LIBRO OTTAVO
2. Il divino Tito

 

1. Tito, che portava lo stesso cognome del padre 1, fu chiamato amore e delizia del genere umano: tali doni aveva avuto, di intelligenza, capacità e fortuna, da guadagnarsi la simpatia generale; e ciò anche come principe, cosa che è più difficile; mentre, da privato cittadino, e ancora durante il principato di suo padre, non gli erano mancati né le inimicizie né, tanto meno, la riprovazione pubblica.

 

Era nato il 30 dicembre dell’anno che rimase segnato dall’assassinio di Gaio 2, in una squallida abitazione nei pressi del Settizonio 3, in una stanzuccia angusta e senza luce che ancora si conserva e viene mostrata ai visitatori.

 

2. Fu educato a corte assieme a Britannico 4 e istruito con lui nelle stesse discipline e dagli stessi maestri.

Si dice che, appunto in quel tempo, un fisionomista 5, fatto venire da Narciso, il liberto di Claudio, per scrutare il volto di Britannico, avesse affermato senza esitazioni che costui non sarebbe stato imperatore, ma lo sarebbe divenuto invece senza dubbio Tito, che in quel momento gli stava al fianco. Era tale del resto la loro familiarità da far pensare che, quando Britannico morì per aver ingerito una bevanda avvelenata, anche Tito, seduto a mensa con lui, ne avesse bevuto: certo rimase per lungo tempo gravemente infermo.

Più tardi, memore di tutto ciò, fece erigere a Britannico una statua d’oro sul Palatino, e un’altra gliene dedicò d’avorio, che lo rappresentava a cavallo, e che ancor oggi viene portata in processione quando si inaugurano gli spettacoli del circo.

 

3. Sùbito, fin dall’infanzia, si profilarono le sue doti fisiche e intellettuali, che poi si confermarono sempre meglio con l’andar degli anni: un corpo armonioso in cui si fondevano dignità ed eleganza, una notevole robustezza nonostante la statura non molto slanciata e un addome un po’ troppo pronunciato; una memoria eccezionale e una disposizione naturale a quasi ogni disciplina civile o militare. Era abilissimo nell’esercizio delle armi e nel cavalcare; pronto e versatile nel discorrere sia in latino sia in greco, come pure nel verseggiare anche in modo estemporaneo; non privo di conoscenze musicali, tanto che sapeva cantare e danzare piacevolmente e con perizia.

Da parecchie testimonianze ho appreso che era anche solito prendere appunti con grande rapidità, mettendosi in gara, per scherzo e divertimento, con i suoi amanuensi, e che sapeva imitare qualunque grafìa: tanto da confessare più di una volta che «sarebbe potuto essere un meraviglioso falsario».

 

4. Militò come ufficiale in Germania e in Britannia 6 acquistandosi buona fama per l’impegno dimostrato e non meno per la moderazione, come appare dalla moltitudine di iscrizioni poste sotto le statue e i ritratti a lui dedicati che sono sparsi per tutte e due le province.

Dopo il servizio militare si diede alle attività forensi, con onore più che con assiduità.

Nello stesso periodo si sposò con Arrecina Tertulla 7, il cui padre, di rango equestre, era stato in passato prefetto delle coorti pretorie. Dopo la morte di Arrecina prese in moglie Marcia Furnilla 8, di illustre famiglia; ma, avutane una figlia, fece divorzio.

Dopo aver esercitato la questura, posto al comando di una legione, espugnò due solide piazzeforti di Giudea, Tarichea e Gamala 9. Fu allora che, durante uno scontro mortogli il cavallo tra le gambe, riuscì a saltare in groppa ad un altro, il cui cavaliere gli era caduto accanto nella mischia.

 

5. Più tardi, quando Galba prese il potere, fu mandato a congratularsi con lui 10. E, al suo passaggio, attirò dovunque su di sé l’attenzione generale, come se fosse stato chiamato in vista di un’adozione.

Ma, quando si accorse che la situazione ridiventava incerta, ritornò sui suoi passi.

Visitando l’oracolo di Venere a Pafo 11, mentre chiedeva un responso a proposito del suo viaggio per mare, trasse anche conferma a sperare nel principato.

Di lì a poco fu associato all’impero 12 e lasciato dal padre a completare l’opera di sottomissione della Giudea. Nell’ultimo scontro per l’espugnazione di Gerusalemme riuscì ad abbattere dodici difensori con altrettante frecce e conquistò la città nel giorno natalizio di sua figlia. L’entusiasmo e il favore dei suoi soldati furono allora tali che essi lo salutarono, nel congratularsi con lui, col titolo di Imperatore; e, di lì a poco, alla sua partenza dalla provincia, volevano trattenerlo scongiurandolo con preghiere e persino con minacce a rimanere o a portarli tutti con sé.

Da qui nacque il sospetto che avesse tentato di separarsi dal padre e assumere per sé il regno dell’Oriente: sospetto che prese corpo quando, in viaggio per Alessandria, si fermò a Menfi per la consacrazione del bue Api e, in quella occasione, cinse il diadema secondo il costume e il cerimoniale dell’antica religione.

Ma non mancarono nemmeno le interpretazioni di segno opposto.

Perciò in tutta fretta si diresse verso l’Italia e, dopo aver fatto scalo con una nave oneraria a Reggio e a Pozzuoli, si precipitò a

Roma. E qui, rivolto al padre che si stupiva per quel suo ritorno inaspettato, quasi a dimostrare l’inconsistenza delle voci diffuse sul suo conto, disse: «Eccomi qui, padre, sono arrivato».

 

6. Da allora in poi non cessò mai di essere partecipe del principato e suo difensore. Insieme col padre condusse il trionfo ed esercitò la censura; del padre fu ancora collega nella potestà tribunizia e in ben sette consolati 13. Si accollò la cura di quasi tutti gli impegni del potere, dal momento che in nome di suo padre dettava lettere, provvedeva alla stesura degli editti, leggeva comunicazioni in Senato anche al posto del questore 14. Assunse anche la prefettura del pretorio che finora non era mai stata retta se non da un cavaliere romano 15.

In questa carica apparve fin troppo risoluto e dispotico: vero è che fece eliminare senza esitazione chiunque gli si mostrasse sospetto, sguinzagliando i suoi emissari tra i teatri e gli accampamenti perché, come facendosi carico della pubblica opinione, sollecitassero la condanna dei suoi nemici.

Tra le vittime ci fu Aulo Cecina, ex console 16. Dopo averlo invitato a cena, lo fece assassinare non appena uscito dalla sala del triclinio. È vero però che il pericolo era imminente, come risultava da una minuta di lui, che Tito aveva intercettato, col testo di un discorso da tenersi davanti ai soldati.

Con questo comportamento, ad ogni modo, egli provvide, sì, alla sua sicurezza futura, ma, per il presente, si attirò gravi inimicizie: e si può dunque ben dire che mai alcuno giunse al principato fra tante male voci e tante contrarietà.

 

7. A parte la sua crudeltà, destava sospetto anche la sua intemperanza, dato che protraeva le sue baldorie fino a notte fonda in compagnia degli amici più dissoluti. Né destava meno scandalo la sua lussuria, a causa delle congreghe di eunuchi e di debosciati di cui si circondava; per non dire della notoria passione verso la regina Berenice 17, alla quale si diceva avesse promesso persino il matrimonio.

Sospetto sollevava anche la sua rapacità: perché era noto come usasse speculare sulle cause trattate in presenza del padre e trarne profitto. E, in definitiva, tutti pensavano e andavano anche apertamente dicendo che si profilava un altro Nerone.

Ora, al contrario, quella cattiva fama gli si convertì in un bene e si mutò in un coro di lodi quando in lui non si trovò nessun vizio e si videro, viceversa, mille virtù.

I conviti che offriva erano piacevoli e non smodati. Gli amici che sceglieva erano tali da rimanere al loro posto, anche dopo di lui, come necessari agli altri prìncipi e al bene dello Stato. Quanto a Berenice, la allontanò sùbito da Roma, sia pure con dolore suo e di lei. Non solo smise di favorire smaccatamente i suoi danzatori, che pure gli erano carissimi, ma anche si astenne dall’assistere ai loro spettacoli pubblici, benché fossero tali maestri nella loro arte da tenere poi a lungo la scena. Non tolse più nulla ad alcuno dei cittadini; si astenne dalle proprietà altrui come mai nessuno aveva fatto; non volle accettare nemmeno le offerte più comuni e spontaneamente concesse.

Per converso, non inferiore per munificenza a nessuno di quanti lo avevano preceduto, dopo aver inaugurato l’anfiteatro 18 e avervi costruito accanto in breve tempo le terme 19, offrì uno spettacolo di straordinaria ricchezza e sontuosità d’apparato, proponendo insieme una battaglia navale nella vecchia Naumachia 20, incontri di gladiatori e, in una sola giornata, ben cinquemila fiere di ogni specie.

 

8. Molto generoso per natura, laddove tutti gli altri Cesari finora – in base a una disposizione di Tiberio – non avevano considerate valide le concessioni fatte dai predecessori se non dopo una loro personale conferma, egli per primo volle con un unico editto ratificare tutti i privilegi concessi in passato senza pretendere che gli si sottoponessero nuove petizioni. E in tutte le altre richieste del pubblico tenne poi sempre come suo punto fermo di non congedare nessuno senza lasciargli qualche speranza. Anzi, mentre i suoi consiglieri gliene facevano un appunto, come se promettesse più di quanto poteva mantenere, rispose che «non era bene che qualcuno se ne andasse in mestizia dopo esser stato a colloquio col principe». E una volta, del resto, essendosi ricordato durante la cena di non aver accordato nessun favore ad alcuno in tutto quel giorno, pronunciò la frase memorabile e giustamente lodata: «Amici, ho perduto una giornata».

Come prima cosa, volle trattare con estrema cordialità il popolo tutto in ogni occasione. Una volta, avendo proposto uno spettacolo di gladiatori, dichiarò che l’avrebbe allestito «non secondo il suo gusto, ma secondo quello degli spettatori». E così infatti si comportò, giacché non solo non lasciò cadere nessuna delle richieste avanzate, ma anzi fu lui a invitare la gente a esprimere i propri desideri. Di più: avendo una sua predilezione per le armature alla foggia dei Traci 21, spesso polemizzava col popolo, a voce e a gesti, come un tifoso qualunque, senza però venir meno mai al prestigio della sua carica né al senso dell’equità.

Per non tralasciare nulla che potesse conciliargli il favore popolare, non di rado prese il bagno nelle sue terme private dopo avervi ammessa la plebe.

Sotto il suo principato si verificarono varie sciagure e calamità naturali: l’eruzione del Vesuvio in Campania, un incendio che devastò Roma per tre giorni e per tre notti, una pestilenza di gravità mai vista 22. In tante e così dolorose avversità egli seppe mostrare non solo la sollecitudine propria di un principe ma anche l’amore sincero di un padre, ora consolando con i suoi editti, ora soccorrendo materialmente fin dove lo permettevano le sue risorse. Costituì mediante sorteggio una commissione di ex consoli per provvedere alla ricostruzione della Campania: i beni delle vittime del Vesuvio, morte senza lasciare eredi, furono utilizzati per il ricupero delle città devastate dal sisma. Quanto all’incendio di Roma, dopo aver fatto proclamare che nessun bene pubblico era perduto, destinò al restauro dei monumenti e dei templi tutte le decorazioni dei suoi palazzi e incaricò una schiera di sorveglianti tratti dall’ordine equestre perché i lavori fossero portati a termine con la massima celerità. Nella cura dei malati e nell’alleviare le sofferenze causate dall’epidemia non tralasciò nessun aiuto che potesse venirgli dagli uomini e dagli dei, affidandosi a ogni genere di rimedi e di sacrifici.

Tra le calamità dei tempi si contava anche, innescata da un’antica licenza, la piaga dei delatori e dei loro mandanti. Egli perseguitò i colpevoli senza tregua: li fece flagellare e fustigare nel foro e infine, trascinatili sull’arena dell’anfiteatro, alcuni li condannò a esser venduti come schiavi, altri li confinò nelle isole più selvagge. E, per impedire definitivamente che altri per il futuro ritentassero simili azioni, vietò, tra i vari suoi provvedimenti, che per uno stesso reato si facesse ricorso a leggi diverse e che – oltre un certo termine – si potesse indagare sullo stato giuridico di un defunto, quale che fosse.

 

9. Aveva dichiarato di assumere il pontificato massimo per conservare le mani prive di macchia. E mantenne la parola, perché da allora in poi non determinò la morte di nessuno né vi fu in qualche modo coinvolto. Sebbene non mancassero talvolta i motivi per una vendetta, lui giurava «che sarebbe morto piuttosto che provocare la morte di qualcuno». Due patrizi si erano resi colpevoli di aspirare all’impero: egli si accontentò di ammonirli invitandoli a desistere. Sostenne che «il principato è un dono del destino»: quanto al resto – promise – se avevano bisogno di qualche altra cosa, lui era pronto a esaudirli. E sùbito mandò i suoi corrieri alla madre di uno dei due, che viveva lontano, per annunciarle che il figlio stava bene e toglierla così dall’ansia. Di più: non solo volle trattenerli tutti e due a una cena familiare, ma anzi, l’indomani, a uno spettacolo di gladiatori, se li fece sedere accanto a bella posta e porse loro, perché le esaminassero, le armi dei duellanti che erano state a lui presentate. Inoltre – si dice – venuto a conoscenza del loro oroscopo, li fece avvisare che «su entrambi pendeva un pericolo, ma in futuro e per cagione di un’altra persona». Ciò che in effetti si realizzò.

Suo fratello intanto non cessava di tramare contro di lui e di aizzare l’esercito, ormai quasi apertamente, alla ribellione, e già meditava la possibilità di una fuga 23: Tito non se la sentì né di decretarne la morte né di farlo relegare. Nemmeno lo volle sminuito nella dignità: continuò, come dal primo giorno in cui aveva assunto l’impero, a dichiararlo partecipe del principato e suo successore. Solo in privato lo pregava talora, ma con le lacrime agli occhi, «di voler mostrare, una buona volta, verso di lui un sentimento analogo al suo».

 

10. Immerso in questi assilli, lo prevenne la morte: più che per lui fu un danno per l’umanità. Ultimati gli spettacoli 24, aveva pianto copiosamente alla presenza del popolo. Si diresse allora verso la Sabina. Appariva abbattuto: durante un sacrificio la vittima gli era sfuggita e a cielo sereno si era udito il tuono. Alla prima sosta del viaggio fu preso dalla febbre.

Allora, mentre di là lo trasportavano in lettiga, si dice che, scostate le cortine, avesse rivolto lo sguardo al cielo lamentandosi molto «per essere strappato alla vita, così innocente: perché non c’era alcuna sua azione di cui dovesse pentirsi, eccettuata forse una sola». Ma quale fosse, né lui lo fece allora intendere né sarebbe facile indovinarlo. Pensano alcuni che volesse alludere a una relazione avuta con la moglie di suo fratello. Ma, quanto a Domizia 25, lei giurava per tutti gli dei che tale relazione non c’era mai stata; e, se qualche cosa ci fosse stata, non l’avrebbe taciuto, ma anzi se ne sarebbe vantata, dispostissima com’era sempre a confessare ogni sua infedeltà.

 

11. Morì nella stessa villa in cui era morto suo padre 26, il 13 settembre 27, dopo due anni, due mesi e venti giorni da quando gli era succeduto, nel quarantaduesimo anno di età.

Quando si diffuse la notizia della sua fine, il popolo intero se ne addolorò come per un lutto familiare. I senatori corsero alla Curia, prima ancora di esservi convocati per editto, e si dovettero spalancare le porte che erano ancora chiuse. E allora egli ebbe, da morto, un tale tributo di lodi e di ringraziamenti quale mai aveva avuto quando era lì, vivo e presente.

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
Storici Latini
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