Libro quarto

 

1. Sotto il consolato di Caio Asinio e Caio Antistio scadeva il nono anno dacché Tiberio aveva visto la pace airinterno e fiorente la sua famiglia (egli infatti poneva la morte di Germanico tra gli avvenimenti propizi), quando improvvisamente la fortuna mutò il suo corso, Tiberio diventò crudele e dette man forte alla ferocia altrui. L’origine, la causa di tutto ciò fu il Prefetto delle coorti pretorie, Elio Seiano; del suo potere ho già parlato. Ora riferirò sulle sue origini, la sua condotta e da quali azioni malvage mosse per impadronirsi del potere. Era nato a Volsinii; suo padre, Seio Strabone, era un cavaliere romano; nei suoi anni giovanili era stato seguace di Caio Cesare, il nipote di Augusto e correva voce che si fosse prostituito per denaro ad Apicio, un uomo molto ricco e prodigo; in seguito con vari artifici riuscì a conquistare Tiberio a tal punto che questi, di carattere chiuso e impenetrabile con tutti, soltanto verso di lui si mostrava aperto e fiducioso; e ciò non tanto per l’astuzia di Seiano, che poi finì lui stesso vittima dei suoi intrighi, quanto per l’ira degli dèi verso Roma, alla quale egli procurò ignominia sia nel vivere che nel morire. Era un uomo audace, resistente alla fatica; segreto sulle cose sue, pronto a incriminare gli altri; capace di adulazione e di superbia, apparentemente modesto ma interiormente divorato dalla passione del potere; per ottenerlo a volte ostentava lusso e sperpero, più spesso zelo e vigilanza: cose non meno deleterie, quando si adoprano al fine di conquistare il potere.

 

2. La carica di Prefetto, che aveva scarsa importanza, per opera sua acquistò autorità; riunì in un accampamento solo le coorti che si trovavano in varie parti della città, per far sì che ricevessero gli ordini tutte assieme e dal numero, dalla consistenza e dalla vista reciproca traessero fiducia in sé e timore negli altri. I soldati, diceva, se si lasciano isolati tralignano; e se si fosse verificata all’improvviso una minaccia, accorrendo tutti insieme sarebbero stati più efficaci; inoltre, avrebbero osservato un tenore di vita più severo, alloggiando lontano dalle lusinghe della città. Quando l’accampamento fu ultimato1, Seiano prese a insinuarsi nell’animo dei soldati: si avvicinava a loro, li chiamava per nome. Poi, nominava di persona tribuni e centurioni, né si asteneva dal procurarsi sostenitori, corrompendo i senatori, procurando onori e cariche a persone di sua fiducia; e Tiberio era consenziente e compiacente al punto che parlava di lui come d’un collega, lo portava alle stelle davanti ai senatori e al popolo e permetteva che si ponessero le sue statue nei teatri, nelle piazze e persino al centro del campo delle legioni.

 

3. D’altro canto, la famiglia dei Cesari era numerosa: il figlio giovane, i nipoti già adulti rappresentavano un ostacolo alle ambizioni di Seiano. Sarebbe stato un azzardo sopprimere con la forza tante persone tutte in una volta: l’insidia esigeva che si ponessero intervalli di tempo tra l’uno e l’altro. Gli sembrò opportuno percorrere un cammino occulto e incominciare da Druso. Covava un risentimento recente contro di lui perché durante un diverbio sorto per caso, Druso, insofferente di rivali e di carattere impulsivo, aveva alzato le mani e, di fronte alla reazione di Seiano, gli aveva dato un ceffone. Dopo aver valutato tutte le possibilità, Seiano ritenne che la più agevole fosse quella di puntare su Livia, la sposa di Druso. Era sorella di Germanico. Da bambina non era bella, ma in seguito aveva superato tutte le altre per l’avvenenza. Seiano si finse pazzo d’amore per lei e la travolse nell’adulterio; quando, con quel primo peccato, la ebbe in suo potere – una donna, quando ha perduto l’onore, consente a tutto – le fece intravedere la speranza di essere la sua compagna nelle nozze e sul trono, dopo che fosse scomparso il marito. Ed ella, nipote di Augusto, nuora di Tiberio, madre dei figli di Druso, disonorò se stessa, i suoi antenati, i suoi discendenti, per un amante che veniva da un municipio; e scambiò la sua situazione onorata e sicura con un futuro incerto e ignominioso.

Coinvolse nel suo piano Eudemo, che era il suo medico e le era amico; con il pretesto della sua professione, la visitava spesso privatamente. Seiano intanto, per evitare che l’amante sospettasse di lui, ripudiò la moglie Apicata, dalla quale aveva avuto tre figli. Ma la gravità del delitto era tale che provocava paura, esitazioni e spesso disegni contraddittori.

 

4. All’inizio dell’anno, Druso, uno dei figli di Germanico, presela toga virile. Il Senato gli accordò gli stessi privilegi che aveva concesso a suo fratello Nerone. Tiberio pronunciò un discorso nel quale fece i più alti elogi del proprio figlio Druso per l’affetto paterno che dimostrava ai figliuoli del fratello. Druso infatti, benché sia tutt’altro che frequente vedere insieme potere e concordia, verso quei giovinetti appariva benevolo, certamente non ostile. In seguito fu rimessa in discussione la proposta di vecchia data, e tante volte dissimulata, di partire per le province. L’imperatore adduceva come pretesto il gran numero di veterani e la necessità di sostituirli con nuove reclute; mancavano volontari e, quando se ne presentava qualcuno, non si comportava con lo stesso coraggio e disciplina, poiché in genere quelli che entravano spontaneamente nell’esercito erano miserabili e vagabondi. Poi rapidamente aumentò il numero delle legioni e delle province da difendere; e io ritengo opportuno riferire le forze militari di Roma in quel momento, quanti fossero i sovrani alleati, e quanto più limitato allora il nostro impero2.

 

5. Due flotte, una a Miseno, l’altra a Ravenna, difendevano l’Italia sui due mari; le sponde della Gallia più vicine erano protette da navi da guerra, catturate nella vittoria di Azio e mandate da Augusto nel porto di Forum Iulii3 con un forte equipaggio. Ma il nerbo dell’esercito consisteva nelle otto legioni sul Reno, baluardo comune contro i Germani e contro i Galli. La Spagna, sottomessa di recente, era vigilata da tre legioni. Il re Giuba aveva ricevuto in dono dal popolo romano il dominio sui Mauri. Sul resto dell’Africa vigilavano due legioni e altrettante in Egitto. Quattro controllavano l’immenso territorio che si estende dalla Siria al fiume Eufrate, e confina con l’Iberia e l’Albania nonché con altri regni, che il nostro potere protegge contro forze straniere. Remeltace e i figli di Coti governavano la Tracia, due legioni sulle rive del Danubio la Pannonia, due nella Mesia, altrettante in Dalmazia; per la posizione di questo paese si trovavano alle spalle di quelle ma, se fosse stato necessario accorrere subitamente a difesa dell’Italia, non sarebbero state chiamate da lontano. Roma del resto disponeva di milizie proprie, tre coorti urbane e nove pretorie, reclutate in Etruria, nell’Umbria e nel Lazio antico e nelle colonie che da gran tempo appartenevano a Roma. Secondo le necessità delle province, vi si trovavano distribuite triremi alleate, cavalleria e fanteria ausiliaria, forze non molto inferiori a quelle delle legioni; ma non sarebbe sicuro riferirne, poiché, a seconda della necessità del momento, venivano trasferite da un punto a un altro e a volte aumentavano di numero, altre volte diminuivano.

 

6. Riterrei opportuno riferire anche altri aspetti dello Stato romano, in qual modo le istituzioni fossero regolate fino quel tempo, poiché proprio quell’anno4 dall’inizio del principato si verificò un mutamento in peggio del governo per opera di Tiberio. Prima diallora, gli affari pubblici e i più importanti dei privati venivano discussi al cospetto dei senatori; era permesso ai più autorevoli di esporre il loro parere e se si lasciavano andare all’adulazione era lui il primo a reprimerli; conferiva le cariche tenendo presenti la nobiltà della stirpe, la gloria militare, le alte qualità civili, affinché risultasse agli occhi di tutti che non vi erano persone migliori. Consoli e pretori avevano il loro prestigio; anche i magistrati di grado inferiore esercitavano il loro potere e le leggi, se si toglie quella di lesa maestà, erano applicate con giustizia. I tributi in frumento e in denaro e le altre specie di imposte erano date in appalto a società di cavalieri romani. Quanto al suo patrimonio privato, l’imperatore ne affidava l’amministrazione a persone integerrime, alcune senza conoscerle se non per fama; una volta assunti, erano tenuti al loro posto quasi senza limite, tanto che i più invecchiavano sempre nelle stesse funzioni. La plebe soffriva molto per la carestia, ma di ciò l’imperatore non aveva colpa; anzi, cercò di rimediare alla sterilità della terra e agli incerti del mare quanto poteva, con larghezza e impegno. Provvide affinché le province non fossero oberate di nuovi gravami e che quelli esistenti fossero tollerati senza avidità né crudeltà da parte degli amministratori; non c’erano più pene corporali né confische di beni. In Italia, i terreni di proprietà imperiale non erano molti, gli schiavi in numero limitato, l’amministrazione della casa affidata a pochi liberti; e se si presentava un conflitto con privati, si ricorreva al tribunale e alla legge.

 

7. Tiberio conservò questo ordine di cose senza la minima amabilità, anzi con durezza e talvolta col timore, fino a che la morte di Druso sconvolse ogni cosa. Fino a che era in vita, tutto restò immutato, poiché Seiano, ai primi passi del potere, voleva farsi conoscere per i suoi buoni provvedimenti e temeva la vendetta di Druso, il quale non faceva mistero dell’odio che nutriva per lui e anzi spesso si lamentava con il padre che con un figlio vivente avesse bisogno d’un altro come aiutante nel governo. Quanto mancava che lo chiamasse collega? I primi approcci al potere sono ardui; ma, non appena hai percorso i primi passi, ecco sùbito i sostenitori, i seguaci: già costruito un accampamento conforme ai voleri del Prefetto, già consegnati i soldati nelle sue mani, si vedeva la sua statua nel teatro di Pompeo e tra poco vi sarebbero stati nipoti comuni tra la famiglia di Seiano e quella dei Drusi5. Dopo di ciò, non c’era altro da sperare se non che si moderasse e si dichiarasse soddisfatto. Erano questi i commenti che Druso andava facendo e non di rado e non con poche persone; le sue confidenze, inoltre, la sposa infedele le riferiva a Seiano.

 

8. (23 d.C.) Quando ritenne che era il momento di agire, Seiano scelse un veleno ad azione lenta, che sembrasse una malattia. A quanto fu rivelato otto anni dopo6, a propinarglielo fu l’eunuco Ligdo. Durante i giorni della malattia e anche tra la morte e la sepoltura, Tiberio, sia che non nutrisse timori o volesse dar prova di forza d’animo, non mancò una seduta del Senato. I consoli, in segno di lutto, presero posto sugli scanni ordinari7, ma egli indicò loro la sede appropriata alla dignità della carica; e provocò lacrime nei senatori quando pronunciò un discorso interrotto solo da un gemito represso. Non ignorava, disse, che qualcuno poteva biasimarlo per essersi esposto, colpito com’era da un dolore recente, agli occhi dei senatori, quando i più sopportano a stento la luce del giorno e il conforto delle persone care; non si deve tacciarli di debolezza. Egli, dal canto suo, aveva cercato un sollievo virile nel cuore dello Stato. Ebbe parole di pietà per l’estrema vecchiezza dell’Augusta, per la tenera età dei nipoti8, e la propria, ormai vicina alla fine. Chiese che fossero introdotti i figli di Germanico, solo conforto nella sventura. I consoli allora uscirono dall’aula, rassicurarono i giovinetti, li introdussero e li disposero davanti a Tiberio. Ed egli li prese per mano e disse: «Padri Coscritti, questi fanciulli, orbati del padre, io li avevo affidati allo zio9 e lo pregai che, pur avendo figli lui stesso, li avesse cari come fossero del suo sangue e li allevasse in modo che fossero degni di lui e dei posteri. Ora che Druso mi è stato strappato, volgo a voi le mie preghiere e davanti agli dèi e alla patria, vi scongiuro: abbiate cura dei pronipoti di Augusto, discendenti di avi nobilissimi; guidateli, adempite al vostro dovere in mia vece. Nerone, Druso, questi occuperanno per voi il posto dei genitori. Siete nati da tal famiglia che la vostra sorte, propizia o avversa, riguarda lo Stato.»

 

9. Queste parole provocarono in molti il pianto e furono seguite da voti di prosperità. Se Tiberio avesse concluso qui il suo dire, avrebbe colmato l’animo dei presenti di compassione e di ammirazione verso di lui; invece, tornò a ripetere un suo progetto infondato e tante volte deriso, di dimettersi dal governo: che i consoli o qualcun altro se ne assumesse l’incarico. Così invece diminuì la credibilità delle cose anche vere e oneste che aveva dette. Alla memoria di Druso furono decretate le stesse onoranze che a quella di Germanico, altre se ne aggiunsero, poiché all’adulazione piace superare se stessa. Il funerale fu d’una grandiosità senza pari per lo splendore delle immagini: furono viste sfilare in lungo corteo le effigi della famiglia Giulia fin dalle origini, Enea, tutti i re albani, Romolo, il fondatore di Roma, l’aristocrazia Sabina, Atto Clauso e le altre effigi dei Claudi.

 

10. Nel narrare la morte di Druso, ho riferito i fatti come li hanno trasmessi la maggior parte degli autori, i più degni di fede; ora, non vorrei omettere una diceria che fu diffusa a quel tempo ed è tuttora tanto nota che non è stata dimenticata. Dopo aver indotto Livia al delitto, Seiano legò a sé sessualmente anche l’eunuco Ligdo, che per l’età e l’avvenenza gli era particolarmente caro, e tra i suoi famigli era ritenuto il più influente. Poi, quando tra i complici fu stabilito il luogo e il momento dell’avvelenamento, Seiano giunse a tal punto di audacia da mutare il suo piano. Denunciò segretamente Druso del progetto di avvelenare il padre e avvertì Tiberio di rifiutare la bevanda che gli sarebbe stata offerta per primo in un convito in casa di Druso. Il vecchio cadde nel tranello, prese il bicchiere e lo passò al figlio. Questi, ignaro di tutto, lo tracannò con giovanile baldanza, il che aggravò i sospetti, poiché parve che egli, per paura o per vergogna, volesse dare a sé la morte che aveva premeditato per il padre.

 

11. La diceria sopra esposta, che nessuna fonte autorevole conferma, è facile confutarla: quale uomo, anche di mediocre saggezza, e tanto meno Tiberio, che aveva attraversato tante prove, offrirebbe la morte a un figlio senza prima averlo ascoltato, anzi, con le sue stesse mani e senza che abbia il tempo di pentirsi? Perché piuttosto non avrebbe messo alla tortura il coppiere del veleno e indagato su l’istigatore del crimine; e perché non aveva usato verso l’unico figlio, fino a quel momento non riconosciuto reo di alcun delitto, quella circospezione, quella cautela tipica del suo carattere, che usava anche verso gli estranei? Ma Seiano era ritenuto capace di escogitare crimini d’ogni sorta e per l’eccessiva benevolenza di Tiberio verso di lui e l’odio di tutti verso entrambi, si prestava fede a qualsiasi fandonia, anche la più immane; e riguardo alla morte dei potenti corrono sempre voci più terribili del vero. Lo svolgimento del delitto del resto, che fu rivelato poi dalla moglie di Seiano, Apicata, venne alla luce attraverso la tortura di Eudemo e di Ligdo; e non c’è mai stato storico tanto ostile a Tiberio da attribuirgli il fatto, anche se avevano indagato nonché esagerato in peggio tutte le sue azioni. Quanto a me, ho voluto riferire e confutare questa diceria al fine di rifiutare con un esempio evidente le voci false e pregare coloro nelle cui mani capiterà questo mio lavoro di non anteporre notizie incredibili, avidamente accolte, a quelle vere e non alterate per far colpo.

 

12. Mentre Tiberio dai rostri pronunciava l’elogio del figlio, il Senato e il popolo assumevano l’atteggiamento e le voci del dolore più per simulazione che per sincero cordoglio, ché anzi in cuor loro si rallegravano che tornasse in auge la famiglia di Germanico. Il diffondersi del favore popolare e l’ambizione malcelata della madre Agrippina accelerarono la loro rovina. Seiano infatti, come vide impuniti gli assassini di Druso e scarso il cordoglio del popolo, reso più ardito dai delitti commessi e perché erano riusciti, cominciò a meditare tra sé in che modo avrebbe potuto sopprimere i figli di Germanico, senza alcun dubbio destinati alla successione. Non si poteva certo avvelenarli tutti e tre, data la sicura fede dei vigili e la castità impenetrabile di Agrippina. Incominciò allora a incoraggiare in lei lo spirito ribelle, ad attizzare l’antica antipatia di Augusta e la recente complicità di Livia, affinché la accusassero a Tiberio come aspirante al potere, perché superba della sua fecondità e forte del favore del popolo. Si servì di abili calunniatori, tra i quali aveva scelto Giulio Postumo che, legato da adulterio con Mutilia Prisca, era tra gli intimi della vecchia Augusta e molto adatto ai suoi disegni, poiché Prisca esercitava un forte ascendente sull’animo di lei e faceva sì che ella, per natura gelosa del suo potere, verso la nuora10 divenisse addirittura intrattabile. Seiano inoltre induceva anche gli intimi di Agrippina a incitare con discorsi tendenziosi il suo carattere altero.

 

13. Tiberio intanto non pose alcuna tregua alle sue occupazioni di governo, e anzi considerava il lavoro un sollievo; esaminava i processi dei cittadini, le suppliche degli alleati e dietro sua proposta il Senato deliberò che a due città colpite da terremoto, Cibira in Asia ed Egio in Acaia, fosse accordato l’esonero dalle tasse per un triennio. Poi Vibio Sereno, proconsole nella Spagna Ulteriore, condannato per pubblica violenza, a causa della sua condotta spietata fu deportato nell’isola di Amorgo; mentre fu assolto Carsidio Sacerdote, reo d’aver aiutato con forniture di frumento il nostro nemico Tacfarinate e della stessa accusa fu colpito anche C. Gracco. Costui era stato portato ancora bambino nell’isola di Cercina dal padre Sempronio come compagno nell’esilio. Qui era diventato adulto tra esuli e persone prive di cultura, si guadagnava da vivere con lo scambio di merci di scarso valore tra la Sicilia e l’Africa e tuttavia non si sottrasse ai rischi di chi possiede un grande patrimonio. E se Elio Lamia e L. Apronio, che avevano esercitato il governo in Africa, non avessero protetto la sua innocenza, sarebbe stato rovinato dalla nobiltà della sua stirpe sventurata e dalle avversità del padre.

 

14. Nello stesso anno giunsero legazioni da varie città greche: gli abitanti di Samo chiedevano che fosse confermato il diritto d’asilo al tempio di Giunone, quelli di Coo al santuario di Esculapio. I Samii si basavano su un decreto degli Anfizioni; questi detenevano la suprema facoltà di giudizio su tutte le questioni al tempo in cui i Greci, padroni del litorale marittimo, avevano fondato città sulle sponde dell’Asia. Non era inferiore per vetustà il diritto di Coo; in più i Samii possedevano una benemerenza locale, poiché proprio nel tempio di Esculapio avevano offerto asilo ai Romani, quando Mitridate aveva dato ordine di trucidarli in tutte le città e le isole dell’Asia11.

Dopo reiterate e spesso vane proteste dei pretori, finalmente Tiberio riferì sulla sconvenienza degli istrioni; disse che in pubblico provocavano disordini e la loro vita privata era scandalosa; l’antica farsa Osca, che un tempo costituiva per il volgo uno spasso di poco conto, era degradata a un tale livello di oscenità e violenza che l’autorità dei senatori doveva intervenire per tenerla a freno. Allora gli istrioni furono espulsi dall’Italia.

 

15. Quello stesso anno Tiberio fu colpito da un altro lutto: morì uno dei figli gemelli di Druso e non meno grave fu la perdita d’un amico, Lucilio Longo, suo compagno in tutte le vicende tristi e liete, il solo tra i senatori che lo aveva seguito nel ritiro a Rodi. Quindi, benché fosse un uomo nuovo12, il Senato decretò in suo onore le esequie riserbate ai censori e una statua nel Foro di Augusto a spese dello Stato. Ancora tutto si decideva nella Curia, tanto che il procuratore dell’Asia Lucilio Capitone, denunciato dai provinciali, dovette difendersi al cospetto dei padri; e vi fu una solenne dichiarazione dell’imperatore, il quale dichiarò d’avergli concesso giurisdizione soltanto sui propri schiavi e sul patrimonio famigliare, mentre egli aveva usurpato l’autorità di pretore, si era servito di forze militari e ciò facendo aveva trasgredito i suoi ordini. Si procedesse all’interrogatorio degli alleati. Così, istruito il processo, il reo fu condannato. Per questa condanna e quella di C. Silano dell’anno precedente, le città asiatiche dedicarono un tempio a Tiberio, alla madre di lui e al Senato. Fu concessa l’autorizzazione; e per questo Nerone ringraziò il Senato e l’avo, con gioia e commozione dei presenti, i quali, memori di Germanico, avevano l’impressione di vedere, di udire lui. Il giovane aveva un contegno modesto e un’avvenenza degna d’un principe, doti tanto più amate perché era nota la minaccia che pesava su di lui per l’odio di Seiano.

 

16. Nello stesso periodo l’imperatore parlò sulla nomina del nuovo flàmine diale, in luogo di Servio Maluginense defunto e allo stesso tempo della necessità di votare una nuova legge sull’argomento. Un tempo, disse, si usava nominare insieme tre patrizi, i cui genitori fossero stati uniti in matrimonio con il rito della confarreatio13; di questi, uno sarebbe stato prescelto; ma ormai non ce n’era più in gran numero, come un tempo, perché quel rito era caduto in disuso o celebrato da pochi – e qui citò molte ragioni del fatto, soprattutto l’indifferenza degli uomini e delle donne, indi le difficoltà di quella cerimonia, tali che la si evitava di proposito – e inoltre perché colui che raggiungeva quel sacerdozio e la donna che passava sotto la sua autorità coniugale erano esonerati dalla patria potestà. Era necessario porre rimedio a quello stato di fatto con un decreto senatoriale o con una legge, come aveva fatto Augusto, il quale aveva adattato alle esigenze presenti alcune usanze ispirate al rigore antico. Si procedé quindi a un attento esame del rituale e si deliberò di non apportare modifiche all’istituzione dei flàmini, tranne che per una legge in conformità della quale la consorte del flàmine diale sarebbe stata sottoposta all’autorità del marito soltanto riguardo alle cerimonie religiose, ma per il resto avrebbe fruito del diritto comune delle donne. Al posto di Maluginense fu nominato il figlio. Per aumentare la dignità dei sacerdoti e stimolarne l’impegno nell’adempimento delle cerimonie, furono versati due milioni di sesterzi alla vergine Cornelia, che fu presa al posto di Scanzia; e fu deciso che Augusta, tutte le volte che entrava in teatro, prendesse posto tra le Vestali.

 

17. Sotto il consolato di Cornelio Cetego e Visellio Varrone, i Pontefici e, sul loro esempio, gli altri sacerdoti, quando pronunciavano voti per la salvezza dell’imperatore, raccomandavano agli stessi dèi anche Nerone e Druso, non tanto per affetto verso i due giovinetti quanto per adulazione, che, in tempo di declino morale, è pericolosa sia se eccede sia se manca totalmente. Tiberio infatti, che non era mai stato tenero verso la famiglia di Germanico, si dispiacque che i due adolescenti fossero equiparati a lui, così avanti negli anni; chiamò a rapporto i pontefici, chiese loro se l’avessero fatto a seguito di preghiere o minacce da parte di Agrippina. E benché essi negassero, tuttavia subirono miti rampogne (in effetti erano per la maggior parte parenti dell’imperatore o personalità eminenti della città). In un discorso al Senato, poi, Tiberio raccomandò che in futuro non si offrisse all’animo influenzabile dei giovani motivo d’orgoglio con onori prematuri. In verità, Seiano continuamente lo incitava e affermava che la città era divisa quasi da una guerra civile: c’era chi dichiarava di parteggiare per Agrippina e, se non si provvedeva, sarebbero aumentati di numero e non c’era altro rimedio alla discordia se non quello di sopprimerne un paio dei più facinorosi.

 

18. Per questa ragione Tiberio agì contro C. Silio e Tizio Sabino; a entrambi fu fatale l’amicizia di Germanico. A danno di Silio c’era anche il fatto che egli per sette anni era stato al comando d’un grande esercito, aveva vinto la guerra contro Sacroviro e in Germania aveva ottenuto le insegne trionfali. Da quanto maggiore altezza fosse caduto, maggior timore si diffonderebbe tra gli altri. I più ritenevano che l’ostilità di Tiberio contro di lui fosse aumentata per la sua iattanza; egli infatti si vantava senza pudore che i suoi soldati erano rimasti rispettosi della disciplina, mentre gli altri si erano lasciati trascinare nella sedizione; e che Tiberio non avrebbe conservato il potere se anche quelle legioni avessero ceduto a smanie di mutamenti. Tiberio riteneva che tali affermazioni minassero il suo prestigio, ma temeva di non riuscire a scalzare un uomo di tanto merito: i beneficii infatti sono graditi fino a quando ci si crede capaci di sdebitarsi, ma quando divengono eccessivi anziché gratitudine suscitano odio.

 

19. La sposa di Silio era Sosia Galla, invisa al principe per il suo affetto verso Agrippina. Si stabilì dunque, rinviando il caso di Sabino ad altro momento, di togliere di mezzo questi due; contro di loro fu incitato il console Varrone, il quale, adducendo inimicizie di suo padre, assecondava gli odi di Seiano con sua ignominia. Poiché l’imputato invocava un rinvio, fino a che l’accusatore uscisse dalla carica di console, Tiberio si oppose: era l’uso, disse, che i magistrati citassero in giudizio i privati; e non si doveva menomare il diritto del console, alla cui vigilanza è affidata la salvezza dello Stato14. Fu tipico di Tiberio mascherare delitti di conio recente sotto formule antiche. E dunque con molta solennità, quasi che contro Silio si agisse legalmente e Varrone fosse console e quella fosse una repubblica, i senatori si riunirono; l’imputato taceva. Se avesse tentato di difendersi, non avrebbe nascosto dall’ira di chi era colpito. L’accusa era d’aver lungamente aiutato Sacroviro nella guerra, d’aver disonorato la vittoria con la sua avidità; anche la moglie fu imputata di complicità. Certamente su l’uno e su l’altra pesavano reati di concussione; ma il processo si svolse tutto sull’imputazione di lesa maestà, e Silio prevenne la condanna imminente con il suicidio.

 

20. Ad onta di ciò15, si infierì sul suo patrimonio, non certo affinché fossero risarciti i denari ai contribuenti, nessuno dei quali, del resto, li richiedeva; ma gli furono revocate la generose donazioni di Augusto, dopo minuziosi calcoli di quanto si richiedeva dal fisco; e fu la prima volta che Tiberio si mostrò esigente sul denaro altrui. Sosia, conforme alla sentenza di Asinio Gallo, fu mandata in esilio; questi aveva proposto che una parte dei suoi averi fosse confiscata, una parte si lasciasse ai figli. M. Lepido, invece, propose che un quarto spettasse agli accusatori, conforme a una disposizione di legge16, e il resto fosse lasciato ai figli. Mi risulta che ai suoi tempi questo Lepido fosse persona di grande austerità e saggezza; e in effetti riuscì a modificare in meglio molte crudeli deliberazioni dettate da adulazione. E tuttavia non aveva bisogno di agire con cautela poiché conservò sempre prestigio e il favore di Tiberio. Di conseguenza mi trovo costretto a chiedermi se non dipenda dal destino e dalla sorte nel nascere, come tutte le altre cose, anche la simpatia dei principi verso alcuni, l’avversione verso altri, oppure se qualche cosa dipenda dalla nostra saggezza; e se tra la sdegnosa arroganza e il disonorevole servilismo sia possibile percorrere una strada che non sia né vile né pericolosa. Messalino Cotta, uomo di antenati non meno illustri, ma d’animo diverso, espresse il parere che un senatus consultum dovesse stabilire che i magistrati, anche innocenti e ignari delle colpe d’altri, fossero puniti dei reati commessi dalla moglie verso i provinciali come per delitti propri.

 

21. Poi si celebrò il processo di Calpurnio Pisone, uomo nobile e altero. Come ho già scritto, egli aveva protestato a gran voce in Senato contro gli intrighi dei delatori e, noncurante del potere di Augusta, aveva osato trascinare in giudizio Urgulania e tirarla fuori dalla casa del principe. Sul momento, Tiberio aveva preso la cosa con signorilità; ma nell’animo suo, che mai dimenticava un’offesa, anche se si era attenuata, ne serbava il ricordo. Q. Veranio accusò Pisone d’aver tenuto in privato discorsi offensivi per la maestà dell’imperatore; aggiunse che teneva del veleno in casa ed entrava in Senato armato di spada. Quest’ultima cosa fu tralasciata perché troppo grave per essere vera; di tutti gli altri reati che si accumulavano su di lui fu ritenuto colpevole; ma non fu sottoposto a giudizio perché opportunamente morì.

Fu presentato un rapporto anche su un esule, Cassio Severo, uomo di umili origini e di pessima condotta, ma di efficace eloquenza; aveva suscitato inimicizie a tal punto che il Senato, con sentenza giurata, lo relegò a Creta. Laggiù, comportandosi allo stesso modo, aggiunse nuove ostilità alle antiche; infine, privato di tutti i suoi beni, condannato all’esilio, si fece vecchio sugli scogli di Serifo.

 

22. (24 d.C.) Nello stesso periodo per motivi non accertati il pretore Plauzio Silvano precipitò giù dalla finestra la moglie Apronia; condotto dal suocero Apronio al cospetto di Cesare, rispose come chi soffre di disordine mentale, e affermò che mentre egli era immerso in un sonno profondo e quindi non si rendeva conto di nulla, la moglie di sua volontà si era tolta la vita. Tiberio senza porre tempo in mezzo si reca nella casa, visita la camera da letto, nella quale erano evidenti le tracce della colluttazione e della spinta. Riferisce al Senato, nomina i giudici; Urgulania intanto, che era la nonna di Silvano, manda un pugnale al nipote. Si ritenne che l’avesse fatto dietro consiglio del principe, per riguardo dell’amicizia di Urgulania con l’Augusta. Il reo, dopo aver tentato invano di trafiggersi con il pugnale, si fece recidere le vene. Subito dopo la prima moglie di lui, Numantina, imputata d’aver provocato la follia del marito con filtri e sortilegi, fu dichiarata innocente.

 

23. Nello stesso anno finalmente il popolo romano fu liberato dalla lunga guerra contro il numida Tacfarinate. I comandanti precedenti, infatti, non appena ritenevano d’aver compiuto imprese sufficienti a ottenere le insegne trionfali, non si occupavano più del nemico: a Roma c’erano già tre statue incoronate d’alloro e Tacfarinate seguitava a saccheggiare l’Africa, con soldatesche aumentate dagli ausiliari Mauri, i quali, per la sventatezza giovanile di Tolomeo, figlio di Giuba, avevano preferito combattere anziché sottostare a servi e a liberti regi. Il re dei Garamanti gli serviva da ricettatore delle prede e da compagno nelle devastazioni, senza peraltro avanzare con un vero esercito: mandava avanti agili manipoli che da lontano apparivano più cospicui. Dalla provincia, tutti coloro che non avevano un soldo ma un passato poco raccomandabile correvano ad arruolarsi con Tacfarinate, tanto più prontamente da quando Tiberio, dopo l’impresa di Bleso, aveva dato ordine di rientrare alla IX legione, come se in Africa non ci fossero più nemici. P. Dolabella, proconsole di quell’anno, non aveva osato trattenerla, poiché gli faceva più paura un ordine dell’imperatore che le sorti incerte della guerra.

 

24. Intanto s’era sparsa la voce che lo Stato romano era dilaniato da attacchi di altre nazioni, e che per questa ragione poco a poco le forze militari abbandonavano l’Africa, Tacfarinate allora pensò che sarebbe stato facile accerchiare i pochi rimasti, se li avessero aggrediti tutti insieme quelli che preferivano esser liberi anziché servi. Quindi incrementa le sue forze e, posto il campo, cinge d’assedio la città di Tubusco. Dolabella riunì tutti gli uomini di cui disponeva e, grazie al terrore che incuteva il nome romano e perché i Numidi sono incapaci di resistere all’urto della fanteria, al suo primo apparire dissolse l’assedio e si collocò su posizioni favorevoli; poi ordinò che fossero decapitati i capi dei Musulami che si disponevano a disertare. Poi, dato che dopo varie spedizioni contro Tacfarinate si era reso conto che con un attacco anche imponente non sarebbe riuscito a tener dietro a un nemico perennemente in movimento, chiamò il re Tolomeo con la sua gente, allestì quattro colonne e le affidò a legati o a tribuni, mentre affidò ad alcuni scelti tra i Mauri un manipolo di uomini esperti di saccheggio. Ed egli assisteva tutti con il suo consiglio.

 

25. Non molto tempo dopo giunse la notizia che i Numidi si erano assestati nei pressi d’una fortezza semidistrutta di nome Auzea, incendiata da loro stessi tempo addietro, confidando nel fatto che il luogo era racchiuso tra vaste foreste. A questo punto, furono inviate a marce serrate alcune coorti e ali di cavalleria, ignare della destinazione verso la quale erano condotte. Spuntava appena il giorno quando con urla selvagge e clangore di trombe piombarono sui barbari mezzo addormentati; i loro cavalli erano impastoiati o vagavano liberi tra i pascoli. Da parte dei Romani, tutto era disposto per la battaglia, i fanti in linee serrate, i cavalieri allineati, mentre i barbari, presi alla sprovvista, senz’armi, in disordine, senza un piano, furono catturati o massacrati come bestiame. I soldati, furenti per il ricordo delle prove trascorse, per gli scontri tante volte sollecitati contro un nemico sempre sfuggente, si saziarono di vendetta e di sangue. Da uno all’altro manipolo corse la voce che cercassero tutti di catturare Tacfarinate – lo conoscevano bene, dopo tante battaglie. Se non si uccideva il capo, la guerra non avrebbe avuto fine. Ed egli, come vide le sue guardie cadute, il figlio in catene, e i Romani che accorrevano da ogni parte, si precipitò tra i dardi. Si sottrasse così alla prigionia con una morte non invendicata. E così ebbe fine la guerra.

 

26. Tiberio rifiutò a Dolabella, che le aveva chieste, le insegne trionfali, per compiacenza verso Seiano, il quale non voleva che fosse superata la gloria di suo zio Bleso. Ma non per questo aumentò la fama di Bleso anzi si accrebbe quella di Dolabella per l’onore negato: con un esercito di minore consistenza aveva catturato prigionieri insigni, aveva avuto il merito della morte del re e della guerra portata a termine17. Seguivano i legati dei Garamanti, che a Roma s’erano visti di rado; quel popolo, sgomento per la fine di Tacfarinate, ma immune dalle colpe di lui, li aveva mandati per dare soddisfazione al popolo romano. Quanto a Tolomeo, quando furono riferiti i servigi da lui resi per quella guerra, conforme a un costume vetusto, fu mandato uno dei senatori a portargli lo scettro d’avorio e la toga ricamata, antico dono dei padri, a salutarlo re e chiamarlo socio e amico del popolo romano.

 

27. Durante quella stessa estate scoppiò in Italia una guerra servile in germe, ma la soffocò il caso. Promotore della rivolta fu T. Curtisio, già soldato della coorte pretoria; questo incominciò con riunioni segrete presso Brindisi e nelle città adiacenti, poi con manifesti affissi in pubblico incitava a libertà gli schiavi rozzi e feroci che abitano in luoghi lontani e boscosi; ed ecco, come per un dono degli dèi, approdarono su quelle coste tre triremi addette alla protezione del traffico commerciale. Inoltre, si trovava nella zona il questore Cuzio Lupo, al quale, secondo un uso antico, erano affidati i valichi. Questi dette disposizioni agli uomini di marina e sbaragliò i congiurati agli inizi dell’impresa. L’imperatore si affrettò a inviare il tribuno Staio con una robusta scorta e questi portò il capo e i più arditi dei complici a Roma, dove si trepidava già per il gran numero in aumento degli schiavi, mentre di giorno in giorno diminuivano le nascite dei liberi.

 

28. Sotto gli stessi consoli, furono portati in Senato un padre e un figlio, entrambi chiamati Vibio Sereno, imputato il primo, accusatore il secondo: esempio terribile di miseria e crudeltà. Il padre, richiamato dall'esilio, cencioso e sordido e avvinto in catene, viene messo a confronto con il figlio, che sosteneva l’accusa. Il giovane, vestito con eleganza e pronto all’aspetto, pronunciò al tempo stesso denuncia e testimonianza del fatto che il padre aveva tramato contro l’imperatore, aveva inviato nelle Gallie sobillatori e aggiungeva che l’ex-pretore Cecilio Cornuto aveva fornito i mezzi; questi, sconvolto dall’ansia poiché la sola minaccia rappresentava già una condanna, si affrettò a togliersi la vita. L’imputato invece, per nulla affranto, sotto gli occhi del figlio scoteva le catene, invocava la vendetta degli dèi, li pregava che almeno lo rimandassero in esilio, dove avrebbe potuto vivere lontano da simile ignominia e che presto o tardi punissero il figlio. Dichiarava che Cornuto era innocente e s’era spaventato senza una ragione; sarebbe stato facile rendersene conto se solo fossero interrogati altri testimoni; poiché certamente egli non aveva progettato di sopprimere l’imperatore e la rivoluzione con un solo complice.

 

29. Allora il giovane fece i nomi di Cn. Lentulo e di Seio Tuberone, con grande disdoro di Tiberio, poiché erano due tra i cittadini più insigni, suoi intimi amici. Lentulo ormai di estrema vecchiaia, Tuberone molto sofferente, erano accusati di aver provocato rivolte dei nemici e disordini all’interno. Ma questi due furono immediatamente assolti; contro il padre furono sottoposti a interrogatorio gli schiavi e il risultato fu contrario all’accusatore. Questi, quasi fuor di senno per ciò che aveva fatto, e atterrito dalle grida del popolo, che gli minacciava il carcere, la rupe Tarpea o la pena dei parricidi, fuggì da Roma; raggiunto a Ravenna, fu costretto a insistere nell’accusa, ché Tiberio non faceva mistero del suo antico astio contro l’esiliato Sereno. Questi, dopo la condanna di Libone, aveva scritto una lettera all’imperatore, nella quale s’era lamentato di non aver ricevuto alcun vantaggio dal suo grandissimo impegno; ed aveva aggiunto parole troppo offensive per esser accolte senza pericolo da un uomo orgoglioso e incline al risentimento. Tiberio infatti riesumò il fatto dopo che erano trascorsi otto anni, adducendo varie accuse riguardanti fatti avvenuti nel tempo intercorso, anche se le torture, per la fermezza degli schiavi, avevano dato un risultato negativo.

 

30. Alcuni furono d’avviso che Sereno fosse punito secondo il costume degli avi18, ma Tiberio si oppose con la sua intercessione19, per attenuare l’animosità contro di lui. E quando Asinio Gallo espose la proposta che lo si relegasse nell’isola di Giaro o di Donusa, egli si oppose anche questa volta poiché, disse, sia l’una che l’altra isola era priva d’acqua; e che se a un uomo si concedeva la vita, bisognava concedergli anche il modo di viverla. Sicché Sereno fu deportato ad Amorgo e poiché Cornuto s’era ucciso con le sue mani, si parlò di abolire il compenso agli accusatori, quando l’imputato di lesa maestà si toglieva la vita prima che il processo fosse concluso. Si sarebbe votato a favore di questa proposta se l’imperatore, con asprezza e, contro la sua abitudine, dichiarandosi esplicitamente a favore degli accusatori, non si fosse lamentato che le leggi non erano osservate e lo Stato era sull’orlo della rovina. Così, per mezzo di compensi, venivano stimolati gli accusatori, una genia nata per la rovina dei loro simili né mai colpita da pene abbastanza rigorose.

 

31. A questa serie ininterrotta di tristi eventi sopraggiunse un modesto conforto: Tiberio, aderendo alla preghiera del fratello del reo, un senatore, fece grazia a G. Cominio, colpevole d’aver scritto versi vituperevoli contro di lui. Dal che risultò tanto più singolare che l’imperatore, non ignaro del meglio e di quale gloria si conquisti con la clemenza, si appigliasse al peggio; né del resto si può dire che agisse così per mancanza d’intelligenza, ché non è certo difficile comprendere quando le azioni dei sovrani sono encomiate con sincerità e quando con simulata letizia. Lui stesso, che in altri casi aveva un comportamento artefatto e appariva riluttante a parlare, quando si trattava di fare del bene si esprimeva con rapidità e facilmente. Ma quando fu il caso di Suillio, che era stato questore con Germanico, reo d’aver accettato denaro dal giudice in un processo, fu condannato all’esilio dall’Italia, ordinò che fosse deportato in un’isola con tale accanimento che giurò d’essere obbligato a farlo per il bene della repubblica. Sul momento la cosa fu presa molto male, ma poi, quando Suillio rientrò, fu ascritta a suo merito, poiché negli anni seguenti questi si dimostrò arrogante, venale e approfittò a lungo dell’amicizia di Claudio, a proprio vantaggio e mai per fini onesti. La stessa pena fu inflitta al senatore Cato Firmio per la sua falsa denuncia di lesa maestà a carico della sorella. Come ho già riferito, questo Cato aveva teso un tranello a Libone e poi l’aveva denunciato. Memore di questa benemerenza, ma adducendo motivi diversi, Tiberio lo salvò dall’esilio; ma non si oppose alla sua espulsione dal Senato.

 

32. Forse la maggior parte degli avvenimenti che ho narrati e quelli che dirò in seguito appariranno di poco conto e indegni di esser ricordati, ne sono consapevole; ma nessuno vorrà paragonare i nostri annali con le opere di coloro che hanno scritto sulle antiche gesta del popolo romano. Essi hanno potuto spaziare liberamente su guerre imponenti, città espugnate, catture e uccisioni di re, e, se si volgevano ai fatti di politica interna, potevano parlare di conflitti tra consoli e tribuni, di leggi agrarie e frumentarie, di lotte tra plebei e patrizi. Il mio lavoro è angusto e inglorioso; una pace stagnante o scarsamente turbata; in città l’atmosfera era tetra, l’imperatore non si curava di ampliare l’impero. Tuttavia forse non sarà stato inutile indagare su avvenimenti che a prima vista paiono insignificanti, ma dai quali poi scaturiscono mutamenti importanti.

 

33. Tutte le nazioni e le città sono governate dal popolo o dagli ottimati o da un solo; una forma di governo affidata a persone selezionate e tra quelli concordi è più facile encomiarla che attuarla.

Un tempo, quando il potere apparteneva al popolo o ai senatori, bisognava conoscere l’animo del volgo e con quali mezzi moderarlo, e quelli che meglio avevano imparato a intuire l’indole dei senatori e dei notabili erano ritenuti acuti conoscitori del loro tempo e saggi. Ora che la situazione è cambiata e lo stato romano non è diverso da una monarchia, è opportuno rintracciare e tramandare questi fatti, poiché ben pochi sanno distinguere l’onesto dal disonesto, le cose utili da quelle dannose: i più apprendono dai casi altrui. Del resto, se pure gioveranno, certo non saranno dilettevoli; poiché la descrizione dei paesi, le sorti diverse delle battaglie, le morti eroiche dei comandanti attraggono l’animo dei lettori, destano il loro interesse, mentre noi siamo costretti a provocare monotonia e sazietà perché altro non possiamo narrare se non ordini spietati, continue delazioni, false amicizie, innocenti sterminati sempre per gli stessi motivi. Inoltre, gli scrittori antichi raramente trovano contestatori e non importa a nessuno se avranno celebrato con maggior calore l’esercito romano o quello cartaginese, mentre di molti che sotto il regno di Tiberio subirono condanne e infamia vivono ancora i discendenti; e, anche se le famiglie ormai sono estinte, troverai sempre qualcuno che per l’analogia della condotta, riterrà che si siano volute rinfacciare a lui le malefatte di altri. Anche la gloria, anche la virtù trovano oppositori, quando, troppo recenti, suonano come rimprovero a ciò che a loro si oppone.

 

34. Sotto il consolato di Cornelio Cosso e Asinio Agrippa fu sottoposto a giudizio Cremuzio Cordo per un reato di nuovo genere, noto allora per la prima volta: negli annali da lui scritti, dopo aver elogiato M. Bruto, aveva chiamato Cassio l’ultimo dei romani. Lo accusavano Satrio Secondo e Pinario Natta, clienti di Seiano, cosa che fu fatale all’imputato come lo fu il volto inesorabile di Tiberio nell’ascoltare la difesa che Cremuzio, ormai certo della fine imminente, iniziò con queste parole: «Le mie parole, Padri Coscritti, mi vengono imputate, poiché quanto ai fatti sono innocente. Eppure, nemmeno quelle sono dirette contro l’imperatore o sua madre, i soli che riguarda la legge di lesa maestà. Dicono che ho elogiato Bruto e Cassio, sulle opere dei quali molti hanno scritto e nessuno li ha ricordati senza onore. Tito Livio, insigne tra i primi per eloquenza e attendimento, elogiò Pompeo con tali encomi che Augusto lo chiamò pompeiano; né questo menomò l’amicizia che c’era tra loro. Nomina spesso come uomini illustri Scipione, Afranio e questi stessi Cassio e Bruto e non li chiama mai ladri o parricidi, come oggi si vuole siano qualificati. Gli scritti di Asinio Pollione tramandano memoria egregia di loro e Messalla Corvino dichiarava che Cassio era stato il suo comandante: ed entrambi sono stati colmati di ricchezze e di onori. Al libro di Cicerone, nel quale scrisse l’apoteosi di Catone, Cesare altro non obbiettò se non una confutazione, quasi una propria difesa davanti a un tribunale20. Le lettere di Antonio, i discorsi di Bruto contengono parole ingiuriose contro Augusto, in verità infondate, ma molto aspre; si leggono ancora i poemi di Bibaculo e di Catullo, pieni di contumelie contro i Cesari; ma il divo Giulio, il divo Augusto li tollerarono e li lasciarono impuniti, non saprei dire se per clemenza o piuttosto per saggezza. Poiché le ingiurie non raccolte si dimenticano; se ci si adira, si dirà che le hai riconosciute per vere.

 

35. Non citerò i Greci, presso i quali non si puniva non dico la libertà ma neppure la licenza e se qualcuno volle castigarla, alle parole non oppose che parole. Ma certamente si potè parlare liberamente e senza contestazioni di coloro che la morte aveva sottratto all’odio o all’amore. Che forse incito il popolo alla guerra civile mentre Bruto e Cassio occupano il campo di Filippi? O forse essi, settant’anni dopo la morte, non dovranno avere una parte nella memoria degli scrittori, così come sono noti i loro volti nelle statue che nemmeno il vincitore ha soppresso? La posterità rende a ciascuno il suo onore; e se mi incombe una condanna, non mancherà chi si ricorderà non solo di Bruto e Cassio, ma anche di me». Dopo di che, uscito dal Senato, si lasciò morire di fame. I senatori decretarono che i suoi libri fossero dati alle fiamme dagli edili, ma rimasero, occultati e poi pubblicati21. Tanto più è meritevole di scherno la pochezza di coloro che, in possesso del potere presente, si illudono di poter spegnere anche la memoria nelle età successive. Ché anzi cresce il prestigio degli ingegni condannati e i sovrani stranieri o quelli che hanno usato la stessa crudeltà altro non hanno ottenuto che un disonore per sé e gloria per le loro vittime.

 

36. (25 d.C.) In quell’anno fu ininterrotto il succedersi delle denunce, tanto che, nei giorni delle Ferie Latine22, al cospetto di Druso, Prefetto della città, appena salito sul podio per assumere la carica, Calpurnio Salviano si presentò per accusare Sesto Mario. La cosa fu deprecata in pubblico dall’imperatore e provocò a Salviano la condanna all’esilio. Gli abitanti di Cizico furono pubblicamente denunciati per incuria delle onoranze al divo Augusto e ancor più per violenze contro cittadini romani; e così perdettero la libertà che s’erano meritati durante la guerra contro Mitridate, quando, accerchiati da quel re, l’avevano respinto più con la loro fermezza che con l’aiuto militare di Lucullo. Ma Fonteio Capitone, proconsole in Asia, fu assolto dai delitti di cui lo aveva falsamente accusato Vibio Sereno. Né la cosa procurò danno a Sereno, che era protetto dall’odio di tutti: poiché quanto più l’accusatore era risoluto tanto più l’accusato era al sicuro e le pene colpivano persone non nobili e di scarsa importanza.

 

37. Nello stesso periodo, la Spagna Ulteriore inviò una legazione per chiedere l’autorizzazione a elevare un tempio a Tiberio e alla madre, come aveva fatto l’Asia. In questa occasione l’imperatore, che del resto era fermo nel ricusare gli onori, ritenne di poter rintuzzare le critiche di quelli che lo accusavano d’essere incline all’ambizione; e incominciò a parlare come segue: «So bene, Padri Coscritti, che molti hanno notato che sono venuto meno alla mia fermezza abituale, quando, recentemente, non ho opposto un rifiuto alle città dell’Asia che mi hanno chiesto la stessa cosa. E dunque vi spiegherò per quale ragione ho agito così e ciò che ho stabilito per il futuro. Il divo Augusto non proibì che presso Pergamo fosse edificato un tempio dedicato a lui e alla città di Roma; io mi adeguo ad ogni suo gesto, ogni suo detto come legge. Tanto più prontamente mi sono conformato al suo esempio in quanto al culto della mia persona era associata la venerazione per il Senato. Se però mi si può scusare per aver accettato una volta, se lo facessi in tutte le province e mi lasciassi consacrare in effige come un dio darei prova di vanità, di superbia; e l’onore che è stato tributato ad Augusto svanirebbe se lo si divulgasse con adulazione a chiunque23.

 

38. Dichiaro al vostro cospetto, Padri Coscritti, e di ciò intendo resti memoria per i posteri, che sono mortale, i doveri che assolvo sono da mortale, se eseguo i miei compiti di primo cittadino. Sarà onorata a sufficienza la mia memoria se si dirà che sono stato degno dei miei maggiori, sollecito dei vostri interessi, fermo nei pericoli e noncurante della mia persona quando s’è trattato del pubblico bene. Sono questi i templi che ambisco avere nei vostri cuori, queste le statue, le più belle e durature; poiché quelle di marmo, se il giudizio dei posteri si trasforma in odio, sono guardate con disprezzo come sepolcri. Di conseguenza, supplico gli alleati, i cittadini e gli dèi e le dee questi di concedermi fino al mio ultimo giorno una mente serena e capace d’intendere le leggi divine ed umane; quelli affinché, quando me ne andrò, accompagnino con lodi e memore gratitudine le mie azioni e la fama del mio nome». Dopo di che persistette anche nell’intimità a dichiarare spregevole il culto della persona. Alcuni vi ravvisarono un segno di modestia, altri di diffidenza, altri infine di animo degenere. Questi ultimi osservavano che i migliori dei mortali avevano aspirato ad onori eccelsi: così Ercole e Libero tra i Greci, Quirino da noi erano stati accolti nel numero degli dèi. Aveva fatto meglio Augusto, che vi aveva aspirato. Tutti gli altri onori i sovrani li possiedono senza indugio; uno solo dev’essere perseguito instancabilmente, un buon ricordo di sé; disprezzare la gloria equivale a disprezzare la virtù.

 

39. Seiano intanto, esaltato dall’eccessiva fortuna e spinto dalla bramosìa d’una donna (Livia infatti esigeva con insistenza le nozze promesse) presentò all’imperatore una supplica, poiché allora si usava rivolgersi a lui per iscritto anche se era presente. La lettera conteneva quanto segue: «La benevolenza del padre Augusto e in seguito le innumerevoli manifestazioni d’affetto concessegli da Tiberio lo avevano avvezzo a rivolgere le sue speranze e i suoi voti ai principi prima che agli dèi. Né mai aveva sollecitato lo splendore degli onori; aveva preferito le veglie e le fatiche, soldato tra i soldati, per l’incolumità dell’imperatore. E tuttavia aveva ottenuto l’onore più alto, quello d’esser ritenuto degno d’imparentarsi con lui24. Di qui era nata la sua speranza; e poiché aveva sentito che Augusto, quando s’era trattato di maritare la figlia, aveva preso in considerazione anche semplici cavalieri romani, così, se per caso egli andava in cerca d’uno sposo per Livia, non dimenticasse un amico, che da quel vincolo altro non avrebbe ricavato che gloria. Egli infatti non si sarebbe sottratto ai doveri che gli erano imposti; considerava sufficiente che la sua casa fosse al sicuro dall’iniqua avversione di Agrippina, a cagione dei suoi figli; quanto a lui, gli sarebbe bastata e anche più l’esistenza, se avesse potuto trascorrerla a fianco d’un tale sovrano».

 

40. A questo Tiberio rispose elogiando la devozione di Seiano, accennando appena ai benefici concessi, e mentre chiedeva un po’ di tempo quasi per riflettere a fondo sulla questione, aggiunse che laddove i comuni mortali nelle loro decisioni tengono conto soltanto del proprio vantaggio, la sorte dei principi è diversa, poiché le loro azioni principali si devono adeguare al giudizio del pubblico. Di conseguenza, egli non ricorreva alla risposta che avrebbe potuto dare prontamente e cioè che Livia stessa era in grado di decidere se dopo Druso desiderava nuove nozze o se acconsentiva a restare nella stessa casa: per consigliarla più da vicino essa aveva una madre e un’ava25. «Parlerò francamente, in primo luogo dell’astio di Agrippina, la quale certamente sarebbe accesa d’ira molto di più se le nozze di Livia sembrassero dividere la famiglia dei Cesari in due partiti. Anche così prorompe la rivalità tra le due donne e in quella discordia sono coinvolti i miei nipoti. Che cosa avverrebbe, se queste nozze dovessero attizzare il conflitto?

Inoltre, Seiano, mal t’apponi, se ritieni di poter restare nella tua posizione attuale e credi che Livia, la quale è stata sposa di Caio Cesare e poi di Druso26, si accontenti d’invecchiare a fianco d’un cavaliere romano. Anche se io lo concedessi, credi tu che lo sopporterebbero coloro che hanno visto il fratello di lei, il padre27, e tutti i nostri avi al culmine del potere? Tu dici di voler restare nella posizione che occupi attualmente; ma quei magistrati, quei notabili che, anche se tu non vuoi, si aprono strada verso di te e ti consultano su tutte le questioni, non nascondono che tu hai superato di gran lunga il grado equestre e sei avanzato molto oltre le amicizie di mio padre e mia e per invidia di te accusano me pure. È pur vero che Augusto meditò di dare la figlia in sposa a un cavaliere romano; e, per Ercole, non c’è da meravigliarsene se, oberato com’era dalle cure di governo e presago del vertice a cui sarebbe salito colui che con quell’unione avrebbe innalzato sopra gli altri, parlò di C. Proculeio, e di qualche altro, noto per la riservatezza dell’esistenza ed estraneo totalmente agli affari di Stato. Ma se ci turba l’incertezza di Augusto, quanto più lo farà il fatto che egli abbia dato la figlia a Marco Agrippa e poi a me? Per amicizia non ho voluto nasconderti queste considerazioni; ma del resto, non mi opporrò a quanto tu e Livia vorrete decidere. Che cosa io abbia progettato nell’animo mio, con quali legami ancora io mi proponga di unirti a me, per il momento mi asterrò dal confidarti. Ti dirò questo solo, che non v’è compenso tanto eccelso che tu non meriti per le tue virtù e per l’animo tuo verso di me. Quando sarà il momento, non tacerò né al cospetto del Senato né del popolo.»

 

41. Seiano allora torna alla carica, non per il matrimonio, ma per gravi apprensioni; e cerca di dissipare sospetti inespressi, voci diffuse, l’animosità in aumento. E per non menomare il suo potere respingendo la frequenza assidua nella sua casa e per non esporsi alle accuse seguitando ad accogliere i visitatori, pensò bene di indurre Tiberio a trascorrere la vita lontano da Roma in luoghi ameni. Dal che prevedeva molti vantaggi: per prima cosa, la maggior parte delle udienze e delle lettere sarebbe stata nelle sue mani, poiché venivano recapitate per mezzo dei militari; e poi Tiberio, ormai prossimo alla vecchiaia, impigrito dal vivere in solitudine, facilmente gli avrebbe ceduto i compiti di governo; inoltre, sarebbe scemato il malanimo contro di lui, una volta che avesse tolto di mezzo la folla di cortigiani, e, abolite le apparenze del potere, sarebbe aumentato quello autentico. Di conseguenza, poco a poco prese a lamentarsi delle attività dell’Urbe, della ressa, della moltitudine dei visitatori, a elogiare invece la quiete dell’esistenza solitaria: là, lontani dai fastidi e dal malanimo, ci si può occupare molto meglio degli affari importanti.

 

42. Il caso volle che in quei giorni si celebrasse il processo contro Votieno Montano, uomo di grande ingegno, il che indusse Tiberio, già esitante, a pensare che fosse meglio sottrarsi alle sedute del Senato, dove si lanciavano contro di lui parole dure e spesso veritiere. Infatti, dato che Votieno era imputato d’aver pronunciato parole ingiuriose sul conto dell’imperatore, Emilio, il testimone, uomo d’armi, per lo scrupolo di fornire prove riferiva ogni parola e, benché nell’aula si levassero proteste, insisteva nel confermarle; sicché Tiberio dovette ascoltare le accuse con le quali lo si lacerava in segreto e ne fu talmente ferito che si mise a gridare che si sarebbe giustificato seduta stante o durante l’istruttoria; le preghiere dei più vicini e l’adulazione di tutti a stento riuscirono a calmarlo. Votieno fu condannato alla pena prevista dal reato di lesa maestà; e Tiberio, più duramente ostinandosi in quella inclemenza verso i rei che gli veniva rimproverata, condannò all’esilio Aquila, imputata di adulterio con Vario Ligure, benché il console designato Lentulo Getico avesse proposto di infliggerle la pena prevista dalla legge Giulia28; e fece cancellare dall’albo Apidio Merula, perché non aveva giurato sugli atti del divo Augusto29.

 

43. Poi furono ascoltate le legazioni dei Lacedemoni e dei Messeni riguardo ai diritti del tempio di Diana Limnatide30: i Lacedemoni affermavano che il tempio era stato consacrato dai loro antenati su territorio loro, in base alle memorie degli annali e ai carmi dei vati; che però se n’era impadronito Filippo il Macedone, contro il quale si erano battuti, e che in seguito C. Cesare e M. Antonio glielo avevano reso. I Messeni al contrario produssero l’antica divisione del Peloponneso tra i discendenti di Eracle, in conformità della quale al loro re era stato assegnato il territorio di Dentalia, dove sorgeva il tempio: ad attestare la verità del fatto sussistevano iscrizioni in marmo e in bronzo. Se poi ci si voleva appellare alle testimonianze dei poeti e degli annalisti, essi ne disponevano di più numerose e più degne di fede; e la sentenza di Filippo non era stato un atto di forza, ma di giustizia. Identico era stato il giudizio del re Antigono, del console Mummio31; così avevano decretato i Milesii, ufficialmente invitati ad arbitrare sulla vertenza, così infine il pretore di Acaia Atidio Gemino. Sicché la sentenza fu a favore dei Messeni.

Gli abitanti di Segesta vennero a sollecitare il restauro del tempio di Venere sul monte di Erice, crollato per antichità, rievocando a proposito della sua origine fatti noti e graditi a Tiberio. Il quale se ne assunse di buon grado la cura, quale consanguineo della dea. Indi fu presa in esame un’istanza dei Marsigliesi, e ci si attenne all’esempio di P. Rutilio32, il quale, espulso per legge, fu accolto come cittadino dalla città di Smirne. In base allo stesso diritto, l’esule Vulcacio Mosco era stato accolto tra i cittadini di Marsiglia e aveva lasciato i suoi averi alla loro repubblica, che considerava sua patria.

 

44. (25 d.C.) Lo stesso anno scomparvero due uomini di nobile lignaggio, Gn. Lentulo e L. Domizio. Per Lentulo era stata fonte di gloria, oltre al consolato e alle insegne trionfali per la vittoria sui Geti, la povertà sopportata con dignità, poi le ingenti ricchezze onestamente conquistate e usate modestamente. A Domizio procurò onore il padre, padrone dei mari durante la guerra civile, poi l’aver aderito al partito di Antonio e infine a quello di Ottaviano. Il nonno era caduto nella battaglia di Farsalo, nella quale aveva combattuto dalla parte degli ottimati. Egli era stato scelto come sposo di Antonia Minore, figlia di Ottavia; in seguito attraversò il fiume Elba e penetrò in Germania più addentro di chiunque prima di lui e per questa impresa ottenne le insegne trionfali. Morì anche L. Antonio, di famiglia molto illustre, ma sventurata. Alla morte del padre Julo, infatti, condannato per l’adulterio con Giulia, Augusto lo confinò, ancora adolescente, a Marsiglia, per mascherare con il pretesto degli studi quello che in realtà era un esilio. Tuttavia ebbe esequie solenni e per decreto del Senato le sue ossa furono deposte nel sepolcro degli Ottavii.

 

45. Durante lo stesso consolato in Ispagna fu commesso un delitto atroce da un contadino della regione di Tiermes. Questi improvvisamente per la strada si gettò sul pretore della provincia, L. Pisone, noncurante perché la situazione era tranquilla, e con una sola ferita lo uccise; poi si dette velocemente alla fuga a cavallo e, giunto in una zona di foreste, lasciò il cavallo e inoltratosi in sentieri aspri e inaccessibili, sfuggì agli inseguitori. Ma non riuscì a eluderli a lungo; come fu catturato il cavallo e portato nei villaggi vicini, si scoprì a chi apparteneva.

L’uomo fu scoperto e costretto con la tortura a denunciare i complici, ma gridò nella sua lingua che lo si interrogava invano: che fossero pure chiamati i suoi compagni ad assistere; non v’era sofferenza tanto tremenda da fargli dire la verità. Il giorno seguente, mentre lo si riconduceva all’interrogatorio, si svincolò dalle guardie e picchiò la testa contro una pietra così forte che morì immediatamente. Si ritiene che Pisone sia stato ucciso a seguito d’un complotto degli abitanti di Tiermes; poiché pretendeva che fossero rese all’erario le somme frodate al fisco con troppo rigore perché i barbari lo tollerassero.

 

46. (26 d.C.) Sotto il consolato di Lentulo Sabino e C. Calvisio furono concesse le insegne trionfali a Poppeo Sabino per aver soggiogato i popoli della Tracia, residenti sui monti, privi di qualsiasi cultura e perciò tanto più indomabili. Oltre al loro carattere, causa della rivolta fu che non volevano saperne del reclutamento e di fornire al nostro esercito i loro giovani migliori, poiché non obbedivano nemmeno ai re se non a piacer loro e, se mandavano ausiliari, volevano che avessero comandanti propri; e del resto non si battevano se non contro popoli vicini. Allora poi s’era sparsa la voce che sarebbero stati separati, mescolati con altre genti e trasferiti in paesi lontani. Prima di impugnare le armi però avevano inviato legati ad attestare la loro amicizia e la loro fedeltà e assicurare che sarebbero rimaste intatte a patto che non fossero provocati con oneri di nuovo genere; se invece si voleva imporre loro la schiavitù come a popoli vinti, non mancavano d’armi né di uomini e soprattutto erano pronti a esser liberi o a morire. E indicavano le fortezze erette in cima alle rupi, dove avevano messo al sicuro i genitori e le mogli. E minacciavano una guerra difficile, aspra e sanguinosa.

 

47. Fino a che non ebbe radunato tutto l’esercito, Sabino si limitò a rispondere con mitezza; ma non appena giunse Pomponio Labeone con una legione dalla Mesia e il re Remeltace con ausiliari della sua gente, che non era venuta meno alla fedeltà, li aggregò all’esercito già presente e mosse contro i nemici appostati già nelle gole boscose. Alcuni si esponevano con audacia su colli scoperti e il comandante romano, avanzando con i suoi schierati, li respinse facilmente, senza gravi perdite dei barbari, che disponevano di rifugi vicini. Poi, fortificato il campo sul posto, con un forte manipolo occupò il monte che, con un dorsale angusto, liscio e continuo si estendeva fino alla prossima fortezza, protetta da una forza ingente, in parte armata, in parte senza ordine. Mandò subito sagittari scelti contro i più feroci, i quali, secondo il costume locale, scorrazzavano qua e là con canti e danze guerriere. I sagittari fino a che li colpivano da lontano, ne ferirono molti senza subire perdite; ma come avanzarono più vicino, furono improvvisamente scompigliati da una sortita; li accolse a sussidio una coorte di Sigambri, che il comandante romano aveva disposta non lontano, pronta ad ogni pericolo, e non meno terribile per il clamore dei canti e lo strepito delle armi.

 

48. L’accampamento fu spostato di fronte al nemico, mentre accanto a quello precedente venivano lasciati i Traci che, come ho detto, erano accorsi in nostro aiuto; e fu loro concesso di compiere devastazioni, incendi, di portarsi via prede, a patto che il saccheggio durasse fino a che era giorno e la notte la trascorressero nel campo, vigili e al sicuro. Sulle prime l’ordine fu osservato; più tardi però si abbandonarono alla gozzoviglia e, carichi di bottino, trascurarono i turni di guardia e, nei piaceri del banchetto, caddero nel sonno e nell’ubriachezza. I nemici, appena si furono accertati della loro negligenza, approntarono due squadre, una per piombare sui saccheggiatori, l’altra per attaccare l’accampamento romano, non perché sperassero di impadronirsene, ma affinché nello strepito, nella pioggia di frecce, ciascuno, intento a mettersi in salvo, non udisse nemmeno il frastuono dell’altro attacco. E preferirono la notte per aumentare il terrore. Quelli che tentavano di oltrepassare il fossato delle legioni furono respinti facilmente, mentre gli ausiliari Traci, atterriti dall’assalto repentino, poiché alcuni dormivano vicino ai ripari, altri erano in giro fuori del campo, furono massacrati con tanto maggior furore in quanto accusati di diserzione e tradimento, poiché avevano preso le armi per render schiavi se stessi e la patria.

 

49. Il giorno successivo Sabino schierò l’esercito su un terreno pianeggiante, nel caso che i barbari, imbaldanziti dal successo della notte precedente, osassero dare battaglia. E poiché non scendevano né dalla fortezza né dai colli adiacenti, incominciò ad accerchiarli congiungendo uno all’altro con un fosso i colli precedentemente muniti, così tracciò un circuito di quattro miglia. Poco a poco, per privare i nemici d’acqua e di foraggio, strinse il circuito, accerchiandoli sempre più da presso; e intanto eresse un terrapieno dal quale scagliare sui nemici ormai vicini pietre, giavellotti e tizzoni accesi. Ma nulla li tormentava quanto la sete, poiché erano un numero ingente di combattenti e di inermi e attingevano tutti alla sola fonte rimasta; e gli armenti che, come usano i barbari, stavano rinchiusi insieme a loro, morivano per mancanza di foraggio: tutt’attorno giacevano i morti, caduti per le ferite o per la sete e tutto era inquinato per il sangue in putrefazione, il fetore, il contagio.

 

50. A quelle sciagure si aggiunse il male peggiore, la discordia: alcuni proponevano di arrendersi, altri di morire colpendosi a vicenda, altri ancora incitavano a fare un’irruzione, per non cadere invendicati. E non erano soltanto i soldati semplici a proporre pareri contrastanti, ma anche uno dei capi, Dini, un uomo che per l’età avanzata e per lunga esperienza conosceva la forza e la clemenza dei Romani, sosteneva che In quella situazione l’unico rimedio era deporre le armi, e per primo con la moglie e con i figli si consegnò al nemico. Lo seguirono quelli che per l’età e per il sesso erano deboli e chi teneva più alla vita che alla gloria. I giovani invece parteggiavano alcuni per Tarsa, altri per Turesi. Erano decisi, gli uni e gli altri, a morire per la libertà, ma Tarsa, gridando che era meglio affrettare la fine e troncare insieme speranze e timori, diede l’esempio e si cacciò la spada nel petto; e non mancò chi allo stesso modo si dié la morte. Turesi con i suoi attese la notte; ma non ne era ignaro il nostro comandante, e quindi rafforzò le guarnigioni con squadre più folte. La notte scese in un tremendo uragano ed i nemici, ora con grida disordinate ora con cupi silenzi, sgomentavano gli assedianti; Sabino allora si dette a girare attorno, a incoraggiare gli uomini, che non offrissero un’occasione ai nemici per clamori sconcertanti e quiete simulata; che ciascuno non si movesse dal suo posto, restasse immobile e non lanciasse frecce a vuoto.

 

51. I barbari intanto si precipitarono giù a frotte, gettando entro il fossato sassi, travi appuntite col fuoco, rami d’albero; colmavano i fossati con fascine e con i corpi dei morti, alcuni appoggiavano ai bastioni scale e ponti che avevano costruito in precedenza e si aggrappavano a quelli, lottando corpo a corpo con i difensori. I soldati da parte loro li respingevano con gli scudi, li scompigliavano con le frecce, facevano piombare su di loro mucchi di pietre. I nostri speravano nella vittoria ormai vicina, ed erano mossi dal pensiero che, se avessero ceduto, sarebbe stato un disonore infamante; ai barbari dava coraggio la certezza che quella era l’ultima possibilità di salvarsi e, per i più, la presenza delle madri e delle spose e i loro lamenti. La notte ad alcuni ispirava coraggio, ad altri incuteva terrore; i colpi erano incerti, le ferite impreviste; non riconoscevano i loro dai nemici e le grida, riecheggiate da tergo tra le gole dei monti, avevano creato un tale scompiglio che i Romani abbandonarono alcune fortificazioni credendole espugnate. E tuttavia i barbari non riuscirono a penetrare se non pochi; gli altri, poiché i più arditi erano caduti o feriti, alla prima luce furono costretti alla resa. Quella degli abitanti vicini fu spontanea; per gli altri, a impedire che fossero soggiogati con la forza o con l’assedio, sopraggiunse l’inverno aspro e prematuro del monte Emo.

 

52. A Roma la famiglia imperiale era profondamente agitata, ed ebbe inizio la serie di provvedimenti forieri della fine di Agrippina, a cominciare dalla denuncia della cugina, Claudia Pulcra, da parte di Domizio Afro. Questi, recentemente pretore di scarso prestigio, sollecito a segnalarsi con qualsiasi misfatto, l’accusò di contegno immorale, di adulterio con Furnio, di tentato veneficio dell’imperatore e di pratiche magiche. Agrippina, sempre impulsiva e furente per il pericolo della cugina, si recò da Tiberio e lo trovò intento a compiere un sacrificio in onore del padre. Dal che colse lo spunto per esprimergli il suo sdegno: «Non si addice» gli disse «alla stessa persona offrire un sacrificio ad Augusto e perseguitarne i discendenti. Non nelle mute immagini s’è trasfuso il suo spirito divino». Era lei la sua vera immagine, generata da sangue celeste, a intuire il pericolo e indossare vesti di lutto. Inutilmente si prendeva a pretesto Pulcra, la cui unica colpa era quella d’aver incautamente dedicato la sua venerazione ad Agrippina, dimentica di Sosia che per lo stesso motivo fu spinta alla rovina. Come udì queste parole, dal chiuso animo di Tiberio, sfuggì, cosa insolita, un grido. Prese per mano Agrippina e le citò un verso in greco che diceva: «Credi dunque che ti sia fatto torto perché non regni?».

Pulcra e Furno furono condannati. Afro fu annoverato tra i grandi dell’arte oratoria perché come tale era stato riconosciuto e perché l’imperatore a buon diritto l’aveva definito facondo. In seguito acquistò fama più per l’eloquenza che per la buona condotta e praticò sia l’accusa sia la difesa; ma la vecchiaia lo privò anche di quella dote, perché, divenuto debole di mente, non riusciva più a tacere.

 

53. Agrippina intanto, tenace nello sdegno, cadde ammalata. Tiberio si recò a farle visita ed ella pianse a lungo in silenzio. Poi incominciò a dirgli parole amare e a supplicarlo che alleviasse la sua solitudine, le trovasse uno sposo: era ancora una donna fiorente e per le donne oneste non c’è altro conforto che nelle nozze; non mancava certamente a Roma qualcuno disposto ad accogliere nella sua casa la vedova, i figli di Germanico. Ma a Tiberio non sfuggiva che cosa poteva significare per lo Stato quella richiesta; tuttavia, per non lasciar trasparire l’irritazione e la paura, nonostante le insistenze di lei, la lasciò senza una risposta: notizie che gli annalisti non hanno riferito, da me attinte dalle memorie della figlia Agrippina, madre di Nerone, la quale ha lasciato scritta per i posteri la storia della sua vita e le vicende dei suoi.

 

54. Seiano intanto sferrò un colpo più grave a quella donna incauta e dolente; mandò qualcuno a metterla in guardia, apparentemente per amicizia, che per lei era stato preparato il veleno: e perciò evitasse la mensa del suocero. Ed ella, incapace di fingere, distesa a tavola vicino a lui, non parlava, non mostrava un volto sereno, né toccava cibo. Se ne accorse Tiberio, per caso o perché aveva udito qualche cosa, e, per avere una prova sicura, le offrì con le sue mani delle frutta così come erano state preparate, lodandone la qualità. Ed ella, ancor più insospettita, senza toccarle le passò ai servi. Tiberio comunque in sua presenza non disse una parola; ma si rivolse alla madre e le disse che non c’era da meravigliarsi se aveva adottato provvedimenti severi verso colei che lo sospettava di veneficio. Da questo episodio si sparse la voce che si preparava la morte di lei e che l’imperatore, non osando agire allo scoperto, stava cercando il modo di sopprimerla segretamente.

 

55. Per dissipare queste voci, l’imperatore assisteva frequentemente alle sedute del Senato; e per molti giorni prestò udienza ai legati dell’Asia, i quali discutevano in quale città fosse più opportuno erigere un tempio in suo onore. Gareggiavano undici città, pari nell’ambizione, benché di diversa importanza; né erano molto diverse le ragioni che adducevano: l’antichità della stirpe, la fedeltà di cui avevano dato prova verso il popolo romano durante le guerre contro Perseo, Aristonico e altri sovrani33. Gli abitanti di Ipepa, di Tralles, di Laodicea e di Magnesia furono esclusi come secondarii; e neanche quelli di Ilio, pur riferendosi a Troia, madre di Roma, avevano qualche valore, all’infuori dell’antichità. Si dubitò un poco su Alicarnasso, poiché quei cittadini affermavano che per mille e duecento anni la loro città non aveva mai subito una scossa di terremoto e che avrebbero posto le fondamenta del tempio sulla roccia viva. Si ritenne che gli abitanti di Pergamo avessero già ottenuto abbastanza erigendo un tempio ad Augusto; e infatti su questo si basavano. Gli Efesii e i Milesii parvero sufficientemente impegnati, quelli al culto di Diana, questi di Apollo. Si discusse tra Sardi e Smirne: gli abitanti di Sardi lessero un decreto secondo il quale gli Etruschi risultavano loro consanguinei: vi si leggeva infatti che Tirreno e Lido, figli del re Ati, per l’eccessivo numero del popolo lo avevano diviso: Lido era rimasto nelle terre della patria, a Tirreno era stato dato il mandato di fondare una nuova sede: sia quelli dell’Asia, sia quelli in Italia portavano il nome dei rispettivi capi; in seguito la potenza dei Lidi era aumentata per aver mandato in Grecia popoli, che poi presero il nome da Pelope. Al tempo stesso rievocavano lettere di imperatori e alleanze strette con noi nella guerra macedonica, l’abbondanza dei loro fiumi, il clima moderato e la fecondità dei terreni tutt’attorno.

 

56. Gli abitanti di Smirne, dal canto loro, si rifacevano alla loro vetustà, sia che la città l’avesse fondata Tantalo, figlio di Giove, o Teseo, lui pure di stirpe divina, oppure una delle Amazzoni; poi passarono a esporre gli argomenti nei quali ponevano maggior fiducia, cioè i servigi da loro prestati al popolo romano, l’aver fornito forze navali, non solo durante le guerre contro lo straniero ma anche in quelle combattute in Italia; per i primi avevano edificato un tempio alla Città di Roma sotto il consolato di M. Porcio34 e già era salita in alto la potenza di Roma ma non ancora al vertice, dato che allora Cartagine era ancora in piedi ed erano forti i sovrani dell’Asia. Indi citavano la testimonianza di Silla: quando il suo esercito si trovò in una situazione gravissima per il rigore dell’inverno e la penuria di indumenti, come la notizia fu comunicata all’assemblea di Smirne, tutti i presenti si spogliarono di quanto avevano indosso e lo mandarono alle nostre legioni. Sicché, invitati a votare, i senatori dettero la preferenza agli abitanti di Smirne. Vibio Marso inoltre propose che a M. Lepido, al quale era stata assegnata quella provincia, si aggiungesse un legato in soprannumero, incaricato di assumere la custodia del tempio; e poiché Lepido, per modestia, si rifiutava di sceglierlo personalmente, per sorteggio fu nominato l’ex pretore Valerio Nasone.

 

57. L’imperatore intanto attuò un proponimento lungamente meditato e varie volte rinviato: sotto il pretesto di dedicare un tempio a Giove a Capua e uno ad Augusto a Nola, decise di stabilirsi lontano da Roma. Conforme alla maggior parte degli autori, ho attribuito anch’io queU’allontanamento alle trame di Seiano; tuttavia, se si considera che dopo l’uccisione di questo, Tiberio seguitò a vivere per sei anni ancora in quell’isolamento, più volte sono stato indotto a chiedermi se non sia più esatto riferire il fatto a lui stesso, al suo desiderio di nascondere in luoghi lontani la sua crudeltà e le sue libidini, mentre in effetti le palesava. C’è stato anche chi ha ritenuto che da vecchio si vergognasse del suo aspetto: era molto alto e gracile, curve le spalle, calvo il capo, il volto cosparso di ulcere e spesso impiastrato di unguenti e del resto già nel suo ritiro a Rodi aveva preso a sfuggire alle compagnie e a tener nascosti i suoi turpi piaceri. S’è detto anche che si sia allontanato per sottrarsi al dispotismo della madre, con la quale non voleva dividere il potere e che non poteva allontanare, poiché quel potere l’aveva ricevuto in dono da lei. Infatti Augusto aveva esitato se mettere alla testa dell’impero Germanico, che era nipote di sua sorella e da tutti portato alle stelle; ma che, per compiacenza alle preghiere della moglie, aveva fatto adottare Germanico da Tiberio e lui stesso aveva adottato Tiberio; cosa che Augusta gli rinfacciava e gliene chiedeva conto.

 

58. Partì con un seguito limitato: un solo senatore, ex console ed esperto di diritto; un cavaliere romano, di famiglia illustre, Curzio Attico, oltre Seiano; gli altri erano studiosi, per la maggior parte Greci, che avrebbero dovuto distrarlo con la loro conversazione. Gli astrologi affermavano che Tiberio era partito da Roma in tale congiunzione di astri che gli sarebbe stato negato il ritorno; e ciò provocò la rovina di molti, i quali, interpretando il presagio come se la sua fine fosse imminente, ne discorrevano in giro: certo non prevedevano la eventualità incredibile che volontariamente sarebbe rimasto lontano dalla patria per undici anni. Poi fu evidente quanto sia breve il confine tra la scienza e l’errore e di quale oscurità sia avvolto il vero; infatti, che non sarebbe più tornato nell’Urbe non fu detto a caso, ma tutto il resto non lo previdero, poiché egli pervenne all’estrema vecchiaia in qualche località di campagna non lontana o in qualche spiaggia, e spesso si spinse appena fuori delle mura.

 

59. In quei giorni Tiberio corse per caso un grave pericolo, il che aumentò le voci e offrì a lui motivo per fidarsi ancor più della fedeltà e della devozione di Seiano. Si trovavano a cena in una grotta naturale, nella villa chiamata Spelonca35, tra il mare di Amincla e le montagne di Fondi, ed ecco dall’ingresso precipitarono alcuni massi, che seppellirono qualche servo. Ne seguì un terrore generale e la fuga dei commensali. Seiano, piegato il ginocchio, col viso e con le mani si protese sopra l’imperatore e gli fece scudo contro la caduta delle pietre, e in quell’atteggiamento fu trovato dai militari che erano accorsi in aiuto; tanto più dopo questo fatto, benché i suoi consigli fossero perniciosi, fu ascoltato con fiducia, come persona noncurante di sé. Nei confronti dei figli di Germanico si atteggiava a giudice imparziale, ma segretamente istigava alcuni a presentarsi come accusatori e diffamava soprattutto Nerone, che era il più vicino alla successione, e che l’età giovanile, ad onta del suo carattere moderato, spesso induceva a non rendersi conto del momento, mentre clienti e liberti, impazienti di accaparrarsi potere, lo incoraggiavano a dar prova d’animo retto e fiducioso: a questo anelava il popolo romano, questo desiderava l’esercito, né avrebbe osato nulla contro di lui Seiano, che ora si valeva della tolleranza d’un vecchio e dell’indolenza d’un giovinetto.

 

60. Nell’udire queste parole e altre simili, Nerone, pur senza alcuna intenzione malvagia, a volte si lasciava sfuggire incautamente parole arroganti; le guardie addette a lui le riferivano esagerandole né a Nerone era possibile difendersi, e davano luogo a varie forme di inquietudine. Infatti uno evitava d’incontrarlo, un altro, dopo avergli ricambiato il saluto, immediatamente voltava strada, moltissimi lasciavano a mezzo una conversazione appena iniziata, mentre i fautori di Seiano, che si trovavano presenti, restavano per prendersi gioco di lui. Tiberio gli mostrava un volto aggrottato oppure un sorriso artefatto; sia che il giovane parlasse, sia che tacesse e delle parole e del silenzio gli si faceva una colpa. E nemmeno di notte era al sicuro, perché la sposa riferiva il sonno, le veglie, i sospiri alla madre Livia e questa a Seiano36; e questi attirò dalla sua parte anche il fratello di Nerone, Druso, ispirandogli la speranza del principato se avesse tolto di mezzo il fratello maggiore, che si trovava in una posizione insicura. L’animo violento di Druso, oltre alla brama di potere e ai soliti dissidii tra fratelli, era acceso d’invidia perché la madre, Agrippina, aveva una predilezione per Nerone. E tuttavia Seiano favoriva Druso, ma non tanto da non maturare anche contro di lui il seme della rovina futura, conoscendo il suo carattere impulsivo e facile a cadere nelle insidie.

 

61. Alla fine dell’anno vennero a mancare due personalità eminenti, Asinio Agrippa, di famiglia illustre ed antica e non degenere con la sua condotta, e Q. Aterio, di famiglia senatoria, e famoso per la sua eloquenza, fino a che visse. I documenti del suo ingegno peraltro non sono stati conservati. In effetti egli eccelleva per il calore dell’oratoria più che per l’arte e mentre l’applicazione e la tecnica per gli altri aumentano di valore con il passare del tempo, la parola di Aterio canora e fluente si spense con lui.

 

62. Sotto il consolato di M. Licinio e di L. Calpumio un massacro imprevisto fu pari ai disastri di guerre imponenti ed ebbe inizio e fine quasi nello stesso istante. Un certo Attilio, nato da liberti, aveva iniziato a Fidene la costruzione d’un anfiteatro nel quale intendeva rappresentare uno spettacolo di gladiatori; ma poiché s’era messo in quell’impresa non per dovizia di mezzi né per ambizione municipale, ma soltanto con la mira del sordido guadagno, non aveva posto solide fondamenta all’edificio né una struttura lignea sufficientemente salda. Affluirono in molti, avidi di quel tipo di spettacoli, tanto più perché sotto l’impero di Tiberio ne erano stati tenuti a digiuno: uomini e donne di tutte le età, numerosi per la vicinanza del luogo, sicché più grave fu il disastro, quando l’edificio cedette e poi crollò mentre era affollatissimo, precipitando parte all’interno, parte verso l’esterno, trascinando con sé e schiacciando moltissime persone, sia i presenti che assistevano allo spettacolo sia altri che si trovavano intorno. Quelli che erano periti subito al primo momento del crollo si sottrassero alle sofferenze, ma sono più da compatire quelli che, mutilati d’una parte del corpo, vivevano ancora o quelli che riconoscevano i coniugi o i figli, alla vista fino a che era giorno, dagli urli e dai lamenti quando scese la notte. Altri infine, chiamati dalla notizia, piangevano chi un fratello, chi un congiunto, un altro i genitori; e quelli i cui amici o parenti per qualche ragione erano assenti temevano egualmente; e fino a che non fu accertato quali fossero le vittime della sciagura, il timore fu ancor più diffuso per l’incertezza.

 

63. Quando si incominciò a rimuovere le macerie, accorsero moltissimi ad abbracciare, a baciare i morti e più volte si verificò un litigio quando il volto sfigurato o l’aspetto e l’età inducevano all’errore coloro che tentavano il riconoscimento. In quella sciagura furono mutilate o schiacciate cinquantamila persone; e in seguito un decreto senatoriale stabilì che nessuno potesse dare spettacoli di gladiatori se possedeva meno di quattrocentomila sesterzi né si edificassero anfiteatri senza una verifica della solidità del terreno. Attilio fu mandato in esilio. Al momento del massacro si spalancarono le dimore degli abbienti, furono offerti medici e medicamenti, e in quei giorni la città, benché di mesto aspetto, sembrava aver riacquistato il costume d’un tempo, quando, dopo le battaglie si soccorrevano i feriti con cure e aiuti in denaro.

 

64. Non s’era ancora spenta l’emozione di quella sciagura, quando un incendio di inusitata veemenza colpì la città e andò a fuoco il monte Celio; dicevano che era un anno infausto e che il principe aveva preso la decisione di partire sotto cattivi auspici; come suol fare la gente, gli avrebbero attribuito a colpa fatti avvenuti per caso, se Cesare non vi avesse posto rimedio distribuendo somme a risarcimento dei danni. Cittadini illustri gli resero grazie in Senato e vi fu vivo consenso nel popolo per il fatto che aveva beneficato con i soccorsi anche persone ignote che aveva cercato volontariamente, senza sollecitazioni o preghiere dei famigliari. Alcuni proposero che per il futuro il monte Celio prendesse il nome di Augusto, poiché mentre tutt’attorno divampavano le fiamme, soltanto la statua di Tiberio, che si trovava nella dimora del senatore Junio, era rimasta intatta. Un tempo era avvenuto lo stesso a Claudia Quinta37, la cui statua, sfuggita per due volte alla furia delle fiamme, i nostri maggiori l’avevano consacrata nel tempio della Madre degli dèi: i Claudi erano una famiglia sacra e gradita agli dèi ed era bene consacrare il luogo dove gli dèi avevano dimostrato al principe un onore così alto.

 

65. Forse non è inopportuno raccontare che quel colle in antico si chiamava Querquetulano, poiché era folto e fecondo di quella specie d’alberi; poi fu chiamato Celio da Cele Vibenna, comandante del popolo etrusco, che, avendo portato aiuti, aveva ricevuto quella sede da Tarquinio Prisco o forse da un altro dei re; su questo punto infatti gli autori dissentono. Non sono incerte invece tutte le altre notizie, cioè che quelle schiere molto numerose abitarono anche in pianura, nei pressi del Foro; di conseguenza il quartiere, dal nome di quegli stranieri, fu detto Vicus Tuscus.

 

66. Mentre la sollecitudine dei notabili e la generosità del principe avevano sollevato le vittime della sciagura, imperversava ogni dì più veemente e senza tregua l’accanimento degli accusatori. Varo Quintilio, persona abbiente e parente dell’imperatore, era stato preso di mira da Domizio Afro, che già aveva fatto condannare la madre di lui, Claudia Pulcra; nessuno si mostrava sorpreso del fatto che, dopo aver sofferto a lungo l’indigenza e dopo il recente compenso malamente sperperato, si accingesse a commettere altre iniquità. Mentre suscitava immensa sorpresa il fatto che avesse associato all’accusa Publio Dolabella; questi discendeva da antenati illustri ed era parente di Varo, ma disonorava la propria nobiltà e trascinava in basso il proprio sangue. Il Senato però resistette e deliberò che bisognasse attendere l’imperatore, cosa che, in quei momenti, rappresentava l’unico rifugio contro sciagure imminenti.

 

67. Cesare intanto, dopo aver dedicato i templi in Campania, pur avendo ingiunto con un editto che nessuno disturbasse il suo riposo, e impedito l’afflusso di cittadini con un cordone di soldati, ciononostante prese in odio i municipi, le colonie e tutti i siti del continente e andò a nascondersi nell’isola di Capri, separata dall’estremità della penisola di Sorrento da tre miglia di mare. Sono incline a ritenere che quella solitudine gli fosse piaciuta soprattutto perché le coste tutt’attorno sono prive di porti e offrono appena riparo a piccoli navigli; né alcuno può approdare senza che lo vedano le guardie. La temperatura d’inverno è molto mite perché un monte protegge l’isola dalla furia dei venti; d’estate poi è molto piacevole, perché l’isola è volta al favonio e circondata da mare aperto; la vista si apriva su un golfo stupendo, prima che l’eruzione del Vesuvio38 deformasse l’aspetto dei luoghi. Secondo la tradizione, quella regione appartenne ai Greci e Capri era abitata dai Teleboi. Ma Tiberio la comprese entro gli edifici e i nomi di dodici ville e quanto prima era impegnato negli affari di governo tanto ora si svigoriva in piaceri segreti e deplorevole ozio. Durava però in lui la tendenza al sospetto e, al tempo stesso, alla credulità; e Seiano, che già in città la fomentava, ora la eccitava più attivamente, senza più nascondere le sue trame a danno di Agrippina e di Nerone. Un soldato addetto alle loro persone prendeva nota, come in un diario, delle ambasciate, le visite, di tutto ciò, infine, che facevano o dicevano, in pubblico o in privato; e c’erano persone appositamente istruite a consigliar loro di rifugiarsi presso gli eserciti in Germania oppure, quando il Foro era più affollato, di abbracciare la statua del divo Augusto e invocare l’aiuto del Senato e del popolo: cose che essi non si sarebbero sognati di fare, ma che invece si attribuivano loro, come se si apprestassero a farle.

 

68. (28 d.C.) Il consolato di Giunio Silano e Silio Nerva ebbe un inizio sinistro: fu tratto in carcere un illustre cavaliere romano, Titio Sabino, perché era stato amico di Germanico. Non aveva mancato mai di trattare con rispetto la vedova e i figli di lui, frequentava la loro casa, li accompagnava in pubblico, unico di tanti clienti e per questa ragione elogiato dagli onesti, malvisto dai malvagi. Latinio Laziare, Porcio Catone, Petilio Rufo, M. Opsio, tutti ex pretori, si scagliarono contro di lui per la brama d’esser consoli, carica alla quale non si accedeva se non per il tramite di Seiano: e il favore di Seiano non si otteneva che con il delitto. Si accordarono tra loro che Laziare, che aveva qualche rapporto con Sabino, congegnasse la trama; gli altri avrebbero agito da testimoni e in seguito avrebbero sporto la denuncia. Laziare dunque incominciò a pronunciare a caso qualche discorso, poi a encomiare la fedeltà di Sabino perché non aveva abbandonato una famiglia altolocata nel momento della sventura, come avevano fatto gli altri e poi parlava con devozione di Germanico e compiangeva Agrippina. E poiché Sabino, sensibile nella sventura com’è l’animo umano, si sciolse in lacrime, si associò ai suoi lamenti e, fattosi più ardito, biasimò Seiano, deplorò la sua crudeltà, la sua superbia, le sue mire; e non si astenne neppure dal criticare Tiberio. Questo genere di discorsi, quasi fosse uno scambio di confidenze segrete, creò tra loro una specie di amicizia intima. E non passò molto tempo che fu Sabino a cercare Laziare, a frequentare la sua casa, a confidargli i suoi dolori come all’amico più sicuro.

 

69. Le persone da me nominate si consultarono per far sì che quei discorsi fossero uditi da più persone; il luogo dove s’incontravano, infatti, doveva apparire sempre completamente isolato; e, se si mettevano dietro la porta, c’era da temere d’esser visti o che un rumore casuale destasse sospetto. I tre senatori allora si nascondono tra il tetto e il soffitto, nascondiglio non meno turpe di quanto fosse esecrando il loro tranello; e accostano l’orecchio ai buchi e alle fessure. Laziare intanto s’imbatte in Sabino per la strada, e, come per raccontargli un caso recentemente appreso, se lo porta a casa, in camera; e agli avvenimenti trascorsi e presenti, che erano già sufficienti, ne aggiunge di nuovi e terribili. Quello fa altrettanto, anzi, si dilunga, dato che una volta dato sfogo alle proprie afflizioni, è difficile indursi a tacere. Subito fu compilata la denuncia e inviata all’imperatore una lettera, nella quale riferirono come s’era svolta la trama e le proprie azioni abbiette. In nessun’altra occasione la città rimase più inquieta e spaventata; ciascuno simulava anche con le persone intime, si evitavano riunioni e colloqui, per paura d’esser uditi da persone note e da ignoti; si guardavano con diffidenza persino le cose mute e inanimate, come il tetto e le pareti.

 

70. Nella lettera del primo dell’anno, Cesare formulò i voti delle calende di gennaio, poi passò a parlare di Sabino, accusandolo d’aver corrotto alcuni dei liberti e d’aver cercato di sopprimerlo; e in modo esplicito ne sollecitò la condanna. Cosa che avvenne senza indugio; il condannato, mentre lo portavano all’esecuzione, pur avendo la veste tirata sopra la bocca e la gola legata, per quanto gli era possibile si sforzava di gridare che così incominciava l’anno nuovo, che queste vittime si immolavano a Seiano. Ma ovunque volgesse gli occhi, ovunque cadessero le sue parole, non c’era che fuga e deserto; le strade, le piazze si vuotavano. Alcuni però tornavano indietro, si facevano vedere, impauriti del fatto stesso d’aver paura. Quale giorno sarebbe trascorso senza un supplizio, si chiedevano, se perfino tra le cerimonie e gli auguri, in quella festività nella quale era costume astenersi anche da parole profane, si esponevano le catene e il capestro? Se Tiberio aveva sfidato una disapprovazione così forte, un motivo ci doveva essere: certamente ci aveva pensato su, aveva studiato la cosa, affinché non si credesse che qualcosa potesse impedire ai nuovi magistrati, come aprivano i templi e i santuari, di aprire anche le prigioni. Seguì una lettera di ringraziamenti ai senatori perché avevano punito un uomo nocivo alla repubblica; aggiungeva che la sua vita era turbata da timori e che sospettava insidie da parte dei suoi nemici; nessuno dubitò che alludesse a Nerone e ad Agrippina.

 

71. Se non mi fossi proposto di raccontare ogni fatto nell’anno in cui è accaduto, vorrei anticipare un avvenimento e narrare subito la fine di Lucanio, di Opsio e degli altri inventori di quell’inganno, non solo dopo la morte di Gaio Cesare, ma mentre viveva ancora Tiberio; questi non voleva che gli strumenti dei suoi crimini fossero distrutti da altri, perché ormai sazio o perché gli se n’erano offerti di nuovi per lo stesso fine; e perciò si disfaceva di quelli precedenti. Ma queste e altre pene dei colpevoli le riferirò a suo tempo. Asinio Gallo, dei cui figli Agrippina era zia materna39, espose il parere che si dovesse chiedere all’imperatore di comunicare al Senato i suoi timori e consentire che fossero rimossi. Ma nessuna delle virtù che riteneva di possedere Tiberio valutava tanto quanto la capacità di simulare; e di conseguenza tanto più gli dispiacque che trapelasse ciò che non voleva lasciar apparire. Lo placò Seiano, non per amore di Asinio Gallo, ma per stare a vedere il risultato delle esitazioni del principe: sapeva bene che era lento nel riflettere, ma quando la sua collera prorompeva, a parole sferzanti si accompagnavano azioni crudeli. Negli stessi giorni morì Giulia, nipote di Augusto40, che, condannata per adulterio, era stata relegata nell’isola Tremiti, non lontana dalle coste dell’Àpulia. Qui sopportò per vent’anni l’esilio; provvide al suo sostentamento Augusta, la quale, dopo aver soppresso i figliastri nel fiore degli anni, ostentava misericordia verso quelli che si trovavano in disgrazia.

 

72. (28 d.C.) L’anno stesso i Frisii, una popolazione che abitava al di là del Reno, infransero la pace, non tollerando la nostra avidità più che il servaggio. Druso aveva imposto loro un tributo modico, adeguato alla pochezza dei loro beni; dovevano consegnare pelli bovine per uso dell’esercito, senza che nessuno si curasse di controllarne la solidità né l’ampiezza, fino a che Olemnio, uno dei primipilari, incaricato di governare la Frisia, scelse delle pelli di bisonte come misura di quelle che si sarebbero dovute ricevere. La cosa, che sarebbe stata gravosa per altri popoli, era difficilmente tollerabile per i Germani, i quali nelle foreste hanno animali selvaggi di grandi proporzioni, mentre quelli domestici sono di misura modesta. Sicché sulle prime consegnarono i buoi stessi, poi i campi, alla fine le mogli e i figli come schiavi. Ne conseguirono sdegno e proteste, e, dato che non si apportava rimedio, ricorsero alla guerra. I militari che si presentarono per riscuotere il tributo furono catturati e crocifissi; Olennio sfuggì alla furia dei barbari e fu accolto in un castello chiamato Flevo; qui una forza considerevole di cittadini e di alleati difendeva le coste dell’Oceano.

 

73. Come questi fatti furono comunicati a L. Apronio, propretore della Germania Inferiore, chiamò dalla provincia Superiore alcuni drappelli delle legioni e soldati scelti di cavalleria ausiliaria e di fanteria e lanciò contro i Frisi l’uno e l’altro esercito, trasportato sul Reno, quando l’assedio alla fortezza già era stato tolto e i ribelli si erano ritirati per difendere il loro territorio. Poi costruì robusti argini e ponti sugli estuari vicini affinché potessero attraversarli forze più pesanti. Quindi, avendo trovato dei guadi, ordinò ai Canninefati ed a quei fanti Germani che combattevano con i nostri, di accerchiare i nemici da tergo; ma questi, già in formazione di battaglia, respinsero le squadre alleate e i cavalieri delle legioni inviati in aiuto. Allora furono mandate tre coorti leggere, poi due e dopo un certo intervallo la cavalleria delle ali: forze sufficientemente valide, se avessero incalzato tutti compatti, ma irrompendo a scaglioni non avevano dato coraggio a quelli sgomenti e venivano travolti dal terrore dei fuggiaschi. Il capo affidò a Cetego Labeone, legato della quinta legione, quel che restava degli ausiliari; ma questi a sua volta, trovandosi in pericolo per la situazione insicura dei suoi, inviò messi a implorare l’aiuto delle legioni. Accorrono per primi i soldati della quinta e con un’aspra battaglia respingono il nemico, poi raccolgono le ali della coorte, stremate per le ferite. Il generale romano non si lanciò alla vendetta né dette sepoltura ai morti, benché fossero caduti molti tribuni e prefetti e i più eminenti dei centurioni. Dai disertori poi si seppe che novecento Romani che avevano seguitato a combattere fino all’indomani, furono massacrati nei pressi della foresta detta di Buduenna; e un altro stuolo di quattrocento uomini, che avevano occupato un terreno di Cruptorige, nostro antico militare, per la paura d’esser traditi, s’erano uccisi a vicenda.

 

74. Da allora il nome dei Frisi acquistò rinomanza tra i Germani, mentre Tiberio teneva nascoste le perdite per non affidare ad alcuno la guerra, né il Senato si curava del disonore dell’impero nei territori estremi. Gli animi erano dominati dal terrore di ciò che accadeva all’interno e si cercava di salvarsi solo con l’adulazione. Così, benché avessero vari argomenti su cui deliberare, i senatori decretarono di innalzare un’ara alla Clemenza, una all’Amicizia e attorno furono erette statue dell’imperatore e di Seiano e con frequenti suppliche li pregavano di concedersi alla vista. Essi tuttavia non si presentarono nell’Urbe e neppure nei dintorni; parve loro sufficiente lasciare l’isola e farsi vedere in Campania. Là convennero senatori, equestri e la plebe in gran numero, tutti ansiosi d’incontrare Seiano, ottenere udienza dal quale era molto difficile e ci si riusciva solo attraverso intrighi o se si era complici dei suoi piani. Ormai nessuno dubitava che la sua arroganza era aumentata, nel constatare quello sfacciato servilismo; a Roma si è abituati a veder gente e l’ampiezza della città impedisce di sapere a quali faccende ciascuno sia diretto; là invece persone distese nei campi o sulla spiaggia senza distinzione sopportavano per giorni e notti la tracotanza degli inservienti, fino a che anche questo fu loro vietato. E tornarono a Roma, angustiati quelli che Seiano non aveva degnato d’una parola né d’uno sguardo, stolidamente contenti invece coloro sui quali incombeva la tragica fine d’una infausta amicizia.

 

75. Tiberio intanto ordinò che fossero celebrate in Roma le nozze della nipote Agrippina41, figlia di Germanico, che personalmente aveva concessa a Gn. Domizio. In Domizio, oltre all’antichità della stirpe, aveva scelto un consanguineo dei Cesari; poiché sua nonna era Ottavia e attraverso di lei vantava Augusto come prozio42.

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
Storici Latini
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