Introduzione
«Solo un politico – scrive Polibio – si vale della storia ed è in grado di scrivere storia; non perché in possesso di documenti segreti, ma perché l’esperienza vissuta lo rende atto a comprendere le leve profonde degli avvenimenti, i moventi delle azioni...»
Tacito possedeva quell’esperienza per aver rivestito cariche eminenti1,come dice all’inizio delle Historiae: forse la questura sotto Vespasiano, l’edilità sotto Tito; fu pretore e membro del Collegio dei decemviri, governò una provincia – non sappiamo quale – dall’89 al 93 d.C. Fu legato propretore di rango consolare in un’altra provincia dal 101 al 110, infine nel 112 proconsole della provincia d’Asia: il suo ultimo incarico, seguito dalla morte, che avvenne intorno al 120 d.C. Nato nel 56 o 57 (secondo alcuni nel 54) forse nella Gallia Cisalpina, esercitò la professione legale a Roma. Nel 77 sposò la figlia di Giulio Agricola, personaggio eminente, che fu per molti anni al governo della Britannia e riuscì a soggiogare definitivamente quel paese, per lunghi anni ribelle. Tornato a Roma nel 93 d.C., Agrìcola morì d’una malattia che Tacito, nella biografia del suocero, l'Agricola (scritta nel 98 d.C.), ritiene di poter attribuire a veleno, propinatogli per ordine di Domiziano, invidioso dei suoi successi e della sua fama. Gli ultimi anni di questo imperatore furono funestati da delazioni e condanne crudeli. Gli oppositori che erano sfuggiti alla ferocia di Nerone caddero sotto Domiziano. Tacito li ricorda con venerazione, mista a rammarico, a vergogna, forse, per non aver subito la loro stessa sorte, e con doloroso sdegno per quelle morti nobilissime ma inutili. Nello stesso 98 d.C. compose il breve saggio su gli usi dei Germani e il loro paese, De origine et situ Germanorum.
Solo nel secolo successivo, sotto Nerva, Traiano e forse Adriano, scrisse le Historiae, relative agli anni 69-70 d.C., anni in cui, giovinetto ancora, certamente provò sdegno e raccapriccio per gli atti orrendi, compiuti dalle opposte fazioni. In seguito, retrocedendo nel tempo per dissotterrare le radici dei fatti più recenti e ripercorrere i sentieri tortuosi della storia, compose gli Annales, dove sono narrati i fatti avvenuti dalla morte di Augusto a quella di Nerone (66 d.C.).
Della sua esistenza quasi tutto è oscuro: il luogo di nascita, la famiglia, gli studi, le province nelle quali soggiornò con incarichi di governo, l’occasione e la data delle opere.
Si inseriscono talvolta nella narrazione opinioni in prima persona, «raram occulti pectoris vocem» (Ann., IV. 2), nelle quali freme un’emozione contenuta: indignazione, rimpianto, vergogna, pietà; ma non mancano contraddizioni, sì che del suo pensiero sono state proposte varie interpretazioni Credo religioso, dottrina filosofica, opinione politica sono stati variamente desunti da questi scritti mirabili ma purtroppo frammentari, nei quali spesso la sua verità interiore è ammantata di tradizione retorica ed espressa con qualche iperbole, propria dell’oratoria forense.
Plinio il Giovane, che fu suo collega nel foro di Roma e suo amico, si vale d’un aggettivo greco – δεμνώς – solenne, severo per descriverlo mentre pronuncia un’arringa e per definire la sua eloquenza: un volto senza sorrìso, frasi brevi e taglienti; ma talvolta le sue palpebre si levano e ci folgora uno sguardo carico di allusività, che apre spiragli profondi su la sua anima, desta una lunga eco nella nostra.
Il suo tema fondamentale, direi la sua problematica profonda, è il potere, il comportamento di chi lo esercita e di chi lo subisce, in entrambi i casi le modifiche – o degenerazioni – che il potere provoca nell’animo umano. Osserva l’assolutismo e i suoi effetti sulle nazioni e sugli individui; negli Annales registra il trapasso dal principato alla monarchia, dal consenso all’acquiescenza; nelle Historiae descrive gli orrori della guerra civile seguita alla morte di Nerone, il conflitto tra Galba, Otone e Vitellio – «una storia – scrìve – densa di vicende, terribile per battaglie, torbida di sedizioni, tragica anche nella pace...» (Hist., 4) Chiama a deporre protagonisti e comparse, barbari e romani, registra le loro deposizioni.
Essendo scomparse molte opere minori, alle quali probabilmente attinse, è difficile individuare le fonti2. Cita pochi nomi di storici, ma ne consultò molti. Li trovò, dice, viziati da adulazione se scrivevano del principe regnante, da rancore se del precedente. Gli alti ingegni che avevano narrato le imprese degli eroi repubblicani erano venuti meno; il compito dello storico era povero e amaro: conflitti sanguinosi, delazioni, vizio: non mos, non jus, né regole morali né legalità. Non mancarono storici illustri fino ai tempi di Augusto, ma ben presto furono distolti dall’attività storica dall’«adulazione crescente». Non sappiamo quanto apprese dai discendenti di persone vissute sotto Nerone, testimoni della sua depravazione, della sua crudeltà; quanti memoriali conservati dalle famiglie potè leggere. È certo che consultò gli Acta Diurna, una specie di quotidiano che circolava anche nelle province, e gli Acta Senatus.
Benché dallo storico antico non ci si possa aspettare una documentazione rigorosa con il riferimento della fonte in nota, abbiamo la prova della coscienziosa ricerca di Tacito in due casi almeno: il discorso dell’imperatore Claudio che, nato a Lione, si espresse con accenti quasi da, diciamo così, federalista nell’ammettere al Senato i magnati della Gallia Chiomata, è citato da Tacito (che l’ha sottoposto a una revisione formale)3 sostanzialmente integrale. Ne conosciamo il testo autentico, che sembra stenografato, con le sue incoerenze e interruzioni, perché i Galli riconoscenti lo incisero in una lastra di bronzo, ritrovata nel sottosuolo di Lione nel secolo XVI (oggi conservata nel Museo Archeologico della città, che era la capitale delle Gallie). Un altro esempio dell’accurata documentazione di Tacito risulta dal discorso pronunciato da Tiberio in Senato, nel quale nobilmente respinge onori divini per la sua persona (Ann., IV. 48) – discorso che corrisponde al testo d’una iscrizione trovata in Grecia, a Gythion, sulla quale è inciso un messaggio dell’imperatore dello stesso tenore4.
Quanto alla famosa concisione, il latino lapidario di Tacito, è chiara la derivazione formale da Sallustio, da Catone, protòtipi ideali e stilistici: una prosa severa, non priva di sottili ironie e di sentenze memorabili, un tono tagliente, una ricerca di vocaboli insoliti e desueti. Per Tacito però la storia, più che compiaciuta attività letteraria, più che narrazione di fatti controllati, è sfogo di pensieri tormentosi, di problemi non risolti e risponde a un bisogno di chiarimento interiore; indubbiamente l’arcaismo voluto rivela nostalgia per il passato repubblicano – la sua pagina è un campo minato di ablativi assoluti, di verbi all’infinito, di vocaboli antiquati; ma in questo periodare brusco lampeggia ogni tanto una frase indimenticabile, da grande tragico: le parole di Agrippina alla piccola schiava che fugge all’arrivo dei sicari: «tu pure mi abbandoni?» (Ann., XIV.8); la scena della morte di Messalina, l’imperatrice adultera che, finalmente consapevole del castigo imminente, si scioglie in lacrime ai piedi della madre: «quando a un tratto si spalanca la porta e le si para dinanzi, muto, il centurione, mentre il liberto prorompe in un torrente d’ingiurie, da servo...» (Ann., XI.37).
Il problema fondamentale di Tacito è di etica politica; nella sua meditazione su l’esercizio e i limiti del potere, non si addentra in questioni costituzionali, non si oppone a priori alla monarchia, non vagheggia una restaurazione repubblicana che sa inattuabile. Il principato non si discute più se non per auspicarlo mite; esso è una necessità storica, imprescindibile dall’imperativo: il governo, la romanizzazione del mondo che pesa sui Romani.
Non possono sottrarvisi; ma il malgoverno degli amministratori, la prepotenza delle guarnigioni fomentano rivolte che mettono in pericolo la stabilità, la durata di quel dominio che Tacito, come qualunque altro Romano, vorrebbe esteso all’infinito («la vita nella capitale era tetra – dice del regno di Tiberio – il principe non si curava di estendere il dominio...»).
Fa parte del suo intento moralistico il consenso alle ragioni degli oppressi, anche se le loro proteste echeggiano il linguaggio libertario della tradizione retorica. Le parole del capo dei ribelli scozzesi, Calgaco, suonano come un’ammissione dei propri torti: «rubare, massacrare, stuprare (per i Romani) equivale a esercitare il potere e dove hanno fatto il deserto lo chiamano pace...» (Agr., XXX). Non meno aspre le parole di Claudio Civile, il capo dei ribelli Baiavi, che invita Galli e Germani a schierarsi al suo fianco contro l’oppressore comune e addita la debolezza dei Romani, dovuta al fatto che l’esercito ormai si compone di barbari, certamente pronti a far causa comune con i ribelli (Hist., IV, passim).
Eppure, alla contestazione dei provinciali, risponde Petilio Ceriale, che esprime la lucida accettazione della realtà da parte del politico, la consapevolezza che, anche se iniqua, è quella la situazione che la storia impone: l’avidità, la corruzione dei proconsoli romani si deve sopportare, come si sopportano la siccità o le alluvioni (Hist., IV.74) – parole che corrispondono a quelle che Giuseppe Flavio fa pronunciare ad Agrippa II, re della Giudea, il quale dissuade il suo popolo dal persistere nelle agitazioni ed elenca le nazioni che hanno accettato e subiscono il dominio di Roma (Bell. Jud. II, 345-401).
È discussa l’attribuzione a Tacito d’un’opera giovanile, il dialogo De oratoribus. In effetti, non si riscontrano in questa breve opera l’alta coscienza civile e lo stile drammatico propri di Tacito. Forse, il dialogo fu composto dallo scrittore alle prime armi, agli inizi del regno di Domiziano, il che spiegherebbe la spiccata diversità non solo stilistica ma ideologica dalle opere storiche. L’A. immagina che tra il 74 e il 75 d.C. alcuni retori dell’epoca abbiano discusso tra loro su l’oratoria e ne abbiano deplorato il declino. La tesi conclusiva però (cap. 37) è incompatibile con la figura morale dello storico quale si desume dalle opere maggiori.
La grande eloquenza, si afferma, fiorisce ed emerge nei tempi di conflitti civili, ma si spegne nell’atmosfera di ordine e di pace tipica del principato. Allo stesso modo, la medicina non fa progressi perché non serve quando la gente gode ottima salute (Dial., 41 ). Questo argomento implica un elogio del regime monarchico, in contrasto con tutta l’opera di Tacito, con la sua nostalgia dei tempi repubblicani; basterebbe la frase lapidaria con la quale riassume il nuovo assetto istituzionale impresso da Augusto alla repubblica. Il principe, scrive, promulgò nuove nome in base alle quali «pace et principe uteremur» (avremmo avuto la pace, e un sovrano). Qui lampeggia improvvisa la dolente nostalgia e la rassegnazione del repubblicano.
A questo scritto seguì la breve biografia di suo suocero, Agricola, il quale, legato in Britannia, riuscì a domare quelle popolazioni ribelli e assimilarle con la diffusione di usi e costumi romani. Lo scritto ha della laudatio funebris e del panegirico; è soprattutto il ritratto d’una figura nuova nella statuaria romana, non quella del condottiero o del legislatore, ma del grande funzionario, del solerte esecutore delle direttive imperiali, dell’uomo che rinuncia alle proprie inclinazioni per il dovere supremo di servire il suo paese. Non ricevette la gratitudine che gli era dovuta; anzi, forse fu soppresso per ordine dell’imperatore. Morì mentre Tacito con la moglie (dall’89 al 93 d.C.) si trovava come legato imperiale non sappiamo in quale provincia. Il suo affetto filiale per quell uomo integerrimo si esprime nella chiusa struggente del breve scritto: l’A. sa che allo scomparso non sono mancate le più tenere cure, l’affettuoso interessamento dei concittadini; eppure, si rammarica di non essergli stato vicino, di non aver raccolto le sue ultime parole e lo addolora il pensiero che «nell’ultimo sguardo, i suoi occhi cercassero qualcuno...» (Agr., 45)
A questo scritto, che è del 97 d.C., fece seguito nel 98 la monografia De origine et situ Germanorum, un saggio unico nella letteratura latina, scritto mentre Traiano, appena eletto imperatore, anziché rientrare nell’Urbe, si attardava a munire di fortificazioni il confine renano, tra il territorio imperiale e la nazione irriducibilmente nemica di Roma.
La Germania è un’escursione extra limes, un’indagine geografica ed etnografica su popolazioni che rappresentavano una minaccia perenne per l’impero: i Germani erano stati i primi invasori – i Cimbri e Teutoni respinti da Mario – avevano inflitto tremende sconfitte ai Romani e, dopo due secoli di dure, prolungate campagne militari, non potevano ancora dirsi battuti: «tam diu Germania vincitur» (Germ., 37) – tanto ci vuole a vincere la Germania.
Si direbbe che lo scritto contenga un implicito elogio alla prudenza di Traiano: «non i Sanniti, non i Cartaginesi, non la Spagna o le Gallie e neppure i Parti ci hanno messo in allarme più spesso; poiché la libertà dei Germani è più resistente del regno di Arsace» (ibid).
La minaccia germanica è un tema sempre presente alla coscienza di Tacito e trascorre sui primi capitoli degli Annales: a Germanico, il giovane prìncipe che comandava le legioni sul Reno nei primi anni dopo la disfatta di Teutoburgo (9 d.C.), Tacito fa pronunciare parole che riflettono il suo timore di quelle orde bellicose e feroci: «Non c’è bisogno di prigionieri – dice il giovane ai legionari, incitandoli al massacro – solo lo sterminio di questa gente segnerà la fine delle guerre...» (Ann., il, 21).
Nella descrizione del costume germanico Tacito non nasconde una certa ammirazione per il loro valore, la fedeltà al capo, la castità delle donne, la sobrietà del vivere; uno dei moventi che lo indussero a comporre questo breve scritto fu anche l’intento di risvegliare le coscienze nell’Urbe, far intendere la gravità del pericolo; e nel costume povero e severo di quei popoli lo storico si propone di richiamare i suoi compatrioti, adagiati nella mollezza della grande città, a riesumare l’austerità d’un tempo: «Chi più valoroso dei Germani? – aveva scritto Seneca pochi anni prima – dà loro una regola, una disciplina e vedrai: ci converrà tornare ai costumi dell’antica Roma...» (Seneca, De Ira, I, XI, 3).
Nelle Historiae, la prima opera di vasto respiro, Tacito riferisce fatti avvenuti durante la sua adolescenza; fatti che gli ispirarono pietà, vergogna, orrore; negli Annales, opera successiva, l’ultima, scrìtta negli ultimi anni della sua vita, egli cercò forse di spiegarsi il presente, al lume degli avvenimenti verificatisi quando il principato divenne una dinastia, la mutazione intervenuta nelle coscienze, come nei costumi: il sospetto, l’insicurezza del despota avevano provocato l’inasprimento delle leggi, l’uso iniquo delle delazioni, le condanne. Tiberio, un ritratto a tutto tondo, riluttante ad assumere il potere, rispettoso del Senato, parco, alieno dalla deificazione del sovrano già in corso, sembrerebbe il principe ideale agli occhi d’un conservatore come Tacito. Ma lo storico non può prescindere dal fatto che quel patrizio d’antica stirpe, ligio ai prìncipi dei suoi maggiori, in fin dei conti era l’erede di Augusto e con lui un incarico d’emergenza – il principato - diventava un’istituzione.
Isolato, deluso dai senatori, che pretendevano non le responsabilità del potere ma i privilegi, Tiberio finì per scivolare su la china delle condanne, della depravazione: il potere lo aveva contaminato. Così Tacito definisce brevemente quel processo di progressiva degenerazione: «vi dominationis mutatus et convulsus» (Ann., VI, 48) alterato, travolto dalla forza irresistibile (o anche, dalla sostanza) del potere.
Da un uomo, amaramente convinto di vivere sotto un regime che non muterà, poiché è la condizione stessa dell’impero, rassegnato a veder succedersi sul trono individui come Caligola, Nerone, Domiziano e, attorno a loro, anime servili, spie, profittatori, («uomini – mormorava Tiberio uscendo dal Senato – pronti a servire»!) e al tempo stesso consapevole che quell’impero deve durare, non possiamo aspettarci una prospettiva ottimistica del futuro. Anche se nei governi di Nerva e Traiano riconosce un clima mutato, sa bene che il prossimo imperatore potrà essere un mostro come quelli che ha visto regnare ed ha descrìtti negli Annales (e mancano, si badi, le pagine riguardanti Caligola). Già durante gli anni di Tiberio, durante i quali un regime d’emergenza era diventato un sistema, fu chiaro che l’élite, decimata dalle guerre civili, s’era arresa; e la potestas era diventata dominatio.
A che erano servite le morti eroiche degli oppositori condannati al suicidio da Nerone e da Domiziano? Tacito ha assistito ai processi, alle condanne di quei martiri laici, Trasea Peto, Seneca, Elvidio Prisco, Senecione; ne parla con venerazione, eppure giudica sterile il loro sacrificio, la loro contestazione isolata, vi riscontra un compiacimento di sé che sfiora il narcisismo: «stanca l’animo e l’opprime quella mansuetudine da schiavi, quel sangue versato inutilmente...» (Ann., XVI, 16). Per un romano il sacrificio è apprezzabile solo se è al servizio della patria. Tacito ha respinto la tentazione dell’eroismo e si chiede «se tra l’ardire sdegnoso e l’ossequio avvilente si possa percorrere una via esente dalla vanagloria e dal perìcolo...».
Non si può dire che abbia intravisto quella via nel futuro di Roma; aveva visto da vicino il potere assoluto e s’era reso conto che esercitarlo e subirlo sono egualmente degradanti. Condannava il dominio, ma non sapeva concepire altro assetto del mondo se non sotto Roma.
Gli interrogativi ai quali non seppe dare risposta sono di tutti i tempi: se un popolo artefice di storia e detentore di dominio riesce ad esserne degno, se è possibile a chi governa non trascendere, a chi è suddito non umiliarsi. Alla storia, alla politica Tacito pone soltanto quesiti morali, ravvisa runica salvezza possibile in un risanamento morale. Raramente allude agli dèi; quando narra l’incendio del Campidoglio, scrive: era un momento di pace nell’impero «propizi, ove fosse possibile con una condotta come la nostra, gli dèi...» (Hist, III, 72).
Li vede, dunque, vigili e severi giudici delle azioni umane, ma si direbbe per aderenza a formule d’uso più che per autentica fede. E anche se ai suoi tempi correvano sotto la superficie vene roventi di sdegno morale, d’inquietudine metafisica e l’auspicio d’un imminente Dies irae, Tacito non poteva riconoscersi in quegli anatemi deliranti, in quei fermenti a sfondo messianico: provenivano da popoli, da culture, da classi alle quali egli era totalmente estraneo; ma teme l’ira degli dèi contro Roma: è per punirla delle sue colpe che favoriscono Seiano (Ann., IV, 1).
Riecheggia alcuni versi di Lucano – vittima, lui pure, di Nerone5 – quando scrive: «mai da calamità più atroci e da più certi indizi si ebbe la prova che non della sicurezza nostra sono solleciti gli dèi, ma del nostro castigo».
LIDIA STORONI MAZZOLANI
1 R. Syme, «The Senator as an Historian», in Entretiens Hardt, I, 1956, pp. 85 ss.; A. La Penna, «Storiografia di senatori e storiografia di letterati», in Aspetti del pensiero storiografico latino, Torino, 1979, pp. 43-114.
2 C. Questa, Studi su le fonti degli Annales di Tacito, Roma, 1960.
3 Il discorso di Claudio in C.I.L.XIII, 1668; v. Ph. Fabia, La Table Claudienne de Lyon, Lyon, 1929. V. J. Carcopino, Points de vue sur l’impérialism Romain, Paris 1934, p. 159.
4 L. Storoni Mazzolani, Tiberio o la spirale del potere, ed. BUR, p. 138; L.R. Taylor, «Tiberius refusal of divine honours», in Transactiones of American Philological Association, 1929, p. 86.
5 Lucano, Pharsalia, IV, vv. 807-809: «Felix Roma civesque beatos / si libertatis Superis habitura tam cura piacerei / quam uindicta placet» («Fortunata Rome, fortunati i suoi cittadini se gli dèi avessero voluto prendersi cura della libertà come lo fanno del nostro castigo»).