Libro quinto
Il quinto libro prosegue nella narrazione degli eventi dell’anno 70 d.C. (823 di Roma). Si interrompe dopo il ventiseiesimo capitolo.
70 d.C.: furono consoli Flavio Vespasiano Augusto (seconda volta) e Tito Flavio Vespasiano.
1. Cesare Tito, famoso per la sua abilità militare ancora quando erano privati cittadini lui e suo padre, aveva ricevuto da questi rincarico di concludere l’assoggettamento della Giudea1. Al principio di quel medesimo anno, agiva con maggiore decisione e autorità, poiché province ed eserciti facevano a gara nell’attestargli il loro favore. Tito voleva essere giudicato superiore alla sua stessa fortuna e allora cercava di apparire nel massimo splendore della sua dignità e insieme pronto a combattere: quando i soldati semplici erano al lavoro oppure marciavano, egli si mescolava a loro e, con parole di grande cordialità, li incitava al dovere. Non per questo veniva meno al suo decoro di comandante.
In Giudea fu accolto da tre legioni2, la quinta, la decima, la quindicesima, formate tutte da veterani di Vespasiano. Tito vi aggiunse la dodicesima dalla Siria3 e legionari della ventiduesima e della terza che aveva condotti da Alessandria; si trovavano nel suo seguito anche venti coorti alleate e otto reparti di cavalleria; vi erano poi i re Agrippa e Soemo, gli aiuti del re Antioco e una valida schiera di Arabi, ostile ai Giudei per quell’odio che è tipico di popoli confinanti tra loro. E c’erano anche molti arrivati da Roma e dall’Italia, spinti dalla speranza di ingraziarsi l’animo del principe che era ancora disponibile a concedere nuovi privilegi. Entrò con queste forze nel territorio nemico e, dopo esser avanzato in perfetto ordine, fece le debite esplorazioni, ormai pronto a dare battaglia. Pose gli accampamenti non distante da Gerusalemme.
2. Mi accingo a narrare le vicende estreme di una città famosa e quindi mi pare giusto ricordarne le origini. Si racconta4 che i Giudei, profughi dall’isola di Creta, abbiano preso dimora nella parte estrema della Libia, all’epoca in cui Saturno, cacciato dalla prepotenza di Giove, si allontanò dai suoi regni. La prova è nel nome: in Creta esiste il famoso monte Ida i cui abitanti si chiamano Idei. Questo termine, modificato da un linguaggio barbaro, diventa Giudei.
Secondo altri, sotto il regno di Iside, la popolazione sovrabbondante dell’Egitto avrebbe trovato sfogo nelle terre vicine sotto la guida di Ierosolimo e di Giuda. Secondo i più, sarebbero discendenti degli Etiopi che, durante il regno di Cefeo, furono costretti a cambiare sede, per paura e odio5.
Un’altra tradizione riferisce che degli avventurieri assiri, spinti dalla povertà dei loro terreni, si siano impadroniti di parte del territorio egiziano e che abbiano finito col possedere città proprie e coltivare le terre ebraiche e i territori più vicini alla Siria6. Ben più illustri sono, secondo altri, le origini dei Giudei: sarebbero stati i Solimi7, popolo di cui parlano anche i poemi omerici, a fondare una città che chiamarono, dal loro stesso nome, Gerusalemme.
3. La maggior parte delle fonti sostiene concordemente che, durante una pestilenza che straziava i corpi del popolo egiziano, il re Boccori8 sia andato a consultare l’oracolo di Ammone per trovare un rimedio. Gli fu risposto che doveva purificare il suo regno e trasportare in altri territori gli uomini di una stirpe che era in odio agli dèi. Egli allora fece raccogliere e radunare quel popolo e lo abbandonò in mezzo ad un deserto. Tutti erano istupiditi e in lacrime, finché Mosè, unico tra gli esuli, li ammonì a non aspettarsi alcun aiuto dagli uomini e dagli dèi, abbandonati, com’erano, dagli uni e dagli altri; dovevano affidarsi a lui come a una guida mandata dal cielo9 perché era stato lui ad aiutarli per primo ad uscire dal disagio in cui si dibattevano. Essi furono d’accordo e, pur all’oscuro di tutto, intrapresero un viaggio pieno di incognite.
La difficoltà maggiore che dovettero affrontare fu la mancanza d’acqua: già erano sparsi per un largo tratto, stramazzati a terra e vicini alla morte, quando una mandria di asini selvatici, di ritorno dal pascolo, si rifugiò sotto uno sperone di roccia, ombreggiata da un boschetto. Mosè li seguì e, congetturando dal terreno erboso, scoprì abbondanti vene d’acqua. Si ristorarono e, dopo sei giorni di strada, andarono ad occupare, nel settimo, delle terre: ne scacciarono gli abitanti, vi costruirono una città e vi dedicarono un tempio10.
4. Mosè voleva che, anche in seguito, il popolo restasse legato alui e introdusse riti nuovi e del tutto opposti a quelli degli altrimortali. Presso di loro sono empie tutte le cose che da noi sonosacre e invece si concedono tutto ciò che per noi è sacrilego11.
Consacrarono in un santuario segreto l’immagine di quell’animaleche aveva indicato la fine del loro vano aggirarsi e della sete, dopoaver sacrificato un ariete quasi in sfregio ad Ammone. E fu immolato anche un bue, perché gli Egiziani venerano Api12. Si astengono dalla carne suina in memoria del flagello che li aveva colpiti: è la lebbra cui anche il maiale è soggetto.
Ancora oggi con prolungati digiuni testimoniano la fame di un tempo e viene mantenuto, come segno delle messi raccolte in fretta, l’uso del pane senza lievito13. Si dice che abbiano eletto al riposo il settimo giorno, nel ricordo di quel settimo giorno che aveva visto la fine delle loro sofferenze. Poi, con l’abitudine alla pigrizia, consacrarono all’ozio anche un anno ogni sette14.
Altri pensano che questo sia un uso legato al ricordo di Saturno; un primo motivo può essere questo: i Giudei hanno ricevuto i fondamenti della religione dagli abitanti del monte Ida (che sappiamo essere stati cacciati assieme a Saturno ed essere progenitori di questo popolo); è anche possibile che si tenga conto del fatto che, delle sette stelle che sovrintendono alle sorti dei mortali, quella di Saturno ha orbita più ampia e influsso prevalente. Inoltre la maggior parte dei corpi celesti compie il suo cammino e le sue evoluzioni secondo un ciclo settennale15.
5. Questi riti, comunque introdotti, trovano giustificazione nella loro antichità. Le altre pratiche sono perverse e infami e si sono imposte per la loro depravazione. Infatti la peggior feccia di questo mondo, dopo aver rinnegato le religioni patrie, portava lì tributi e denaro: in questo modo la potenza dei Giudei crebbe, anche perché tra di loro sono sempre molto leali e molto disponibili al mutuo soccorso, mentre riserbano il loro odio più aspro a tutti gli altri16.
Siedono a mensa separati e, ancora separati, dormono: ma sono uomini di sfrenata libidine, abituati a non avere rapporti sessuali con donne di altri popoli e a considerare, invece, tutto lecito tra loro. Hanno istituito l’usanza della circoncisione, per riconoscersi tra loro da questo segno distintivo. Coloro che hanno accettato di condividerne le abitudini, seguono la stessa pratica e come prima conseguenza imparano a disprezzare gli dèi, a rinnegare la loro patria, a non tenere in alcun conto i rapporti di paternità, figliolanza e fraternità.
I Giudei tengono comunque molto a che il loro numero si incrementi: è proibito, infatti, uccidere uno qualsiasi dei figli in soprannumero17; pensano anche che le anime dei morti in battaglia o in mezzo ai supplizi vivano eternamente; qui si originano la propensione a procreare e il disprezzo per la morte. I loro morti non vengono bruciati ma, sull’esempio degli Egizi, vengono inumati. Dagli Egizi hanno anche mutuato le cerimonie e le credenze circa le divinità infernali, mentre si discostano da essi per quanto riguarda le divinità celesti.
Gli Egiziani adorano molti animali e le effigi dai tratti animaleschi che essi si foggiano. I Giudei, invece, concepiscono un solo dio e unicamente col pensiero: sono sacrileghi coloro che raffigurano immagini degli dèi con tratti umani e usando materiali deperibili. Quella loro divinità sta sopra ogni cosa, è eterna, non può essere raffigurata né mai si estingue. Nelle loro città, per questi motivi, non esistono simulacri, e tanto meno nei templi; e non usano questa forma di adulazione né verso i re né verso i Cesari.
Dal fatto che i loro sacerdoti cantavano accompagnandosi a flauti e timpani e si incoronavano di edera (e anche dal fatto che in un loro tempio fu trovata una vite d’oro), si pensò che adorassero il padre Libero, trionfatore dell’Oriente18. Le modalità del culto sono però del tutto diverse: infatti Libero ha istituito riti festosi e lieti, mentre le cerimonie giudaiche sono tristi e squallide.
6. Il loro territorio confina ad oriente con l’Arabia, a mezzogiorno con l’Egitto, a occidente con la Fenicia e col mare, a settentrione, per un lungo tratto, con un lato della Siria19. Gli uomini godono di buona salute e sono resistenti alle fatiche. Le piogge sono rare; il suolo è fertile e vi si coltivano le stesse messi che si coltivano da noi e in più vi sono la palma e il balsamo. I palmeti sono alti e imponenti, mentre il balsamo è un arbusto: si aspetta che ogni ramoscello sia gonfio di linfa, poi vi si accosta una lama e le vene si spaventano20; allora lo si apre con una scheggia di pietra o un coccio e ne cola un umore che ha proprietà terapeutiche.
Il Libano21 è il monte che domina tutte le altre catene, denso di foreste e caratterizzato da nevi perenni (cosa abbastanza strana in un clima tanto caldo): da esso si genera e viene alimentata la corrente del Giordano. Il Giordano non va a sfociare nel mare, ma attraversa, rimanendo di portata sempre uguale, prima un lago, poi un secondo lago e infine va a gettarsi in un terzo22. Questo lago ha un perimetro immenso, tanto da assomigliare a un mare, ma il sapore è disgustoso; l’odore è, poi, pestilenziale e insopportabile per gli abitanti. Il vento non riesce ad incresparne la superficie e non vi possono vivere né pesci né uccelli acquatici. Le acque immobili sostengono gli oggetti che vi vengono buttati sopra, come se fossero su terreno solido e resta a galla sia chi è bravo a nuotare che chi non lo è.
Il lago, in un preciso periodo dell’anno, fa salire alla superficie il bitume che viene raccolto con un metodo insegnato dall’esperienza (come in ogni attività umana). È un liquido che, allo stato naturale, si presenta di colore scurissimo: versandovi dell’aceto si rapprende, pur continuando a galleggiare. A questo punto gli addetti al lavoro non devono far altro che prenderlo in mano e tirarlo sulla nave; qui, senza alcun aiuto, prende a colare e a riempire il battello finché lo si taglia. Però non è possibile tagliarlo con lame di bronzo e di ferro: il bitume fugge davanti al sangue e ai panni sporchi per il ciclo mestruale.
Questi sono i racconti degli autori antichi. Ma coloro che conoscono i luoghi riferiscono che i grumi galleggianti di bitume possono essere sospinti verso la spiaggia e lì trascinati con le mani. Poi, quando il calore del terreno e la forza del sole li hanno disseccati, li si spezza con cunei e scuri come fossero travi o pietre.
7. Non lontano si estendono delle pianure che, si dice, erano un tempo fertili e ospitavano popolose città23. Queste sarebbero state incenerite dal fulmine e ne rimangono ancora le tracce, mentre la terra, che all’aspetto appare bruciata, ha perso la sua forza procreatrice. Infatti tutte le piante, spontanee o seminate dall’uomo, erbe o fiori, non appena si sono un po’ sviluppate, diventano nere e vuote e cadono come se fossero cenere.
Io posso anche ammettere che città un tempo famose siano state bruciate dal fuoco celeste, ma bisogna anche aggiungere che il terreno si infetta e che l’atmosfera del luogo si corrompe per le esalazioni lacustri: perciò le messi e i frutti autunnali marciscono per il terreno e il clima ugualmente malsani. Il fiume Belio24 si perde nel mare di Giudea: le sabbie che provengono dalla sua foce, opportunamente mescolate col nitro e cotte, diventano vetro. Quella spiaggia è molto piccola ma inesauribile, per quanta sabbia se ne porti via.
8. Gran parte della Giudea è disseminata di villaggi. Esistono anche delle città e la capitale è Gerusalemme in cui si trova un tempio di enorme ricchezza: dentro alla prima cinta di mura vi è la città, poi la reggia e, dentro ad una sua cinta, il tempio25. I Giudei potevano soltanto accostarsi alle porte, mentre dalla soglia era escluso chiunque non fosse sacerdote26.
Fino a quando l’Oriente fu dominato da Assiri, Medi e Persiani, i Giudei furono tra i loro servi più disprezzati. Quando prevalse la potenza macedone, il re Antioco27 cercò di abolire il fanatismo religioso e di introdurre in Giudea i costumi greci, ma la guerra contro i Parti (era questa la ribellione di Arsace)28 gli impedì di convertire quel popolo ignobile.
Quando la potenza dei Macedoni29 venne meno (i Parti non si erano ancora affermati e i Romani erano ancora lontani), i Giudei cominciarono a darsi dei re30. Questi furono cacciati dal popolo volubile, ma riconquistarono il potere con le armi provocando fughe di cittadini, distruzioni di città, assassinii di fratelli, spose, genitori e altri delitti che i re abitualmente osano. In questo modo tenevano vivo il fanatismo e la dignità sacerdotale faceva da puntello alla loro sete di dominio.
9. Primo tra i Romani, Gn. Pompeo sottomise i Giudei31 ed entrò nel tempio per il diritto di vittoria: in quell’occasione si seppe che il tempio era vuoto e non conteneva né alcuna immagine di divinità né alcun mistero. Furono distrutte le mura di Gerusalemme ma il tempio rimase in piedi. Quando da noi si combattè la guerra civile, dopo che le province furono assegnate a Marco Antonio32, il re dei Parti, Pacoro, si impadronì della Giudea; ma fu ucciso da P. Ventidio e i Parti furono ricacciati al di là dell’Eufrate. G. Sosio sottomise i Giudei33.
Il regno che Antonio aveva dato ad Erode34, Augusto, dopo la sua vittoria, lo ampliò. Dopo la morte di Erode, un tale di nome Simone35, senza aver atteso gli ordini di Cesare, usurpò il potere regio. Costui ricevette la punizione da Quintilio Varo36, governatore della Siria, e il popolo ebraico, ridotto all’obbedienza e smembrato in tre parti, fu retto dai figli di Erode.
La situazione rimase tranquilla sotto Tiberio37. Poi, sotto Caligola, gli Ebrei si videro imporre da quel principe la posa di una sua statua nel tempio: scoppiò una rivolta armata cui solo la morte di Caligola pose fine.
Morti i re (o diminuito di molto il loro potere), Claudio affidò la provincia di Giudea a cavalieri romani o a dei liberti38. Uno di questi, Antonio Felice, esercitò il potere regio con atteggiamento servile, commettendo ogni crudeltà e nefandezza; aveva sposato Drusilla, nipote di Cleopatra e Antonio ed era dunque progenero dello stesso Antonio (e Claudio gli era nipote).
10. La capacità di sopportazione dei Giudei non andò oltre il periodo in cui fu procuratore Gessio Floro39: sotto di lui scoppiò la guerra. Cestio Gallo, legato della Siria, cercò di reprimere quella rivolta, ma gli esiti degli scontri da lui sostenuti furono incerti e spesso sfavorevoli. Costui finì col morirne, forse per disgrazia, forse per il dolore. Allora, su incarico di Nerone, si recò là Vespasiano40, che grazie alla fortuna, alla fama che lo circondava, agli ottimi collaboratori che aveva, in due estati era riuscito ad occupare col suo esercito vittorioso tutta la pianura e tutte le città, meno Gerusalemme41.
Nell’annata successiva, la guerra civile consentì tranquillità ai Giudei. Quando in Italia ritornò la pace, si riaffacciarono anche le preoccupazioni delle guerre esterne. Vespasiano era adirato del fatto che i soli Giudei non si fossero ancora piegati; allo stesso tempo gli pareva opportuno che Tito rimanesse con gli eserciti, per poter fronteggiare qualsiasi evento che nascesse dal nuovo principato.
11. Come ho detto, Tito aveva posto il campo davanti a Gerusalemme. Subito esibì la sua forza schierando a battaglia le legioni. I Giudei ordinarono le loro schiere proprio ai piedi delle mura con l’intento di avanzare se il successo fosse loro arriso, sicuri della via di fuga, se fossero stati respinti. Tito mandò avanti dei cavalieri con coorti armate alla leggera e il combattimento che ne nacque ebbe esito incerto. Comunque i nemici ripiegarono, ma non desistettero, anche nei giorni seguenti, dall’attaccare frequentemente battaglia davanti alle porte, finché per i continui danni subiti dovettero ritirarsi.
I Romani si prepararono dunque all’assedio, ma non sembrava decoroso attendere la caduta della città per fame; allora chiedevano lo scontro: alcuni perché valorosi, altri per la loro fierezza e per il desiderio di ricompense. E a Tito stesso erano sempre davanti agli occhi Roma, le sue ricchezze e i suoi allettamenti: se Gerusalemme non cadeva in fretta, troppo avrebbe tardato a goderne.
Ma la città, già imprendibile per la sua posizione elevata, era stata fortificata con tanti lavori e costruzioni di tal mole, che anche in pianura sarebbe stata sicurissima. Infatti i suoi due altissimi colli42 erano inclusi dentro a un sistema di muri che erano stati di proposito costruiti in maniera obliqua, con rientranze e sporgenze: in questo modo chi attaccava era sempre scoperto e vulnerabile sui fianchi. L’estremità della roccia era a picco; le torri erano alte circa sessanta piedi dove il monte lo consentiva e, nelle depressioni, si elevavano fino a centoventi piedi: nell’insieme offrivano uno straordinario effetto perché, chi le guardava da lontano, le vedeva tutte di pari altezza. All’interno della prima cinta muraria, altre mura circondavano la reggia: su tutto dominava la torre Antonia, che Erode aveva così chiamata in onore di Marco Antonio.
12. Il tempio era praticamente una roccaforte e aveva cinta muraria propria, frutto di una fatica e di una abilità molto superiori a quelle richieste per le altre opere. Lo stesso porticato che circonda il tempio costituisce un ottimo baluardo. C’erano una fonte di acqua perenne43, gallerie scavate nel monte, piscine e cisterne per conservare l’acqua piovana.
Chi aveva progettato e costruito la città evidentemente aveva previsto le guerre frequenti che la diversità di costumi dei Giudei avrebbe provocato: tutto dunque era predisposto per un assedio anche lunghissimo. E anche l’espugnazione della città da parte di Pompeo, con la paura e l’esperienza che ne erano conseguite, aveva insegnato molte cose. Grazie all’avidità dei Romani al tempo di Claudio, i Giudei si erano comperati il diritto di fortificarsi e avevano costruito un muro come se aspettassero la guerra: era un enorme crogiolo di genti, il cui numero era cresciuto anche per la distruzione di altre città. Non vi era persona ostinata che non si fosse rifugiata lì e tanto maggiore era il clima di sedizione che vi si respirava. Tre capipartito e altrettanti eserciti stavano in Gerusalemme.
La cinta più esterna ed estesa era affidata a Simone, la città al centro a Giovanni, detto anche Bargiora, il tempio a Eleazaro. Giovanni e Simone erano superiori per numero di armati, Eleazaro deteneva una miglior posizione strategica: tra loro c’erano scontri e tradimenti; ed erano stati appiccati degli incendi che avevano bruciato una enorme quantità di frumento44.
Giovanni, col pretesto di fare un sacrificio, aveva mandato dei sicari per trucidare Eleazaro e la sua guardia del corpo e si era impadronito del tempio. La città si spaccò così in due fazioni, finché la guerra esterna contro i Romani che si stavano avvicinando, ristabilì la concordia.
13. Si erano verificati dei prodigi che quella gente, fanatica ma non autenticamente religiosa, giudica illecito scongiurare con preghiere e sacrifici. Si videro scontri di eserciti nel cielo, lampeggiare di armi e il tempio illuminato da un improvviso fuoco venuto dal cielo. Di colpo si spalancarono le porte del santuario e si udì una voce sovrumana che annunciava che gli dèi se ne stavano andando45. Contemporaneamente vi fu un grande strepito, come di gente che si stava allontanando.
I prodigi spaventarono poche persone perché in molti erano convinti che fosse vero quanto era scritto negli antichi libri sacerdotali46: era quello il tempo in cui l’Oriente si sarebbe imposto sul resto del mondo e uomini partiti dalla Giudea avrebbero conquistato il potere. In questa oscura indicazione erano da ravvisare Vespasiano e Tito; ma il popolo (e questo è tipico dell’umana cupidigia) aveva interpretato in senso a sé favorevole questo destino di grandezza e neppure nelle avversità si lasciava convertire alla verità.
Le nostre fonti ci dicono che il numero degli assediati (con le persone di ogni età, sia maschi che femmine) ammontava a seicentomila; le armi le impugnavano tutti coloro che erano in grado di farlo; ed era una quantità di persone molto alta in proporzione a quel numero47. Donne e uomini mostravano pari fermezza e, davanti alla prospettiva della deportazione, faceva loro più paura la vita che la morte.
Dunque, contro una simile città e un simile popolo, difesi anche dalla conformazione del luogo, a niente servivano gli attacchi o i colpi di mano e allora Cesare Tito decise di condurre l’assedio con terrapieni e vinee. Tra le legioni vennero ripartiti i diversi compiti e i combattimenti non ripresero finché non furono in grado di funzionare tutti gli strumenti escogitati dagli antichi e i moderni ritrovati, utili all’assalto di una città.
14. Civile48, dopo il fallimento del suo attacco nel paese dei Treviri, colmò in Germania i vuoti che si erano aperti nel suo esercito e poi andò ad accamparsi presso Vetera, per le sicurezze che gli offriva il luogo e anche perché contava che il ricordo dei successi lì ottenuti alzasse il morale dei barbari. In quella stessa direzione lo seguì Ceriale: il suo esercito si era raddoppiato con l’arrivo della seconda, sesta e quattordicesima legione49; le coorti e i reparti di cavalleria, già da tempo chiamati, dopo la vittoria avevano affrettato il passo.
Nessuno dei due comandanti era portato per carattere a temporeggiare, ma li separava una pianura molto estesa e per di più acquitrinosa. Civile aveva poi sbarrato con una diga il Reno: la corrente interrotta da questo ostacolo aveva finito col riversarsi nelle piane adiacenti. Il luogo era così conformato: ingannevole per l’incertezza dei guadi e svantaggioso per noi; i soldati romani, appesantiti dalle armi, temevano il nuoto, mentre i Germani, pratici dei loro fiumi, si tenevano fuori dall’acqua grazie alla leggerezza del loro armamento e alla loro imponente statura.
15. Secondo logica, la provocazione partì dunque dai Batavi. I più ardimentosi dei nostri affrontarono lo scontro, ma grande fu ben presto lo scompiglio tra di loro perché le paludi profonde risucchiavano armi e cavalli. I Germani, che bene conoscevano i punti di passaggio, imperversavano; e poiché riuscivano loro gli aggiramenti, attaccavano alle spalle e ai fianchi, evitando gli scontri frontali. Ma il combattimento non sembrava affatto un corpo a corpo come nelle battaglie campali; assomigliava molto di più ad una battaglia navale: le ondate costringevano i soldati ad oscillare e, quando si trovava un punto d’appoggio, ognuno vi si aggrappava con tutto il suo peso e veniva travolto in mutua rovina: i feriti assieme agli illesi, gli esperti di nuoto e gli inesperti.
Visto il tumulto, ci si sarebbe potuto aspettare un numero maggiore di vittime, ma i Germani non osarono avventurarsi fuori delle paludi e rientrarono nei loro campi.
L’esito di quella battaglia stimolò entrambi i comandanti a cercare lo scontro decisivo, anche se per opposte motivazioni: Civile voleva sfruttare il momento favorevole, Ceriale voleva cancellare il proprio disonore; i Germani erano imbaldanziti dal successo ottenuto, i Romani erano punti dalla vergogna. Per i barbari la notte trascorse tra canti e schiamazzi; per i nostri tra crucci e minacce.
16. Quando sorse il sole, Ceriale schierò su tutto il fronte di battaglia cavalleria e coorti ausiliarie; in seconda linea furono schierate le legioni. Il comandante aveva poi riservato a sé dei corpi scelti per fronteggiare gli imprevisti. Civile si presentò, invece, non con l’esercito schierato ma in formazione a cuneo: i Batavi e i Cugerni formavano il lato destro, i Transrenani50 formavano il lato sinistro che era anche il più vicino al fiume.
I comandanti non procedettero alla consueta esortazione rivolta a tutti, ma incitavano le singole unità mano a mano che andavano a prendere posto nello schieramento51. Ceriale ricordava l’antica gloria del nome romano e le vittorie trascorse e quelle recenti: quei nemici, traditori, vili, già sconfitti, dovevano annientarli una volta per tutte. Quella non era una battaglia, ma una vendetta. Avevano già combattuto in inferiorità numerica contro nemici soverchiami: tuttavia avevano sbaragliato i Germani, autentico nerbo delle forze nemiche. Chi era allora sopravvissuto recava la fuga nell’anima e ferite alla schiena.
Ad ogni legione venivano rivolti incitamenti particolari: chiamava quelli della quattordicesima trionfatori della Britannia; ricordava ai legionari della sesta che Galba era diventato imperatore su iniziativa loro; preannunciava a quelli della seconda che in quella battaglia avrebbero consacrato insegne e aquila nuove52. Poi passò davanti all’esercito germanico e tese verso i legionari le mani indicando che dovevano riscattare col sangue dei nemici la propria riva e il proprio accampamento53. Più alto si levò il clamore da ogni parte: c’era chi voleva combattere dopo un troppo lungo periodo di pace. Ma c’era anche chi, stanco della guerra, alla pace aspirava e desiderava ricompense e riposo per il futuro.
17. Nemmeno Civile rimase silenzioso mentre le file si schieravano: quel luogo stesso era testimonianza del loro valore; i Germani e i Batavi avevano i loro piedi sopra le orme della gloria e calcavano ossa e cenere di legionari. I Romani, da qualunque parte girassero lo sguardo, si vedevano rinfacciare prigionie, stragi e funesti presagi. Non dovevano pensare con paura all’esito negativo della battaglia di Treviri: in quell’occasione una vittoria già ottenuta si era rivelata controproducente per i Germani, le cui mani avevano abbandonato le armi e si erano protese verso il bottino; poi, però, tutto si era rivelato vantaggioso per loro e svantaggioso per il nemico.
Tutto ciò a cui l’astuzia di un comandante aveva potuto provvedere, egli l’aveva preordinato: i campi erano inondati (ma a loro ben noti) e le paludi erano il primo nemico dei Romani. Davanti ai loro occhi erano il Reno e le divinità germaniche; affrontassero la battaglia da loro ispirati, memori delle spose, dei genitori, della patria: quella giornata sarebbe stata tanto gloriosa da poterla annoverare tra quelle gloriosissime vissute dagli avi o segno di ignominia presso i posteri.
I Germani approvarono le parole, secondo la loro abitudine, sbattendo le armi e i piedi; cominciarono dunque la battaglia con il lancio di sassi, palle e ogni altro proiettile. Ma i nostri, nonostante le provocazioni ad entrare nelle paludi, non vi si fecero attirare.
18. Finirono i proiettili e la battaglia divampò per il veemente accorrere dei nemici. La loro corporatura era imponente e potevano reggere aste lunghissime con cui trafiggere da lontano i nostri che vacillavano e cadevano. Contemporaneamente dalla diga con cui, come ho già raccontato, era stato sbarrato il Reno, una colonna di Bructeri passò il fiume a nuoto. Grande fu lo scompiglio: e già stava cedendo l’intero schieramento delle coorti alleate, quando entrarono in battaglia le legioni le quali arrestarono la foga dei nemici e riequilibrarono le sorti dello scontro.
Le cose erano giunte a questo punto, quando un traditore batavo accostò Ceriale, assicurandogli che si poteva prendere il nemico alle spalle, se si fossero fatti avanzare dei cavalieri dall’estremo limite della palude: lì il terreno non era affatto infido e i Cugerni curavano con scarsa attenzione la sorveglianza loro affidata. Due reparti di cavalleria partirono assieme al traditore e, di sorpresa, presero in mezzo il nemico. Un grande clamore subito segnalò il fatto e le legioni sferrarono un attacco anche di fronte; i Germani, respinti, cercavano di fuggire presso il Reno. Avrebbe potuto, in quel giorno, finire la guerra se la flotta romana avesse cominciato subito l’inseguimento. E invece nemmeno ai cavalieri riuscì di incalzare il nemico in fuga per un improvviso rovescio di pioggia e per il buio incombente.
19. Il giorno dopo, la quattordicesima legione fu mandata a Gallo Annio nella Germania superiore; Ceriale colmò il vuoto che si era venuto a creare nell’esercito con la decima legione54, proveniente dalla Spagna. Civile ricevette aiuti dai Cauci; ugualmente non osò difendere la città dei Batavi55: si ritirò nell’isola portando tutto quello che si poteva prendere e bruciando il resto poiché sapeva che non c’erano barche per fare un ponte e che l’esercito romano non aveva altro modo di passare il fiume.
Per questo motivo, anzi, distrusse la diga fatta costruire da Druso Germanico56: tolto di mezzo ogni ostacolo, il Reno si precipitò nel suo ramo meridionale, che era in forte pendenza dalla parte della Gallia. Sembrò quasi che il fiume fosse stato deviato e, nel tratto tra l’isola e la sponda germanica, l’alveo era così sottile da sembrare ininterrotta terraferma.
Passarono il Reno anche Tutore, Classico e centotredici senatori treviri, tra i quali Alpinio Montano, che, come ho ricordato sopra, era stato inviato nelle Gallie da Primo Antonio. Lo accompagnava il fratello D. Alpinio. Gli altri, sollecitando commiserazione e offrendo doni, ottenevano aiuti da quelle genti avide di pericoli.
20. La guerra era dunque ben lungi da avviarsi a conclusione; in un sol giorno Civile assalì con quattro colonne i presidi delle coorti, della cavalleria, delle legioni: la decima legione ad Arenaco, la seconda a Batavoduro e poi i campi delle coorti e della cavalleria a Grinnes e Vada57. Aveva ripartito le forze in modo che lui, Verace (figlio di una sua sorella), Classico e Tutore guidassero ciascuno le proprie truppe: non pensava certo di vincere in ogni settore ma chi compie molti tentativi si vede sicuramente arridere la fortuna da qualche parte. E cercava soprattutto di intercettare Ceriale che, senza prendere troppe precauzioni, correva qua e là a seconda delle notizie che riceveva.
Coloro che si erano indirizzati contro gli accampamenti della decima legione, reputarono arduo l’assedio e allora si diedero a creare scompigli fra i soldati mentre erano fuori del campo a far legna; rimase sul terreno il prefetto del campo, cinque dei centurioni di prima classe e anche qualche soldato. Tutti gli altri si difesero dentro le fortificazioni. Intanto una schiera di Germani cercava di distruggere il ponte iniziato a Batavoduro: la battaglia era incerta e la notte la troncò.
21. A Grinnes e Vada il pericolo fu maggiore. Vada era assalita da Civile, Grinnes da Classico: non sembrava possibile alcuna resistenza perché i difensori più valorosi erano morti e tra loro anche Brigantico, il prefetto di cavalleria che ho citato come fido alleato dei Romani e ostile allo zio Civile. Ma quando giunse in aiuto Ceriale con una schiera di cavalieri scelti, le sorti della battaglia cambiarono. I Germani furono ricacciati a precipizio nel fiume.
Civile fu riconosciuto mentre tentava di frenare la ritirata e fu preso di mira dalle frecce; dovette abbandonare il cavallo e attraversare il fiume a nuoto. Allo stesso modo trovò scampo Verace, mentre Tutore e Classico furono portati via da barche accostate a riva. E nemmeno in quell’occasione la flotta romana fu presente allo scontro, benché ne avesse ricevuto l’ordine: era stata la paura ad impedirne l’intervento; i rematori, inoltre, erano dispersi con altri incarichi di servizio.
Non vi è dubbio che Ceriale non desse molto tempo per eseguire i suoi ordini, abituato, com’era, a prendere decisioni su due piedi che finivano sempre col premiarlo. La fortuna lo assisteva anche quando non adottava le opportune precauzioni; per questo lui e il suo esercito curavano meno la disciplina. E pochi giorni dopo, anche se riuscì ad evitare il pericolo di cader prigioniero, non potè evitare il disonore.
22. Partito alla volta di Novesio e Bonna per visitare gli accampamenti, che erano in costruzione per farvi svernare le legioni, ritornava indietro con le navi, mentre la scorta non si curava di mantenere un minimo d’ordine e anche le sue sentinelle erano disattente. I Germani si accorsero di questa situazione e gli tesero un agguato: aspettarono una notte buia per il cielo coperto e, trasportati dalla corrente, entrarono nel recinto del campo senza trovare alcuna resistenza.
La prima serie di uccisioni fu favorita da un’astuzia: tagliate le corde delle tende, trucidavano i soldati avviluppati dalle tende stesse. Un altro gruppo gettò lo scompiglio in mezzo alla flotta, lanciando rampini e trascinando via le imbarcazioni. E come la sorpresa era stata favorita dal silenzio, così, una volta iniziato il massacro, ogni luogo risuonava di grida che aumentavano il clima di terrore. I Romani, svegliati dalle ferite, cercano le armi, si trascinano verso i passaggi: pochi sono in tenuta militare, alcuni hanno le vesti arrotolate sulle braccia e i pugnali sguainati.
Ceriale, assonnato e quasi svestito, fu salvato da uno sbaglio dei nemici: infatti i Germani catturarono la nave che un grande vessillo indicava come imbarcazione pretoria, pensando che lì fosse imbarcato il comandante. Ma Ceriale aveva passato la notte da un’altra parte, a detta di molti, nel tentativo di far violenza ad una donna ubia, Claudia Sacrata. Le guardie giustificavano il loro negligente comportamento con quello poco onorevole del comandante: avevano ricevuto l’ordine di stare in silenzio per non disturbarlo e avevano evitato di farsi segnali e scambiarsi la parola d’ordine, scivolando così nel sonno. A giorno fatto i nemici ritornarono con le navi catturate e trainarono la trireme pretoria lungo il fiume Lupia per farne dono a Velleda.
23. Civile viene preso dal capriccio di esibire una parata navale: allestisce tutte le navi che possiede (sia a due ordini di rematori che a uno), vi aggiunge un gran numero di scialuppe, in grado di portare una trentina o una quarantina di soldati a testa e dotate dello stesso equipaggiamento delle liburniche. Insieme c’erano le navi catturate spinte da mantelli multicolori spiegati come se fossero vele: l’effetto visivo era gradevole. Come spazio della parata fu scelto un tratto d’acqua molto simile ad un braccio di mare: è la foce della Mosa nel Reno da dove poi entrambi i fiumi si gettano nell’oceano.
Il motivo di queU’allestimento non andava cercato solo nella vanità tipica di quelle genti, ma anche nel progetto di intercettare e terrorizzare i convogli di rifornimento provenienti dalla Gallia. Ceriale rimase perplesso ma non spaventato: diresse contro il nemico la sua flotta che era inferiore di numero ma certo superiore per abilità dei rematori, esperienza dei timonieri, grandezza degli scafi. I Romani erano in favore di corrente, i Germani in favore di vento: navigarono gli uni contro gli altri ma, dopo uno scambio di proiettili leggeri, proseguirono ognuno secondo la propria rotta.
Civile non osò altro e si ritirò al di là del Reno. Ceriale devastò con ferocia di nemico l’isola dei Batavi. Ebbe l’avvertenza (che gli derivava dalla consolidata astuzia dei comandanti) di lasciare intatti campi e case di Civile58. L’autunno volgeva alla fine e le piogge equinoziali avevano fatto crescere le acque del fiume che aveva finito per inondare l’isola, paludosa e bassa, e diventata presto simile ad uno stagno. Non arrivarono né flotta né convogli; gli accampamenti, posti in pianura, ondeggiavano, in balia del fiume.
24. Civile ebbe ad affermare che in quel momento le legioni romane avrebbero potuto essere distrutte; ed era questa la volontà dei Germani, solo che lui li aveva distolti dal proposito con un inganno. Può essere che questa affermazione abbia una parte di verità, dal momento che pochi giorni dopo seguì la resa. Infatti Ceriale, con messaggi occulti, faceva balenare ai Batavi la speranza di pace, a Civile quella del perdono. Inoltre ammoniva Velleda e la sua famiglia59 a indirizzare diversamente le sorti di quella guerra tante volte avversa alla loro parte e di procacciarsi un tempestivo merito nei riguardi del popolo romano: erano stati sterminati i Treviri, gli Ubii sottomessi una seconda volta, la patria dei Batavi distrutta. L’amicizia verso Civile aveva generato soltanto ferite, fughe, lutti.
Chi lo accoglieva, esule e bandito, non poteva che avere delle noie: già troppi errori erano stati commessi nel passare tante volte il Reno. Se avessero preparato altre sedizioni sarebbe stato chiaro che da una parte c’erano colpe e violazioni del diritto, dall’altra la vendetta e il favore degli dèi.
25. Minacce e promesse si mescolavano. Quando la fedeltà dei Transrenani cominciò a vacillare, anche tra i Batavi si cominciò a mormorare: era impensabile protrarre una simile rovina e non poteva un solo popolo liberare il mondo intero dalla schiavitù. Distruggendo e bruciando le legioni, che cosa si era ottenuto? che ne venissero di più numerose e più forti. Se la guerra l’avevano intrapresa per favorire Vespasiano60, ormai Vespasiano era giunto al potere. Ma se era il popolo romano che essi volevano sfidare, quanta parte del genere umano rappresentavano i Batavi? Bisognava riflettere, ad esempio, su quali oneri gravavano sui Reti, sui Norici e sugli altri alleati: a loro non si chiedevano tributi, ma uomini valorosi. Non era la libertà, ma quasi. E potendo scegliere i padroni, era più onorevole sopportare i principi romani che le femmine germaniche.
Queste erano le opinioni della gente. Più duri erano i capi: erano stati trascinati alle armi dalla folle rabbia di Civile che aveva ottenuto di bilanciare le disgrazie domestiche con la rovina del suo popolo. Aver assediato le legioni, aver ucciso i legati, aver intrapreso una guerra utile solo a Civile (e a loro esiziale) aveva comportato l’odio degli dèi. Ormai si era giunti allo stremo: bisognava incominciare a rinsavire e a confessarsi pentiti facendo giustizia del colpevole.
26. Questo cambiamento di umore delle sue genti fu subito chiaro a Civile che decise di prendere l’iniziativa, ormai stanco di subire avversità e probabilmente animato dalla speranza di aver salva la vita (che spesso intacca il coraggio più saldo). Chiese un colloquio: fu tagliato il ponte sul fiume Nabalia61 e sulla spaccatura si avanzarono i due comandanti.
Così esordì Civile: «Se dovessi difendermi davanti ad un legato di Vitellio, non ci potrebbe essere né perdono per quanto ho fatto né fiducia in quanto sto per dire. Tutto mi differenziava da Vitellio: le ostilità da lui iniziate erano state da me esasperate. Invece è antica la mia devozione verso Vespasiano e, quando era ancora un privato cittadino, tutti ci giudicavano amici.
Questa amicizia era nota a Primo Antonio, dalle cui lettere sono stato trascinato alla guerra per impedire che le legioni germaniche e la gioventù gallica passassero le Alpi. E quello che mi veniva suggerito per lettera da Antonio, mi veniva ripetuto di persona da Ordeonio Fiacco: io ho preso le armi in Germania, come Muciano in Siria, come Aponio in Mesia, come Flaviano in Pannonia...
Al ventiseiesimo capitolo del quinto libro si interrompono le Historiae di Tacito.