Storie (estratti)
1. Discorso del console Lèpido al Popolo Romano
«Cittadini,
la vostra clemenza, la vostra onestà, per cui siete tanto grandi e tanto famosi in tutto il mondo, mi ispirano non poco timore in rapporto alla tirannide di Lucio Silla1. Temo, cioè, che voi, non volendo credere che gli altri siano capaci di quelle che voi ritenete scelleratezze, possiate essere raggirati. Soprattutto perché quell’uomo ha riposto tutte le sue speranze nel delitto e nella frode, e non si ritiene al sicuro se non mostrandosi peggiore e più esecrabile di quanto voi temiate, perché, presi da talè paura, la desolazione vi tolga ogni pensiero di libertà. Ma temo pure che, se starete in guardia, pensiate più a schivare i pericoli che alla vendetta. E non finisco di meravigliarmi dei suoi satelliti, persone dal grande nome, con splendidi esempi negli avi: essi pagano con il proprio asservimento il dominio che esercitano su di voi; preferiscono entrambe queste iniquità, che vivere liberi con pieno diritto: gloriosa discendenza dei Bruti, degli Emilii, dei Lutazi2, ma nati per distruggere ciò che i loro antenati hanno costruito con il loro valore. Che cosa si è difeso, a suo tempo, da Pirro, da Annibale, da Filippo, e anche da Antíoco3, se non la libertà, il focolare di ciascuno, e di non obbedire se non alle leggi? Tutto ciò, questo pseudo Romolo se lo tiene stretto come se l’avesse strappato a nemici esterni. Non lo hanno saziato la strage di tanti eserciti, di tanti consoli, di tanti altri eminenti cittadini, che le sorti della guerra hanno rapito. No: proprio allora egli è più crudele, quando il pieno successo suole piegare dall’ira alla pietà. Addirittura, è il solo, a memoria d’uomo, che abbia fissato gravi pene contro quelli che ancora non sono nati4, e per i quali dunque è assicurata l’ingiustizia prima ancora della vita! E costui, per colmo d’infamia, garantisce la propria sicurezza attraverso la ferocia dei suoi crimini, dal momento che voi, per tèma di più duro asservimento, non osate rivendicare la vostra libertà.
Bisogna agire! Bisogna reagire, cittadini, se non volete che le vostre spoglie restino in mano loro! Non bisogna rimandare, non bisogna cercare aiuto negli dèi. Vi illudete forse che Silla ormai provi noia o vergogna della sua tirannide, e che rinunci più pericolosamente a ciò che scelleratamente ha arraffato? No: egli si è spinto tanto avanti, che niente ormai ritiene glorioso se non ciò che sia sicuro; e considera onorevole solo tutto ciò che vale a conservargli il dispotismo. Perciò, di quella famosa tranquillità e pace, congiunta a libertà, che molte persone per bene preferivano ad una vita faticosa, accompagnata però da onori, non c’è proprio traccia. È un momento, questo, cittadini, in cui bisogna o servire o dominare, o aver paura o incuterla. Che altro si aspetta? Qilali leggi umane sopravvivono? quali divine non sono state violate? Il Popolo Romano, sino a poco fa signore delle genti, ora, spogliato della sua sovranità, della sua gloria, dei suoi diritti, messo nell’impossibilità di un’autentica vita, oggetto di disprezzo, non ha più neppure ciò di cui si nutrono gli schiavi. A gran parte dei nostri associati, a gran parte del Lazio, per il capriccio di un solo uomo viene tolto quel diritto di cittadinanza che voi avevate dato loro in cambio di molte e straordinarie benemerenze. Un pugno di satelliti, in compenso dei suoi crimini, ha occupato le dimore di una plebe innocente. Nelle mani di un sol uomo stanno le leggi, i tribunali, le casse dello Stato, le province, i regni, persino il libero arbitrio di vita e di morte sui cittadini. Avete visto anche vittime umane e sepolcri imbrattati dal sangue dei cittadini. A veri uomini che altro rimane se non restaurare la legalità o morire da valorosi? Sì, perché la natura ha fissato per ciascuno, anche cinto da catene, una sola fine; e nessuno, se non con l’animo di una donnicciola, attende l’estrema ineluttabilità senza nulla tentare.
Ma, a detta di Silla, il sedizioso sono io, che deploro i profitti delle sommosse, il guerrafondaio sono io, che reclamo i diritti della pace. Ovviamente perché, secondo lui, voi non sarete sani e salvi nell’esercizio del potere, se il Picentino Vezzio e lo scribacchino Cornelio5 non sperpereranno i beni guadagnati onestamente da altri, e se tutti voi non approverete la proscrizione di innocenti, voluta per la loro ricchezza, i supplizi inflitti ad uomini illustri, la città resa squallida da esilii e da stragi, i beni di infelici cittadini, quasi bottino tolto ai Cimbri, venduti o regalati.
Ma egli rinfaccia a me il possesso di beni dei proscritti: ma è proprio questa la sua colpa forse più grave, che né io né alcun altro fossimo al sicuro, se ci fossimo comportati onestamente6. E quei beni che in quel momento, per paura, io ho comperato sborsando il mio denaro e divenendone proprietario legittimo, ciononostante son pronto a restituirli, e non intendo permettere che si tragga alcun bottino dai cittadini. Dovrebbe bastare ciò che, divampata la rabbia, abbiamo a suo tempo sopportato: eserciti romani in lotta tra di loro, armi rivolte contro di noi invece che contro gli stranieri. Si metta fine a tutti i delitti ed oltraggi. Di cui, però, Silla a tal punto non si pente, che anzi li conta tra i suoi atti gloriosi, e, se fosse possibile, li rifarebbe ancora più bramosamente.
A questo punto, ormai, non temo quale sia la vostra opinione su di lui, ma quanto siate disposti ad osare. Temo cioè che voi, aspettando ciascuno che sia un altro ad assumere l’iniziativa, siate immobilizzati non dalla potenza di lui – che è fragile e guasta – ma dalla vostra inerzia, grazie alla quale si può tranquillamente depredare e apparire “fortunati”7 nella misura in cui si ha fegato. In effetti, a parte i suoi sgherri macchiati di delitti, chi è dalla sua parte? Chi non vorrebbe cancellata ogni cosa, tranne, naturalmente, le sue vittorie?8 Forse i suoi soldati, se a spese del loro sangue si sono accumulati beni per un Tàrula, per uno Scirto9, la feccia degli schiavi? O forse quelli ai quali, nell’assunzione delle cariche, è stato anteposto un Fufidio10, un’infame servetta, disonore di ogni magistratura? Perciò la maggiore fiducia io traggo da quell’esercito vittorioso, che a prezzo di tante ferite e di tante fatiche altro non ha guadagnato che un tiranno. Non si può certo pensare che quegli uomini siano partiti per sopprimere quella potestà tribunizia che fu instaurata con le armi dai loro avi, e meno ancóra per strappare a se stessi i propri diritti e i propri tribunali. E tutto ciò per un bel guadagno davvero! Loro, relegati in paludi e foreste, a vedere oltraggi e odio per sé, vantaggi solo per pochi altri!
Perché dunque egli incede con tanto corteggio, con tanta iattanza? È perché la prosperità è un magnifico paravento per i suoi vizi, sparita la quale, quanto più era temuto, tanto più sarà disprezzato; a meno che egli non conti sulla cortina di fumo della “concordia” e della “pace”, cioè sui nomi di cui egli ha rivestito la sua criminalità e il suo parricidio. E va dicendo che non ci sarà né repubblica né fine della guerra, finché la plebe non resti espulsa dalle campagne, il bottino tolto ai cittadini non sia diviso tra gli schiavi, e il supremo diritto e il totale potere giudiziario, che fu del Popolo Romano, non sia nelle sue mani.
Se tutto ciò è da voi inteso come pace e armonia, allora approvate pure il sovvertimento dello Stato e la sua distruzione, chinate il capo dinanzi alle leggi che vi si impongono, accettate la tranquillità abbinata all’asservimento, e trasmettete ai posteri un modello per soffocare la repubblica a prezzo del proprio sangue. Quanto a me, sebbene, attraverso questa suprema carica, io abbia acquisito al nome dei miei avi sufficiente dignità ed anche difesa, tuttavia non era mia intenzione fare solo il mio interesse, e mi è parsa preferibile una rischiosa libertà piuttosto che un inerte asservimento. E se voi approvate tutto ciò, state all’erta, cittadini, e col benevolo aiuto degli dèi, seguite il console Marco Emilio, guida e promotore della riconquista della libertà!»
2. Discorso di Filippo in Senato
«Signori senatori,
più d’ogni altra cosa io vorrei che la repubblica fosse tranquilla, o che, nei pericoli, fosse difesa da tutti i più arditi, e infine, che le colpevoli iniziative ricadessero su quelli che le hanno volute. Purtroppo, invece, tutto è sconvolto dalle sedizioni, e proprio per opera di coloro che più avrebbero dovuto impedirle; infine, ciò che gli uomini peggiori e più stolti hanno deciso, deve essere eseguito da quelli onesti e assennati. Ed ecco che bisogna metter mano alla guerra e alle armi, per quanto odiose a noi siano, solo perché piacciono a Lèpido11, sempreché uno non sia dell’idea che è meglio starsene in pace e subire la sua guerra. O buoni dèi – che ancóra proteggete questa città dove se ne è messa da parte la cura -, Marco Emilio Lèpido, l’ultimo degli scellerati, di cui non si saprebbe dire se sia più malvagio o più vile, ha in sua mano un esercito per soffocare la libertà, e, da disprezzato, si è reso temibile. E voi, sempre incerti, sempre tentennanti fra chiacchiere e vaticinii, pregate per la pace piuttosto che difenderla, senza rendervi conto che con la fiacchezza delle vostre decisioni togliete dignità a voi stessi, e timore a lui. Ed è giusto che sia così, visto che con le rapine egli ha ottenuto il consolato, e con la sedizione una provincia e un esercito. Che cosa avrebbe ricavato da benemerenze quell’uomo i cui delitti voi avete compensato con tanti premi? Ma, almeno, è un dato di fatto che quelli che fino all’ultimo hanno votato per Lèpido ambascerie, pace, concordia ed altro di tal genere, ne hanno ottenuto la riconoscenza? Tutt’altro! Disprezzati e giudicati indegni di qualsiasi ruolo politico, sono tenuti in conto di preda, giacché ora reclamano la pace per quello stesso terrore per il quale, quando l’avevano, la perdettero.
Quanto a me, fin da principio, quando vedevo che l’Etruria complottava, che si richiamavano i proscritti, che si rovinava lo Stato a furia di largizioni, pensavo che bisognasse affrettarsi, e, con pochi altri, seguii i consigli di Catulo12. Invece, quelli che esaltavano le benemerenze della gente Emilia e dicevano che egli, perdonando, aveva accresciuto la grandezza del Popolo Romano, e che Lèpido finora non aveva mosso un solo passo – proprio mentre egli aveva impugnato le armi, da privato, per schiacciare la repubblica – costoro, cercando ciascuno per sé potenza e solidi appoggi, guastarono l’opinione pubblica. Eppure Lèpido era allora soltanto un brigante con qualche garzone e pochi sicarii, nessuno dei quali rischierebbe la vita per la paga di un giorno. Ora invece è proconsole, con un’autorità militare non comprata ma datagli da voi, con luogotenenti che tuttora gli obbediscono legittimamente; e da lui è accorsa la feccia di ogni categoria, uomini bruciati dall’indigenza e dalle passioni, tormentati dalla cattiva coscienza, che trovano requie solo nell’anarchia, e inquietudine nella pace. Costoro seminano disordine dopo disordine, guerra dopo guerra, proseliti un tempo di Saturnino13, poi di Sulpicio14, poi di Mario e di Damasippo15, ora di Lèpido. Non basta: l’Etruria, e tutti gli altri residui di guerra, si sono ridestati; le due Spagne sono agitate e in armi, Mitridate16, a due passi dai nostri proventi che ancóra ci sostengono, spia il giorno della guerra. Insomma, tranne un adeguato condottiero, non manca nulla per far tremare l’impero.
Perciò vi prego, vi supplico, signori senatori, di stare attenti. Non permettete che la licenza di delinquere, come infettiva rabbia, giunga a contagiare gli immuni. Perché, là dove i malvagi vengono premiati, non è facile che uno, gratuitamente, rimanga onesto. O aspettate che Lèpido, gettato di nuovo all’attacco l’esercito, aggredisca la città, mettendola a ferro e fuoco? Questa eventualità è molto più vicina alla posizione in cui si trova costui, che non la pace e la concordia alle armi fratricide, quelle armi che egli ha già impugnato contro tutto ciò che c’è di divino e di umano, e non in reazione ad offese subite da lui o da quelli che vuol farci credere, ma per sovvertire le leggi e la libertà. Sì, perché egli è spinto e tormentato dall’ambizione e dalla paura del castigo; privo di idee chiare, irrequieto, volto ora a questo ora a quel tentativo, teme la pace ed odia la guerra; vede bene che deve rinunciare a lussi e sfrenatezze, e intanto approfitta della vostra inerzia. Io non so proprio se chiamarla paura o viltà o follia: sembra che ciascuno di voi si limiti ad augurarsi che tante sciagure, come se si trattasse di un fulmine, non tocchino lui, ma, quanto a tenerle lontane, nemmeno ci provi.
E poi, vi prego, considerate quanto si è capovolto il mondo. In passato si organizzavano segretamente i colpi di stato, ma alla luce del sole le reazioni, e perciò gli onesti facilmente avevano la meglio sui malvagi. Ora invece la pace e la concordia si turbano apertamente, ma si difendono di nascosto. Quelli a cui piacciono i disordini sono in armi, voi nel terrore. Che cosa aspettate? A meno che non vi vergogniate o vi rincresca di comportarvi come si deve! Vi hanno forse scosso i messaggi di Lèpido, che dice di volere che si restituisca a ciascuno il suo, e intanto tiene l’altrui? che si aboliscano i diritti di guerra, mentre lui stesso si impone con le armi? che si confermi la cittadinanza a quelli cui egli nega che sia stata tolta? che, per amor di concordia, si restituisca alla plebe la potestà tribunizia, da cui sono state accese tutte le nostre discordie? O uomo fra tutti il più malvagio e il più spudorato, proprio a te sta a cuore la miseria e il pianto dei cittadini, a te che in casa non hai nulla che non sia stato acquisito con le armi e con l’ingiustizia? Chiedi un secondo consolato, come se avessi deposto il primo! Tu cerchi la concordia attraverso la guerra, che è quella che la sovverte se già c’è! Traditore di noi, malfidato per la tua gentaglia, nemico di tutti i galantuomini, non hai rispetto né per gli dèi né per gli uomini, che hai offeso con la malafede e lo spergiuro! E poiché tale tu sei, rimani nel tuo proposito, resta in armi – ti esorto io stesso -, e, irrequieto tu stesso, non tenere in ansia anche noi rimandando continuamente la tua rivolta! Non ti sopportano le province come proconsole, né le leggi né gli dèi Penati ti sopportano come cittadino. Continua per la tua strada, per trovare al più presto quanto tu meriti.
E voi, Signori Senatori, fino a quando, con la vostra indecisione, lascerete lo Stato indifeso e farete fronte alle armi con le parole? Si sono arruolate truppe contro di voi, si è estorto denaro dalle casse pubbliche e da quelle private, si sono spostate e collocate guarnigioni; ci si impone alle leggi a proprio arbitrio, e intanto voi preparate delegazioni e decreti. Quanto più avidamente avrete chiesto la pace, tanto più accanita sarà la guerra, quando quello si renderà conto che lo sostengono più la vostra paura che la sua giustizia ed equità. Chi dice di odiare i disordini e il massacro dei cittadini, e per questo, mentre Lèpido è armato, tiene inermi voialtri, propone che voi tolleriate, mentre potreste imporlo voi, ciò che subiscono i vinti. E così suggerisce per lui la pace da parte vostra, per voi la guerra da parte sua. Se di tutto, questo siete soddisfatti, se tanto torpore grava sui vostri animi, che voi, dimentichi dei delitti di Cinna17 – al cui ritorno in città è perita la dignità dell’ordine senatorio -, intendete lasciare in mano di Lèpido voi stessi e le vostre mogli e i vostri figli, che bisogno c’è di decreti? Che bisogno c’è dell’aiuto di Càtulo18? Sì, perché sia lui sia altri galantuomini invano hanno a cuore la Repubblica.
Fate come volete! Procuratevi il patrocinio di Cetègo19 e di altri traditori, che voglion dare il via a rapine ed incendi e armare di nuovo le loro mani contro gli dèi Penati. Ma se vi stanno più a cuore la libertà e la verità, decidete qualcosa che sia degno del vostro nome, e tonificate la forza morale dei cittadini valorosi. C’è pronto un nuovo esercito, e in più le colonie dei veterani, la nobiltà intiera, i più capaci condottieri. La fortuna accompagna i migliori; ben presto ciò che grazie alla nostra inerzia ha fatto lega, si sbanderà.
Perciò io propongo questo:
Poiché Marco Lèpido conduce alla volta di Roma, contro l’autorità di quest’ordine senatorio, un esercito messo insieme con iniziativa privata assieme con i peggiori elementi e con i nemici della Patria,
che Appio Claudio20, interré, insieme con Quinto Catulo21, proconsole, e con tutti gli altri che hanno autorità militare, siano a difesa della capitale e provvedano a che la Repubblica non subisca alcun danno22.»
3. Discorso di Cotta al Popolo Romano
«Cittadini,
in molti pericoli io sono incorso, in pace e in guerra, e in molte avversità; ad alcuni di essi ho resistito, altri ho respinto con l’aiuto degli dèi e con il mio ardire. E in tutto ciò mai il mio cuore è venuto meno alla lotta né la mia energia alle decisioni prese. La cattiva sorte e la buona mutavano le mie possibilità, non il mio carattere. Eppure adesso, nelle attuali sventure, insieme con la fortuna tutto mi ha abbandonato. E poi la vecchiaia, già di per sé gravosa, raddoppia la mia apprensione: purtroppo, in età già avanzata, neppure una morte onorevole mi è lecito sperare. Giacché, se davvero io sono la vostra rovina, se, due volte venuto alla vita in questa sede23, io disprezzo i miei dèi Penati e la mia patria e l’altissima mia carica, quale supplizio è sufficiente a me vivo, quale pena a me morto? Con la mia scelleratezza avrei meritato ben più di tutti i tormenti che si ricordano giù agli inferi.
Fin dalla prima adolescenza, da privato o da pubblico funzionario, io sono vissuto sotto i vostri occhi. Chiunque lo ha voluto, ha potuto disporre della mia eloquenza, del mio consiglio, del mio denaro. Personalmente non ho mai praticato un’eloquenza maliziosa né ho rivolto l’ingegno a fare il male. Avidissimo di influenza nella vita privata, mi sono tirato addosso le più gravi inimicizie nella difesa dello Stato; mentre, vinto da esse insieme con questo, e bisognoso del sostegno altrui, io mi aspettavo nuove sventure, voi, cittadini, mi rideste la patria e i Penati, insieme con l’alta dignità. E in cambio di questi benefìci, a mala pena sembrerei riconoscente, se io dessi per ognuno di voi quella vita che per ognuno non posso dare. Perché la vita e la morte sono dominio della natura; ma una vita da vivere senza disonore con i propri concittadini, intatto nella reputazione e nelle sostanze, questo sì che si dà e si riceve in dono!
Ci avete eletto consoli, cittadini, in un momento delicatissimo per la repubblica all’interno e all’esterno. I nostri generali in Ispagna reclamano paghe, soldati, armi, frumento24; e a ciò li costringe la situazione, giacché, per la defezione degli alleati e per la fuga sui monti da parte di Sertòrio25, non possono battersi né predisporre niente di utile. Si mantengono eserciti in Asia e in Cilicia, per l’eccessiva potenza di Mitridate26; la Macedonia è piena di nemici, e altrettanto le coste d’Italia e delle province; e intanto gli introiti assai ridotti e resi incerti dalle guerre, a stento bastano a sostenere una parte delle spese. E così navighiamo con una flotta ridotta, rispetto a quella che prima proteggeva i convogli. Se tutto ciò si è prodotto per tradimento o negligenza nostra, ebbene, come vi suggerisce l’ira, traétene vendetta; ma se è la sorte comune che si è fatta più dura, perché intraprendete azioni indegne di voi e di noi e della repubblica?
E, giacché alla mia età la morte è più vicina, questa morte io non rifiuto, se con essa si toglie a voi qualche malanno; né ben presto, per la fragilità naturale del corpo, potrei finire la vita più onorevolmente che per la vostra incolumità. Eccomi qui: sono il console Gaio Cotta: faccio ciò che ripetutamente i nostri avi hanno fatto nelle guerre più dure: mi offro in voto e mi sacrifico per la Patria: ma voi guardate bene a chi la possiate affidare. Perché nessun galantuomo vorrà un tale onore, se bisogna render conto della fortuna, del mare, e della guerra condotta da altri, oppure morire vergognosamente. Soltanto, tenete ben presente che io non sarò stato mandato a morte per un delitto o per malversazione, ma che avrò offerto la mia vita volontariamente, in cambio dei grandissimi benefici ricevuti.
In nome di voi stessi, cittadini, e della gloria degli avi, sopportate le avversità e pensate al bene della Patria. Un vasto impero comporta molte preoccupazioni e molte e grandi fatiche. Inutilmente voi le rifiutate, e cercate gli agi della pace, mentre tutte le province, i regni, i mari e le terre sono in tempesta e spossati dalle guerre.»
4. Lettera di Gneo Pompeo al Senato
«Se contro di voi, contro la Patria, contro gli dèi Penati, tante fatiche e pericoli io avessi affrontato ogni volta che, sin dalla prima adolescenza, sotto il mio comando sono stati sbaragliati i peggiori nemici e si è data a voi la salvezza, niente di più grave avreste deciso contro di me lontano, di quanto, fate ora, signori senatori: a dispetto della mia giovane età27, io sono stato scaraventato in una guerra ferocissima, con un esercito tanto meritevole, e voi avete fatto di tutto per fiaccarmi con la fame, la più miserabile di tutte le morti. Era questo che sperava il Popolo Romano quando ha mandato alla guerra i suoi figli? È questo il compenso delle ferite e del sangue versato tante volte per la repubblica? Io, stanco di scrivere e di mandare legazioni, ho dato fondo a tutte le mie sostanze e a tutto il mio credito personale, e intanto, da voi, in tre anni, a malapena mi sono state fornite le spese per un anno solo. Per gli dèi immortali, credete che io possa fare le veci delle casse dello Stato, o che un esercito si possa mantenere senza viveri e senza paga?
Devo ammettere che a questa guerra io sono venuto con più entusiasmo che riflessione: appena ricevuto da voi il titolo di generale, in quaranta giorni ho allestito un esercito, e ho ricacciato dalle Alpi in Ispagna il nemico che già stava addosso all’Italia; e attraverso le Alpi ho aperto una strada diversa da quella di Annibale, più comoda per noi. Ho riconquistato la Gallia, i Pirenei, la Lacetania, gli Indìgeti28; con soldati alle prime armi, e molto più scarsi, ho sostenuto il primo attacco di Sertòrio29 vittorioso; ho trascorso l’inverno al campo in mezzo a ferocissimi nemici, e non, per interessata compiacenza, in qualche città. A che serve enumerare le battaglie o le spedizioni fatte in pieno inverno, le città distrutte o riconquistate? Valgono più i fatti che le parole: l’accampamento del nemico conquistato presso il Sucrone30, la battaglia al fiume Durio31, l’annientamento del comandante dei nemici, Gaio Erennio32, insieme con la città di Valenza e col suo esercito, son dati di fatto che conoscete bene. Ma in cambio di tutto ciò, riconoscenti senatori, mi avete dato la miseria e la fame! È dunque uguale la condizione dell’esercito mio e di quello del nemico: a nessuno dei due si fornisce la paga; l’uno e l’altro, vittoriosi, possono venire in Italia.
Riflettete a questo – vi avverto e vi prego – e non costringetemi, forzato dalla necessità, a pensare solo a me stesso. La Spagna Citeriore, che non è in mano al nemico, l’abbiamo devastata, o noi o Sertòrio, fino al massacro totale, tranne le città sul mare, che però vivono a spese nostre e a nostro carico. La Gallia nello scorso anno ha mantenuto l’esercito di Metello33 con denaro e viveri, e adesso, con un’annata cattiva, basta a stento a se stessa. Io, ho esaurito non solo il mio patrimonio, ma anche ogni credito. Rimanete voi: se non mi aiutate, contro il mio volere, ma secondo le mie predizioni, l’esercito, e con esso tutta la guerra di Spagna, da qui passeranno in Italia.»
5. Discorso alla plebe del tribuno Macro
«Cittadini,
se voi non intendeste bene che differenza ci sia tra il diritto lasciatovi dagli avi e questo servaggio impostovi da Silla34, dovrei parlare a lungo, dovrei spiegarvi per quali torti e quante volte la plebe, armata, si staccò dal Senato, e come essa si assicurò a vìndici di ogni proprio diritto i tribuni della plebe. Ora invece mi resta solo da esortarvi e da imboccare per primo la via per la quale io ritengo che si possa conquistare la libertà. Ma so bene quale immensa potenza della nobiltà, io, da solo, senza effettivo potere35, con la vana parvenza di una carica, mi accingo a scalzare dal suo predominio, e quanto più al sicuro possa agire una fazione di criminali che isolati galantuomini. Tuttavia, a parte la buona speranza che ripongo in voi, la quale vince ogni paura, ho deciso che i rischi della lotta in difesa della libertà siano preferibili, per un uomo coraggioso, all’alternativa di non avere affatto impegnato la lotta.
Eppure, per acquistare favore, o per allettamenti o per vantaggi ottenuti, tutte le altre magistrature che sono state create a tutela del vostro diritto hanno rivolto contro di voi ogni loro forza e autorità, e ritengono preferibile rendersi colpevoli dietro compenso che comportarsi bene disinteressatamente. Perciò tutti costoro si sono assoggettati al dispotismo degli oligarchi, i quali, col pretesto della guerra, hanno preso possesso delle casse dello Stato, degli eserciti, dei regni e delle province, e si fanno baluardo delle vostre spoglie. E intanto voi, come pecore, voi che siete una gran massa, vi lasciate prendere e sfruttare da ciascuno di loro, spogliati di tutto ciò che i vostri avi vi hanno lasciato; soltanto, servendovi del voto, vi assicurate ora dei padroni, come in passato vi assicuravate dei difensori. Quelli, dicevo, sono passati tutti da quella parte, ma ben presto, se recupererete i vostri diritti, in gran parte torneranno da voi: ben pochi hanno il coraggio che occorre a difendere le proprie idee; tutti gli altri sono preda dei più forti.
Vi domandate forse se qualcosa possa opporsi a voi, quando procedeste concordemente, a voi che, pur fiacchi ed inerti, hanno sempre temuto? A meno che Gaio Cotta36, console uscito da quella cricca, vi abbia restituito qualche diritto altrimenti che per paura. E sebbene Lucio Sicinio37, che per primo osò parlare del potere tribunizio, fosse stato sopraffatto, mentre voi non fiatavate, tuttavia quelli ebbero paura dell’odiosità del loro atto prima ancora che voi foste stanchi dei torti subiti. E io non finisco di meravigliarmene, cittadini: perché voi vi siete resi conto che le vostre speranze erano vane. Morto Silla, che aveva imposto quello scellerato servaggio, credevate che i mali fossero finiti. Ma venne fuori un Càtulo38, di gran lunga più feroce. Una rivolta scoppiò sotto i consoli Bruto e Mamerco39. Poi Gaio Curione40 spadroneggiò sino a far massacrare un tribuno innocente. E avete visto con quanta animosità, l’anno scorso, Lucullo si sia mosso contro Lucio Quinzio41. Infine, quanti disordini si scatenano ora contro di me! Ma tutto ciò sarebbe andato a vuoto, se quelli avessero inteso porre fine al loro dispotismo prima che voi al vostro asservimento; soprattutto perché, nelle recenti guerre civili, altri motivi si sono proclamati, ma in realtà si è lottato da entrambe le parti per il vostro asservimento. Perciò le altre lotte, nate dalla libertà sfrenata o dall’odio o dall’avidità, divamparono per breve tempo; solo un elemento rimase costante, a cui si mirò da entrambe le parti e che vi fu strappato per l’avvenire: la forza del tribunato della plebe, l’arma fornitavi dai vostri avi al fine della libertà. Perciò io vi avverto e vi prego di stare attenti: non chiamate tranquillità l’asservimento, cambiando il nome alle cose in base alla vostra viltà: non c’è nemmeno più la possibilità di goderne, se il male prevarrà sul vero e sull’onesto. Ci sarebbe stata, se ve ne foste stati compietamente tranquilli. Ora però quelli hanno capito e, se voi non vincerete – giacché ogni ingiustizia si fa più sicura pesando più gravosa – vi terranno in pugno più strettamente.
“Che cosa suggerisci, dunque?”, potrebbe ribattermi qualcuno di voi. Anzitutto di metter da parte questo atteggiamento che tenete ora, voi, lingue animose, ma cuori imbelli, memori della libertà solo al momento dell’assemblea. E poi – senza che io vi esorti a quegli atti da veri uomini con cui i vostri avi ottennero i tribuni della plebe, e più recentemente le cariche già riservate ai patrizi, e infine il voto libero dalla ratifica dei. patrizi – dal momento che ogni forza sta in voi, cittadini, e voi potete almeno eseguire, se nel vostro interesse, o non eseguire, gli ordini che ora subite a vantaggio di altri, aspettate forse i suggerimenti di Giove o di qualche altra divinità? Quei superbi ordini dei consoli e decreti del senato, siete voi che, eseguendoli, ratificate, cittadini! E voi stessi vi affrettate ad accrescere e ad assecondare lo sfrenato arbitrio che si esercita contro di voi.
Tuttavia non vi esorto a vendicare le ingiustizie, ma piuttosto a desiderare la tranquillità. E, non già volendo le discordie, come quelli vanno accusandomi, bensì la fine di esse, io rivendico certe cose secondo il diritto delle genti. E, se quelli insisteranno a negarvele, proporrò non la lotta armata o la secessione, ma soltanto che voi non diate più il vostro sangue. Esercitino e tengano a modo loro i poteri, cerchino pure i trionfi, diano addosso a un Mitridate, a un Sertòrio e ai resti degli esiliati in compagnia dei loro ritratti degli avi! Ma sia escluso il pericolo e la fatica da quelli a cui non va alcun vantaggio. A meno che non si pensi che questa frettolosa legge frumentaria compensi del tutto le vostre prestazioni. Con essa hanno valutato cinque moggi a testa la libertà di tutti noi42, cinque moggi, che certo non valgono più della razione di un carcerato. Sì: come con questa, per esigua che sia, si impedisce la morte, ma si debilitano le forze, così una tale piccolezza non libera dalle preoccupazioni per la famiglia, ma intanto illude le pur tenuissime speranze di ognuno. Ma anche se fosse abbondante, poiché verrebbe offerta come prezzo dell’asservimento, il lasciarsi abbindolare e per giunta dover essere grati all’oppressione, di cose che sono vostre, di quale torpore sarebbe indizio? Bisogna stare in guardia contro l’inganno. In altro modo quelli non ce la farebbero contro tutti quanti voi, e nemmeno lo tenteranno. Proprio per questo essi contemporaneamente preparano lusinghe e vi rimandano all’arrivo di Pompeo43, proprio quell’uomo che portarono a spalle in trionfo quando ne ebbero paura, ma che ora, scomparsa la paura, fanno a brani. E non si vergognano, vìndici della libertà come si spacciano, e così numerosi, o di non osare, per l’assenza di un solo uomo, di finirla con le ingiustizie, o di non esser capaci di difendere il “proprio diritto”! Personalmente io sono convinto che Pompeo, un giovane tanto glorioso, preferisca essere il primo cittadino con il vostro consenso, che complice del loro dispotismo, e in particolare che sarà il restauratore della potestà tribunizia. Ma in passato, cittadini, ognuno di voi aveva il suo presidio nella collettività, non la collettività nel singolo, e nessuno, da solo, poteva dare o togliere tali difese.
Ma si è parlato abbastanza; giacché non è la mancanza di informazioni che blocca la situazione. Ma vi ha invaso una specie di torpore, per cui non siete sensibili né alla gloria né all’infamia, e tutto voi avete lasciato perdere in cambio della presente apatia, pensando di avere sufficiente libertà, semplicemente perché non vi si spianano le costole e potete andare di qua e di là, grazie ai vostri ricchi padroni! Ma nelle campagne non hanno nemmeno questo: vengono massacrati in mezzo alle lotte dei potenti e vengono regalati ai magistrati perché se li portino nelle province44. E così si combatte e si vince a profitto di pochi; la plebe, qualunque cosa accada, è trattata da sconfitta, e lo sarà ogni giorno di più, finché quelli si terranno stretto il loro predominio più di quanto voi vogliate reclamare la vostra libertà.»
6. Lettera di Mitridate
«Re Mitridate45 saluta re Arsace46.
Tutti quelli che, in piena prosperità, vengono sollecitati ad un’alleanza di guerra, devono considerare se in quel momento sia possibile conservare la pace, poi, se ciò che ad essi si richiede sia moralmente ineccepibile, sicuro e glorioso, oppure disonorevole. Se a te è possibile godere di perpetua pace, se non hai scellerati nemici alle porte, se non ti dovesse venire straordinaria fama quando tu avessi schiacciato i Romani, io non oserei chiedere la tua alleanza, e invano spererei di confondere i miei mali con i tuoi beni. Ebbene, quegli elementi che sembra possano frenarti – il risentimento contro Tigrane47 per la recente guerra, e la mia situazione poco felice -, se vorrai valutarli realisticamente, più di ogni altro ti incoraggeranno. Quello, infatti, debole e malsicuro, accetterà qualunque alleanza tu possa volere; e a me la sorte, che pure mi ha strappato parecchie cose, ha dato l’esperienza a consigliare bene; per di più – ed è un elemento che dovrebbero augurarsi quelli che godono di prosperità – io, non più fortissimo, offro un esempio perché tu possa regolare meglio le tue cose.
Per i Romani l’unico e inveterato motivo per combattere contro tutti i popoli e le nazioni e i re, è la smisurata brama di dominio e di ricchezza. Spinti da essa, dapprima intrapresero una guerra contro Filippo re di Macedonia48 – ma fingevano per lui amicizia finché erano premuti dai Cartaginesi -; poi fraudolentemente staccarono da lui Antíoco49 che gli veniva in aiuto, con concessioni in Asia; subito dopo, piegato Filippo, Antíoco fu spogliato di tutto il territorio al di qua del Tauro e di diecimila talenti. Pèrseo50, poi, il figlio di Filippo, dopo molte e alterne lotte lo accolsero sotto la loro protezione dinanzi agli dèi di Samotracia; ma, astuti escogitatori di perfidie51, dato che, in base ai patti, gli avevano concesso la vita, lo fecero morire d’insonnia. Quell’Èumene52, la cui amicizia orgogliosamente ostentano, anzitutto lo consegnarono ad Antíoco, come prezzo della pace; e poi, tenendolo a custode del territorio conquistato, con le spese che gli imposero, e con gli oltraggi di cui lo coprirono, da re che era, lo resero il più miserabile degli schiavi; e, inventando un empio testamento53, trascinarono in un corteo trionfale suo figlio Aristonìco, perché reclamava il regno di suo padre. E occuparono l’Asia. Infine, morto Nicomède54, misero a sacco la Bitinia, sebbene ci fosse incontestabilmente un figlio natogli da Nisa, che egli aveva proclamato regina.
Perché citare me stesso? Separato dal loro impero, tutt’intorno, da regni e tetrarchie, poiché era noto che ero ricco e non mi sarei assoggettato, mi provocarono in guerra servendosi di Nicomède; ma io conoscevo bene la loro scelleratezza, e avevo predetto ciò che poi accadde, sia ai Cretesi55, in quel tempo gli unici liberi, sia al re Tolomeo56. E io, vendicando l’oltraggio, cacciai Nicomède dalla Bitinia e riconquistai l’Asia, spoglia del re Antíoco, e tolsi il pesante servaggio alla Grecia. Le mie iniziative furono però bloccate da Archelào57, il più miserabile dei servi, che tradì il mio esercito. E quelli che per viltà o per mal fondata astuzia si tennero fuori della guerra per starsene loro al sicuro a prezzo dei travagli miei, ora ne pagano durissima pena: Tolomeo, che solo a caro prezzo rinvia di giorno in giorno la guerra, e i Cretesi, che già sono stati attaccati una volta e che non vedranno la fine se non con il loro annientamento.
Quanto a me, poiché mi rendevo conto che, per i loro guai interni, mi era stata rinviata la lotta più che data la pace, contro il parere di Tigrane – che ora, troppo tardi, riconosce vero quanto io dicevo -, per quanto tu fossi molto lontano, e tutti gli altri fossero asserviti, pure ripresi la guerra: il generale romano Marco Cotta58, in terra lo sbaragliai a Calcèdone, e sul mare lo spogliai di una bellissima flotta. Quando, con un grosso esercito, ero impegnato nell’assedio di Cìzico59, e mi vennero a mancare i viveri, nessuno, lì intorno, mi dette aiuto; contemporaneamente, l’inverno escludeva dal mare. Per questo – non già costretto dalla forza del nemico -, mentre tentavo di rientrare nel patrio regno, per naufragi presso Paro ed Eraclea, perdetti, insieme con la flotta, i migliori soldati. Poi, dopo che ebbi ricostituito un esercito presso Cabìra, tra vari scontri fra me e Lucullo, fummo però colti entrambi dalla mancanza di viveri60. A lui restava il regno di Ariobarzane61, immune dalla guerra; io invece, poiché intorno a me tutto era devastato, mi ritirai in Armenia; e i Romani, seguendo, non me, ma la loro abitudine di distruggere tutti i regni, poiché, con l’angustia dei luoghi, impedirono alle grandi masse di combattere, vantano come vittoria loro l’imprudenza di Tigrane62.
Ora, ti prego, considera: una volta sopraffatti noi, ritieni di poter essere più forte per resistere o che abbia fine la guerra? So che hai grandi riserve di uomini, di armi e di denaro: per questo, mentre io ti cerco per un’alleanza, quelli invece per far di te bottino. Ebbene, il nostro piano è (poiché il regno di Tigrane è ancóra intatto), con i miei soldati, pratici di guerra, lontano dalla patria, con ben piccolo incomodo tuo, concludere la guerra rischiando le sole nostre persone; del resto, in essa non possiamo né vincere né essere vinti senza pericolo per te. Sai bene che i Romani, da quando l’Oceano ha fermato la loro marcia verso occidente, hanno dirottato qui le loro armi. E, fin dai loro inizi, non hanno altro se non quello che hanno arraffato con la forza: case, donne, terre, impero. Profughi un tempo senza patria, senza genitori, si organizzarono in Stato per la rovina del mondo, e non c’è legge umana né divina che li trattenga dal depredare e dal fare a brani gli alleati, gli amici, vicini o lontani che siano, deboli o potenti; e tutto ciò che non è ancóra loro schiavo, soprattutto i regni, considerano loro nemico. Ma pochi vogliono la libertà, in gran parte vogliono giusti padroni. E ai Romani noi siamo sospetti come rivali e come pronti a farci vìndici in futuro. E tu, che hai Seleucia63, la più grande delle città, e il regno di Persia, dalle gloriose ricchezze, che cosa ti attendi da loro, se non malafede nel presente, e guerra in avvenire? I Romani impugnano le armi contro tutti, e tanto più spietate contro quelli dalla cui sconfitta si ricava maggior bottino. Si sono fatti grandi osando, ingannando, seminando guerra dopo guerra. Con questo sistema annienteranno tutto, oppure periranno. E questa seconda alternativa non sarà difficile, se tu in Mesopotamia e noi in Armenia accerchiamo il loro esercito, privo di viveri, senza possibilità di aiuto, ma finora incolume grazie alla fortuna o alle nostre manchevolezze. E ti accompagnerà questa fama, di avere, partito in aiuto di grandi re, schiacciato i predoni di tutti i popoli. A far questo io ti esorto e ti sollecito, e a non preferire di rinviare la tua rovina a prezzo della rovina nostra, anziché riuscire vittorioso con la nostra alleanza.»