Libro sesto1

 

V. 6, Sull’argomento furono pronunciati quarantaquattro discorsi, pochi dei quali per paura, la maggior parte perché era la consuetudine...

«Ritenni che avrebbe apportato disdoro a me e malanimo contro Seiano. Ora, la sorte è capovolta: colui che lo aveva accettato come collega e genero ha il potere di indulgere verso se stesso; ma non quelli che ora perfidamente infieriscono contro l’uomo che avevano ignobilmente adulato. Non starò a distinguere se sia più degno di pietà chi è accusato per la sua amicizia o chi accusa un amico. Né metterò alla prova la crudeltà o la clemenza di alcuno; ma libero e con l’approvazione della mia coscienza preverrò il processo. Vi prego soltanto di serbare ricordo di me non con dolore ma con letizia, annoverando me pure tra coloro che con una nobile morte si sono sottratti alle sciagure dello Stato...»

 

V. 7. Poi, trascorse parte del giorno trattenendo presso di sé o accomiatandosi, a seconda di chi aveva il coraggio di stargli vicino e parlare con lui; e mentre erano ancora in molti accanto a lui e tutti, osservandone il volto impassibile, ritenevano che ci fosse ancora tempo per l’ora estrema, egli si gettò sopra una spada che aveva nascosta in seno. L’imperatore non infierì sul defunto con accuse né con biasimo, mentre questi ne aveva scagliate molte e infamanti contro Bleso.

 

V. 8. Poi fu istruito il processo contro P. Vitellio e Pomponio Secondo. Al primo si imputava il reato di aver consegnato ai rivoluzionari il tesoro dell’erario, al quale presiedeva, e la cassa dell’esercito; al secondo l’ex pretore Considio rimproverava l’amicizia di Elio Gallo2, il quale, dopo la morte di Seiano, s’era nascosto nei giardini di Pomponio come nel rifugio più sicuro. Nel pericolo in cui si trovavano entrambi, non vi fu altro aiuto per loro che la fedeltà dei rispettivi fratelli, i quali si fecero garanti per loro. Dopo frequenti rinvii Vitellio, stremato dall’alternarsi di speranza e paura, chiese uno stilo, fingendo gli servisse per i suoi studi e si inferse un taglio nelle vene; così, in preda allo sconforto, chiuse l’esistenza. Pomponio invece, uomo di grande correttezza e vivido ingegno, sopportò con fermezza la sorte avversa e sopravvisse a Tiberio.

 

V. 9. Poi si deliberò di procedere contro gli altri figli di Seiano, benché ormai il furore della plebe fosse scemato e i supplizi già avvenuti l’avessero placata. Furono trascinati in carcere il figlio, consapevole della sorte che lo attendeva, e la figlioletta, a tal punto ignara che seguitava a chiedere che cosa aveva fatto di male, dove la portavano; diceva che non l’avrebbe fatto più e che potevano correggerla con le busse, come si fa con i bambini. Gli autori del tempo riferiscono che, poiché si riteneva un fatto senza precedenti che si strangolasse una vergine, prima di farlo il carnefice la violentò; quindi, i corpi dei due giovinetti, con la gola spezzata, furono gettati alle Gemonie3.

 

V. 10. Nello stesso periodo l’Asia e l’Acaia furono sconvolte da una diceria molto grave benché di scarsa durata, e cioè che Druso, il figlio di Germanico, era stato visto nelle isole Cicladi, poi nel continente. Si trattava d’un giovane della stessa età; alcuni liberti di Tiberio dicevano d’averlo riconosciuto; fingendo di fargli seguito, attraevano alcuni che non lo conoscevano con la fama del nome perché l’animo dei Greci è incline a tutto ciò che è nuovo e straordinario.

Dicevano che era fuggito dalla prigionia e si dirigeva a raggiungere gli eserciti del padre per invadere l’Egitto e la Siria; quelli stessi che l’inventavano ci credevano. Accorreva già una massa di giovani, già lo si salutava festosamente in pubblico ed egli gioiva del presente e della speranza d’un futuro irrealizzabile, quando la notizia giunse all’orecchio di Poppeo Sabino, il quale reggeva la Macedonia e l’Acaia. Per prevenire gli eventi, fossero veri o falsi, egli superò velocemente i golfi di Torone e di Terme4, poi l’Eubea, isola dell’Egeo, poi il Pireo sulle coste dell’Attica, poi le sponde di Corinto e l’Istmo; giunto sull’altro mare, approdò nella colonia romana di Nicopoli; e qui finalmente dopo un abile interrogatorio sull’esser suo, viene a sapere che il giovane è figlio di M. Silano5; egli, abbandonato da molti dei suoi seguaci, si imbarcò come per dirigersi in Italia. Sabino informò Tiberio di questi fatti per lettera, ma non sono riuscito a sapere di più sull’origine e la conclusione di questa vicenda.

 

V. 11. (31 d.C.) Verso la fine dell’anno scoppiò la discordia lungamente covata tra i due consoli. Trione, infatti, che facilmente si attirava inimicizie ed era esperto del Foro, indirettamente lasciava intendere che Regolo era negligente nel perseguire i complici di Seiano; e quello, che sapeva moderarsi se non era provocato, non solo rintuzzò l’accusa del collega, ma cercò di sottoporlo a inchiesta come complice della congiura. Molti senatori li pregavano di deporre quell’odio che li avrebbe spinti alla rovina, ma essi rimasero nemici e minacciosi fino allo scadere della carica.

 

1. (32 d.C.) Era appena iniziato il consolato di Gn. Domizio Camillo Scriboniano, quando l’imperatore attraversò il braccio di mare tra Capri e Sorrento, costeggiò la Campania, irresoluto se entrare a Roma oppure, avendo deciso diversamente, fingendo di volerlo fare. Spesso scese nei dintorni, si spinse fino ai giardini presso il Tevere, ma poi fece ritorno alFisolamento dei suoi scogli, per vergogna dei delitti e delle libidini, alle quali ormai si abbandonava con tale ardore da insozzare con i suoi immondi amplessi anche giovinetti nati liberi, come fanno i re. E non era attratto soltanto dalla bellezza e dalla grazia dei corpi ma in alcuni lo eccitava il pudore infantile, in altri la memoria degli avi. Furono inventati allora termini che prima nessuno conosceva, come sellarii e spintrie, per designare posizioni oscene e varie forme di lussuria. Alcuni servi erano incaricati di cercare e condurre i giovanetti, e si offrivano doni ai compiacenti, si proferivano minacce contro i renitenti, e se un parente o un padre si opponevano, ricorrevano alla violenza, al ratto, qualunque mezzo piacesse loro, come se si fosse trattato di prigionieri.

 

2. Al principio dell’anno, a Roma, come se le colpe di Livia6 fossero state scoperte di recente e non invece già punite, c’era chi proponeva pene durissime anche contro le statue e la memoria di lei e che le ricchezze di Seiano, sottratte all’erario, fossero versate nel tesoro imperiale, come se la cosa fosse importante. Ad esporre queste proposte con fermezza e affermarle in termini quasi identici furono gli Scipioni, i Silani, i Cassii; quando improvvisamente Togonio Gallo, per inserire il suo nome plebeo tra quelli dei notabili, si fece udire, attirando il ridicolo su di sé. Pregò l’imperatore di scegliere alcuni senatori, venti dei quali a sorte, e di armarli, per difendere la sua persona tutte le volte che fosse entrato in Senato. Senza dubbio aveva preso sul serio una lettera, nella quale Tiberio chiedeva d’esser scortato da uno dei consoli per poter recarsi sicuro da Capri a Roma. Tiberio tuttavia, che spesso alle cose serie mescolava una certa arguzia, ringraziò i senatori della loro benevolenza, ma chiese: quali avrebbero dovuto essere gli esclusi, quali i prescelti? sempre gli stessi od ogni volta diversi? uomini ormai usciti di carica o giovani, privati o magistrati? che effetto avrebbe fatto vederli impugnare la spada sulla porta della Curia? né ci teneva tanto alla vita, se era necessario proteggerla con le armi. Scrisse queste cose per opporsi a Togonio, ma con molta moderazione, in modo da indurre il Senato semplicemente a respingere la proposta.

 

3. Invece si scagliò con violenza contro Giunio Gallo, il qualeaveva proposto che i pretoriani congedati fossero autorizzati adoccupare in teatro le prime quattordici file di posti7. Gli domandò, come se lo avesse davanti, che cosa aveva a che fare lui con imilitari, i quali solo dall’imperatore dovevano ricevere ordini e accettare favori. Aveva fatto davvero una scoperta, e il divo Augusto non ci aveva mai pensato! O forse, da vero satellite di Seiano, andava cercando di diffondere discordia e sedizione, di eccitare l’animo rozzo di quegli uomini, dietro l’apparenza di fargli onore e corrompere la disciplina militare? Fu questo il premio che si guadagnò Gallio per la sua elaborata adulazione: fu espulso immediatamente dalla Curia, poi dall’Italia; e poiché per il suo esilio aveva scelto Lesbo, si ritenne che in quell’isola famosa e ridente il soggiorno gli sarebbe stato troppo gradevole e perciò lo si richiamò a Roma e lo si affidò in custodia in casa d’un magistrato8. Nella stessa lettera Tiberio se la prese con l’ex pretore Sestio Paconiano, con gran piacere dei senatori, perché era un uomo sfrontato e malvagio, sempre intento a ingerirsi nelle vicende private degli altri e già scelto da Seiano per aiutarlo a tendere insidie a Caio Cesare. Quando la cosa fu scoperta, gli odii che covavano contro di lui si manifestarono e si stava già per pronunciare la condanna a morte, quando egli dichiarò che avrebbe sporto querela.

 

4. Quando si procedette contro Lucano Laziare, sia l’accusatore sia l’accusato, malvisti entrambi, dettero uno spettacolo di sé che divertì molto i presenti: Laziare, l’ho già detto, era stato l’ideatore della circonvenzione di Tizio Sabino e fu ¿1 primo a sopportarne le conseguenze. Aterio Agrippa intanto se la prese con i consoli dell’anno precedente e domandò loro perché, dopo essersi accusati a vicenda, ora tacevano. In effetti si poteva credere che la paura e la cattiva coscienza creassero una sorta d’intesa tra loro; ma i senatori dal canto loro avevano l’obbligo di non tacere quanto avevano udito. Regolo dichiarò che per infliggere la pena c’era tempo e che l’avrebbe fatta eseguire alla presenza dell’imperatore; Trione che s’era trattato di rivalità tra colleghi e che se nel momento del dissidio era stata pronunciata qualche accusa, era meglio dimenticare ogni cosa. Ma poiché Agrippa insisteva, Sanquinio Massimo pregò il Senato di non aggravare le preoccupazioni dell’imperatore andando in cerca di altri motivi di amarezza: sarebbe bastato lui solo a trovare i rimedi. Così Regolo la scampò e la rovina di Trione fu rinviata. Aterio ne uscì più malvisto che mai, perché logorato dal sonno e da veglie libidinose e, per la sua stessa inerzia, incapace di temere un principe per quanto crudele, tra dissolutezze e adulterii tramava la rovina di uomini insigni.

 

5. Poi, Cotta Messalino, promotore delle sentenze più feroci, e oggetto di odio inveterato, non appena se ne presentò l’opportunità fu coperto di accuse: d’aver denunciato Caio Cesare di ambigua virilità, poi d’aver detto, mentre sedeva a mensa con i sacerdoti il giorno natalizio di Augusta, che quello era un banchetto funebre; e, lamentandosi del potere di M. Lepido e di L. Arrunzio, con i quali aveva una questione d’interesse, che avesse aggiunto: «Quei due li proteggerà il Senato, a me il mio Tiberiuccio». Dichiarato reo per aver detto queste cose, su testimonianza di cittadini autorevoli, e incalzato da essi, si appellò all’imperatore. Non molto tempo dopo giunse una lettera nella quale Tiberio, rievocando a difesa di Cotta rorigine della loro amicizia e i frequenti servigi resi da costui, chiedeva al Senato che non ritenesse reato qualche frase travisata o innocenti facezie pronunciate a tavola.

 

6. Fece impressione la lettera di Cesare, perché incominciava con queste parole: «Che gli dèi e le dee possano consumarmi d’una morte peggiore di quella dalla quale ogni giorno mi sento perire se so che cosa devo scrivervi, Padri Coscritti, in che modo, e che cosa io non debba scrivervi affatto in questo momento». A tal punto i suoi crimini e le sue vergogne erano diventate un tormento per lui. E non inutilmente il maggiore dei sapienti9 soleva affermare che se si aprisse l’animo dei tiranni, lo si vedrebbe crivellato di colpi, poiché la crudeltà, la lussuria e le cattive azioni lo straziano come le verghe i corpi. Così né l’altissima posizione né la solitudine proteggevano Tiberio dal rivelare egli stesso i tormenti della sua coscienza e il suo castigo.

 

7. E allora, come i senatori ebbero facoltà di decidere la sorte del senatore Ceciliano, che aveva presentato il maggior numero di denunce contro Cotta, stabilirono di infliggergli la stessa pena di Aruseio e Sanquinio, accusatori di L. Arrunzio, e Cotta non ebbe mai onore più grande: pur essendo nobile, si trovava in strettezze per la dissipazione, infamato per le azioni ignominiose, nella dignità della condanna si trovò sullo stesso piano di Arrunzio e delle sue virtù esimie.

Poi furono condotti in tribunale Minucio Termo, Serveo ex pretore e compagno di Germanico, Minucio di classe equestre, superficialmente amici di Seiano, cosa che suscitava su di loro maggior commiserazione. Ma Tiberio infierì su di essi quasi fossero i principali promotori di delitti e ingiunse a C. Cestio padre di comunicare al Senato che cosa gli aveva scritto. E Cestio assunse l’accusa. Fu l’ignominia peggiore di quei tempi, il fatto che i più autorevoli membri del Senato pronunciassero le più ignobili delazioni, alcuni apertamente, molti in segreto; e non avresti saputo distinguere gli estranei dai parenti, gli amici dagli sconosciuti, un fatto recente da uno avvenuto tanto tempo prima da esser ormai dimenticato: si poteva esser denunciati per una conversazione qualsiasi, pronunciata in Foro o durante una cena; ciascuno si affrettava per essere il primo a denunciare un colpevole, alcuni per proteggere se stessi, i più quasi infettati da un contagio. Minucio e Serveo, dopo la condanna, si dettero a loro volta alle denunce e furono travolti nella stessa sorte Giulio Africano, della nazione gallica dei Santoni, e Seio Quadrato, del quale non ho rintracciato l’origine. Né ignoro che molti autori hanno omesso i processi e i castighi di molti, sia perché sopraffatti dalla quantità, sia che temessero di provocare nei lettori lo stesso disgusto per fatti che anche a loro erano apparsi eccessivi e dolorosi. Io ne ho riscontrati molti degni d’esser conosciuti, benché non celebrati da altri.

 

8. Eppure in un momento in cui gli altri falsamente negavano d’essere stati amici di Seiano, vi fu un cavaliere romano, M. Terenzio, denunciato per questo, che ebbe il coraggio di ammetterlo, e incominciò a parlare in Senato con queste parole: «Forse gioverà meno alla mia sorte riconoscere la mia colpa che negarla; ma comunque la cosa andrà a finire, confesserò che sono stato amico di Seiano, ho fatto di tutto per diventarlo e sono stato felice di esservi riuscito. Lo conobbi quando era collega del padre al comando delle coorti pretorie, poi lo vidi assumere contemporaneamente cariche civili e militari. I suoi congiunti, gli amici salivano di grado, chiunque fosse intimo di Seiano poteva contare sulla benevolenza dell’imperatore, mentre quelli ai quali egli era avverso si dibattevano tra miseria e paura. Non prendo ad esempio nessuno. Difenderò, a rischio di me solo, tutti coloro che, come me, furono all’oscuro dei suoi ultimi progetti. Noi infatti non dimostravamo rispetto a Seiano di Volsinii, ma all’uomo ormai entrato nella famiglia Giulio-Claudia, legato ad essa da parentela, tuo genero, Cesare, tuo collega nel consolato, l’uomo che nello Stato esercitava le tue stesse funzioni. Non sta a noi giudicare le persone che tu innalzi sopra gli altri né per quali ragioni lo fai: a te gli dèi hanno concesso il diritto supremo su tutte le cose, a noi è stata lasciata la gloria di obbedire. Noi vediamo ciò che accade, a chi da te sono dispensati ricchezze e onori, a chi la facoltà di poter fare del bene o del male: che tu l’abbia concesso a Seiano nessuno potrà negarlo. Non è lecito ed è scabroso indagare il segreto sentire del principe, i suoi reconditi progetti; né del resto servirebbe. Padri Coscritti, non riflettete sull’ultimo giorno di Seiano, ma sui sedici anni che l’hanno preceduto. Veneravamo anche Satrio e Pomponio; esser riconosciuti dai suoi liberti, dalle guardie alla sua porta era considerata una gran fortuna. E dunque questo servirà come difesa di tutte le azioni di Seiano? si distingua in giusti termini: le trame contro lo Stato, i progetti di sopprimere l’imperatore dovranno esser puniti; ma l’amicizia e i suoi doveri e la fine stessa di essi assolverà insieme te, Cesare, e noi».

 

9. La fermezza di queste parole e il fatto stesso che si fosse trovato chi fosse capace di dichiarare ciò che turbava l’animo di tutti provocarono tale emozione che gli accusatori di lui, in considerazione anche dei reati che avevano commessi, furono puniti con l’esilio o con la morte.

Poi arrivò una lettera di Tiberio contro Vistilio, ex pretore, il quale era stato un carissimo amico di suo fratello Druso e per questa ragione ammesso nella propria coorte. La causa della disgrazia di Vistilio fu perché aveva composto alcuni scritti contro Caio Cesare, nei quali lo accusava di immoralità, o forse perché questa accusa era falsa e fu creduta.

Dichiarato reo di questo delitto e per questo escluso dalla famigliarità dell’imperatore, tentò con la sua mano di vecchio di trafiggersi, poi si fece ricucire le vene e scrisse una supplica a Tiberio, ma, avendo ricevuto una risposta durissima, se le riaprì. Dopo di lui fu celebrato collettivamente il processo di Annio Pollione, Appio Silano, Scauro Mamerco e Sabino Calvisio, tutti per lesa maestà; a Pollione fu aggiunto il figlio Viniciano, persone di stirpe nobile e insigniti di alte cariche. I senatori avrebbero tremato – chi di loro infatti era esente da vincoli di parentela o d’amicizia con uomini tanto insigni? – se Celso, tribuno della coorte urbana, che faceva parte degli accusatori, non avesse escluso dal giudizio Appio e Calvisio.

L’imperatore volle che fosse rinviato il processo contro Pollione e Viniciano Scauro, per istruirlo luì stesso con il Senato; comunque aveva inviato note molto severe sul conto di Scauro.

 

10. Nemmeno le donne erano immuni dal pericolo: benché non si potesse accusarle di voler usurpare il potere, lo erano per le loro lacrime: la vecchia Vizia, madre di Fufio Gemino, fu soppressa per aver pianto l’esecuzione del figlio.

Cose simili venivano deliberate in Senato. L’imperatore, del resto, condannò a morte Vesculario Fiacco e Giulio Marino, suoi amici di lunga data, che lo avevano seguito a Rodi e a Capri gli erano inseparabili; Vesculario aveva agito da intermediario nella trama a danno di Libone, Marino era stato complice di Seiano nella rovina di Curzio Attico: per questi precedenti destò compiacimento il fatto che ricadessero su di loro le stesse pene di cui erano stati consiglieri.

Nello stesso periodo morì di morte naturale il pontefice L. Pisone, cosa rara per un uomo di così eccelsa fama; non s’era mai fatto promotore di nessuna iniziativa servile, e, quando la necessità glielo imponeva, s’era comportato con la moderazione di un saggio. Ho già ricordato che suo padre sta stato censore. Giunse all’età di ottant’anni; in Tracia conseguì gli onori trionfali. Ma la sua maggior gloria fu d’aver rivestito con mirabile moderazione la carica di Prefetto dell’Urbe, da poco divenuta perpetua e tanto più molesta perché non si era abituati a obbedire.

 

11. In altri tempi, infatti, quando i re, e poi i consoli, erano assenti, affinché l’Urbe non fosse sprovvista di autorità, si eleggeva una persona capace di rendere giustizia e provvedere alle evenienze improvvise; dicono che Romolo avesse collocato in tale responsabilità Dentre Romulio, Tulio Ostilio Numa Marcio, Tarquinio il Superbo infine Spurio Lucrezio. In seguito furono i consoli a conferire il mandato; e perdura una parvenza di quest’uso quando, durante le Ferie Latine, si nomina un magistrato per esercitare le funzioni del console.

Augusto del resto, durante le guerre civili, conferì a Cilno Mecenate, di classe equestre, l’autorità suprema su Roma e sull’Italia; in seguito, quando ebbe raggiunto il sommo potere, dato il gran numero dei sudditi e la lentezza della giustizia, assunse uno dei consolari per tenere a freno gli schiavi e quelli dei cittadini propensi a fomentare torbidi, che hanno paura solo della forza. Il primo a occupare quella carica* fu Messalla Corvino, ma fu destituito dopo pochi giorni per incapacità, mentre Tauro Statilio, benché molto avanti negli anni, se la cavò egregiamente. Gli successe per quindici anni Pisone, altrettanto efficiente, il quale per decreto senatoriale ebbe i funerali a spese dello Stato.

 

12. Il tribuno della plebe Quintiliano riferì al Senato sul libro della Sibilla, che Caninio Gallo, quindecemviro, aveva proposto di collocare tra gli altri della stessa profetessa, chiedendo che il Senato emanasse un decreto sulla questione; il che fu fatto senza dibattito10. L’imperatore però inviò una lettera, nella quale rimproverò con mitezza il tribuno d’essere ignaro, per la sua giovane età, del costume antico. Biasimò invece con maggiore severità Gallo perché, pur essendo da tempo istruito nella scienza del cerimoniale, aveva presentato un’interrogazione al Senato durante un’udienza scarsamente frequentata, quando l’autore del nuovo libro non era ancora identificato, prima che il collegio avesse emesso la sua sentenza e senza che i periti avessero letto e giudicato il carme. Rammentò al tempo stesso che Augusto, poiché si diffondevano molte opere apocrife sotto una firma celebre, aveva ordinato che entro una determinata data fossero consegnate al pretore urbano e non ne fosse lecito il possesso ai privati. Lo stesso era stato decretato dagli antichi dopo l’incendio del Campidoglio avvenuto durante la guerra sociale: i carmi sibillini erano stati ricercati nell’isola di Samo, ad Ilio a Eritre11, in Africa, in Sicilia e nelle colonie italiche e s’era cercato di appurare se la Sibilla era stata una sola o più e ai sacerdoti era stato affidato il compito di distinguere i carmi autentici, per quanto era possibile con forze umane. Così dunque anche il libro di cui si trattava doveva essere sottoposto all’esame dei quindecemviri.

 

13. (33 d.C.) Sotto gli stessi consoli per la gravità della situazione annonaria stava per scoppiare una sommossa; per molti giorni in teatro furono richiesti provvedimenti in termini più insolenti del solito all’indirizzo dell’imperatore. Questi ne fu irritato e rimproverò magistrati e senatori perché non avevano saputo tenere a freno il popolo con l’autorità pubblica e fece sapere da quali province faceva importare grano e in quantità maggiore che ai tempi di Augusto. Dimodoché per ammonire duramente la plebe il Senato emanò un senatoconsulto ispirato alla severità antica e i consoli un editto non meno rigoroso. Il silenzio di Tiberio non fu preso, come egli credeva, come un atteggiamento liberale, ma, al contrario, come segno di alterigia.

 

14. Alla fine dell’anno caddero sotto l’imputazione di congiura i cavalieri romani Geminio, Celso e Pompeo; di questi il primo, che era stato amico di Seiano, per lo sperpero che faceva delle sue ricchezze e per il lussuoso tenore di vita, ma non per effettivi reati. Il tribuno Giulio Celso, gettato in carcere, riuscì ad allentare le catene e avvolgersele attorno al collo e tirando in direzioni opposte si strangolò con le sue stesse mani. Rubrio Fabato, imputato d’aver cercato di ottenere pietà presso i Parti come se la situazione a Roma fosse disperata, fu sottoposto a custodia. In effetti, raggiunto presso lo stretto di Sicilia e ricondotto a Roma da un centurione, non fu in grado di fornire alcuna ragione plausibile per un viaggio così lungo; tuttavia si salvò, più per dimenticanza, forse, che per clemenza.

 

15. (33 d.C.) Sotto il consolato di Servio Galba12 e L. Silla, Tiberio, dopo aver riflettuto a lungo sugli sposi da dare alle sue due nipoti, dato che l’età delle fanciulle imponeva una decisione, optò per L. Cassio e M. Vinicio. Questi era di famiglia provinciale; nato a Cali, aveva avuto padre e nonno consoli, ma gli altri della sua famiglia erano di classe equestre; era un giovane di carattere mite e di eloquenza elegante. Cassio invece era di famiglia romana, plebea, ma antica e onorata; educato dal padre con severa disciplina, ispirava fiducia per il carattere amabile più che per l’attività. A questo dette in sposa Drusilla, a Vinicio Giulia, entrambe figlie di Germanico. A questo proposito scrisse al Senato un breve elogio dei due giovani e, adducendo vaghe ragioni per la sua assenza da Roma, proseguì toccando argomenti ben più importanti, come le inimicizie che s’era attirato nell’interesse dello Stato; poi chiese che il prefetto Macrone e alcuni tribuni e centurioni gli facessero scorta tutte le volte che fosse entrato in Senato. Tale richiesta fu seguita da un ampio senatoconsulto, senza però che si giungesse a prescrivere il genere e il numero degli uomini destinati a tale servizio. Egli, del resto, non fece mai il suo ingresso nell’abitato di Roma e tanto meno partecipò mai a una seduta in Senato. Si avvicinò più volte alla sua città natale, per vie traverse, ma evitò sempre di entrarvi.

 

16. Frattanto un gran numero di denunce piombò su coloro che incrementavano le loro ricchezze con l’usura, ad onta d’una legge del dittatore Giulio Cesare che poneva un limite al credito e alla proprietà fondiaria nei confini dell’Italia, legge che da tempo era caduta in disuso, perché si anteponeva l’interesse privato a quello pubblico. L’usura infatti aveva provocato moltissimi disordini e conflitti; anche in antico veniva repressa, quando i costumi erano meno corrotti: fu sancito per la prima volta nelle XII Tavole che nessuno potesse esigere un interesse superiore all’uno per cento l’anno, mentre prima esso variava a seconda dell’arbitrio dei ricchi. In seguito a istanza dei tribuni, l’interesse fu ridotto al mezzo per cento e infine i prestiti furono vietati; e con molti plebisciti ci si oppose alle frodi che con astuzie straordinarie riaffioravano tutte le volte che venivano represse. Fino a che il pretore Gracco, sopraffatto dal gran numero degli imputati, ne riferì al Senato. I senatori sgomenti, dato che nessuno era immune da quel reato, implorarono indulgenza a Tiberio e con il suo consenso furono concessi un anno e sei mesi affinché ciascuno potesse adeguare la propria situazione finanziaria alle disposizioni di legge.

 

17. Ne conseguì penuria di denaro liquido, perché al tempo stesso i crediti erano insicuri e perché con tante condanne e conseguenti confische il denaro contante veniva ad accumularsi nel fisco o nell'erario. A questo punto il Senato deliberò che ciascuno dei creditori investisse in terreni in Italia i due terzi delle somme date in prestito. Ma i creditori esigevano un rimborso totale e ai debitori citati non sembrava dignitoso venir meno alla parola data. Sicché sulle prime si precipitarono a pregare, poi a inscenare manifestazioni davanti al tribunale del pretore; le misure adottate come rimedio, intanto, e cioè la vendita e l’acquisto, sortivano l’effetto opposto perché gli usurai avevano nascosto il denaro per l’acquisto dei campi. Il gran numero di terreni in vendita ne svalutò il prezzo; quanto più uno era oberato di debiti tanto meno riusciva a vendere e molti finirono in miseria. I rovesci patrimoniali rovinarono la dignità, il buon nome di molti, fino a che l’imperatore apportò una soluzione: distribuì attraverso le banche cento milioni di sesterzi, con la facoltà di fare prelievi a prestito per tre anni senza interesse, purché il debitore offrisse al governo una garanzia su terreni del valore doppio della somma ottenuta. Così fu ristabilito il credito e poco per volta si trovarono anche privati disposti a concedere prestiti; ma l’acquisto di poderi non avvenne conformemente alla delibera del Senato; lo fu rigorosamente all’inizio, ma poi, come succede, la cosa finì per degenerare.

 

18. Poi ricominciarono le paure di prima, quando fu denunciato per lesa maestà Considio Proculo, il quale, mentre festeggiava il suo compleanno senza alcun timore, fu trascinato nella Curia e subito condannato e giustiziato; mentre la sorella Sancia fu condannata all’esilio dietro denuncia di Q. Pomponio. Costui era un uomo irrequieto e soleva compiere azioni di questo genere con la scusa di accattivarsi il favore dell’imperatore e così salvare il fratello Pomponio Secondo dal processo in cui era coinvolto. L’esilio fu comminato anche a Pompea Macrina; l’imperatore aveva già condannato il marito Argolico e il suocero Lacone, notabili Achei. Il padre, insigne cavaliere romano e il fratello, pretore, sui quali pendeva una condanna, si dettero la morte. Il reato di cui erano stati imputati era l’amicizia del loro bisnonno Teofane di Mitilene con Gn. Pompeo Magno e il fatto che alla sua morte l’adulazione dei Greci gli aveva tributato onori divini.

 

19. Dopo di questi, Sesto Mario, il più ricco della Spagna, fu accusato d’incesto con la figlia e precipitato giù dalla rupe Tarpea; e affinché non si sospettasse che la condanna dipendeva dall’entità del patrimonio, Tiberio incamerò le miniere d’oro e d’argento di costui, benché destinate all’erario.

Eccitato da queste esecuzioni, ordinò che fossero giustiziati tutti quelli che erano rinchiusi in prigione sotto l’accusa d’esser stati amici di Seiano.

Fu un massacro. Persone d’ambo i sessi, di tutte le età, notabili o comuni, isolati o a gruppi. Ai parenti, agli amici non fu consentito di avvicinarsi, di piangere, nemmeno di contemplare i morti; tutt’attorno si aggiravano le guardie e osservavano il dolore e seguivano quei corpi già putrefatti mentre venivano scaraventati nel Tevere; galleggiavano o erano rigettati sulle sponde, ma nessuno osava toccarli né cremarli. La forza del terrore aveva infranto ogni legame umano e quanto più aumentava la ferocia tanto più recedeva la pietà.

 

20. Nello stesso lasso di tempo, Caio Cesare, che aveva accompagnato Tiberio quando era partito per Capri, sposò Claudia, figlia di Silano. Sotto un’apparenza mite, il giovane celava un animo efferato; alla condanna della madre, allo sterminio dei fratelli non aveva pronunciato una parola. Di giorno in giorno, a seconda di come Tiberio si vestiva, egli indossava indumenti analoghi, diceva parole non dissimili dalle sue. Questo atteggiamento suggerì all’oratore Passieno il detto, sùbito popolarissimo, che non s’era mai visto servo migliore né padrone peggiore.

Non vorrei omettere un presagio di Tiberio su Servio Galba, che allora era console; lo fece chiamare e dopo averlo fatto parlare su diversi argomenti, gli disse in greco: «Tu pure, Galba, un giorno assaggerai l’impero», con il che voleva alludere a un potere breve e tardivo. Lo prevedeva basandosi sulla scienza dei Caldei, ad apprendere la quale aveva dedicato gli ozii di Rodi, dove gli fu maestro Trasillo, del quale aveva sperimentato la dottrina nel modo che segue.

 

21. Tutte le volte che operava una consultazione con questo mezzo, si poneva nel punto più alto della casa e metteva al corrente un solo liberto. Costui era digiuno di lettere ma gagliardo. Attraverso sentieri deserti e ripidi, poiché la casa sorgeva in cima a una scogliera, precedeva colui la cui arte Tiberio aveva deciso di mettere alla prova; al ritorno, se l’uomo gli era parso sospetto di incompetenza o di frode, lo faceva scaraventare nel mare sottostante affinché non sopravvivesse un testimone del segreto. Una volta Trasillo, condotto su quelle stesse rupi, turbò Tiberio che lo interrogava, rivelandogli con molta sapienza il futuro; interrogato a sua volta se fosse in grado di indagare il proprio oroscopo e come gli apparisse quell’anno, anzi quel giorno, egli, misurata la posizione degli astri e le relative distanze, dapprima si confuse, poi si mostrò atterrito e quanto più proseguiva l’indagine tanto più appariva sconvolto dalla sorpresa e dalla paura, fino a che esclamò che incombeva su di lui una prova ambigua, forse mortale. Tiberio allora lo abbracciò e si congratulò per aver presentito il pericolo ed esserne uscito incolume. Da quel giorno, tenne tutti i suoi pronostici alla stregua di oracoli e lo annoverò tra gli amici più intimi.

 

22. Nell’animo mio, nel considerare simili episodi, permane il dubbio se le cose mortali sono dominate dal fato o da una necessità inflessibile o dal caso. Infatti troverai nei sommi pensatori del passato, e in molti odierni che oggi seguono le loro dottrine, la convinzione che gli dèi non si curano dell’inizio e del termine della nostra esistenza, in una parola del genere umano. Troppo spesso infatti le sventure colpiscono i buoni, la fortuna arride ai malvagi. Altri invece ritengono che gli avvenimenti siano legati al destino e non dipendano dal vago cammino degli astri, bensì da cause prime e dalle conseguenze che ne derivano naturalmente; tuttavia, che ci sia lasciata la facoltà di scegliere la nostra esistenza e, una volta che l’abbiamo scelta, ne consegue un ordine ineluttabile di eventi, che non sono né cattivi né buoni, anche se così vengono chiamati. Infatti molti, che sembrano lottare con le avversità, sono felici, altri invece, pur essendo ricchi, sono profondamente infelici e ciò dipende dal fatto che i primi sanno sopportare la sorte avversa con animo fermo, altri invece vivono da incoscienti la loro fortuna. I mortali per lo più non riescono a togliersi dalla mente che non è detto che alla nascita di ciascuno tutto ciò che gli avverrà sia già scritto e se alcune cose si verificano in modo diverso dalle predizioni dipende dall’errore di chi le ha pronunciate senza sapere; e così si perde la fiducia nella divinazione, un’arte della quale le età antiche e anche la nostra ci hanno offerto prove lampanti. Per non discostarmi troppo dall’argomento a suo tempo ricorderò che il figlio dello stesso Trasillo predisse l’impero a Nerone.

 

23. Sotto gli stessi consoli si seppe che era morto Asinio Gallo, indubbiamente consunto dal digiuno, non si sa se volontario o costretto. Fu chiesto all’imperatore se permetteva la sepoltura ed egli la concesse senza arrossire, non solo, ma giunse persino ad accusare la sorte che gli sottraeva un colpevole, prima del pubblico processo: in tre anni certamente era mancato il tempo di sottoporre a giudizio un vecchio consolare, padre di tanti consoli. Poco dopo si spense Druso, che per nove giorni s’era tenuto in vita con alimenti immondi, masticando l’imbottitura del materasso. Alcuni riferiscono che era stato ordinato a Macrone, qualora Seiano avesse fatto ricorso alle armi, di far uscire di prigione il giovane detenuto a Palazzo, per metterlo alla testa del popolo. Poi, siccome corse la voce che Tiberio intendesse riconciliarsi con la nuora e con il nipote, egli preferì incrudelire anziché mostrarsi pentito.

 

24. Anzi, infierì su Druso, lo accusò di atti osceni, di odio mortale verso i suoi e ostilità contro lo Stato. Ordinò che fosse data lettura del resoconto dei suoi atti e delle sue parole, che erano stati registrati giorno per giorno.

Mai fu vista infamia peggiore: per anni gli erano state accanto persone che prendevano nota dell’espressione del suo viso, dei suoi lamenti, dei più segreti sussurri; il nonno aveva potuto udire, leggere tutto questo e offrirlo in pasto ad estranei. A stento si riuscirebbe a crederlo se le lettere del centurione Attio e del liberto Didimo non avessero fatto il nome egli schiavi e di colui che, incutendo terrore a Druso, lo ricacciava indietro quando cercava di uscire dalla camera. Il centurione aveva registrato anche le parole che gli rivolgeva, traboccanti di ferocia, quasi fosse stata un’azione meritoria; aveva riferito ciò che diceva Druso quando, fingendosi pazzo, ormai in fin di vita, lanciava imprecazioni contro Tiberio; poi, perduta la speranza di salvarsi, aveva proferito infausti pronostici sottilmente elaborati, augurando a colui che aveva distrutto la sua famiglia, uccidendo il figlio del proprio fratello, la nuora, i nipoti13, di pagare il fio di ciò che aveva fatto al nome, alla stirpe degli avi, ai posteri stessi. I senatori interrompevano la lettura fingendosi indignati, ma si insinuava in loro paura e stupore nel constatare che l’imperatore, un tempo tanto astuto e abile nell’occultare i suoi crimini, era giunto a tal punto di tracotanza da esporre – come se fossero cadute le pareti – il nipote sotto la verga del centurione e i colpi degli schiavi, mentre implorava invano l’ultimo alimento dell’esistenza.

 

25. Non si era ancora dissipata quella penosa impressione quando si seppe che Agrippina era morta: forse, dopo l’uccisione di Seiano, l’aveva sostenuta la speranza e aveva cercato di prolungare l’esistenza; ma poiché il trattamento crudele che le era inflitto non veniva meno, s’era lasciata morire; a meno che le fossero negati gli alimenti e si lasciasse credere che si era data spontaneamente la morte. Tiberio trascese alle accuse più turpi, l’accusò di immoralità e di rapporti sessuali con Asinio Gallo e che fosse spinta alla stanchezza di vivere dalla morte di lui. Agrippina, al contrario, non tollerava d’esser messa alla pari con gli altri, era avida di potere e s’era spogliata dei difetti femminili in cambio di passioni virili. Morì lo stesso giorno in cui due anni prima Seiano aveva scontato i suoi delitti. L’imperatore fece notare la coincidenza come data da ricordare e al tempo stesso si vantò di non averla fatta strangolare né gettare dalle Gemonie. Il Senato gli rese grazie per questo e decretò che ogni anno quindici giorni prima delle Calende di novembre, anniversario delle due morti, fosse fatta un’offerta a Giove.

 

26. Non molto tempo dopo, Cocceio Nerva, amico inseparabile del principe, uomo esperto di diritto divino e umano, in prospere condizioni finanziarie e in ottima salute, decise di togliersi la vita. Quando ne fu informato, Tiberio sedette accanto a lui, gli chiese la ragione di quel proposito, gli rivolse insistenti preghiere, gli fece osservare quanto sarebbe stato grave per la sua coscienza e per la sua fama se uno dei suoi amici, che non aveva alcun motivo per morire, fuggiva la vita. Nerva si astenne dal rispondere e seguitò a ricusare il cibo; coloro che erano a conoscenza dei suoi pensieri riferirono che quanto più da vicino aveva avuto sotto gli occhi le sciagure dello Stato, sdegnato e impaurito aveva voluto una fine dignitosa fino a che era ancora immune da accuse e da sospetti. La fine di Agrippina trascinò con sé, cosa incredibile, quella di Plancina14. Sposa un tempo di Cn. Pisone, manifestò apertamente la sua gioia per la morte di Germanico. Dopo la fine di Pisone, l’avevano protetta le preghiere di Augusta e l’odio di Agrippina; ma quando sia il favore che l’odio vennero meno, prevalse la giustizia. Accusata di colpe note a tutti, si dette di sua mano una morte tardiva e non immeritata.

 

27. Nell’Urbe funestata da tanti lutti aggiunsero una buona dose di rammarico le seconde nozze di Giulia, figlia di Druso15, con Rubellio Brando, il cui avo, venuto da Tivoli, era ricordato da molti come semplice cavaliere romano. Alla fine dell’anno furono celebrate a spese dello Stato le esequie di Elio Lama; finalmente libero dal governo nominale della Siria, era stato prefetto di Roma. Di famiglia nobile, era un vegliardo pieno di energia e aveva acquistato maggior dignità per il fatto che gli era stato proibito di recarsi a governare la provincia.

Alla morte di Pomponio Fiacco, propretore della Siria, fu data lettura d’una lettera dell’imperatore, nella quale deplorava quegli esimii cittadini, capaci di comandare un esercito, che rifiutavano quella carica, tanto che egli era costretto a ricorrere alle preghiere per convincere alcuni consolari ad assumere il governo delle province; dimenticava che era stato proprio lui a trattenere Arrunzio per dieci anni dal recarsi in Ispagna.

L’anno stesso morì anche Lepido, della cui modestia e saggezza ho parlato a sufficienza nei libri precedenti; non è adunque necessario ch’io mi dilunghi ulteriormente su la sua nobiltà. La stirpe degli Emilii ha generato molti ottimi cittadini e se qualcuno della stessa famiglia ebbe costumi corrotti la sua sorte comunque fu illustre.

 

28. (34 d.C.) Sotto il consolato di Paolo Fabio e di L. Vitellio, dopo molti secoli venne in Egitto la fenice, il che offrì agli studiosi egiziani e greci argomento per ampie dissertazioni. Mi piace riferire le tesi sulle quali sono d’accordo e altre non accertate, che tuttavia vai la pena di conoscere.

Quelli che hanno descritto questo animale sacro al Sole dicono che è differente da tutti gli altri volatili nella testa e nel colore delle penne. I dati divergono sul numero degli anni della sua esistenza. Per lo più si ritiene che viva 500 anni; vi è poi chi crede che tra l’una e l’altra apparizione trascorrano 1461 anni e che le fenici siano state viste: la prima sotto il regno di Sesoside, poi di Amaside, poi di Tolomeo, il terzo della dinastia macedone16 abbia volato nella città di Eliopoli, seguita da uno stormo di uccelli diversi, stupefatti per il suo aspetto singolare. Avvenimenti così remoti del resto sono oscuri: tra Tolomeo e Tiberio sono trascorsi meno di 250 anni, sì che alcuni ritengono che questa fenice non sia quella autentica e nemmeno venuta dal paese degli Arabi e che non abbia compiuto ciò che le memorie antiche hanno tramandato: quando ha raggiunto il termine dell’esistenza, all’approssimarsi della morte, la fenice costruisce il nido nelle sue terre e qui effonde il seme dal quale nascerà il figlio; prima cura della nuova fenice, appena divenuta adulta, è dar sepoltura al genitore, ma non lo fa a caso. Si carica d’un peso di mirra e prova a sostenerlo per un lungo volo; quando si sente in grado sia di portarlo sia di percorrere la lunga distanza, si carica il corpo del padre e lo depone sull’altare del sole; e su questo lo arde. Sono notizie vaghe e ingigantite da elementi favolosi, ma che in Egitto questo volatile sia stato visto non lo mette in dubbio nessuno.

 

29. A Roma intanto proseguiva il massacro. Pomponio Labeone, che come ho detto, era stato al governo della Mesia, si tagliò le vene e lasciò scorrere il sangue; la moglie Paxea ne seguì l’esempio. Questo tipo di morte era frequente per il terrore del carnefice e perché a coloro che subivano l’estremo supplizio venivano confiscati i beni e vietata la sepoltura, mentre di coloro che decidevano la propria sorte si sotterravano le salme e si rispettava il testamento: era il compenso per aver affrettato la propria fine.

Tiberio scrisse al Senato che tra gli antichi vigeva l’uso che quando uno intendeva rompere l’amicizia con qualcuno, gli vietava l’accesso in casa sua; e così poneva fine ai loro rapporti. Così si era regolato con Labeone. Ma questi, imputato per la cattiva amministrazione della provincia e per altri reati, aveva voluto nascondere le proprie colpe e gettare odio sul principe; la moglie poi ne aveva condiviso la paura senza ragione, poiché, pur essendo colpevole lei pure, non correva alcun pericolo.

Subì poi una nuova denuncia Mamerco Scauro, uomo famoso per la nobiltà e per la facondia, ma di condotta riprovevole. Non aveva avuto nulla a che fare con Seiano ma lo rovinò l’odio non meno funesto di Macrone, che usava le stesse manovre ma maggior segretezza. Aveva tratto lo spunto della denuncia da una tragedia di Scauro, nella quale certi versi si potevano attribuire a Tiberio; Servilio e Cornelio inoltre lo accusavano anche di adulterio con Livia17 e di pratiche magiche. Scauro, con un gesto degno della stirpe Emilia, prevenne la condanna; ve lo esortò la moglie Sesia, la quale lo incitò alla morte e gli fu compagna.

 

30. Anche gli accusatori, però, quando se ne presentava l’occasione, pagavano il fio delle loro denunce: accadde a Servilio e a Cornelio, che avevano procurato la rovina di Scauro, i quali accettarono un compenso da Vario Ligure per non denunciarlo e perciò furono deportati nelle isole; l’ex edile Aburio Rusone, mentre tramava per rovinare Lentulo Getico, sotto il quale aveva comandato una legione, con l’accusa d’aver scelto per genero un figlio di Seiano, fu condannato a sua volta ed espulso da Roma. In quel momento Getulio si trovava al comando delle legioni nella Germania Superiore ed era fatto segno a grande affetto per la sua clemenza, la moderazione nei castighi e gradito anche all’esercito vicino, per merito del suocero L. Apronio. Correva però insistentemente la voce che Getulico avesse osato scrivere una lettera a Tiberio, nella quale ammetteva d’aver contratto parentela con Seiano, ma dietro consiglio di Tiberio; aveva potuto sbagliare tanto lui quanto Tiberio e quindi lo stesso errore non poteva esser considerato innocente per uno, motivo di morte per un altro. La sua lealtà era integra e tale sarebbe rimasta se non le fossero tese insidie; ma avrebbe considerato l’arrivo d’un successore come annuncio di morte. Che stringessero una specie di patto, in base al quale l’imperatore avrebbe avuto autorità su ogni cosa, ma la provincia sarebbe rimasta a lui. Cose che, per quanto incredibili, pure acquistavano credibilità per il fatto che lui solo di tutti i parenti di Seiano rimase incolume, anzi molto in favore. Evidentemente Tiberio era consapevole dell’odio che lo circondava e della sua estrema vecchiaia e che il suo potere si reggeva non tanto sulla forza quanto sulla fama.

 

31. (34 d.C.) Sotto il consolato di C. Cestio e M. Servilio, vennero a Roma dei nobili Parti, all’insaputa del re Artabano. Costui per paura di Germanico era stato fedele ai Romani e clemente con i suoi; ma ben presto mostrò alterigia verso di noi e crudeltà verso i sudditi, inorgoglito per il buon esito delle guerre che aveva combattuto contro le nazioni vicine e sprezzante verso la vecchiaia di Tiberio, che giudicava imbelle; bramava impadronirsi dell’Armenia, alla quale, dopo la morte di Artaxia, aveva posto come re Arsace, il maggiore dei suoi figli; al che aggiunse l’affronto di inviare legati a richiedere il tesoro che Vonone aveva lasciato in Siria e in Cilicia. Intanto proferiva minacce, parlava con jattanza dei vecchi confini tra Persiani e Macedoni e diceva di voler invadere i territori che un tempo erano appartenuti a Ciro e poi ad Alessandro. Il più attivo promotore nell’invio di legati persiani a Roma fu Sinnace, di famiglia insigne e ricchissima; e subito dopo di lui l’eunuco Abdo (cosa che presso i Persiani non suscita disprezzo, anzi procura maggior autorità). Questi due informarono altri nobili poiché non potevano affidare il comando a nessuno degli Arsacidi: Artabano li aveva soppressi o erano ancora nella puerizia; chiedevano ai Romani Fraate, il figlio del re Fraate, poiché occorreva loro soltanto un garante e un nome, affinché sulle sponde dell’Eufrate, con il consenso dell’imperatore, si vedesse la stirpe di Arsace.

 

32. Era ciò che Tiberio desiderava; e quindi rivestì Fraate di onori e lo fornì dei mezzi per conquistare il trono paterno, fermo nei suoi principi, di trattare i rapporti esteri con l’astuzia, tenendosi lontano dalle armi. Artabano intanto, venuto a conoscenza del complotto, a volte esitava per paura, a volte invece era acceso dal desiderio di vendetta. Per i barbari indugiare è ritenuto un comportamento da servi, mentre agire con prontezza è da re; tuttavia prevalse il calcolo: fingendosi amico, invitò Abdo a un banchetto e con un veleno lento lo rese inoffensivo e intanto, dissimulando, coprendolo di doni e affidandogli incarichi di vario genere, fece sì che Sinnace perdesse tempo. Fraate intanto che, abbandonato il modo di vivere romano, al quale per tanti anni s’era assuefatto, era tornato ad assumere quello dei Parti, non resistette e una malattia lo portò via in Siria. Non per questo Tiberio desistette dal suo proposito: come rivale da contrapporre ad Artabano scelse Tiridate, che apparteneva alla stessa stirpe, e l’ibero Mitridate per la riconquista dell’Armenia. Lo rinciliò con il fratello Farasmane, che reggeva il paese e a tutte le questioni orientali prepose Vitellio. Non ignoro che a Roma costui godeva d’una pessima fama e che di lui si ricordano molte azioni ignominiose, ma nel governo delle province si comportò con il rigore d’un tempo. Quando rientrò a Roma, per paura di Caio Cesare e per la famigliarità con Claudio si trasformò in un ignobile servo e dai posteri è stato giudicato un esemplare di adulazione abbietta; i meriti degli inizii svanirono di fronte alle malefatte successive e la condotta pregevole dei suoi giovani anni fu offuscata dalla turpe vecchiaia.

 

33. Mitridate intanto, il primo dei sovrani minori, indusse Farasmane ad assecondare i suoi sforzi con l’inganno e con la forza; e furono trovati corruttori che con molto oro spinsero i ministri di Arsace al delitto; intanto gli Iberi con forze ingenti irrompono in Armenia e si impadroniscono di Artaxata. Quando Artabano ne fu informato, prepara un vendicatore, il figlio Orode; gli affida truppe partiche, manda ad assoldare ausiliari. Farasmane intanto si aggrega gli Albani, fa appello ai Sarmati, i capi dei quali18, dopo aver accettato doni da entrambi i contendenti, com’è l’uso di quel popolo, parteggiarono per gli uni e per gli altri. Gli Iberi, padroni dei luoghi, attraverso la gola Caspica lanciano i Sarmati contro gli Armeni e intanto le forze che si avvicinavano ai Parti venivano facilmente trattenute, poiché il nemico aveva chiuso gli altri passi e l’ultimo rimasto, tra il mare e le estreme diramazioni dei monti Albani, era inaccessibile per l’estate, poiché le spiagge erano inondate dallo spirare dei venti etesii; d’inverno invece l’austro respinge le onde e il mare è spinto indietro, sì che il bagnasciuga viene lasciato scoperto.

 

34. Farasmane intanto, forte dell’aiuto degli alleati, provoca a battaglia Orode, privo di ausiliari e riluttante; si aggira con la cavalleria attorno agli accampamenti, disturba i rifornimenti; e spesso lo circonda con postazioni armate, a mo’ di assedio, fino a che i Parti, intolleranti di provocazioni, si stringono attorno al re e chiedono battaglia. La loro sola forza consisteva nella cavalleria; mentre Farasmane era forte anche nella fanteria. Gli Iberi e gli Albani, residenti in località montuose, sono più avvezzi a sopportare disagi; dicono d’esser discendenti dai Tessali, al tempo in cui Giasone, dopo aver rapito Medea e aver generato figli da lei, tornò nuovamente nella reggia ormai vuota di Eea e nella Colchide, disabitata; essi vantano molto l’eroe e l’oracolo di Frisso19 e nessuno tra loro sacrificherebbe mai un ariete, poiché si crede che un ariete abbia trasportato Frisso, sia che si trattasse veramente d’un animale o d’una decorazione della nave. Comunque, disposti gli eserciti in ordine di battaglia, i Parti vantavano il loro dominio sull’oriente e la gloriosa dinastia degli Arsacidi, schierati contro gli ignobili Iberi, esercito mercenario; Farasmane dichiarava che erano stati sempre immuni dalla dominazione partica e quanto più alte le mète a cui miravano tanto più onorevole sarebbe stata la loro vittoria; mentre se avessero voltato le spalle, avrebbero incontrato maggior pericolo e disonore; e indicava le sue schiere irte di armi, e scintillanti d’oro quelle dei Medi: da questa parte guerrieri, dall’altra nulla più che prede.

 

35. Dalla parte dei Sarmati non si udiva soltanto la voce del capo: i soldati si incoraggiavano a vicenda a non lasciare che la battaglia si limitasse al lancio dei dardi: con un attacco improvviso bisognava sorprendere il nemico. Ne seguì uno scontro dai varii aspetti, poiché i Parti, avvezzi con pari abilità sia all’inseguimento sia alla fuga, diradavano le loro schiere per allargare lo spazio ai dardi, mentre i Sarmati, deposto l’arco, poiché aveva un tiro più breve, si precipitavano avanti con le spade e con le aste. Come avviene in uno scontro di cavalleria, si alternavano attacchi e ritirate e duelli corpo a corpo, nel cozzar dei brandi si spingeva e si veniva spinti. Ormai Albani e Iberi afferravano i nemici, li tiravano giù dai cavalli, li costringevano a una duplice difesa, poiché i cavalieri li colpivano dall’alto, i fanti dal basso. Farasmane e Orode intanto, mentre sono vicini ai valorosi e incoraggiano gli incerti, essendo molto visibili entrambi, si riconobbero e si lanciarono l’un contro l’altro a cavallo, Farasmane con maggior veemenza, tanto che colpì il nemico e gli attraversò l’elmo; ma non riuscì a colpirlo una seconda volta perché il cavallo lo trascinò via e intanto i più forti tra i custodi del re proteggevano il ferito; si diffuse la voce che fosse morto, fu creduta e i Parti ne furono atterriti, così si lasciarono sfuggire la vittoria.

 

36. Subito dopo Artabano con tutte le forze del regno si avventa per vendicarsi. Nella battaglia che seguì gli Iberi ebbero la meglio per la loro esperienza dei luoghi; ma non per questo Artabano si sarebbe ritirato se Vitellio, adunate le legioni, non avesse sparso la notizia che stava per invadere la Mesopotamia, il che suscitò la paura d’una guerra con i Romani. Perduta l’Armenia, le sorti di Artabano precipitarono. Vitellio inoltre incitava i Parti a disertare da un re crudele in pace e nefasto per le sconfitte in guerra; Sinnace inoltre, che, come ho già detto, gli era ostile, indusse ad abbandonarlo il padre Abdagese e alcuni altri che segretamente tramavano e ora erano più disposti ad agire, dopo le continue disfatte; poco a poco si unirono a loro molti altri, che erano sottoposti per paura più che per devozione; l’aver trovato dei capi della rivolta li incoraggiò. Ad Artabano ormai non restavano più altro che le guardie del corpo, uomini stranieri, espulsi dai loro stessi paesi d’origine, che non avevano nozione del beile e del male, ma si facevano pagare per commettere delitti. Li prese con sé e si affrettò a fuggire fino ai più lontani confini della Scizia, sperando nell’aiuto degli Ircani e dei Carmani, ai quali era legato da parentela. Contava inoltre sul fatto che i Parti nel frattempo si sarebbero pentiti poiché erano equi nel giudicare gli assenti, mutevoli invece verso i presenti.

 

37. Vitellio intanto, dato che Artabano era fuggito e i suoi concittadini erano inclini a cercarsi un nuovo sovrano, incoraggiò Tiridate ad attuare i suoi progetti e accompagnò il nerbo delle legioni e degli alleati fino alle sponde dell’Eufrate. Qui compirono sacrifici: Vitellio, secondo il rito romano del suovetaurilia, un porco, una pecora e un toro, Tiridate, per propiziarsi il fiume, un cavallo dai bei finimenti. Ed ecco accorrere la gente del luogo ad annunciare che l’Eufrate s’era gonfiato spontaneamente, senza che vi fosse stato alcun rovescio di pioggia e che su le candide spume si disegnavano circoli a mo’ di diademi, auspicio di prospera traversata. Alcuni però, con una interpretazione più sottile, spiegarono che gli inizi dell’impresa sarebbero stati fausti, ma non duraturi, poiché sono più affidabili i portenti del cielo e della terra che non quelli dei fiumi, la cui natura è instabile e nel momento stesso in cui fanno apparire un segno lo dissolvono. Comunque, fu costruito un ponte di barche e vi si fece passare l’esercito; per il primo lo attraversò Ornospade con molte migliaia di cavalieri. Costui era stato esule e, quando Tiberio combatteva in Dalmazia, gli aveva offerto aiuto non senza gloria; come compenso, aveva ricevuto la cittadinanza romana. In seguito, rinnovata l’amicizia con il re Artabano, fu trattato da lui con molto onore e messo al governo di quei territori che si trovano in mezzo ai due famosi fiumi, il Tigri e l’Eufrate, e per questo si chiamano Mesopotamia. Non molto tempo dopo, Sinnace aumentò con le sue le milizie del re; e Abdagese, autorità suprema del partito, vi aggiunse il tesoro e l’apparato regale.

Vitellio ritenne che il solo apparire delle armi romane fosse sufficiente; ammonì Tiridate e i notabili, il primo a non dimenticare che aveva avuto Fraate come avo e Cesare come tutore, duplice titolo d’onore per lui; esortò gli altri a mantenere sempre ossequio verso il re e reverenza verso di noi; a ciascuno rammentò la sua dignità e lealtà. Quindi fece ritorno in Siria con le legioni.

 

38. Ho riunito insieme questi avvenimenti, che si verificarono durante due estati, per sollevare l’animo dalle sciagure della patria. Infatti, benché dalla morte di Seiano fossero trascorsi tre anni, il tempo, le preghiere, la sazietà, che di solito placano il rancore, non mitigavano l’animo di Tiberio, né lo dissuadevano dal punire fatti incerti o ormai dimenticati, come se fossero recenti e gravissimi. Spinto da questa paura Fulcinio Trione, non sopportando le imputazioni degli accusatori, nel suo testamento scrisse contumelie atroci contro Macrone e i principali liberti dell’imperatore, denunciando lui di demenza senile e la sua continua assenza da Roma come esilio. Gli eredi nascosero quel testamento ma Tiberio ordinò che gli fosse letto, ostentando tolleranza verso la libertà altrui e disdegno delle parole che colpivano lui d’infamia; forse perché, per tanto tempo all’oscuro dei delitti di Seiano, ora preferiva che fossero divulgate le calunnie che in qualsiasi modo erano state dette di lui e preferiva, anche attraverso le ingiurie, conoscere la verità, sempre nascosta dall’adulazione. Negli stessi giorni il senatore Granio Marciano, denunciato per lesa maestà da G. Gracco, si tolse la vita; e Tario Graziano, ex pretore, in base alla stessa legge fu condannato a morte.

 

39. Non diversa fu la fine di Trebellieno Rufo e di Sesto Paconiano; il primo infatti si tolse la vita, il secondo fu strangolato in carcere, a causa dei versi ivi composti contro l’imperatore. Tiberio non riceveva più, come un tempo, queste notizie al di là del mare, per mezzo di messaggi inviati da lontano, ma nei pressi di Roma, tanto che nella giornata stessa o con l’intervallo d’una notte poteva rispondere alle lettere dei consoli e quasi vedere con i suoi occhi il sangue grondante nelle case e le mani dei carnefici.

Alla fine dell’anno morì Poppeo Sabino, uomo di origini modeste, che tuttavia era pervenuto al consolato e all’onore del trionfo grazie all’amicizia dei principi e per ventiquattro anni aveva governato le province più importanti, non perché avesse qualità eccezionali, ma perché era adatto, non superiore, a quelle funzioni.

 

40. Seguirono i consoli Q. Plauzio e Sesto Papinio. Lo stesso anno né il ritorno di L. Aruscio dall’esilio né l’esecuzione di molti attirò attenzione come fatti particolarmente feroci, perché ormai si era avvezzi alle sciagure; ma suscitò terrore il fatto che un cavaliere romano, Vibullio Agrippa, mentre i suoi accusatori parlavano, nella stessa aula del Senato trasse dalla toga un veleno e lo bevve; caduto a terra morente fu afferrato dai littori che si affrettarono a portarlo in carcere e gli strinsero il laccio alla gola quando ormai era morto.

Neppure Tigrane, che un tempo era stato padrone dell’Armenia e ora era imputato, in grazia del titolo di re si sottrasse al supplizio dei cittadini, mentre l’ex console C. Galba e i due Blesi si dettero la morte volontariamente: Galba perché una dura lettera di Tiberio lo aveva escluso dal sorteggio d’una provincia, i Blesi perché alcune cariche sacerdotali, alle quali erano stati designati quando la loro famiglia era in auge, erano state deferite ad altri dopo che era caduta in rovina, come fossero vacanti: essi lo intesero come una condanna a morte e la eseguirono. Emilia Lepida che, come ho detto, era andata sposa al giovane Druso20, dopo aver infierito contro il marito con insistenti accuse, benché esecranda, visse impunita fino a che fu in vita suo padre Lepido; dopo di che fu preda dei delatori per aver commesso adulterio con uno schiavo e nessuno mise in dubbio il suo reato. Perciò rinunciò a difendersi e pose fine ai suoi giorni.

 

41. Nello stesso tempo il popolo dei Ceti, soggetto ad Archelao di Cappadocia, si ritirò su i monti del Tauro, perché gli veniva imposta la dichiarazione degli averi e il pagamento dei tributi, secondo il nostro costume. Grazie alla natura dei luoghi si difendeva dall'esercito di scarso valore del re. Fino a che il legato M. Trebellio, inviato da Vitellio, governatore della Siria, con quattromila legionari e ausiliari scelti, innalzò bastioni tutt’attorno a due colli – uno si chiama Cadra, l’altro Cavara – sui quali i barbari s’erano arroccati e costrinse alla resa quelli che avevano osato operare una sortita; gli altri si arresero per la sete.

Tiridate intanto, d’accordo con i Parti, occupò Niceforio e Antemusiade e altre città che, benché fondate dai Macedoni, portano nomi greci, e Ale e Artemida, città dei Parti; esultavano a gara tutti quelli che avevano odiato per la sua crudeltà Artabano, allevato dagli Sciti; speravano fosse più mite Tiridate, educato nel costume romano.

 

42. La più smaccata adulazione la dimostrarono gli abitanti di Seleucia, città potente, cinta di mura, che, non corrotta ad usi barbarici, conservava i costumi del fondatore, Seleucio. Ivi trecento cittadini, scelti per il censo e per la saggezza, compongono il Senato, ma il popolo possiede una propria autorità. Fino a che vanno d’accordo, non hanno paura dei Parti; ma non appena dissentono e ciascuno ha bisogno d’un appoggio contro gli avversari, i Parti, chiamati a sostenere un partito, finiscono per imporsi su entrambi. Era avvenuto recentemente, sotto il regno di Artabano, il quale aveva consegnato la plebe alla signoria dei notabili; poiché il potere del popolo tende alla libertà, quello dei pochi al dispotismo. All’arrivo di Tiridate, gli abitanti di Seleucia lo ricoprono di onori, quelli dei sovrani antichi e quelli, ancor più eccelsi, inventati in tempi recenti e prorompono in invettive conto Artabano: era sì un Arsacide per parte di madre, ma per il resto era degenere. Tiridate consegnò al popolo il governo di Seleucia.

Mentre rifletteva in quale giorno sarebbe stato opportuno assumere le insegne regie, ricevette una lettera da Fraate e da Gerone, che occupavano le prefetture più importanti, nella quale lo pregavano d’un breve indugio. Acconsentì ad aspettare, poiché si trattava di personaggi così eminenti e intanto si trasferì a Ctesifonte, residenza del governo regio. Ma poiché quelli rinviavano di giorno in giorno il loro arrivo, al cospetto d’una folla osannante Surena secondo il costume dei padri lo incoronò con il diadema regio.

 

43. Se si fosse recato subito nelle province interne e presso le nazioni vicine, sarebbero cadute le esitazioni dei dubbiosi e si sarebbero uniti tutti in un solo partito; Tiridate invece indugiò nell’assedio della fortezza, nella quale Artabano aveva portato il tesoro e le concubine e così lasciò il tempo per mancare agli impegni: Fraate e Gerone, infatti, e tutti quelli che avevano mancato al giorno destinato alla consegna della corona, alcuni per timore, altri per odio verso Abdagese, autorità suprema sulla corte e sul nuovo re, si schierarono con Artabano. Fu rintracciato in Ircania, coperto di cenci e costretto a campar la vita cacciando. Sulle prime fu colto da terrore, temendo gli si tendesse un tranello, ma quando gli si dette la garanzia che erano venuti per restituirgli il potere, prese coraggio e domandò quale improvviso cambiamento fosse intervenuto. Gerone allora criticò aspramente l’età acerba di Tiridate, e disse che non era stato affidato l’impero a un Arsacide ma un vano titolo a un imbelle, degenerato dai molli costumi dello straniero e che il vero potere ormai apparteneva ad Abdagese.

 

44. Ormai da lunghi anni esperto del potere regio, Artabano intuì che se nella devozione mentivano, nell’odio erano sinceri. Non indugiò più di quanto serviva per raccogliere ausiliari Sciti, e si mosse rapido per prevenire sia le trame dei nemici sia il pentimento degli amici; e non si spogliò degli stracci che indossava per suscitare la compassione del popolo. Non fu trascurata astuzia, preghiera né alcun altro mezzo che servisse a persuadere gli incerti, a stimolare quelli che erano già pronti. Era già avanzato con grandi forze fino alle vicinanze di Seleucia mentre Tiridate, sconvolto dalle notizie e dall’approssimarsi di Artabano in persona, si dibatteva tra opposti propositi, se muovere contro di lui o negoziare la guerra temporeggiando. Quelli che erano favorevoli a battersi e a un’azione rapida ritenevano che i nemici, disuniti, stremati per il lungo viaggio, non avevano ancora l’animo per aggregarsi sotto una disciplina adeguata; erano gli stessi che poco prima avevano tradito e osteggiato colui che ora sostenevano. Abdagese invero era del parere che fosse meglio ritirarsi in Mesopotamia; qui, difesi dal fiume, concentrando alle spalle gli Armeni, gli Elimei e tutti gli altri, con il rinforzo delle milizie alleate e di quelle che avrebbe mandato il comandante romano, avrebbero tentato la sorte. Prevalse questa opinione, perché Abdagese godeva di grandissimo prestigio e Tiridate davanti al pericolo era un codardo. Ma quella dipartita ebbe l’aria d’una fuga; e, sull’esempio degli Arabi, tutti se ne andarono dalle case o ripararono presso Artabano; fino a che Tiridate fece ritorno in Siria con pochi uomini e così assolse tutti dalla vergogna del tradimento.

 

45. L’anno stesso Roma fu colpita da un grave incendio; andò distrutta la parte del Circo prossima all’Aventino e l’Aventino stesso: catastrofe che Cesare volse a propria gloria, risarcendo il valore delle dimore private e dei palazzi d’affitto. In quella largizione furono versati cento milioni di sesterzi e il popolo ne fu tanto più lieto quanto più il principe, così parco nel costruire edifici privati, anche di quelli pubblici ne innalzò due soli, il tempio di Augusto e la scena del teatro di Pompeo: una volta compiuti, non si curò nemmeno di inaugurarli, sia per disprezzo dell'ambizione sia per vecchiaia. A compilare il calcolo dei danni di ciascuno furono incaricati i quattro progeneri di Tiberio, Gn. Domizio, Cassio Longino, M. Vinicio, e Rubellio Blando. Ad essi fu aggiunto P. Petronio, nominato dai consoli; e, secondo l’animo di ciascuno, si inventarono e si decretarono onori all’imperatore, né si seppe con certezza quali egli abbia accettato e quali rifiutato, dato che ormai la sua fine era imminente.

Non molto tempo dopo rivestirono il consolato quelli che per Tiberio furono gli ultimi, Acerronio e C. Ponzio. Già era eccessivo il potere di Macrone; egli non aveva mai trascurato l’amicizia di Caio Cesare, ma ora di giorno in giorno la coltivava di più e dopo la morte di Claudia, che, come ho già detto, era stata la sua sposa, aveva indotto la propria moglie Ennia a fingersi innamorata, a sedurre il giovane, a legarlo con una promessa di matrimonio; il giovane non rifiutava nulla per impadronirsi del potere: benché fosse di carattere emotivo, vivendo accanto all’avo aveva imparato a dissimulare.

 

46. Non ne era ignaro l’imperatore e perciò era indeciso a quale dei nipoti avrebbe consegnato lo Stato. Il figlio di Druso gli era più vicino per il sangue e per l’affetto, ma non era ancora entrato nella pubertà; il figlio di Germanico21 aveva dalla sua la forza della gioventù, le preferenze del popolo, cose che per Tiberio rappresentavano motivi di odio. Considerò anche Claudio, perché avanti negli anni e amante degli studi22, ma gli faceva ostacolo il fatto che mentalmente era minorato. Se poi volgeva la mente a un successore estraneo alla famiglia, temeva di esporre la memoria di Augusto, il nome dei Cesari al disprezzo, alle contumelie: poiché più che al consenso dei contemporanei teneva alla fama presso i posteri. Col tempo, incerto nell’animo e indebolito nel fisico, affidò al fato quella decisione che non si sentiva in grado di prendere; tuttavia gli sfuggirono alcune parole dalle quali si poteva comprendere che era presago di ciò che sarebbe avvenuto. A Macrone rimproverò, con allusione esplicita, di voltare le spalle all’occidente e mirare all’oriente; e a Caio Cesare che, in una conversazione casuale, derideva L. Silla, disse che egli avrebbe avuto tutti i vizi di quel dittatore, e nessuna delle qualità. E mentre stringeva a sé piangendo il minore dei nipoti guardò il volto truce dell’altro e gli disse: «questo sarai tu a ucciderlo, un altro ucciderà te». Benché i suoi mali si aggravassero, non rinunciava ai suoi piaceri, ostentava forza d’animo nel sopportare il male e scherniva l’arte dei medici e coloro che, superati i trent’anni, hanno bisogno del consiglio altrui per sapere che cosa sia giovevole al loro corpo e che cosa nocivo.

 

47. A Roma intanto si gettava il seme di omicidi che sarebbero stati commessi anche dopo Tiberio. Lelio Basso aveva denunciato di lesa maestà Acuzia, che era stata la moglie di P. Vitellio; dopo la condanna, mentre si calcolava il compenso del delatore, il tribuno della plebe Giunio Otone pose il veto, il che fu causa dell’odio che in seguito provocò la sua rovina. Poi Albucilla, nota per i numerosi amanti, che era stata la moglie di Satrio Secondo, il delatore della congiura23, viene denunciata per empietà verso il principe. Furono imputati come suoi complici i suoi amanti Gn. Domizio, Vibio Marzio e L. Arrunzio. Ho già ricordato la fama di Domizio; anche Marzio era di antica nobiltà e celebre per i suoi studi. Ma i resoconti inviati al Senato dicevano che Macrone aveva assistito airinterrogatorio dei testimoni e alla tortura degli schiavi, e poiché non esistevano lettere dell’imperatore era giustificato il sospetto che la maggior parte delle accuse fossero state inventate da Macrone per la sua nota ostilità verso Arrunzio, mentre l’imperatore era malato e forse non ne sapeva niente.

 

48. Mentre Domizio preparava la sua difesa e Marzio sembrava deciso a morire d’inedia, riuscirono a prolungarsi la vita; Arrunzio agli amici che cercavano di persuaderlo a tirare per le lunghe rispose che la dignità non era la stessa per tutti: aveva vissuto abbastanza e non aveva da pentirsi di null’altro che d’aver sopportato una vecchiaia dolorosa, tra ingiurie e pericoli, inviso per lungo tempo a Seiano, ora a Macrone, sempre a qualcuno dei potenti, non per colpa sua ma perché non tollerava i delitti. Certamente, gli sarebbe riuscito di superare i pochi giorni che mancavano alla morte di Tiberio: ma in che modo si sarebbe sottratto alla giovinezza del successore? Se Tiberio, dopo una così lunga esperienza, era stato alterato e travolto dalla violenza insita nel potere, avrebbe forse preso una strada migliore Caio, appena uscito dalla fanciullezza, ignaro di tutto o allevato dai peggiori, sotto la guida di Macrone, il quale, scelto per distruggere Seiano perché peggiore di lui, aveva contristato lo Stato con un maggior numero di delitti? Non scorgeva altra prospettiva che una servitù ancora più dura e perciò voleva sottrarsi ai mali presenti e a quelli futuri. Declamò queste parole con tono profetico e si tagliò le vene. I fatti che seguirono dimostrarono che Arrunzio aveva fatto bene a morire. Albucilla, che si era ferita con un colpo maldestro, per ordine del Senato fu portata in carcere. Dei complici dei suoi adulteri, l’ex pretore Carsidio Sacerdote fu relegato in un’isola, Ponzio Fregellano fu spogliato del titolo di senatore, le stesse pene furono inflitte a Lelio Basso. I senatori ne esultarono, poiché Balbo era considerato un oratore tagliente, pronto a infierire contro gli innocenti.

 

49. Negli stessi giorni Sesto Papinio, di famiglia consolare, scelse una morte rapida e orrenda: si gettò dall’alto.

Si riteneva che la colpa fosse della madre, la quale, più volte respinta, con turpi allettamenti aveva spinto il giovane ad azioni tali da non trovare scampo se non nella morte. Accusata in Senato, benché, prostrata alle ginocchia dei senatori, invocasse il lutto comune e la fragilità dell’animo femminile in simili frangenti, e adducesse a lungo argomenti tristi e compassionevoli, fu tuttavia allontanata da Roma per dieci anni, fino a che il figlio minore fosse uscito dagli ardori della prima giovinezza.

 

50. Ormai a Tiberio cedeva il fisico, venivano meno le forze, ma non la capacità di fingere né la durezza dell’animo; vigile su quel che diceva e sull’espressione del volto, talvolta con brio forzato cercava di mascherare il suo declino, benché evidente. Spesso si trasferiva da un luogo all’altro, finalmente pose la sua residenza presso il promontorio di Miseno, in una villa che era appartenuta a L. Lucullo. Qui si approssimava alla fine e lo si potè constatare nel modo seguente: vi era un medico famoso, di nome Caricle, il quale non soleva controllare regolarmente i disturbi dell’imperatore, ma almeno gli offriva la possibilità di consultarlo. Come se si accingesse a partire per affari suoi, gli strinse la mano a mo’ di commiato e riuscì a sentirgli il polso; ma non lo ingannò. Tiberio infatti, forse irritato e appunto per questo celando il suo malumore, ordinò di allestire la mensa e rimase a tavola più a lungo del solito, come se volesse far onore all’amico in partenza. Caricle però diede per certo a Macrone che le sue forze venivano meno e che ne aveva per due giorni al massimo. Di conseguenza i presenti conferirono su tutto ciò che era necessario e prepararono con urgenza i messi da inviare ai governatori e agli eserciti. Il diciassettesimo giorno prima delle Calende di aprile, gli mancò il respiro e si credette che avesse cessato di vivere; già Caio Cesare, in mezzo a una folla di persone festanti, usciva a cogliere le primizie del potere, quando improvvisamente gli si riferì che Tiberio aveva recuperato la voce e la vista e chiamava qualcuno che gli portasse da mangiare per riprendersi dal deliquio. Si sparse il terrore e mentre gli altri si disperdevano qua e là, e chi si fingeva triste e chi mostrava di non saper nulla; Caio Cesare immobile, muto, caduto dal culmine delle speranze, si aspettava imminente chissà quale condanna. Macrone senza tremare ordinò di soffocare il vecchio sotto un cumulo di coperte e di allontanarsi dalla porta. Così finì Tiberio, a settantotto anni.

 

51. Era figlio di Nerone e discendeva dai Claudi sia per parte paterna sia materna; la madre però per adozione era entrata nella famiglia dei Livi e, recentemente, in quella Giulia. Fin dall’infanzia la sua sorte fu in pericolo, poiché seguì il padre, proscritto. Quando poi entrò da figliastro nella famiglia di Augusto, si trovò a dover competere con molti rivali, fino a che furono in vita Marcello, Agrippa e poi i Cesari Gaio e Lucio24. Il fratello Druso, del resto, era amato dal popolo più di lui. Ma il momento più insidioso lo attraversò quando era sposo di Giulia, sia nel tollerare la condotta immorale di lei, sia nel separarsi. Rientrato da Rodi, per dieci anni colmò il vuoto della casa di Augusto, poi per ventitré esercitò il potere assoluto su Roma. Anche nel modo di comportarsi attraversò fasi diverse: fino a che era un privato cittadino o investito di comandi da Augusto, la sua condotta fu egregia nei costumi e nella riputazione; fu segreto e subdolo nel simulare virtù fino a che furono in vita Germanico e Druso e, fino a che visse la madre, in parte buono in parte malvagio. D’una crudeltà esecrabile, occultava le sue turpitudini fino a che viveva Seiano e ne aveva paura; ma poi alla fine precipitò nei delitti e nella depravazione quando, abbandonato ogni ritegno e timore, cedette unicamente alla propria natura.

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
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