni, i compensi alla fine del servizio, una paga d’un denario al giorno e che i veterani non fossero trattenuti in servizio. Come Druso rispose che su cose simili la decisione spettava a suo padre e al Senato, fu interrotto dalle grida. Che cosa era venuto a fare, se non aveva facoltà né di aumentare la paga dei soldati né di alleviare le loro fatiche e nemmeno di concedere qualche beneficio? Però il potere di infliggere le verghe e la morte, per Ercole, lo avevano tutti. A suo tempo, Tiberio soleva eludere le richieste delle legioni evocando il nome di Augusto: e dunque sarebbero venuti da loro sempre i figli di famiglia? Bel modo di procedere, che l’imperatore deferisse al Senato soltanto i provvedimenti a vantaggio dell’esercito. E allora, bisognava consultare quello stesso Senato tutte le volte che si decidevano condanne o battaglie? O forse le ricompense dipendevano dai padroni e per le punizioni non c’era bisogno dell’autorizzazione di nessuno?

 

27. Finalmente si allontanano dal podio e via via che si trovano davanti uno dei pretoriani o del seguito di Cesare, levano le mani, cercano un pretesto per la rissa e le armi, ostili soprattutto verso Cn. Lentulo, poiché si riteneva che questi, essendo più avanti negli anni e superiore per meriti di guerra, consigliasse fermezza a Druso e fosse il primo a deplorare il pessimo comportamento dell’esercito. Poco dopo, mentre si allontanava da Cesare e, consapevole del pericolo, si avviava verso il campo invernale, lo circondano, gli domandano dove era diretto, se dall’imperatore o dai senatori, per opporsi anche là agli interessi delle legioni; e sùbito gli si stringono addosso, scagliano pietre. E ormai, colpito da un sasso, grondava sangue ed era certo della morte imminente, quando fu salvato dall’accorrere dei militari venuti con Druso.

 

28. Per un caso la notte, che appariva minacciosa e facile a finire con un massacro, trascorse tranquilla: la luna, che splendeva nel cielo sereno, improvvisamente fu vista offuscarsi. I soldati, ignari della causa del fenomeno, lo presero come un presagio che li riguardasse, paragonarono l’eclisse dell’astro alle proprie vicende; si sarebbero concluse felicemente, se alla dea fosse tornato il chiaro splendore. E sùbito si misero a fare strepito con bronzi, trombe e corni, e, secondo se la luna appariva più limpida o più fosca, si rallegravano o si rattristavano; e quando nuvole sùbito sorte la nascosero alla vista e si credette che fosse sprofondata nelle tenebre, facili come sono alla superstizione gli animi già sconvolti, incominciarono a lamentare che si preannunziavano sciagure senza fine e che gli dèi esecravano i loro misfatti. Cesare ritenne di poter trarre vantaggio da quello stato d’animo e far buon uso di ciò che il caso gli offriva, ordinò ad alcuni di aggirarsi tra le tende, e invitò a presentarsi il centurione Clemente e se ce n’era qualche altro ben visto dalla massa per le sue buone qualità. Questi si infiltrano tra le sentinelle di guardia alle porte, lasciano trasparire una speranza, incutono timore: «Fino a quando terremo in stato d’assedio il figlio dell’imperatore? quale sarà l’esito di questo conflitto? presteremo giuramento a Pescennio o a Vibuleno? Saranno loro ad accordare stipendi ai soldati, poderi ai veterani? Insomma, si impadroniranno del potere sul popolo romano in luogo dei Neroni e dei Drusi? Piuttosto, dato che siamo stati gli ultimi a mancare, non vorremo dichiararci pentiti per primi? i postulati esposti per tutti vengono soddisfatti molto lentamente, un privilegio personale invece, appena te lo sei meritato, lo ricevi sùbito». Parole che turbarono gli animi, li indussero a sospettare l’uno dell’altro, dissociarono le reclute dai veterani, una legione dall’altra.

Poi, poco a poco, rinacque il rispetto della disciplina; si allontanarono dalle porte, ricollocarono al loro posto le insegne che dall’inizio della sedizione erano state ammucchiate tutte insieme.

 

29. Non appena si fece giorno, Druso convoca l’assemblea e, benché privo d’arte oratoria, con dignità istintiva deplora quanto era successo, elogia i fatti recenti, afferma che non si lascerà vincere dalla paura e dalle minacce; se li vedrà disposti a cedere, se udrà le loro suppliche, scriverà al padre che accolga benevolmente le preghiere delle legioni. Ed ecco di nuovo i postulanti inviano a Tiberio lo stesso Bleso e L. Aponio, un cavaliere romano della coorte di Druso, e Giusto Catonio, comandante in capo di una centuria. Seguì una discussione, poiché alcuni sostenevano che fosse opportuno aspettare i legati e nel frattempo propiziarsi la truppa con la mitezza, altri invece dover assumere misure rigorose, poiché il volgo non conosce moderazione: se non ha paura, minaccia, se invece è spaventato, lo si può calpestare impunemente. Fino a che li dominava il terrore superstizioso, il comandante doveva aggravare la loro paura togliendo di mezzo i promotori della sedizione. Druso per natura era incline alle misure più aspre; fa chiamare Vibuleno e Percennio e ordina che siano messi a morte. I più narrano che furono sepolti dentro la tenda del comandante; altri che i cadaveri furono gettati al di là del fossato, per essere messi in mostra.

 

30. Allora furono ricercati i principali sobillatori e alcuni, che si aggiravano fuori del campo, furono trucidati dai centurioni o dai soldati delle coorti pretorie, alcuni li consegnarono gli stessi manipoli, per dimostrare la loro fedeltà. Le preoccupazioni dei soldati erano aumentate a causa d’un inverno precoce, con piogge ininterrotte e violente, tanto che non potevano uscire dalle tende né adunarsi tra loro e a stento riuscivano a proteggere le insegne, che venivano travolte dal turbine e dall’acqua. Permaneva anche la paura dell’ira celeste: non per nulla gli astri si eclissavano, imperversavano gli uragani. Non c’era altro rimedio ai mali se non abbandonare l’accampamento infausto e profanato e far ritorno ciascuno ai suoi quartieri d’inverno, dopo essersi purificati con un sacrificio espiatorio. L’ottava legione per la prima, poi la decima quinta se ne andarono; quelli della nona avevano gridato che si aspettasse la lettera di Tiberio, ma dopo la partenza degli altri, sconfortati giunsero spontaneamente alla conclusione ineluttabile e Druso, senza attendere il ritorno dei legati, dato che la situazione per il momento si era abbastanza placata, fece ritorno all’Urbe.

 

31. Quasi negli stessi giorni e per le medesime ragioni si ribellarono le legioni germaniche17 con tanto maggior veemenza quanto più erano numerose e per la forte speranza che Germanico Cesare, non potendo tollerare che l’impero fosse d’un altro, si sarebbe affidato alle legioni che con la forza avrebbero rimesso le cose a posto. Sulla riva del Reno erano schierati due eserciti, su quello di nome Superiore comandava il legato C. Silio e sull'inferiore Aulo Cecina; il comando supremo lo deteneva Germanico, che in quel momento era impegnato nel censimento nelle Gallie18. Gli uomini di C. Silio stavano a osservare con animo irresoluto l’esito della sedizione degli altri. Quelli dell’esercito inferiore invece si ribellarono immediatamente, a cominciare dalle legioni ventunesima e quinta e subito si associarono la prima e la ventesima, che in effetti si trovavano negli stessi quartieri estivi, entro il territorio degli Ubii, senza far nulla o con compiti lievi. Quando appresero che Augusto era morto, il numeroso volgo urbano19 – recentemente era stata fatta una leva nell’Urbe – avvezzo alla licenza, insofferente delle fatiche – prese a incitare gli animi inesperti degli altri: era ora che i veterani avessero il congedo al termine del servizio, i giovani una paga più alta. Tutti infine avrebbero preteso un limite alle loro sofferenze, si sarebbero vendicati della crudeltà dei centurioni. Non era uno solo a dire queste cose, come era accaduto con Pescennio tra le legioni pannoniche, né rivolgendosi a soldati pavidi, che sapevano di avere alle spalle eserciti più validi; qui la sedizione aveva volti, voci innumerevoli: lo Stato romano, dicevano, era nelle loro mani, con le loro vittorie si ampliavano i confini della Repubblica, dal loro nome traevano il soprannome gli imperatori20.

 

32. Il legato non si opponeva; il furore di tutti quegli uomini gli aveva fatto perdere il coraggio. All’improvviso, a guisa di forsennati si gettano con la spada in pugno su i centurioni, oggetto da tempo immemorabile dell’odio dei soldati e motivo della loro ferocia. Li gettano a terra, li colpiscono a bastonate, sessanta contro uno, per pareggiare il loro numero21, poi contusi, feriti e alcuni già morti li gettano davanti al fossato o nel fiume Reno. Settimio, che era fuggito fino al podio e si era prosternato ai piedi di Cecina, chiesero che fosse consegnato a loro per finirlo. Cassio Cherea22, che in seguito acquistò fama presso i posteri per l’assassinio di Caio Cesare, giovanissimo allora e d’animo indomito, si aprì il passaggio tra quelli che gli si opponevano armati. Non riuscirono a mantenere la disciplina né il tribuno né il prefetto del campo; i turni, i posti di guardia e le incombenze che il momento esigeva se li assegnavano da sé. A chi sa indagare a fondo nell’animo dei militari, quello era l’indizio principale d’una ribellione grave e implacabile, poiché non singolarmente né per istigazione di qualcuno, ma tutti nello stesso momento si infuriavano e nello stesso momento tacevano, con tale regolarità e uniformità che avresti creduto che qualcuno li guidasse.

 

33. Intanto fu comunicata a Germanico la notizia della morte di Augusto. Si trovava, come abbiamo detto, nelle Gallie, per raccogliere i dati del censimento. Egli aveva sposato la nipote di Augusto, Agrippina, da lei aveva avuto parecchi figli. Figlio di Druso, il fratello di Tiberio, era nipote dell’Augusta, ma lo tormentava l’odio segreto dello zio e della nonna, odio tanto più intenso quanto più ingiustificato. Nel popolo romano durava viva la memoria di Druso e si riteneva che se fosse stato lui a capo dello Stato avrebbe ristabilito la libertà; di qui le simpatie verso Germanico e la stessa speranza. Il giovane infatti possedeva un carattere mite, una straordinaria affabilità, tutt’altra cosa dall’aspetto e dal parlare di Tiberio, superbo e impenetrabile. Vi erano inoltre malumori femminili della matrigna Livia contro Agrippina, che aveva una natura un po’ troppo impetuosa, ma che per la castità e l’amore del marito compensava le sue intemperanze.

 

34. Ma Germanico, quanto più era vicino alla speranza del sommo potere con tanto maggior premura s’impegnava a favore di Tiberio; gli giurò fedeltà e fece giurare i suoi e le città dei Belgi23. Non appena fu informato della sedizione delle legioni, si affrettò a partire e le incontrò fuori del campo. Tenevano gli occhi a terra, quasi fossero pentiti. Ma come egli attraversò il fossato, si incominciarono a udire lamenti confusi; alcuni gli afferravano la mano come per baciarla, gli introducevano in bocca le dita per fargli sentire che non avevano più denti, altri gli mostravano le membra curve per l’età. All’assemblea che lo circondava in modo promiscuo ordinò che si dividessero in manipoli, ma gli risposero che così lo avrebbero udito meglio. Allora ordinò che si portassero in prima fila i vessilli, in modo da distinguere almeno le coorti. Obbedirono con riluttanza. Incominciò con l’esprimere la sua venerazione per Augusto, indi passò alle vittorie, ai trionfi di Tiberio, illustrando con particolari elogi le gesta di lui in Germania al comando di quelle stesse legioni24. Poi, vantò il consenso unanime dell’Italia e la fedeltà delle Gallie: non v’era nulla, in nessun luogo, che non fosse chiaro e ispirato a concordia. Queste parole furono ascoltate in silenzio o con sommessi mormorii.

 

35. Ma quando giunse alla sedizione e chiese dove fosse mai l’obbedienza militare, dove l’antica fierezza della disciplina e chiese ai soldati dove avessero cacciato i tribuni, dove i centurioni, quelli si denudarono tutti per mostrare le cicatrici delle ferite, i segni delle percosse. Poi, con grida confuse denunciarono il prezzo degli esoneri, la pochezza delle paghe, la durezza dei lavori e li citarono uno ad uno: il fossato, le trincee, il trasporto di foraggio e di legna e tutti gli altri lavori richiesti dalle necessità o dal desiderio di non lasciare in ozio le truppe. Più veemente si levava il clamore dei veterani, i quali rammentavano i loro trenta e più anni di servizio e supplicavano che si portasse sollievo alla loro stanchezza, per non morire in quelle stesse fatiche, che quel servizio militare avesse fine, e riposo non volesse dire fame. Vi fu chi reclamò il denaro dei lasciti del divo Augusto con auspici di felicità per Germanico; ché se avesse voluto l’impero, si dichiaravano pronti. Ma a queste parole, quasi fosse contaminato da un delitto, il giovane prontamente saltò giù dal podio; mentre andava via, gli puntarono contro le armi, minacciandolo, se non tornava indietro. Ma egli, gridando che sarebbe morto anziché mancare alla fede, sfoderò la spada dal fianco e sollevatala se la puntò al petto, se i più vicini afferratagli la mano destra non lo avessero trattenuto con la forza. I più lontani della folla, stretti l’uno all’altro ma, cosa incredibile! anche alcuni che s’erano spinti avanti isolatamente lo incoraggiavano a ferirsi; anzi, un soldato di nome Clausidio gli porse la sua spada sguainata dicendo che era più aguzza, gesto che parve feroce e oltraggioso anche ai più furiosi, e vi fu un momento di sosta, durante il quale Germanico fu trascinato dagli amici nella sua tenda.

 

36. Si tenne consiglio sui provvedimenti da prendere; si sapeva infatti che i soldati stavano preparandosi a inviare messi per coinvolgere l’esercito superiore nella stessa causa; che la città degli Ubii25 era destinata a un massacro e che con le mani colme di prede si sarebbero gettati su le Gallie. L’angoscia era ancor più grave perché i nemici, informati della rivolta scoppiata nel campo romano, se la sponda fosse rimasta indifesa l’avrebbero invasa. D’altro canto, armare gli ausiliari e gli alleati contro le legioni insubordinate significava scatenare la guerra civile. La severità comportava forti pericoli, l’indulgenza era disonorevole. Sia che non si cedesse su nulla sia su tutto, era sempre in pericolo lo Stato. Di conseguenza, valutate le diverse soluzioni, ci si trovò d’accordo di scrivere una lettera a nome dell’imperatore: in essa si sarebbe accordato il congedo a chi aveva vent’anni di servizio, quanto a quelli che ne avevano sedici erano sciolti dal giuramento, ma trattenuti in qualità di vessillari ed esonerati da altri doveri, fuorché da quello di respingere il nemico. I lasciti che avevano chiesto sarebbero stati versati raddoppiati.

 

37. I soldati intuirono che si cercava di guadagnar tempo e sùbito insistettero nelle loro richieste. I congedi vennero rilasciati dai tribuni, i donativi differiti fino a quando si fossero trasferiti ciascuno nel rispettivo quartiere invernale; ma gli uomini della quinta e della ventunesima non si allontanarono fino a che non furono versati i lasciti nel campo medesimo; la somma fu attinta dalla diaria del seguito e dalla cassa di Cesare stesso. Il legato Cecina trasferì dunque le legioni prima e ventunesima nella città degli Ubii e fu una colonna disonorevole, poiché insieme alle aquile e alle insegne veniva portato il denaro estorto al comandante. Germanico si diresse all’esercito superiore, fece prestare giuramento alla seconda, alla tredicesima e alla sedicesima legione, che non fecero obbiezioni. Quelli della sedicesima invece furono un poco riluttanti; ma si offrì loro il congedo e il denaro, benché non lo avessero richiesto.

 

38. Nel territorio dei Cauri26 tentarono una rivolta i vessillari delle legioni ribelli che occupavano il presidio; ma l’esecuzione immediata di due soldati, ordinata dal Prefetto del campo, Manio Ennio, più per dare un utile esempio che in ossequio a un diritto riconosciuto, giovò a moderarli. Poi, mentre la sommossa aumentava, egli si dette alla fuga; fu scoperto e, non sentendosi protetto da un nascondiglio, preferì agire con audacia. Il loro comportamento, disse, non offendeva il Prefetto, ma il capo dell'esercito, Germanico, e l’imperatore, Tiberio. Quelli che gli erano ostili rimasero atterriti; ed egli, strappata dalle loro mani l’insegna, si diresse verso la riva gridando che se qualcuno si fosse allontanato sarebbe stato ritenuto disertore; così li ricondusse ai quartieri d’inverno, adirati, ma senza più nulla osare.

 

39. Intanto raggiungono Germanico, ormai rientrato presso l’ara degli Ubii, gli inviati del Senato. Svernavano qui due legioni, la prima e la seconda e i veterani recentemente congedati, rimasti sotto le bandiere. Intimoriti, consapevoli d’aver agito male, furono colti dalla paura che quelli fossero venuti con l’ordine dei padri di annullare quanto era stato ottenuto con la sedizione. Il volgo infatti ha sempre bisogno di incolpare qualcuno, anche senza ragione; accusano il capo della legazione, l’ex console Munazio Planco, d’aver sollecitato l’ordine del Senato. Di notte dunque si mettono a reclamare il vessillo, che si trovava in casa di Germanico27; accorrono numerosi alla sua porta, ne forzano i battenti, strappano Germanico dal letto, lo costringono a consegnare il vessillo, minacciandolo di morte. Poi, si disperdono per le strade. Incontrano i legati, i quali, udita la sommossa, accorrevano presso Germanico. I soldati li coprono di ingiurie e stavano quasi per trucidarli, in ispecie Planco, al quale la dignità della carica aveva impedito la fuga e in quel momento di pericolo non aveva trovato altro rifugio che l’accampamento della prima legione. Qui giunto, abbracciò l’aquila e le insegne28, sperando d’esser protetto dal prestigio sacro di esse e se l’aquilifero Calpurnio non avesse impedito che fosse consumata su di lui la violenza estrema – gesto molto raro anche tra nemici – un legato del popolo romano in un accampamento romano avrebbe macchiato del suo sangue le are degli dèi. Al mattino finalmente, quando furono individuati il capo, i soldati e note le loro azioni, Germanico ordina che Planco sia condotto da lui e lo accoglie sul podio. Qui fortemente si duole dell’ira fatale non tanto dei soldati quanto degli dèi che tornava a divampare e rivela per quale ragione erano arrivati i legati; con nobili parole deplora l’offesa rivolta al loro diritto, il grave e immeritato pericolo corso da Planco e al tempo stesso a quale disonore si sia esposta la legione. Indi, lasciata l’assemblea più attonita che soddisfatta, congeda i legati con una scorta di cavalieri ausiliari.

 

40. In quel momento di pericolo, tutti deplorarono Germanico per non essersi recato presso l’esercito superiore, dove avrebbe trovato obbedienza e aiuto contro i ribelli. Già erano stati commessi abbastanza errori, con il concedere congedi e denaro e molte altre deliberazioni. Se egli teneva a vile la propria salvezza, perché teneva il piccolo figlio29, la sposa incinta tra quei forsennati, violatori d’ogni diritto umano? rendesse almeno loro all’avo e alla repubblica30. Egli esitava, ma gli resisteva la sposa, che dichiarava d’esser discendente del divo Augusto e non degenere di fronte al pericolo; infine, dopo aver coperto di baci il grembo di lei e il figlioletto, piangendo la indusse a partire.

Partì dunque la pietosa schiera delle donne, fuggiasca la sposa del comandante col bimbo tra le braccia; attorno a lei piangenti le consorti degli amici, condotte via assieme. Né erano meno tristi quelli che restavano.

 

41. Lo spettacolo non di Cesare glorioso nel suo accampamento ma quasi d’una città vinta, i pianti e i lamenti delle donne richiamano l’udito e l’attenzione dei soldati che, usciti dalle tende, si avvicinano. Che cosa significano quei gemiti? che cosa avviene di tanto doloroso? Donne illustri non hanno un centurione, nemmeno un soldato a proteggerle, nulla del seguito che si usa per la moglie del comandante. Si dirigono verso il territorio dei Treviri31, si affidano alla fedeltà di gente straniera. I soldati provarono vergogna e pietà, al ricordo di Agrippa, il padre di lei, dell’avo Augusto, del suocero Druso32, di lei stessa madre feconda e famosa per la castità, alla vista del bambino, nato nell’accampamento, cresciuto tra le tende dei legionari che con un soprannome militare lo chiamavano Caligola, perché spesso, per conciliargli l’affetto della truppa, gli facevano indossare le loro stesse calzature33.

Ma nessuna cosa influì su di loro più che la gelosia dei Treviri. Oppongono resistenza, pregano che torni indietro, che rimanga; alcuni sbarrano il passo ad Agrippina, i più tornano da Germanico; ed egli, ancora sconvolto dal dolore e dall’ira, si rivolse a quelli che gli si facevano attorno con queste parole:

 

42. «Né la sposa né il figlio mi sono cari più del padre, più dello Stato; ma il primo sarà difeso dalla sua stessa maestà, l’impero romano dagli altri eserciti. Mia moglie, i miei figli li offrirei in olocausto senza esitare per la gloria vostra; e ora li mando lontano da uomini in preda al furore, affinché quale che sia il crimine che ci minaccia sia espiato soltanto con il mio sangue e non aggravi la vostra scelleratezza l’aver ucciso il pronipote di Augusto, aver assassinato la nuora di Tiberio. Che cosa non avete osato in questi giorni, che cosa non avete profanato? con quale titolo chiamerò questa adunata? potrò chiamare soldati quelli che hanno assediato con armi e trincee il figlio dell'imperatore? chiamerò cittadini quelli che hanno calpestato l’autorità del Senato? Avete infranto quella che è legge anche tra i nemici, la santità della legazione, il diritto delle genti. Il divo Giulio placò con una sola parola una sedizione di soldati, chiamò Quiriti quelli che venivano meno al giuramento prestato34; al divo Augusto bastò la presenza e lo sguardo per incutere terrore alle legioni35 aziache. Se un soldato di Spagna o di Siria osasse offendere noi, che non siamo ancora pari a quelli ma da loro discendiamo, sarebbe cosa inaudita, vergognosa; e ora, è la legione prima, che ha ricevuto da Tiberio le insegne! è la ventesima, compagna di tante battaglie, adorna di tante decorazioni, siete voi a dimostrare una bella riconoscenza davvero al vostro capo! Sono queste le notizie che recherò a mio padre, che dalle altre province ne riceve di tanto liete! gli dirò che le sue reclute, i suoi veterani non si accontentano del congedo, dei donativi, che soltanto qui si uccidono i centurioni, si scacciano i tribuni, si mettono in carcere i legati, si macchiano di sangue il campo, i fiumi; e che io trascino un’esistenza insicura tra uomini ostili.

 

43. Perché dunque, incauti amici, m’avete tolto di mano l’arma che stavo per immergermi in petto il primo giorno dell’adunata? Fu migliore, fu più vero amico colui che mi porse la sua spada: sarei caduto prima di sapere che il mio esercito s’era macchiato di tante infamie. Voi avreste scelto un altro capo; certo, avrebbe lasciato impunita la mia morte, ma almeno avrebbe vendicata quella di Varo e delle sue tre legioni. E non permettano gli dèi che torni a onore e vanto dei Belgi, benché l’abbiano proposto, d’esser loro a tenere alto il nome di Roma, a respingere i popoli della Germania. Il tuo spirito, divo Augusto, accolto in cielo, la tua immagine, la memoria di te, padre Druso, fate che siano loro, questi stessi soldati, nei quali ormai ritorna la dignità, l’amore della gloria, a cancellare quell’onta e volgere a sterminio dei nemici le discordie civili. Voi pure, che vedo con volto e animo mutato, se volete rendere i legati al Senato, a me la sposa e il figlioletto, liberatevi da questo contagio, allontanate da voi i rivoltosi. Sarà questo il segno duraturo del vostro pentimento, il vincolo della vostra fede».

 

44. Come ebbe finito di parlare, gli uomini, con voci supplichevoli, riconobbero che le sue rampogne erano fondate e lo sollecitarono a punire i responsabili, a perdonare quelli che s’erano lasciati traviare, a guidarli contro il nemico. Che richiamasse la sposa, che tornasse il bimbo cresciuto in mezzo alle legioni e non fosse consegnato ai Galli, quasi fosse un ostaggio. Germanico rispose che Agrippina non poteva tornare, perché erano imminenti il parto e l’inverno. Sarebbe tornato il bambino. Quanto al resto, ci pensassero loro. Sùbito trasformati, gli uomini si mettono a correre di qua e di là, trascinando i più facinorosi in catene al cospetto del legato della prima legione, Caio Cetronio, il quale sottopose ciascuno di loro al giudizio e alla pena nel modo seguente: le legioni stavano schierate come per un’adunanza, le spade sguainate; il reo, fatto salire su un tumulo, veniva presentato dal tribuno. Se tutti lo denunciavano come colpevole, veniva scaraventato giù e massacrato. I soldati gioivano di quelle uccisioni, quasi per assolvere se stessi e Cesare non fece nulla per impedirle, dato che non c’era stato alcun ordine da parte sua e di conseguenza la ferocia, l’aberrazione di quel procedimento ricadeva su di loro. I veterani applicarono la stessa procedura e dopo non molto tempo furono mandati nella Rezia36, con la scusa di difendere quella regione su la quale incombevano gli Svevi, in realtà per allontanarli da quell’accampamento ancora sinistro per la crudeltà della repressione tanto quanto per la memoria della colpa. Germanico poi esaminò i centurioni. Ciascuno presentandosi al comandante dichiarava il nome, il grado, la patria, gli anni di servizio, i meriti di guerra, le decorazioni guadagnate, se ne aveva. I tribuni e i legionari che dichiaravano i propri meriti e la propria innocenza, conservavano il posto; se però i soldati all’unanimità ne denunciavano l’avidità e la ferocia, venivano dimessi dall’esercito.

 

45. Per il momento la situazione sembrava quietata; ma perdurava un problema di non minore entità: il furore della quinta legione e della ventunesima, che svernavano a sessanta miglia di distanza in una località detta Vetera37.

Erano stati gli uomini di quelle due legioni infatti a dare inizio alla sedizione, i crimini più atroci li avevano commessi loro con le loro mani, né li placava la paura delle pene subite dai commilitoni, né si inducevano al pentimento.

Cesare intanto si apprestava a far scendere lungo il Reno una flotta con armi e alleati, deciso a combattere se i Germani avessero rifiutato di sottomettersi.

 

46. A Roma intanto non si sapeva ancora come si fosse conclusa la situazione nell'Illirico, quando arrivò la notizia che si erano ribellate le legioni di Germania. La cittadinanza spaventata accusava Tiberio perché con le sue simulate esitazioni si prendeva gioco del Senato e del popolo, deboli entrambi e inermi, e intanto i soldati si ammutinavano; né poteva tenerli a freno l’autorità ancora insicura di due adolescenti. Avrebbe dovuto recarsi lui di persona a imporre la maestà imperiale ai ribelli; se si fossero trovati davanti un principe di lunga esperienza, in grado di usare rigore e clemenza, si sarebbero piegati. Augusto già avanti negli anni era andato molte volte in Germania mentre Tiberio, ancora vigoroso, se ne stava a sedere in Senato, a cavillare su le parole dei senatori. Per opprimere la libertà dei cittadini era già stato fatto abbastanza; ora era urgente calmare gli animi della truppa e indurli a sopportare la pace.

 

47. Queste voci però non indussero Tiberio a muoversi. Rimase impassibile e fermo nel proposito di non allontanarsi dall’Urbe e non esporre al pericolo se stesso e lo Stato. Indubbiamente, aveva molte e diverse ragioni di angoscia: l’esercito di Germania era più forte, quello di Pannonia più vicino. Il primo poteva contare su le forze galliche, il secondo incombeva su l’Italia: quale dei due anteporre? In quelli che sarebbero stati posposti sarebbe esplosa la furia. Attraverso i figli38 poteva trovarsi alla pari presso gli uni e gli altri e conservare intatta la sua maestà, cui anzi la lontananza conferiva prestigio. Ai giovani, allo stesso tempo, si poteva perdonare se deferivano qualche decisione al padre. Se poi Germanico e Druso avessero incontrato resistenza, era in suo potere calmare i rivoltosi o sopprimerli; ma se questi avessero tenuto in dispregio l’imperatore, quale rimedio sarebbe rimasto? Comunque, nominò alcuni per accompagnarlo, come se fosse in procinto di partire, raccolse bagagli, fece allestire navi. Poi, adducendo varie ragioni, ora l’inverno ora i suoi impegni, riuscì a ingannare sia le persone avvedute, poi il popolo e per molto tempo le province.

 

48. Germanico intanto, pur avendo adunato l’esercito ed eseguita la punizione dei ribelli, ritenne opportuno frapporre ancora qualche tempo affinché l’esempio recente inducesse gli uomini a riflettere su la propria sorte. Quindi mandò una lettera a Cecina per annunciargli il suo arrivo con forze ingenti; se i rei non avessero già subito la pena, egli avrebbe usato la decimazione.

Cecina riferisce in segreto queste cose agli aquiliferi, ai segniferi ed a quanti erano incolpevoli nel campo; li esorta a sfuggire al disonore per tutti e per se stessi alla morte: poiché in tempo di pace si tien conto delle ragioni e dei meriti, ma quando incombe la guerra vanno di mezzo colpevoli e innocenti. Questi indagano il sentire di quelli che ritenevano adatti; e constatano che la legione era in gran parte propensa all’obbedienza. Quindi, d’accordo con il legato, fissano il momento in cui si getteranno armi in pugno su i più facinorosi e pronti a insorgere. Poi, a un dato segnale, irrompono nelle tende, e massacrano i compagni ignari; nessuno, tranne quelli che erano a conoscenza dell’accordo, sapeva come fosse iniziata la strage né quando avrebbe avuto fine.

 

49. Ciò che accadde non aveva precedenti in alcun conflitto civile: non in battaglia, non usciti da accampamenti opposti, ma dagli stessi giacigli, quelli che il giorno aveva visti uno accanto all’altro a mensa, la notte insieme a riposare, si dividono come nemici, si affrontano con le armi. Urla, ferite, sangue sono evidenti, ma non si conosce la causa e tutto dipende dal caso.

Furono trucidati anche alcuni dei buoni, poiché quando ci si rese conto contro chi si infieriva, anche i ribelli afferrarono le armi. Né si interpose un tribuno, un legato per moderarli: alla massa fu permesso di abbandonarsi a ogni licenza e saziarsi di vendetta. Germanico, entrato poco dopo nel campo, disse tra le lacrime che quella non si poteva chiamare una punizione, ma una strage; e ordinò che fossero cremati i cadaveri.

Gli animi ancora in preda al furore, presi dalla brama di marciare contro il nemico, erano certi che in nessun modo avrebbero potuto placare i Mani dei compagni se non ricevendo nei loro petti malvagi onorate ferite. Cesare asseconda il loro ardire e, gettato un ponte, vi fa transitare dodici mila legionari, ventisei coorti di alleati, otto ali di cavalieri; durante la sedizione questi erano rimasti perfettamente disciplinati.

 

50. I Germani vivevano spensierati poco lontano, mentre noi eravamo inattivi per il lutto della morte di Augusto e per le discordie; ma i Romani tagliano con rapida marcia la selva Cesia e il confine tracciato da Tiberio39, piantano le tende lungo la linea, scavando un fossato sul fronte e alle spalle, disponendo alberi abbattuti su i lati. Di qui attraversano foreste oscure, consultandosi se percorrere dei due sentieri quello solito e conosciuto oppure l’altro, più arduo e mai percorso e per questa ragione non vigilato dai nemici. Preferiscono il cammino più lungo e si affrettano perché gli esploratori avevano riferito che per i Germani era notte di festa e di lussuosi banchetti. Cecina riceve l’ordine di portarsi all’avanguardia con coorti leggere e di aprire un varco nella foresta; le legioni seguono a breve distanza. Giovò la notte luminosa di stelle; giunsero ai villaggi dei Marsi40 e accerchiarono le loro posizioni mentre questi erano sdraiati sui giacigli accanto alle mense, senza alcun timore e senza aver neppure disposto sentinelle: tutto era incustodito per incuria senza alcun pensiero di guerra; non si poteva nemmeno chiamare pace, ma la rilassatezza e la mollezza di uomini avvinazzati.

 

51. Cesare divide in quattro colonne le legioni affinché il saccheggio avvenga più esteso e devasta a ferro e a fuoco un’area di cinquanta miglia. Non furono risparmiati né i vecchi né le donne; ed è raso al suolo il sacro e il profano e persino il tempio, venerato tra quelle genti, che chiamavano di Tanfania41.

I soldati tornarono illesi, dopo aver massacrato uomini semiaddormentati, inermi o dispersi. Quell’eccidio aizzò Brutteri, Tubandi e Usipeti e si appostarono nelle selve che l’esercito doveva attraversare al ritorno. Ne fu informato il comandante e predispose ogni cosa per il percorso e per lo scontro. All’avanguardia marciava una parte della cavalleria e le coorti ausiliarie, poi la prima legione, nel mezzo le salmerie; gli uomini della ventunesima legione proteggevano il fianco sinistro, quelli della quinta il destro, la ventesima copriva la retroguardia, poi venivano gli altri alleati. Ma i nemici, che non s’erano mossi fino a che le truppe avanzavano attraverso le foreste e s’erano limitati a lievi attacchi ai lati e alla fronte, aggredirono con tutta la loro forza la retroguardia. Le folte schiere dei Germani sconvolsero le coorti leggere, quando Germanico, a briglia sciolta verso la ventesima legione, gridò a gran voce che era giunto il momento di cancellare l’onta della sedizione: che seguitassero a combattere e trasformassero le colpe in onore. A queste parole, si accendono gli animi e con un solo impeto irrompono sul nemico, lo spingono allo scoperto, fanno un massacro.

I soldati dell’avanguardia intanto uscirono dalle foreste e piantarono l’accampamento. Di lì in poi il cammino fu indisturbato e i soldati, rinfrancati per il successo e ormai dimentichi del passato, si stabilirono nei quartieri invernali.

 

52. Quando a Tiberio furono comunicati questi avvenimenti, provocarono in lui gioia e ansietà. Gioiva per il fatto che la rivolta fosse stata sedata, ma si preoccupava che Germanico si fosse propiziato l’animo della truppa largheggiando nei donativi e anticipando i congedi; lo turbava inoltre la sua gloria militare. Tuttavia riferì al Senato le sue gesta e ne lodò molto il coraggio, ma con parole troppo ricercate per poter credere che fossero sincere. Nell’elogio di Druso, che aveva sedato la rivolta nell'illirico, si espresse più brevemente, ma con accenti più convinti e sentiti. Mantenne le concessioni fatte da Germanico anche per le legioni della Pannonia.

 

53. Quello stesso anno si spense Giulia, che il padre Augusto aveva relegato nell’isola di Pandataria42 e poi nella città di Reggio su lo stretto di Sicilia per la sua condotta immorale. Era stata moglie di Tiberio quando erano ancora in vita i Cesari Gaio e Lucio e lo aveva disprezzato come inferiore; e fu questa la ragione profonda che indusse Tiberio a ritirarsi a Rodi. Salito al potere, la lasciò morire di stenti e di lunga malattia, bandita, disonorata e, dopo la morte di Agrippa Postumo, senza più alcuna speranza; riteneva che, dopo un esilio così prolungato, la sua fine sarebbe passata inosservata. Lo stesso motivo lo indusse a infierire contro Sempronio Gracco, di famiglia nobile, d’ingegno vivace e di nefasta eloquenza; questi aveva indotto all’adulterio Giulia mentre era ancora in vita Marco Agrippa, né la sua perversa passione aveva avuto fine quando ella era andata sposa a Tiberio; il pervicace amante la istigava all’alterigia e all’odio contro il marito. Anzi, si credeva che la lettera scritta da Giulia al padre Augusto, nella quale si esprimeva in termini oltraggiosi verso Tiberio, fosse stata composta da Gracco. Deportato a Cercina, isola del mare africano, sopportò l’esilio per quattordici anni. I soldati inviati per ucciderlo lo trovarono sulla riva d’un promontorio, come chi non ^’aspetta nulla di buono; quando sbarcarono, chiese che gli concedessero qualche momento per scrivere in una lettera alla moglie Alliaria le sue ultime volontà, poi porse il capo ai carnefici, mostrandosi nel morire non indegno del nome Sempronio, del quale vivendo s’era mostrato degenere. Alcuni poi hanno raccontato che quei soldati non erano stati mandati da Roma, ma dal proconsole d’Africa, L. Asprenate, per ordine di Tiberio, il quale aveva sperato invano che ricadesse su Asprenate la responsabilità di quell’assassinio.

 

54. L’anno stesso furono istituiti nuovi culti, ai quali fu aggiunto un collegio di sacerdoti Augustali; così aveva fatto Tazio un tempo, quando, per conservare i riti dei Sabini, aveva istituito l’ordine dei Tizii. Furono tirati a sorte ventuno tra i notabili della città, ai quali furono aggiunti Tiberio, Druso, Germanico e Claudio. I ludi augustali, però, appena inaugurati, furono turbati da un dissidio dovuto alla rivalità tra gli istrioni. Augusto aveva accondisceso a questo genere di divertimenti per far piacere a Mecenate, pazzo d’amore per Batilli; né del resto gli erano sgraditi e riteneva un gesto da cittadino partecipare ai piaceri del volgo. La linea etica di Tiberio era diversa; ma non si azzardava a imporre una condotta più severa a un popolo che per tanti anni era stato avvezzo a una rilassatezza di costumi.

 

55. Sotto il consolato di Druso Cesare e di C. Norbano, benché la guerra durasse ancora, fu decretato il trionfo per Germanico. La guerra si preparava con molta diligenza per l’estate, ma fu anticipata all’inizio della primavera con un attacco improvviso contro i Catti43. Germanico in effetti aveva contato sul fatto che i nemici si sarebbero divisi, parte per Arminio, parte per Segeste, segnalati l’uno e l’altro, il primo per l’odio contro di noi, il secondo per la lealtà. Mentre Arminio aizzava la Germania contro di noi, Segeste varie volte ci aveva messo in guardia in vista d’una rivolta imminente; nell’ultimo banchetto, dopo il quale avevano avuto inizio le ostilità, egli aveva cercato di persuadere Varo a mettere in catene Arminio e gli altri notabili: tolti di mezzo i capi, la plebe non avrebbe osato far nulla; per di più, Varo avrebbe avuto la possibilità di distinguere gli individui pericolosi da quelli inoffensivi. Ma Varo cadde per il fato e la forza di Arminio e Segeste, costretto alla guerra dalla volontà del popolo, era rimasto contrario anche per moventi di astio privato: Arminio infatti gli aveva rapito la figlia, già promessa a un altro. Genero inviso d’un suocero ostile, quei legami che esistono tra persone dello stesso sentire rappresentavano invece uno stimolo all’odio.

 

56. Germanico dunque affidò a Cecina quattro legioni, cinquemila ausiliari e torme arruolate in fretta di Germani residenti al di qua del Reno; ed egli si mise alla testa di altrettante legioni, e d’un numero doppio di alleati. Costruì un forte sopra le rovine d’una fortezza eretta da suo padre sul monte Tauno; velocemente, con l’esercito senza bagagli, si precipita su i Catti, lasciando Apronio a rinforzare strade e fiumi. Era riuscito ad affrettare la marcia senza difficoltà a causa della siccità e della magra dei fiumi, fenomeno insolito in quei climi, ma temeva le piogge e le piene per il ritorno. Piombò su i Catti talmente inaspettato che tutti quelli che per il sesso o l’età erano incapaci di resistere furono catturati o uccisi. I giovani avevano attraversato a nuoto il fiume Adrana44 e ostacolavano la costruzione d’un ponte che i Romani avevano iniziato. Ma, respinti da missili e dardi, chiesero invano condizioni di pace; quindi alcuni si rifugiarono presso Germanico, altri abbandonarono borghi e villaggi e si dispersero nelle foreste. Cesare dette alle fiamme Mattio45, la loro capitale e, devastati i campi, si diresse verso il Reno, senza che il nemico osasse molestare alle spalle l’esercito mentre si allontanava, com’era suo costume più che per paura, tutte le volte che si ritirava da una città. I Cherusci avevano avuto l’intenzione di aiutare i Catti, ma li dissuase Cecina volgendo le armi in varie direzioni; i Marsi, che avevano osato attaccarlo, li respinse con un fortunato combattimento.

 

57. Non molto tempo dopo arrivarono legati da parte di Segeste a implorare aiuto contro il furore dei suoi, dai quali era assediato, poiché per loro valeva l’autorità di Arminio e questi li incitava alla guerra: per i barbari infatti quanto più un uomo è risoluto e audace tanto più ispira fiducia nei momenti difficili. Insieme ai legati Segeste aveva mandato il figlio Segimondo; ma il giovane era infido, poiché l’anno della rivolta germanica, nominato sacerdote presso l’ara degli Ubii, s’era strappato le bende ed era fuggito presso i ribelli. Ciononostante, indotto a sperare nella clemenza romana, portò il messaggio del padre e, ricevuto con benevolenza, fu mandato con una guarnigione su la riva gallica. Germanico opinò che fosse vantaggioso far ripiegare l’esercito; si combattè contro gli assedianti e Segeste fu liberato insieme a numerosi parenti e clienti. V’erano tra loro anche donne di nobile stirpe, tra le quali la figlia di Segeste, sposa di Arminio; essa condivideva i sentimenti del marito più che quelli del padre. Non si abbandonò alle lacrime né chiese pietà, rimase immobile, le mani strette tra le pieghe della veste, fissi gli occhi al ventre gravido. Furono portate anche alcune spoglie della strage di Varo, che erano state date come preda a molti di quelli che in quel momento si arrendevano. C’era tra loro lo stesso Segeste, figura imponente, senza paura perché memore dei suoi buoni rapporti con i Romani.

 

58. Tali furono le sue parole: «Non è la prima volta che dichiaro la mia ferma lealtà al popolo romano. Da quando il divo Augusto mi concesse la cittadinanza, ho fatto una scelta tra amici e nemici conforme al vostro vantaggio e non per odio verso la patria – poiché i traditori sono invisi anche a quelli a cui giovano – ma perché ero convinto che Germani e Romani avessero interessi comuni e ho sempre preferito la pace alla guerra. Per questa ragione denunciai a Varo, che allora comandava l’esercito, l’uomo che ha rapito mia figlia ed è venuto meno all’alleanza con voi, Arminio.

Per l’indolenza del comandante la cosa fu differita e io, dato che era ben poca la forza delle leggi, scongiurai Varo di mettere in carcere me, Arminio e i complici: lo prova quella notte; e volesse il cielo che fosse stata l’ultima per me! Ciò che avvenne in seguito si può piangere più che giustificare. Misi Arminio in catene, ma fui catturato a mia volta dalla sua banda. Ora, dato che ho facoltà di parlarti, dichiaro che preferisco la situazione passata a quella presente e la pace ai conflitti e non per ottenere un premio ma per esprimerti il mio rammarico per il tradimento e al tempo stesso presentarmi come intermediario al popolo germanico, se preferirà pentirsi anziché correre alla sua rovina. Chiedo perdono per l’errore giovanile di mio figlio e dichiaro che mia figlia è stata condotta qui suo malgrado: sta a te giudicare se è più importante per lei essere incinta di Arminio o generata da me».

Cesare rispose con benevolenza che prometteva incolumità ai suoi figli e parenti e offrì a lui una sede nell’antica provincia di Germania. Fece rientrare l’esercito e, per ordine di Tiberio, assunse il titolo di imperatore. La sposa di Arminio mise al mondo un figlio maschio; dirò in seguito come questo giovinetto, educato a Ravenna, sia poi divenuto zimbello della sorte.

 

59. La notizia della resa di Segeste e della benevolenza con la quale era stato ricevuto si diffuse immediatamente e fu appresa con speranza da quanti erano contrari alla guerra, con dispetto da quelli che erano favorevoli. In Arminio accendevano ancor più i bollenti spiriti la cattura della sposa e il figlio già soggetto a schiavitù nel grembo materno. Percorreva velocemente il territorio dei Cherusci, facendo appello alle armi contro Segeste, contro Germanico. Né si asteneva dalle ingiurie: che padre egregio, che grande imperatore, che forte esercito! quante forze erano state necessarie per catturare una fragile donna! Davanti a lui erano cadute tre legioni e altrettanti capi; ed egli non si batteva col tradimento né contro donne incinte, ma a viso aperto, contro uomini in armi. Nei boschi della Germania si vedevano ancora le insegne romane, che egli aveva appeso, dedicandole agli dèi della patria. Segeste poteva abitare la riva assoggettata e reintegrare il figlio nel sacerdozio d’un culto di esseri umani. I Germani non avrebbero mai potuto giustificarsi perché tra l’Elba e il Reno si vedevano le verghe e le scuri e le toghe romane. Agli altri popoli non aver conosciuto l’impero romano significava non aver mai saputo che cosa fossero i supplizi né aver conosciuto i tributi. Ma essi se ne erano liberati e aveva dovuto ritirarsi deluso quell’Augusto asceso tra i numi e quel Tiberio da lui prescelto. Ora, essi non dovevano aver paura d’un ragazzetto inesperto né d’un esercito sedizioso. Se amavano di più la patria, i loro maggiori, l’antico costume, che non i padroni e le colonie, seguissero Arminio, la gloria, la libertà, piuttosto che Segeste e un ignominioso servaggio.

 

60. A queste parole si sollevarono non solo i Cherusci, ma anche le popolazioni confinanti e fu tratto dalla parte di Arminio lo zio Inguiomero, che un tempo godeva di autorità presso i Romani, il che accrebbe i timori di Cesare. Onde evitare che il peso della guerra ricadesse tutto su un punto solo, mandò Cecina con quaranta coorti romane attraverso il territorio dei Brutteri fino al fiume Amisia46 al fine di operare una diversione, mentre il prefetto Pedone conduceva la cavalleria nella zona dei Frisii47, ed egli, imbarcate quattro legioni, le trasportò attraverso i laghi, sì che fanti, cavalleria e navi si trovarono tutti nei pressi del suddetto fiume. I Catti, che avevano promesso ausiliari, furono chiamati a far parte dell’esercito. Per ordine di Germanico, L. Stertinio con truppe leggere sbaragliò i Brutteri mentre incendiavano le loro case e durante il massacro e il saccheggio trovò l’aquila della diciannovesima legione, perduta con Varo. Indi l’esercito pervenne al limite ultimo del territorio dei Brutteri, dopo aver devastato quanta terra si stende tra i fiumi Amisia e Lupia48, non lontano dalla selva di Teutoburgo, nella quale si diceva giacessero insepolti i resti delle legioni di Varo.

 

61. Cesare allora fu preso dalla brama di tributare gli estremi onori a quei soldati e al loro capo, mentre tutti gli uomini dell’esercito erano mossi a pietà dei parenti, degli amici perduti e infine dei casi delle guerre e delle umane sorti. Mandò avanti Cecina a esplorare le zone più fitte delle foreste e per costruire ponti e terrapieni su gli acquitrini e su quel terreno umido e insidioso. Avanzavano attraverso un territorio tetro alla vista e cupo alla memoria. Per primo l’accampamento di Varo, con la vastità dell’area e le dimensioni del quartier generale, dimostrava l’opera di tre legioni; più oltre, da un fossato semi distrutto si deduceva che qui s’erano fermati, in quello scavo poco profondo, gli ultimi ormai in fin di vita. Nel mezzo del campo biancheggiavano le ossa, sparse o a mucchi, a seconda che i soldati erano fuggiti o s’erano fermati a resistere. Accanto a loro, frammenti di armi, carcasse di cavalli e teschi umani piantati nei tronchi degli alberi. Nei boschi attorno, are barbariche, accanto alle quali avevano massacrato i tribuni e i centurioni delle prime compagnie. I superstiti di quella strage, sfuggiti alla battaglia e alla prigionia, raccontavano che qui erano caduti i legati, qui erano state portate via le aquile, dove Varo aveva ricevuto la prima ferita e dove di propria mano era miseramente perito; su quale rialzo Arminio aveva parlato, quanti patiboli, quante fosse scavate per i prigionieri e come aveva superbamente schernito gli stendardi e le aquile.

 

62. Così dunque tutto un esercito romano, sei anni dopo la rotta, raccoglieva le ossa di tre legioni49; senza che nessuno potesse discernere se copriva di terra i resti dei suoi o dei nemici; tutti quasi fossero di parenti o di amici, l’animo acceso di più forte ira, dolenti insieme e frementi li sotterrarono. Cesare pose la prima zolla del tumulo che si veniva innalzando, degno omaggio ai defunti, partecipando al dolore dei presenti. Ma la cosa dispiacque a Tiberio, sia che interpretasse male ogni gesto di Germanico, sia che ritenesse l’esercito dissuaso dal combattere e più timoroso del nemico dallo spettacolo di tanti caduti insepolti; e convinto che un comandante, investito della carica di àugure e di antichissimi titoli sacerdotali, non dovesse aver contatto con riti funebri50.

 

63. Ma Germanico, dopo aver inseguito Arminio che si ritirava in zone impraticabili, non appena ne ebbe la possibilità, lanciò avanti la cavalleria e ordinò di occupare il terreno dove il nemico si era fermato. Arminio raccoglie i suoi e ordina loro di avvicinarsi ai boschi, poi all’improvviso li fa voltare e dà il segnale dell’attacco a quelli che aveva imboscato nelle foreste. Quella tattica insolita gettò lo scompiglio nella cavalleria, le coorti sussidiarie scontrandosi con i fuggiaschi aumentarono la confusione e li avrebbero spinti verso la palude, nota ai Germani ma insidiosa per i nostri inesperti, se Cesare non avesse schierato le legioni in ordine di battaglia; il che atterrì i nemici e ispirò fiducia nei nostri, sì che si ritirarono dalle due parti a pari condizioni.

Sùbito dopo l’esercito fu ricondotto verso l’Amisia e riportate indietro su le navi le legioni che erano state trasportate con lo stesso mezzo. A una parte della cavalleria fu comandato di raggiungere il Reno lungo le sponde dell’Oceano, mentre Cecina, che guidava i suoi, ricevette l’ordine di superare con la massima celerità i ponti lunghi, anche se la ritirata avveniva su percorsi noti. Era un varco angusto nel mezzo di ampie paludi; in passato, L. Domizio lo aveva munito di argini; il terreno tutt’attorno era limaccioso, fango denso e pesante e canali insidiosi, e poi selve in pendio che Arminio aveva riempito di armati, poiché percorrendo scorciatoie e con marce veloci era pervenuto sul luogo prima dei nostri, che erano carichi di bagagli e di armi. Cecina dubitava che sarebbe riuscito a restaurare ponti crollati perché vecchi e al tempo stesso respingere il nemico, perciò pensò bene di accamparsi sul posto, in modo che alcuni si dedicassero ai lavori, altri a combattere.

 

64. I barbari tentano di sfondare i posti di guardia e gettarsi su i soldati del genio; molestano, aggirano, aggrediscono. Al clamore dei combattenti si uniscono le grida dei genieri. Pareva che tutto fosse contrario ai Romani: il terreno coperto d’una spessa coltre di fango, malsicuro e sdrucciolevole al passo, i corpi appesantiti dalle corazze. Né era possibile, stando in acqua, lanciare giavellotti; i Cherusci invece erano avvezzi a combatter nelle paludi; erano uomini di alta statura, avevano aste lunghissime, capaci di ferire anche da lontano. Scese finalmente la notte a salvare le legioni che stavano per essere sopraffatte. I Germani, che il successo rendeva instancabili, senza concedersi il minimo riposo fecero defluire a valle tutte le acque che scaturivano dalle cime circostanti, sì che il terreno fu allagato, crollarono i lavori compiuti e si raddoppiò la fatica per i nostri soldati.

Cecina, che aveva trascorso quarant’anni nell’esercito, sia come subalterno sia come comandante, non era accessibile alla paura per la lunga esperienza di casi propizi o avversi; quindi, riflettendo su ciò che si poteva fare, non seppe escogitare cosa migliore che trattenere il nemico nei boschi, affinché potessero allontanarsi i feriti e quanti c’erano con armature pesanti; tra i monti e le paludi infatti si apriva una zona pianeggiante, che consentiva lo schieramento di forze limitate. Furono scelte la quinta legione per formare il lato destro, la ventunesima per il sinistro, la prima per l’avanguardia e la ventesima per coprire la retroguardia in caso di inseguimento.

 

65. La notte trascorse insonne da ambo le parti: i barbari banchettavano tripudiando; echeggiavano per le valli e per le selve i loro canti gioiosi e le grida selvagge. Tra i Romani invece deboli fuochi, voci sommesse: i soldati erano distesi qua e là lungo il fossato di recinzione o si aggiravano tra le tende, insonni più che vigili.

Germanico fu atterrito da un sogno orrendo: gli parve di scorgere Quintilio Varo coperto di sangue emergere dalle paludi e udirlo che lo chiamava; ed egli non lo seguiva e respingeva la mano che gli tendeva. Alle prime luci dell’alba, le legioni, che erano state mandate a proteggere i fianchi, per paura o per indisciplina abbandonarono le posizioni e si portarono oltre il terreno acquitrinoso. Arminio però, benché avesse davanti uno spazio aperto, non mosse sùbito all’attacco; ma, non appena vide che i bagagli affondavano nel fango e nelle fosse e i soldati procedevano disordinatamente e, come accade in situazioni simili, ciascuno provvedeva soltanto a se stesso e prestava un orecchio disattento ai comandi, ordinò ai Germani di attaccare gridando: «Ecco Varo e le legioni ancora vinte dallo stesso fato!», e immediatamente con uomini scelti sbaragliò la schiera, menando colpi principalmente ai cavalli. Questi scivolavano nel proprio sangue e nel fango; sbalzati a terra i cavalieri scompigliavano quelli che gli movevano incontro, calpestavano i caduti. Il più grande affanno fu attorno alle aquile: in quella pioggia di dardi non si riusciva a reggerle né a conficcarle nella terra, coperta di fango. Cecina, mentre cercava di tenere compatti i suoi, cadde dal cavallo, colpito sotto di lui, e sarebbe stato accerchiato dai nemici se la prima legione non avesse opposto resistenza. Fu una fortuna per noi l’avidità dei nemici, che tralasciarono di colpire per gettarsi a far bottino; intanto scendeva la sera e le legioni riuscirono a raggiungere uno spazio aperto e asciutto; ma nemmeno qui ebbero fine le loro difficoltà: dovettero tracciare la recinzione del campo, costruire l’argine, mentre erano andati perduti gli attrezzi necessari per scavare la terra e tagliare gli alberi; non c’erano più tende per i manipoli né bende per i feriti; si dividevano il cibo lordo di fango e di sangue, lamentavano quelle tenebre funeste e che a migliaia di compagni non restasse più che un giorno di vita.

 

66. Avvenne per caso che un cavallo, strappata la fune, si mise a vagare per il campo e, spaventato dalle grida, gettò a terra quelli che erano accorsi per fermarlo; onde si diffuse un tale panico tra gli uomini, convinti che si trattasse d’un nuovo attacco dei Germani, che si precipitarono tutti alle porte, cercando soprattutto di raggiungere la decumana, più lontana dai nemici e più sicura per i fuggiaschi51.

Cecina si rese conto che tutta quella paura era senza motivo ma che tuttavia non sarebbe riuscito a opporsi ai soldati o a trattenerli né con l’autorità né con le preghiere né con la forza. E allora si gettò disteso a terra nei vano della porta e riuscì a sbarrare il passaggio suscitando pietà, dato che per attraversarlo avrebbero dovuto scavalcare il corpo del loro comandante. I tribuni e i centurioni intanto convinsero gli uomini che il loro terrore era infondato.

 

67. Cecina chiamò all’adunata nello spiazzo centrale dell’accampamento; esortò i soldati ad ascoltare in silenzio quanto aveva da dir loro a proposito del momento e della situazione in cui si trovavano: l’unica salvezza, disse, era nelle armi; ma bisognava farne uso con prudenza, restare entro il recinto del campo fino a che il nemico, nella speranza di espugnarlo, si fosse avvicinato di più. In quel momento avrebbero dovuto irrompere da ogni parte e con quella sortita giungere fino al Reno. Se fossero fuggiti, non avrebbero trovato altro che sempre più foreste e paludi più profonde e la ferocia dei nemici. Se invece avessero vinto, avrebbero avuto onore e gloria. Rammentò loro le persone care rimaste in patria, la dignità morale della vita al campo, ma non fece parola delle avversità. Quindi distribuì i cavalli dei legati e dei tribuni, a cominciare dai suoi, senza distinzione, ai combattenti più valorosi, affinché assalissero per primi il nemico; sarebbero stati seguiti poi dalla fanteria.

 

68. I Germani pure erano turbati dalla speranza, la cupidigia e per le opinioni contraddittorie dei loro capi. Arminio era del parere che si dovesse far uscire i Romani dal campo e accerchiarli non appena si fossero trovati su terreni acquitrinosi e impraticabili. Inguiomero invece proponeva un piano più feroce e più gradito ai barbari, e cioè di circondare armati il fossato ed espugnare rapidamente il campo: avrebbero fatto molti più prigionieri e si sarebbero impadroniti delle prede intatte. Alle prime luci dell’alba, colmano i fossati, vi posano sopra graticci, si inerpicano in cima al terrapieno; i soldati erano scarsi e quasi paralizzati dalla paura. Si erano appena aggrappati alle palizzate, quando venne dato il segnale alle coorti, si udirono corni e trombe insieme e sùbito i nostri con alte grida di slancio prendono i Germani alle spalle: qui non ci sono foreste e paludi! gridavano, su un terreno pari sono pari anche gli dèi! Il nemico, convinto che avrebbe distrutto senza fatica pochi uomini inermi, fu atterrito dal clangore delle trombe, dal fulgore delle armi, tanto più quanto meno se l’aspettava. Caddero, imprevidenti nelle avversità quanto spavaldi nel successo. Da quello scontro si ritirarono, Arminio illeso, Inguiomero gravemente ferito; il massacro dell’orda nemica si protrasse fino a che durò il giorno e il furore. A notte finalmente le legioni rientrarono; e benché i feriti fossero numerosi e durasse la penuria di cibo, la vittoria per loro fu forza, salute, abbondanza.

 

69. Intanto s’era diffusa la notizia che l’esercito era accerchiato e che i Germani si dirigevano verso le Gallie, pronti all’attacco; e se Agrippina non avesse impedito che tagliassero il ponte sul Reno, c’era chi per il terrore avrebbe commesso quell’atto infame.

Quella donna di forte animo in quei giorni adempì alle mansioni di un capo; distribuì ai soldati indumenti o medicine, a seconda se erano poveri o malati. C. Plinio, che ha scritto la storia delle campagne germaniche, racconta che ella si mise all’estremità del ponte e rivolse parole di elogio e di gratitudine alle legioni, via via che rientravano.

Il fatto colpì profondamente l’animo di Tiberio: tutte quelle sollecitudini non gli sembravano innocenti; e se Agrippina cercava di accattivarsi l’animo dei soldati, non era contro lo straniero. Quale autorità restava agli imperatori se una donna passava in rassegna i manipoli, prendeva posto accanto alle insegne, distribuiva largizioni? Come se fosse scarso segno d’ambizione mandare in giro il bambino del comandante vestito da soldato semplice e volere che lo chiamassero Cesare Caligola! Ormai nell’esercito aveva più potere Agrippina che i legati e i comandanti; era stata una donna a soffocare la rivolta, il nome dell’imperatore non era riuscito a reprimerla. Incitava, aggravava i sospetti Seiano; egli conosceva bene l’animo di Tiberio e vi seminava odii di lunga durata, che avrebbe celati e manifestati più forti in seguito.

 

70. Delle legioni che aveva trasportato su le navi, Germanico consegnò a Vitellio la seconda e la quattordicesima, affinché le riconducesse per via di terra: la flotta più leggera avrebbe navigato quel mare di scarsa profondità e con la bassa marea avrebbe attraccato. Vitellio percorse la prima parte del cammino senza difficoltà su un terreno asciutto o lambito da placide onde; ma ben presto, sotto le raffiche dell’aquilone e, al tempo stesso, per effetto dell’equinozio, che gonfia fortemente l’Oceano, la colonna incominciò ad essere travolta. Il terreno era sommerso, mare, spiaggia e campi apparivano eguali, non si riusciva a distinguere il fondo insicuro da quello solido, i tratti percorribili da quelli profondi.

I soldati sono gettati a terra dai flutti, inghiottiti dai gorghi; galleggiano, si urtano a vicenda animali, zaini, corpi esanimi; si mescolano i manipoli, alcuni hanno l’acqua fino al petto, altri fino alla bocca; oppure, se manca il terreno sotto i piedi, si disperdono, vanno a fondo; né giovano le grida, i consigli reciproci, nell’infuriare delle onde; non c’è differenza tra il valoroso e il vile, tra il cauto e l’imprudente, tra l’accorgimento e il caso: tutto era travolto con la stessa violenza. Finalmente Vitellio riuscì a salire su un’altura e vi raccolse la schiera; lì pernottarono senza attrezzi, senza provviste; la maggior parte nudi o lacerati i corpi, in condizioni non meno tremende che se fossero stati accerchiati dal nemico, ché anzi in questo caso avrebbero potuto morire con onore, mentre ormai non c’era per loro che una fine senza gloria.

L’alba consentì loro di rivedere la terra e di penetrare fino al fiume Visurgi52. Cesare vi era pervenuto con la flotta. Le legioni furono imbarcate e correva voce che fossero annegate né si credette che erano sane e salve fino a che non fu visto tornare Germanico insieme all’esercito.

 

71. Stertinio, mandato avanti a ricevere la resa di Segimero, fratello di Segeste, ormai l’aveva condotto insieme al figlio nella città degli Ubii. All’uno e all’altro fu concesso il perdono, volentieri a Segimero, con qualche esitazione al figlio, poiché si diceva che avesse schernito il cadavere di Varo. Inoltre, Gallia, Spagna e Italia fecero a gara per supplire ai danni subiti dall’esercito, offrendo ciò di cui ciascuna disponeva, armi, cavalli, denaro. Germanico ebbe parole di elogio per la loro sollecitudine, ma accettò solo armi e cavalli da guerra, e provvide ai soldati con denaro suo. Per attenuare con la sua amabilità anche la memoria della sciagura, si recò a visitare i feriti, ed elogiò il comportamento di ciascuno; guardando le loro ferite faceva coraggio a uno con la speranza, a un altro con la gloria, a un altro ancora con parole gentili; con la sua sollecitudine ispirava loro fiducia in lui e nella guerra.

 

72. Quell’anno furono decretate le insegne trionfali53 ad A. Cecina, a L. Apronio, a C. Silio per le azioni compiute con Germanico. Tiberio ricusò il titolo di padre della patria che più volte il popolo avrebbe voluto imporgli, né permise che si giurasse su i suoi atti54 ad onta del consenso del Senato: ripeteva che nella vita tutto è incerto e più fosse salito in alto più si sarebbe sentito su un terreno sdrucciolevole. E tuttavia non riusciva a ispirare fiducia nella sua modestia, infatti aveva ripristinato la legge di lesa maestà, che aveva lo stesso nome presso gli antichi, ma riguardava reati diversi. Un tempo infatti si riferiva a chi avesse apportato danno all’esercito col tradimento, alla plebe con sommosse e infine avesse menomato la maestà del popolo romano con il cattivo governo dello stato: a quel tempo erano passibili di pena le azioni, non le parole55.

Augusto per il primo istruì processi, in base a quella legge, contro i libelli diffamatori, offeso dagli eccessi di Cassio Severo56, che con scritti scandalosi aveva diffamato uomini e donne di nobile stirpe; più tardi Tiberio, consultato dal pretore Pompeo Macro se si dovessero accettare denunce per reati di lesa maestà, rispose che le leggi si dovevano applicare. Era esasperato lui pure perché circolavano scritti di anonimi, riguardanti la sua crudeltà, la sua alterigia e il suo disaccordo con la madre.

 

73. Non dispiacerà quanto verrà riferito sul conto di Falanio e di Rubrio, cavalieri romani di condizione modesta, affinché si sappia da quali inizii e con quanta abilità di Tiberio sia penetrato questo gravissimo flagello, come sia stato applicato dapprima con moderazione e infine abbia infierito portando ogni cosa alla rovina. Su Falanio pendeva l’accusa che avesse ammesso tra i cultori di Augusto – i quali si riunivano nelle case private, a guisa di collegi sacerdotali – un certo Cassio, un mimo degenerato; e che nella vendita dei suoi giardini insieme con essi avesse alienato una statua di Augusto. Rubrio era imputato d’aver profanato la divinità di Augusto giurando il falso. Quando Tiberio fu informato di queste denunce, scrisse ai consoli che non era stata decretata a suo padre la divinità affinché tale onore fosse volto a danno dei cittadini; inoltre che l’istrione Cassio soleva partecipare con altri della stessa categoria agli spettacoli che sua madre aveva istituito57 in memoria di Augusto e che non costituiva offesa alla religione il fatto che le immagini di lui fossero incluse nella vendita di giardini e palazzi, come i simulacri degli altri dèi. Quanto al giuramento, doveva esser giudicato alla stregua d’una mancanza verso Giove: punire le offese agli dèi spetta agli dèi.

 

74. Non passò molto tempo e Granio Marcello, pretore della Bitinia, fu denunciato dal proprio questore, Cepione Crispino e da Romano Ispone; quest’ultimo inaugurò un costume che in seguito, per la povertà dei tempi e l’iniquità degli uomini, fu largamente praticato. Era un uomo senza mezzi, oscuro, scontento; incominciò a penetrare con libelli segreti nell’animo crudele del principe, poi inventò fandonie a danno delle personalità più insigni e si procacciò l’ascendente su uno e l’odio di molti. Il suo esempio fu poi adottato da molti, i quali da miserabili diventarono gran signori, e da persone che tutti guardavano dall’alto in basso, temibili: portarono parecchi alla rovina e, infine, se stessi. Inventò che Marcello andava facendo discorsi offensivi sul conto di Tiberio, un reato senza appello, poiché nella condotta del principe erano indicate le azioni più nefande e se ne attribuiva la divulgazione al reo. Trattandosi, tra l’altro, di fatti effettivamente avvenuti, era anche facile credere che qualcuno li avesse riferiti. A questi Ispone aggiunse che Marcello aveva fatto collocare la propria statua più in alto che quelle dei Cesari, che a un’altra statua aveva fatto togliere la testa di Augusto e mettere al suo posto quella di Tiberio. Quando udì questo capo d’accusa, Tiberio si infuriò a tal punto che, rompendo il suo abituale silenzio, dichiarò che in quel processo avrebbe esposto il suo parere anche lui, al cospetto di tutti e sotto giuramento, affinché gli altri si sentissero in dovere di fare altrettanto. Perdurava, tuttavia, ancora qualche residuo dell’antica libertà: Gneo Pisone gli chiese: «Quando lo esporrai, Cesare, questo parere? te lo chiedo perché se parlerai per primo saprò chi seguire, se invece sarà dopo tutti gli altri non vorrei commettere l’imprudenza di dissentire da te».

Tiberio fu colpito da queste parole e per essersi lasciato trasportare incautamente dall’ira e quindi, moderandosi, propose che il reo fosse assolto dall’imputazione di lesa maestà. Per quello di concussione, la causa fu trasmessa al tribunale competente.

 

75. Non contento di assistere ai processi che si svolgevano in Senato, Tiberio lo faceva anche con quelli comuni. Sedeva in un angolo dell’aula, per non usurpare la sedia curule del pretore; e con la sua presenza fece sì che furono emesse molte sentenze contrarie alle manovre e alle raccomandazioni dei potenti. Ma mentre si poneva attenzione alla verità, la libertà si degradava. Avvenne, tra l’altro, che un senatore, Pio Aurelio, sporse querela perché la sua casa era divenuta pericolante per la costruzione d’una via e d’un acquedotto; e sollecitò l’appoggio dei senatori. Si opposero i pretori dell’erario, intervenne l’imperatore e versò ad Aurelio il valore della casa, desideroso com’era di spendere per motivi onorevoli: virtù che conservò per molto tempo, mentre perdeva le altre. Largì un milione di sesterzi58 a Properzio Celere, il quale aveva chiesto il permesso di esser esonerato dall’ordine senatorio a causa della sua situazione economica: era provato infatti che il suo patrimonio famigliare era molto limitato. Ad altri, che sollecitavano la stessa largizione, ordinò che facessero approvare dal Senato le loro richieste: aspro per il suo desiderio di severità, anche quando agiva secondo giustizia. Sì che gli altri preferirono il silenzio e la povertà anziché dichiarare la propria situazione e chiedere il beneficio.

 

76. Quell’anno le piogge incessanti fecero salire il Tevere, che allagò i quartieri bassi dell’Urbe; il ritiro delle acque provocò la rovina di molte case e molti morti. Asinio Gallo allora propose che si consultassero i libri sibillini59. Tiberio rifiutò, perché voleva tenere segrete le cose divine quanto quelle umane; e ad Ateio Capitone e a L. Arrunzio fu affidato l’incarico di controllare le acque. L’Acaia e la Macedonia chiesero uno sgravio fiscale e Tiberio stabilì che per il momento fossero esonerate dal potere del proconsole e fossero consegnate all’imperatore. Druso volle presiedere ai duelli dei gladiatori, da lui offerti in nome suo e del fratello Germanico; si ebbe l’impressione che si dilettasse troppo alla vista del sangue, ancorché vile. La cosa allarmò il popolo e corse voce che il padre l’avesse rimproverato. Vi furono poi varie versioni sul motivo per il quale Tiberio si astenne dallo spettacolo: secondo alcuni, per insofferenza della folla, secondo altri per il suo temperamento tetro, per altri infine avrebbe voluto evitare il confronto, dato che Augusto soleva intervenire agli spettacoli con amabilità. Non arrivo a credere che abbia voluto offrire al figlio l’occasione di esibire la propria crudeltà, al fine di attirare su di lui la riprovazione del popolo. Ma anche questo fu detto.

 

77. In quei giorni tornarono a scoppiare più violenti che mai i tumulti in teatro; si erano verificati già l’anno precedente. Vi furono vittime non solo tra la plebe ma anche tra i militari; cadde un centurione e fu ferito un tribuno della coorte pretoria, che si adoperava per impedire che si lanciassero male parole ai magistrati e si accendessero alterchi tra gli spettatori. Vi fu un’interrogazione in Senato su l’episodio e fu emessa la sentenza che i pretori avessero facoltà di far fustigare gli istrioni. Ma il tribuno della plebe, Aterio Agrippa, si oppose e contro di lui parlò con furore Asinio Gallo. Tiberio non aprì bocca: ci teneva a lasciare al Senato la parvenza della libertà. Fu approvato, tuttavia, il veto opposto dal tribuno, poiché in passato una volta il divo Augusto aveva detto che gli istrioni dovevano essere immuni dalle verghe e per Tiberio discostarsi dai responsi di Augusto era sacrilegio.

Vennero approvati vari provvedimenti a proposito del compenso degli attori e per impedire le intemperanze dei loro fautori. I più importanti furono: divieto ai senatori di entrare in casa di un mimo, divieto ai cavalieri romani di far ressa attorno quando si mostravano in pubblico, agli attori infine divieto di esibirsi altrove che su le scene. I pretori ebbero facoltà di punire con l’esilio gli eccessi degli spettatori.

 

78. A gli spagnuoli, che l’avevano sollecitata, fu concessa l’autorizzazione di erigere un tempio ad Augusto nella colonia di Tarragona, e così fu stabilito un precedente per tutte le province. Il popolo protestava per la tassa dell’uno per cento su le compravendite, che era stata istituita dopo le guerre civili. Ma Tiberio dichiarò che da quell’entrata si traeva l’erario dell’esercito60 e che lo Stato non avrebbe potuto sostenere quell’onere se i veterani fossero congedati prima di vent’anni di servizio. Così furono abrogati per il futuro i provvedimenti incautamente deliberati durante le recenti sedizioni.

 

79. In Senato poi vi fu un dibattito a proposito delle piene del Tevere: se per impedire che si verificassero fosse opportuno deviare i fiumi e i laghi che lo fanno crescere. Fu data udienza ai legati di vari municipi e colonie: quelli di Firenze chiesero che la Chiana non fosse rimossa dal suo letto e deviata per farla sboccare nell’Arno, poiché ne sarebbero derivati danni. In modo analogo si espressero quelli di Terni: i campi più fertili d’Italia sarebbero stati rovinati se, conforme al progetto, il fiume Nera fosse stato suddiviso in tanti rivoli e stagni. Né tacquero quelli di Rieti, i quali erano contrari a che si ostruisse lo sbocco del lago Velino nella Nera, poiché in questo caso le acque sarebbero straripate allagando le campagne adiacenti: alle sorti umane, dissero, ha provveduto la Natura nel migliore dei modi. Essa ha dato ai fiumi sponde, sorgenti, il corso e la foce. È bene, inoltre, rispettare la religione degli alleati: essi avevano dedicato ai loro fiumi cerimonie, boschi, are. Il Tevere a sua volta si sarebbe rifiutato di scorrere meno maestoso, se lo si privava del tributo degli affluenti.

Che abbiano prevalso le ragioni delle colonie, o la difficoltà dei lavori o lo scrupolo religioso, sta di fatto che fu approvato il parere di Cn. Pisone, il quale aveva ritenuto che la cosa migliore fosse non fare mutamento alcuno.

 

80. Fu prorogato a Poppeo Sabino il governo della Mesia e vi si aggiunsero l’Acaia e la Macedonia. Questo pure fu un uso introdotto da Tiberio, quello di far durare i poteri e tenere gli stessi negli stessi comandi militari o incarichi amministrativi per tutta la vita. Di questo sistema sono stati addotti vari motivi: alcuni dicono che Tiberio preferisse mantenere in eterno un provvedimento una volta preso per evitare il fastidio di nuove preoccupazioni; altri che, mosso da invidia, non voleva fossero in molti a profittare delle cariche. Alcuni ritengono che egli, benché avveduto, era però molto incerto nelle scelte; del resto, non pretendeva trovare uomini dotati di qualità straordinarie, ma non sopportava i vizi. Nei migliori intuiva una minaccia per sé, dai peggiori temeva lo scandalo. Tale indecisione lo spinse a tal punto che a volte affidò le province a uomini ai quali non avrebbe permesso di uscire dall’Urbe.

 

81. Quanto ai comizi per le elezioni dei consoli che si tennero per la prima volta sotto questo principe, non oso esprimere giudizi, perché si trovano dati contrastanti non solo negli scrittori, ma anche nelle orazioni pronunciate da Tiberio stesso. Alle volte, di ciascun candidato espose le origini, la vita, le campagne militari, in modo che si capisse di chi parlava, ma non pronunciava i nomi. Altre volte invece, abolite anche queste indicazioni, esortò i candidati a non inquinare i comizi con imbrogli e promise che avrebbe vigilato personalmente; spesso dichiarò che s’erano presentati a lui soltanto quelli di cui egli aveva segnalato i nomi ai consoli, ma potevano farlo anche altri se avevano fiducia nei propri meriti e nel proprio prestigio: cose bellissime a parole, ma in realtà vacue, subdole e quanto più rivestite della parvenza della libertà tanto più un giorno si sarebbero viste degenerare nel più esecrabile servilismo.

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
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