Libro tredicesimo
1. (55 d.C.) Il primo a morire nel nuovo principato fu Giunio Silano, per una trama ordita da Agrippina, all’insaputa di Nerone. Era proconsole d’Africa e certo non aveva provocato la propria rovina per il carattere prepotente, ché anzi era indolente e malvisto dagli imperatori precedenti, tanto che Caio Cesare lo aveva soprannominato «pecora d’oro»; ma Agrippina temeva che volesse vendicare la morte del fratello, L. Silano, voluta da lei; la spaventavano anche le critiche diffuse tra la gente, che sarebbe stato meglio mettere sul trono, anziché Nerone, appena uscito dall’infanzia e salito al potere con un delitto, un uomo avanti negli anni, nobile e, cosa che allora contava molto, discendente dei Cesari: Silano infatti era pronipote di Augusto. Fu questo il movente dell’assassinio, che fu compiuto da P. Celere, cavaliere romano e da Elio, un liberto, amministratore dei beni del principe in Asia. Essi versarono il veleno al proconsole durante un banchetto in modo troppo evidente per trarre in inganno; né fu meno sollecita la fine di Narcisso, liberto di Claudio, dei contrasti del quale con Agrippina ho già parlato. Questi fu spinto a togliersi la vita dalla durezza del carcere e dalla certezza della morte ineluttabile, contro la volontà del principe, i cui vizi ancora non erano palesi ed era molto congeniale con Narcisso per l’avidità e la prodigalità.
2. Certamente si sarebbe proceduto nella strage se non si fossero opposti Afranio Burro e Anneo Seneca: erano i precettori del giovane imperatore e, cosa rara in chi esercita un potere comune, andavano d’accordo, autorevoli alla stessa stregua, Burro nell’impartire istruzione militare e severità dei costumi, Seneca nell’insegnare l’oratoria e una dignitosa amabilità. Si aiutavano a vicenda per tenere a freno con piaceri leciti l’età del principe, che sarebbe stata pericolosa se avesse tenuto in spregio la virtù. Per l’uno come per l’altro era arduo contrapporsi all’indole violenta di Agrippina, accesa di tutte le brame d’un dominio iniquo, assecondata da un suo favorito, Pallante: era colui che aveva indotto Claudio alle nozze incestuose e alla funesta adozione. Ma Nerone non aveva il carattere di chi sottostà ai servi e Pallante, con la sua bieca arroganza, aveva oltrepassato i limiti della sua condizione di liberto e l’aveva irritato. Tuttavia, esteriormente, tributava ad Agrippina ogni onore e a un tribuno che, com’è l’uso, gli chiese la parola d’ordine, rispose: «Ottima madre». Il Senato inoltre le decretò due littori, la nominò sacerdotessa del divo Claudio, mentre a lui si dedicavano solenni onoranze pubbliche e, più tardi, l’apoteosi.
3. Il giorno delle esequie, il principe si levò a parlare; rammentò l’antica stirpe di lui, i consolati, i trionfi dei suoi antenati; parlò con grande compunzione, sua e di tutti gli altri; fu ascoltato con reverenza quando rievocò gli studi liberali del principe e il fatto che sotto il suo regno non si era verificato alcun danno allo Stato da parte dello straniero; ma quando passò a commemorare la sua previdenza e la sua saggezza, nessuno riuscì a trattenere le risa, benché l’orazione, composta da Seneca, presentasse molti pregi, conforme al suo stile elegante e adeguato agli ascoltatori del suo tempo. Le persone anziane, che sempre si compiacciono di paragonare il passato al presente, osservarono che, tra quanti avevano raggiunto il potere, Nerone era il primo ad aver bisogno dell’eloquenza altrui. Il dittatore Cesare, infatti, gareggiava con gli oratori più eccelsi; l’eloquenza di Augusto era stata rapida e fluida, come si conveniva ad un principe, Tiberio a sua volta eccelleva nell’arte di misurare le espressioni sia nella densità del contenuto sia in un’ambiguità voluta; anche a Caio Cesare la mente turbata non aveva tolto l’efficacia della parola; e Claudio, se parlava dopo essersi preparato, non mancava d’eleganza. Nerone fin dall’infanzia aveva dedicato l’ingegno vivace a interessi diversi: la pittura, la scultura, il canto, i cavalli, a volte la poesia, attività nelle quali dava prova d’un fondo di cultura.
4. Una volta terminata la commedia del dolore, Nerone si presentò nella Curia; sùbito parlò del consenso autorevole dei Padri e dell'acclamazione dei soldati, poi rammentò gli insegnamenti, gli esempi che aveva ricevuto per esercitare il potere nel modo migliore; la sua giovinezza, disse, non s’era formata tra guerre civili e discordie domestiche; non portava con sé odio né rancore né sete di vendetta. Indi tracciò lo schema del suo futuro governo, deplorando soprattutto quei mali di cui ardeva ancora il recente malcontento. Egli non avrebbe assunto il posto del giudice in tutte le cause, per evitare che prevalesse la prepotenza di pochi, come avviene quando accusatori e accusati appartengono alla stessa casa; venalità, intrighi non sarebbero entrati nella sua casa, la corte sarebbe stata nettamente distinta dallo Stato. Il Senato avrebbe conservato le sue funzioni tradizionali; l’Italia, le province si presentassero pure al tribunale dei consoli: sarebbero stati loro ad aprire la via al Senato. Egli, dal canto suo, si sarebbe preso cura dell’esercito, che gli era affidato.
5. Né venne meno a quanto aveva detto: molte deliberazioni furono prese secondo la volontà del Senato: che nessuno fosse comprato con denaro o con doni per difendere una causa; che i questori designati non avessero l’obbligo di allestire incontri di gladiatori – tutte cose che i senatori ottennero, ad onta delle proteste di Agrippina, la quale sosteneva che a questo modo venivano sovvertite le disposizioni di Claudio. I senatori furono convocati a palazzo in modo che ella potesse assistere alle sedute, nascosta da una tenda, dietro un’apertura praticata alle spalle dell’imperatore, in modo che udisse senza esser vista. E quando vennero i delegati degli Armeni a perorare la causa del loro popolo al cospetto di Nerone, ella era già pronta per salire sul podio a fianco dell’imperatore e presiedere la seduta; gli altri erano tutti paralizzati dalla paura, ma Seneca consigliò a Nerone di muovere incontro alla madre che si stava avvicinando; così, dietro l’apparenza d’un atto di rispetto filiale, fu evitata una scena indecorosa.
6. Alla fine dell’anno giunsero notizie confuse che i Parti ancora una volta s’erano avventati sull’Armenia, l’avevano occupata, dopo averne espulso Radamisto, il quale più volte s’era impadronito di quel regno e poi ne era fuggito; e anche questa volta s’era ritirato dalla guerra. Nell’Urbe, avida di voci, ci si chiedeva come sarebbe riuscito ad affrontare un’impresa di quell’entità o ad evitarla un principe appena diciassettenne, quale protezione si potesse avere da chi si faceva guidare da una donna, ancora se le battaglie, l’espugnazione delle città, infine le operazioni militari sarebbero state eseguite attraverso i precettori. Altri invece asserivano che era meglio così che se fosse stato chiamato alle fatiche della guerra Claudio, inabile per l’età e per l’indolenza e incline a ottemperare agli ordini dei servi. Burro e Seneca erano noti per la loro esperienza in vari campi, e infine quanto mancava all’imperatore per essere valido se Pompeo a diciott’anni, Ottaviano a diciannove avevano guidato le guerre civili. Chi si trova al vertice del potere si conduce meglio con gli auspici e con i consigli che con le braccia. Il principe avrebbe dato prova se sapeva valersi di amici rispettabili o no, se sceglieva un comandante di valore, lasciando da parte ogni gelosia, anziché uno ricco, sostenuto da raccomandazioni, a caccia di onori.
7. Mentre correvano queste voci e altre simili, Nerone dispone che una leva di giovani arruolati nelle province siano inviati a rinforzo delle legioni di stanza in Oriente e che le legioni stesse si spostino più vicino all’Armenia; ai due vecchi re, Agrippa e Antioco1, ordina che tengano le truppe sul piede di guerra, pronte a penetrare entro i confini dei Parti e al tempo stesso gettino ponti sull’Eufrate; affida l’Armenia Minore ad Aristobulo e la regione di Sofene a Soemo, con le insegne regali. Opportunamente il figlio Vardane si presentò come rivale di Vologeso e i Parti si ritirarono dall’Armenia, come se fossero intenzionati a rinviare la guerra.
8. In Senato tutti questi avvenimenti furono celebrati oltre misura in seguito alle proposte di coloro che votarono suppliche agli dèi e proposero che, nei giorni di quelle cerimonie, Nerone indossasse la veste trionfale ed entrasse nell’Urbe salutato dall’ovazione e una statua di lui, di dimensione eguale a quella di Marte Ultore, fosse collocata nel tempio del dio2. A prescindere dall’adulazione consueta, essi si rallegravano che avesse posto Corbulone al governo dell’Armenia e sembrava che fosse aperta la via al merito. Le forze dell’Oriente furono suddivise come segue: una parte degli ausiliari, con due legioni, sarebbe rimasta in Siria, al comando del legato Quadrato Ummidio; a Corbulone spettava lo stesso numero di cittadini e di alleati e inoltre le coorti e le ali di cavalleria che svernavano in Cappadocia. I sovrani alleati ricevettero l’ordine di obbedire, a seconda delle esigenze della guerra; ma le loro simpatie erano rivolte di preferenza a Corbulone. Questi volle provvedere sùbito alla sua fama, cosa molto importante agli inizi delle operazioni, e si mise sùbito in viaggio verso Egea, città della Cilicia. Qui trovò a incontrarlo Quadrato, che s’era spinto fin lì per evitare che Corbulone per la consegna delle truppe entrasse in Siria, attirando su di sé l’attenzione di tutti, aitante com’era, ottimo oratore e, oltre all’esperienza e alla cultura, molto attraente.
9. L’uno e l’altro per mezzo di messaggeri esortavano il re Vologese a preferire la pace alla guerra e, con la consegna di ostaggi, dar prova della sua immutata reverenza verso il popolo romano. Vologese, sia per preparare la guerra a suo agio, sia per togliersi di torno, sotto il nome di ostaggi, alcuni che sospettava gli fossero rivali, inviò a Roma i più nobili della famiglia degli Arsacidi. Li ricevette il centurione Insteio, inviato da Ummidio, che per caso aveva avuto un abboccamento con il re sull’argomento. Quando Corbulone ne fu informato ordinò al prefetto della coorte, Arrio Varo, di farsi consegnare gli ostaggi. Ne seguì un dissidio tra il prefetto e il centurione e, per evitare che si protraesse agli occhi degli stranieri lo spettacolo della contesa, il giudizio sulla questione fu deferito agli ostaggi stessi e ai legati che li scortavano. E quelli scelsero Corbulone, sia per il recente successo, sia per l’attrazione che esercitava anche sui nemici. Ne derivò malumore tra i comandanti, Ummidio si dolse che gli fosse sottratto quanto aveva ottenuto con i suoi suggerimenti, Corbulone al contrario affermava che il re s’era piegato a offrire ostaggi dopo la sua nomina a comandante nella guerra, quando le sue speranze s’erano trasformate in timori. Al fine di comporre il dissidio, Nerone ordinò la seguente comunicazione: per le felici imprese di Quadrato e Corbulone ai fasci imperiali si sarebbe aggiunto un ramo d’alloro3. Ho riunito qui tutti questi avvenimenti, benché si siano svolti sotto altri consoli.
10. L’anno stesso, Nerone chiese al Senato che fosse eretta una statua a suo padre, Cn. Domizio, e venissero consegnate le insegne consolari ad Asconio Labeone, che era stato suo tutore; ma non volle che a lui fossero dedicate statue d’argento e d’oro massiccio, rifiutandole a coloro che gliele offrivano. E benché i senatori avessero espresso il parere che l’anno incominciasse con il mese di dicembre, mese in cui era nato Nerone, egli conservò il rito vetusto e volle che l’anno avesse inizio alle Calende di gennaio. Né furono processati Carrinate Celere, denunciato da uno schiavo, né Giulio Denso, cavaliere romano, imputato d’aver espresso le sue preferenze per Britannico.
11. Sotto il consolato di Claudio Nerone e di L. Antistio, mentre i magistrati giuravano sugli atti degli imperatori, egli si oppose a che il collega giurasse sui suoi; cosa di cui i Padri gli tributarono alti elogi, nella speranza che l’animo giovanile, stimolato dalla gloria di ancor lievi azioni, proseguisse a compierne di più grandi. Compì poi un gesto di clemenza verso Plauzio Laterano, volle che fosse riammesso nell’ordine senatorio, dal quale era stato rimosso per adulterio con Messalina, impegnandosi alla clemenza con frequenti discorsi che Seneca rendeva noti attraverso la voce stessa del principe, sia per dimostrare i sani insegnamenti che gli impartiva sia per vantare il proprio ingegno.
12. Intanto poco a poco il potere della madre andava scemando, poiché Nerone s’era abbassato ad amare una liberta di nome Atte, e aveva preso come suoi confidenti due graziosi giovani, M. Otone e Giunio Senecione, il primo di famiglia consolare, il secondo figlio d’un liberto di Cesare. Dapprima all’insaputa della madre, poi ad onta della sua vana opposizione, Atte era penetrata a fondo nell’animo del giovane con torbide lussurie. Gli amici anziani del principe non si opponevano, poiché quella piccola donna appagava la sensualità del giovane senza far male a nessuno; egli poi, per volontà del fato o perché sempre piacciono di più le cose illecite, detestava la sposa Ottavia, che era nobile e di specchiata castità. Si temeva che, se gli fosse stata vietata quella passione dei sensi, sarebbe precipitato in rapporti adulterini con matrone di famiglie illustri.
13. Agrippina fremeva di sdegno all’idea d’avere per rivale una liberta, per nuora un’ancella e non riusciva ad aspettare che il figlio provasse pentimento o sazietà. Quanto più lo rimproverava per le sue turpitudini tanto più lo eccitava, fino a che il giovane, travolto dalla passione, lasciò andare il rispetto per la madre e si affidò a Seneca. Un amico del quale, Anneo Sereno, fingendosi innamorato della stessa liberta, si prestò a fare da schermo ai desideri del giovinetto, offrì il suo nome, in modo che i doni segretamente offerti dal principe alla donna sembrassero suoi. Agrippina allora cambiò tattica e incominciò a circuire il giovane con le lusinghe, gli offrì la sua camera, la sua protezione per tenere nascoste quelle brame che l’età giovanile e la posizione eccelsa esigevano. Riconobbe anzi che la sua severità era stata inopportuna e gli cedeva parte delle sue ricchezze, non molto diverse da quelle dell’imperatore; sì che quella che poco prima aveva ecceduto nel rigore ora esagerava nell’indulgenza. Questo cambiamento non trasse in inganno Nerone; i più intimi dei suoi amici, insospettiti, lo consigliavano di stare in guardia contro le insidie d’una donna che era stata sempre aspra e ora era anche ingannatrice. In quei giorni si dette il caso che l’imperatore esaminasse i gioielli con i quali si erano adornate le spose e le madri dei principi; scelse un abito e alcune gemme e le mandò in dono alla madre, con grande generosità, poiché le offriva spontaneamente oggetti di pregio e desiderati da molte altre donne. Ma Agrippina rispose che con quegli oggetti non si arricchiva la sua acconciatura, ma si voleva tenerla lontana da tutto il resto e allontanarle il figlio, che tutto ciò che aveva lo doveva a lei.
14. Non mancarono persone che dettero un’interpretazione malevola di questi avvenimenti. Nerone, che detestava chi assecondava la prepotenza della madre, rimosse Pallante dall’amministrazione del patrimonio, carica di cui l’aveva investito Claudio e che ne faceva quasi l’arbitro del regno; si disse che mentre Pallante se ne andava, seguito da una folla di parassiti, Nerone con molto spirito abbia commentato che Pallante si recava a prestare il giuramento di chi esce da una carica. In realtà, Pallante aveva ottenuto il patto che non sarebbe stato mai inquisito su la sua gestione del passato e che i suoi conti con lo Stato erano saldati.
Dopo questi fatti, Agrippina si lasciò andare a proferire tremende minacce, senza curarsi di farsi sentire dall'imperatore; dichiarava che ormai Britannico era un uomo, che il vero erede era lui e degno di assumere la successione paterna dell’impero, mentre lo occupava un figlio adottivo, un intruso, per gli intrighi della madre. Non si sarebbe nemmeno opposta, diceva, a che venissero alla luce tutte le malefatte di quella famiglia sciagurata, a cominciare dalle sue nozze, dal veleno somministrato al marito. A lei e agli dèi si doveva una cosa sola, che il figliastro vivesse ancora. Si sarebbe recata insieme a lui nelle caserme: là si sarebbe udita la figlia di Germanico, qua invece il mutilato Burro, l’esiliato Seneca, l’uno con il suo moncherino, l’altro con il suo eloquio da professore, pretendere il governo del genere umano!
Mentre così parlava, levava le braccia al cielo, scagliava invettive, invocava il divinizzato Claudio e dagli Inferi i Mani dei Silani e i tanti delitti commessi invano.
15. Nerone rimase turbato da quelle grida e dal fatto che s’avvicinava il giorno in cui Britannico avrebbe compiuto quattordici anni; meditava tra sé ora sul furore della madre, ora sull’indole del giovinetto, che s’era rivelata in un episodio recente, insignificante, tale tuttavia da far intendere quante simpatie si fosse conquistato. Nei giorni festivi dei Saturnali, tra gli altri giochi dei ragazzi, si tirò a sorte chi fosse il re della serata, e la nomina cadde su Nerone. Egli allora ordinò ai presenti pegni vari, ma non tali da arrossire; ma quando fu la volta di Britannico, gli impose di alzarsi, di avanzare al centro della sala e mettersi a cantare. Contava così di mettere alla berlina quel fanciullo inesperto non solo di banchetti da ubriaconi ma anche di quelli sobrii. Ma il giovinetto senza vergognarsi si mise a recitare un carme, nel quale si narrava la sua espulsione dal trono paterno e dal potere supremo; si levò allora un coro di commiserazioni, tanto più esplicite in quanto la licenza notturna aveva abolito la simulazione. Nerone si rese conto del malanimo che aveva suscitato e sentì aumentare in sé l’odio; era, al tempo stesso, assillato dalle minacce di Agrippina, e non osava imputare alcun delitto al fratello né ordinare apertamente che fosse ucciso. Concepì allora un piano segreto e fece preparare un veleno. Fu suo complice Giulio Pollione, tribuno della coorte dei pretoriani, il quale aveva la mansione di tenere sotto sorveglianza Locusta, condannata per veneficio e nota per molti delitti. S’era provveduto da tempo che tutti coloro che erano vicini a Britannico non avessero nozione alcuna della legge né della fedeltà. La prima volta gli fu somministrato il veleno dai suoi stessi pedagoghi; ma con un’evacuazione intestinale se ne liberò, sia che fosse poco efficace, sia che l’avessero diluito affinché non avesse effetto immediato. Ma Nerone, impaziente perché l’assassinio era troppo lento, si mise a coprire di minacce il tribuno, a ordinare il supplizio per l’avvelenatrice; perché, diceva, mentre loro si preoccupavano delle dicerie e si preparavano una difesa, ritardavano a lui la sicurezza. Quelli allora gli assicurarono una morte subitanea quanto lo sarebbe una pugnalata e nelle stanze di Cesare fu manipolato un veleno composto di sostanze note per il loro rapido effetto.
16. Era costume che i figli dei principi sedessero a mensa con altri nobili della stessa età sotto gli occhi dei genitori, a una tavola separata e apparecchiata più sobriamente. Qui sedeva Britannico e un servo scelto tra i suoi famigli assaggiava cibi e vivande prima di lui. Per non sospendere questa abitudine e non far scoprire il delitto se morivano in due, fu escogitato questo inganno. Fu servita a Britannico una bevanda inoffensiva ma bollente, già assaggiata in precedenza; egli la rifiutò perché troppo calda e allora la si allungò con acqua fredda, nella quale era stato diluito il veleno. Sùbito si diffuse per le membra e nello stesso istante gli venne meno la voce e la vita. I commensali furono colti da tremore, gli ignari si dettero alla fuga, ma quelli che ne sapevano di più rimasero immoti, lo sguardo fisso su Nerone. Questi rimase disteso, con l’aria di non saper nulla e disse che si trattava d’un attacco di epilessia, di cui Britannico soffriva fin da bambino e che poco a poco avrebbe recuperato la vista e i sensi; ma il terrore, la costernazione di Agrippina si dipinsero sul suo volto, benché si controllasse, e fu evidente che ella era del tutto all’oscuro del fatto, come del resto Ottavia, la sorella di Britannico: infatti si vedeva strappare la sua ultima risorsa e in quel momento ebbe l’intuizione del matricidio. Anche Ottavia, benché ancora tanto giovane, ormai aveva imparato a nascondere il dolore, l’affetto, ogni sentimento. Così, dopo un breve silenzio, riprese Fallegria del banchetto.
17. Una stessa notte bastò alla morte e al rogo di Britannico e un funerale modesto, già predisposto. Tuttavia fu sepolto nel Campo Marzio4 sotto una pioggia così insistente che il popolo ritenne fosse un segno dell'ira degli dèi contro il delitto. Eppure i più lo giustificavano, poiché riflettevano che è sempre esistita la discordia tra fratelli e che è impossibile dividere il potere. Gli scrittori del tempo per la maggior parte narrano che nei giorni precedenti l’assassinio Nerone avesse abusato della fanciullezza di Britannico, sì che la sua morte non può apparire né prematura né crudele: avvenne nella santità della mensa, senza che fosse concesso alle sorelle il tempo per un abbraccio, sotto gli occhi del suo rivale; una morte rapidamente inflitta all’ultimo del sangue dei Claudi, contaminato dallo stupro prima che dal veleno. Con un editto Cesare giustificò la fretta del funerale, rifacendosi a un antico costume, secondo il quale si sottraevano alla vista le morti immature e non si prolungava la cerimonia né con elogi né con cortei. Quanto a lui, privato dell’aiuto del fratello, altro non restava che riporre le sue speranze nel Senato e nel popolo, che tanto più avrebbero dovuto dimostrare il loro affetto a un principe rimasto solo superstite d’una famiglia nata per i più alti destini.
18. Seguì una largizione di doni, con i quali arricchì i più importanti tra gli amici. E non mancarono critiche verso quegli uomini, che si dichiaravano tanto austeri e in quell’occasione si divisero case e ville quasi fossero preda bellica. Altri ritennero che il principe li avesse obbligati ad accettare, perché, consapevole del proprio delitto, sperava d’esser perdonato, vincolando a sé con i doni i personaggi più influenti.
Ma non v’era munificenza che valesse a placare la madre, la quale non faceva che tenere stretta Ottavia, teneva frequenti conciliaboli segreti con gli amici, andava ramazzando denaro da ogni parte al di là dell’avidità innata, come avesse bisogno d’aiuto e riceveva affabilmente tribuni e centurioni, onorava il nome e i meriti dei nobili che ancora erano superstiti, quasi cercasse un capo per un partito. Come Nerone ne fu informato, ordinò che fossero esonerate dal servizio le scorte militari che un tempo erano riservate alla consorte dell’imperatore, ora alla madre, nonché le guardie germaniche che erano state aggiunte recentemente in suo onore. Inoltre, per impedire che avesse rapporti con la folla che accorreva a fargli omaggio, separò la residenza della madre e la trasferì in quella che era stata di Antonia; e tutte le volte che vi si recava, si faceva accompagnare da una turba di centurioni e dopo un bacio in fretta andava via.
19. Non c’è cosa tanto instabile e passeggera a questo mondo quanto la reputazione d’un potere che si fonda su forze non sue. Sùbito la casa di Agrippina fu abbandonata: nessuno andava a consolarla, nessuno a farle visita, tranne poche donne, mosse da affetto o forse da odio. C’era tra queste Giunia Silana, che, come ho già detto, Messalina aveva allontanata dal vincolo matrimoniale con Silio, una donna notevole per la stirpe, la bellezza e la sensualità; a lungo era stata diletta da Agrippina, poi invece nemica per segrete offese tra di loro, forse perché Agrippina aveva dissuaso dallo sposarla un giovane nobile, Sestio Africano, ripetendogli che era spudorata e ormai avanti negli anni; e lo fece non per riserbarsi Africano, ma onde evitare che un marito s’impadronisse delle ricchezze di Silana, che non aveva eredi. Questa, nel vedersi offrire una speranza di vendetta, andava preparando gli accusatori tra i suoi clienti, un certo Iturio e Calvisio, non riferendosi a fatti di vecchia data e troppo spesso uditi, cioè che Agrippina piangeva Britannico e metteva in piazza i torti fatti da Nerone a Ottavia, ma che aveva deciso di elevare Rubellio Plauto, che per parte materna discendeva da Augusto né più né meno di Nerone5 e sposandolo tornare ad essere padrona dello Stato. Iturio e Calvisio rivelarono queste cose ad Atimeto, liberto di Domizia, zia di Nerone6 e questi, ben contento dell’occasione che gli si offriva, dato che la rivalità tra Agrippina e Domizia era sempre violenta, indusse l’istrione Paride, a sua volta liberto di Domizia, a denunciare il fatto con i colori più foschi.
20. Era notte tarda ormai e per Nerone, appesantito dal vino, si trascinava, quand’ecco entra Paride, che a quell’ora era solito eccitare la lussuria dell’imperatore. Quella sera però il suo volto esprimeva mestizia, e come espose ordinatamente la denunzia, gettò nel terrore l’ascoltatore a tal punto che si propose non soltanto di sopprimere la madre e Plauto, ma anche di rimuovere dalla prefettura Burro, poiché era stato investito di quella carica per il favore di Agrippina e voleva renderle la pariglia. Fabio Rustico7 afferma che furono scritte lettere a Cecina Tusco per conferirgli il comando delle coorti pretoriane, ma che, a seguito dell’intervento di Seneca, a Burro fu mantenuta la carica. Plinio e Cluvio8 riferiscono che la fedeltà del prefetto non fu messa in dubbio, Fabio invero è incline a elogiare Seneca, all’amicizia del quale doveva la propria posizione. Noi intendiamo di attenerci all’opinione degli scrittori se è concorde, ma se hanno tramandato notizie contrastanti, le riferiremo citando i nomi degli autori. Nerone, atterrito e impaziente di sopprimere la madre, consentì a rinviare l’esecuzione, che Burro gli prometteva, fino a che fosse provata la sua colpevolezza; a chiunque, egli disse e tanto più alla madre, dev’esser concessa la possibilità di difendersi; e non s’erano presentati accusatori ma era stata riferita la parola d’un uomo solo, che veniva da una casa ostile. Considerasse che era buio fitto e che aveva trascorso la notte a veglia banchettando, tutti fattori propizi ad azioni temerarie e avventate.
21. Così fu attenuata la paura di Nerone e appena spuntò l’alba si va a casa di Agrippina affinché sia informata delle imputazioni e possa confutarle o scontare la pena. Toccava a Burro adempiere a tale compito, alla presenza di Seneca; erano presenti anche alcuni liberti per controllare il colloquio. Burro, una volta esposte le accuse e il nome degli accusatori, passò alle minacce. Agrippina allora, non dimentica della sua fierezza: «Non mi meraviglio» disse «che Silana, che non ha avuto figli, non conosca il sentire d’una madre; e non sappia che i figli non si cambiano, come una donna di facili costumi cambia gli amanti. Se Iturio e Calvisio, dissipato ogni loro avere, vendono a una vecchia l’ultimo servizio, quello di assumere una denuncia, non per questo su di me dovrà cadere l’infamia e su Cesare il peso d’un matricidio. Sarei grata a Domizia del suo astio, se mi fosse rivale nell’affetto per il mio Nerone; ma al contrario, servendosi del suo concubino Atimeto e dell’istrione Paride, ha montato una vera farsa. Essa pensava solo a ingrandire le sue piscine di Baia mentre io con la mia sagacia preparavo a Nerone l’adozione, il potere proconsolare, la designazione al consolato e tutto ciò che serviva per raggiungere l’impero. C’è forse qualcuno che possa accusarmi d’aver cercato di corrompere le coorti urbane, d’aver fatto vacillare la fedeltà delle province, infine d’aver corrotto schiavi e liberti per indurli al delitto? Avrei potuto vivere se Britannico fosse stato al potere? E se Plauto e qualcun altro, ottenuto il governo, mi avesse sottoposto a giudizio, sarebbero mancati forse accusatori per imputarmi non qualche frase sfuggita imprudentemente nell’impazienza dell’amore, ma delitti tali che solo da un figlio potrei esserne assolta?». Mentre i presenti, commossi, cercavano di placare il suo sdegno, chiese un colloquio con il figlio, durante il quale non fece una parola sulla sua innocenza, quasi ne dubitasse, né sulle sue benemerenze, come se volesse rinfacciargliele, ma ottenne vendetta contro gli accusatori e compensi per i suoi amici.
22. La prefettura dell’Annona fu affidata a Fenio Rufo, quella dei giochi che Nerone stava allestendo ad Arrunzio Stella; l’Egitto a Claudio Balbillo, la Siria fu destinata a P. Anteio, il quale però, ingannato con vari pretesti, finì per esser trattenuto nell’Urbe. Ma Silana fu condannata all'esilio, Calvisio e Iturio relegati, Atimeto subì il supplizio, ma non Paride: era troppo importante per i piaceri del principe; di Plauto, sul momento, non si parlò.
23. In seguito Pallante e Burro furono imputati d’aver congiurato affinché fosse messo sul trono Cornelio Silla, perché di nobile stirpe e parente di Claudio, dato che, avendo sposato Antonia, era suo genero. L’accusa fu formulata da un certo Peto, famigerato per le confische erariali; in questo caso, palesemente mentitore. Nerone però non fu lieto dell’innocenza di Pallante quanto infastidito dalla sua superbia; infatti, quando furono nominati i suoi liberti, che avrebbe avuto complici, rispose che in casa sua non s’era mai rivolto a costoro se non con cenni del capo o della mano oppure, se erano necessarie spiegazioni più ampie, ricorreva alla scrittura, per non rivolger loro la parola. Burro, benché imputato, diede il proprio voto tra i giudici. L’accusatore fu condannato all’esilio e furono date alle fiamme le tavole sulle quali egli riaccendeva i crediti erariali ormai obliterati.
24. (55 d.C.) Alla fine dell’anno, la coorte che soleva assistere ai giochi fu rimossa, affinché vi fosse maggior apparenza di libertà, e affinché i soldati, non coinvolti nei disordini del teatro, osservassero la disciplina; la plebe inoltre avrebbe dato prova di saper conservare la misura anche senza sorveglianza. Conformemente al responso degli aruspici, il principe purificò l’Urbe perché i templi di Giove e di Minerva erano stati colpiti dal fulmine.
25. Sotto il consolato di Q. Volusio e P. Scipione, si ebbe pace all’esterno, mentre in patria turpe disordine: Nerone soleva aggirarsi per i lupanari e i mercati travestito da servo per non farsi riconoscere, accompagnato da uomini che saccheggiavano le merci esposte e ferivano quanti incontravano alla cieca, tanto che lui pure buscò qualche colpo e ne riportò i segni sul viso. Di conseguenza, quando si seppe che era lui a compiere quelle prepotenze, aumentarono gli atti di violenza ai danni di uomini e donne insigni; e alcuni, dato che era permesso ogni eccesso sotto il nome di Nerone, con gruppi propri si davano impunemente alle stesse imprese, sì che si trascorreva la notte come se si fosse nelle mani del nemico; Giulio Montano, dell’ordine senatorio, non ancora però insignito di alcuna carica, scontratosi per caso nell’oscurità con il principe, respinse con forza la sua aggressione, indi, avendolo riconosciuto, gli chiese scusa; ma fu costretto a morire, come se lo avesse insultato. Nerone però in seguito divenne più cauto e si circondò di molti militari e gladiatori, i quali dovevano permettere che scoppiassero risse moderate, quasi fossero questioni private; ma se i feriti reagivano con vigore, dovevano dar di piglio alle armi. Con l’impunità e con i premi fece sì che i dissidi tra i sostenitori degli istrioni degenerassero in veri e propri combattimenti; vi assisteva egli stesso, a volte di nascosto ma il più delle volte apertamente; fino a che le risse tra gli spettatori e il terrore di più gravi disordini arrivarono a tal punto che l’unico rimedio fu l’espulsione degli istrioni dall’Italia e il ripristino della sorveglianza armata in teatro.
26. Nello stesso periodo in Senato si discusse sul malcostume dei liberti. Molti proposero con insistenza che fosse concessa ai padroni la facoltà di revocare la libertà a coloro che avevano dato prova di non meritarla. Né mancarono sostenitori di questo provvedimento. Ma i consoli non osarono prendere l’iniziativa all’insaputa dell’imperatore; tuttavia gli comunicarono per iscritto il parere favorevole del Senato. Nerone dal canto suo era incerto se farsi promotore di questo provvedimento, trovandosi tra pochi e di pareri contrastanti; alcuni erano indignati, perché i liberti con irriverenza aumentata dalla libertà si spingevano al punto da trattare i padroni con violenza come se avessero pari diritti, discutevano il loro parere, alzavano le mani per primi su di loro, e senza ritegno consigliavano essi stessi il proprio castigo. Al padrone offeso quale altra punizione era permessa se non quella di relegare il liberto a cento miglia da Roma, sulle spiagge della Campania? Le altre misure giudiziarie erano senza distinzione alcuna e il diritto era pari; bisognava che ai padroni fosse riconosciuto qualche mezzo di coercizione tale che non si potesse tenere in dispregio. A coloro che avevano raggiunto la condizione di liberi non doveva dispiacere conservare quello stesso atteggiamento reverente con il quale l’avevano ottenuta; ma era giusto far recedere alla condizione di schiavi, sì che la paura li tenesse a freno, quelli che il beneficio non aveva reso migliori.
27. Ma c’era chi si opponeva: la colpa di pochi, dicevano, doveva danneggiare soltanto loro e non bisognava menomare i diritti di tutti, dato che ormai quella categoria sociale era così largamente diffusa. Da essa per lo più si reclutavano le tribù, le decurie, i dipendenti dei magistrati e dei sacerdoti, e anche le coorti reclutate nell’Urbe; moltissimi cavalieri e la maggior parte dei senatori non avevano altra origine; se si fossero isolati i liberti, sarebbe apparsa evidente la scarsità di uomini nati liberi. Non invano i nostri maggiori, quando avevano separato la dignità delle classi, avevano posto la libertà tra le cose comuni a tutti; anzi, avevano stabilito due stadii di manumissioni, per lasciare la possibilità di pentirsi o di rinnovare il beneficio. Quelli che non erano stati liberati con il tocco della verga, rimanevano quasi legati da un vincolo di servitù9. Ciascuno consideri attentamente i meriti e vada cauto nel concedere ciò che una volta dato non si può ritogliere. Fu approvata questa sentenza e Cesare scrisse al Senato che esaminasse caso per caso la causa dei liberti tutte le volte che fossero accusati dai padroni; ma non procedesse a deroghe secondo un ordine generale. Non molto tempo dopo alla zia di Cesare fu tolto il liberto Paride, non senza vergogna per il principe, per ordine del quale era stato emanato il decreto della sua libertà.
28. Perdurava tuttavia una parvenza della repubblica: era scoppiato un diverbio tra il pretore Vibullio e il tribuno della plebe Antistio, perché quest’ultimo aveva fatto rilasciare certi insolenti sostenitori di istrioni di cui il pretore aveva ordinato l’arresto. I Padri lo approvarono e fu biasimato l’ordine di Antistio. Al tempo stesso ai tribuni fu vietato di usurpare il diritto dei pretori e dei consoli e di citare imputati dall’Italia, contro i quali procedere legalmente10. L. Pisone, console designato, aggiunse che non potessero esercitare le loro funzioni in casa propria e che i questori dell’erario non registrassero una multa inflitta da loro se non dopo quattro mesi; entro questo lasso di tempo era lecito opporsi e i consoli avrebbero giudicato. Fu anche molto ristretta la potestà degli edili e fu precisato quanto avessero facoltà di pretendere come cauzione gli edili curuli, quanto quelli della plebe e quanto imporre di multa. Elvidio Prisco, tribuno della plebe, rivolse la propria ostilità contro il questore dell’erario, Obultronio Sabino, per aver aumentato a danno dei non abbienti il diritto di sequestro. In seguito il principe trasferì dai questori ai prefetti la gestione del tesoro.
29. La gestione di questo ramo dell’amministrazione subì molte modifiche e spesso fu trasformata. Augusto affidò al Senato la scelta dei prefetti. In seguito, per il sospetto di brogli elettorali, furono tirati a sorte dal numero dei pretori coloro che dovevano soprintendere. Ma nemmeno questo provvedimento durò a lungo, poiché la sorte a volte cadeva su uomini non idonei. Claudio allora tornò a imporre la carica ai questori e per evitare che si comportassero senza fermezza onde sfuggire a malumori, promise loro cariche al di là della gerarchia; ma a quelli che assumevano per prima quella carica mancava l’autorità dell’età. Quindi Nerone scelse ex pretori di provata esperienza.
30. (56 d.C.) Sotto gli stessi consoli Vipsanio Lena fu condannato per aver amministrato con avidità la provincia di Sardegna; mentre fu assolto Cestio Proculo, accusato di concussione dai Cretesi. Clodio Quirinale, comandante della flotta di stanza a Ravenna, reo d’aver oppresso l’Italia, quasi fosse l’ultima delle nazioni, con la sua dissolutezza e crudeltà, prevenne la condanna con il veleno. Caninio Rebulo, tra i primi per dottrina giuridica e per il patrimonio, si sottrasse alle sofferenze d’una vecchiaia cagionevole aprendosi le vene, né lo si sarebbe ritenuto capace di darsi la morte perché aveva fama di depravato. Morì invece un uomo di grande rinomanza, L. Volusio, che, vissuto novantatré anni, aveva accumulato ingenti ricchezze onestamente e ^fu benvisto senza uno screzio da tanti imperatori.
31. (57 d.C.) Durante il secondo consolato di Nerone e L. Pisone, avvennero pochi fatti degni d’esser ricordati, a meno che si vogliano celebrare le fondamenta e le travi con le quali l’imperatore fece costruire l’anfiteatro in Campo Marzio, mentre per la dignità del popolo romano tali notizie si suole affidarle agli atti diurni11 della città, agli annali soltanto gli avvenimenti importanti. Fu rafforzata con raggiunta di veterani la guarnigione di Capua e quella di Nocera, fu distribuita alla plebe una donazione di 400 sesterzi a testa, e quaranta milioni di sesterzi furono versati all’erario, per mantenere la fiducia. Fu anche abolita la tassa del venticinque per cento sulla vendita degli schiavi, un beneficio più apparente che reale, perché, essendo obbligato a versare la somma, il venditore aumentava di altrettanto il prezzo al compratore. L’imperatore inoltre emanò un editto nel quale si proibiva a qualsiasi magistrato o procuratore di offrire spettacoli di gladiatori o di belve o qualunque altra rappresentazione nella provincia sulla quale governava. In precedenza infatti con queste manifestazioni essi procuravano ai sudditi danni non minori che estorcendo denaro, perché cercavano di nascondere, attraverso una popolarità illecitamente sollecitata, le loro dissolutezze.
32. Fu anche emesso dal Senato un decreto, al fine di vendetta e di tutela, secondo il quale se qualcuno veniva ucciso dai propri schiavi, anche quelli che per testamento erano stati liberati ma abitavano ancora sotto lo stesso tetto, avrebbero dovuto subire la stessa pena degli schiavi. Venne riammesso nell’ordine Lurio Varo, già colpito dall’accusa di lucro. Pomponia Grecina, donna di nobile famiglia, sposa di Plauzio, del quale ho riferito che ricevette l’ovazione per la vittoria sui Britanni12, rea di appartenere a una religione straniera, fu deferita al giudizio del marito; e questi, conformemente all’uso antico, alla presenza dei parenti, riferì sulla vita e l’onore di lei e la dichiarò innocente. Pomponia visse a lungo, immersa sempre nella malinconia; infatti dopo che Giulia, figlia di Druso, fu uccisa a seguito di trame di Messalina, per quarantanni non depose il lutto né la mestizia dell’animo; sotto l’impero di Claudio la cosa non fu considerata un reato, in seguito divenne un titolo di gloria.
33. Nello stesso anno vi furono molte imputazioni: P. Celere fu accusato dalla provincia d’Asia. E l’imperatore, non potendo assolverlo, tirò il processo per le lunghe, fino a che l’imputato morì di vecchiaia; Celere infatti aveva ucciso il proconsole Silano e la gravità di quel delitto copriva tutti gli altri reati. Cossuziano Capitone fu denunciato dai Cilicii: macchiato d’ogni turpitudine, aveva ritenuto di poter applicare nella provincia la stessa legge di arroganza che aveva usato a Roma; ma, messo alle strette da un’accusa tenace, finì per rinunciare a difendersi e fu condannato per concussione. Quanto a Eprio Marcello, dal quale i Licii pretendevano la restituzione del denaro sottratto, le protezioni giunsero a tal punto che alcuni dei suoi accusatori furono condannati all’esilio per aver denunciato un innocente.
34. (58 d.C.) Nel terzo consolato di Nerone insieme a lui ebbe la carica Valerio Messala, il cui bisnonno, l’oratore Corvino, era stato collega in quella magistratura di Augusto, bisnonno di Nerone, cosa che ormai ben pochi dei vecchi ricordavano. La dignità di quella nobile famiglia fu aumentata da un contributo annuo di cinquecentomila sesterzi, affinché Messala potesse alleviare la sua onorata povertà. Ad Aurelio Cotta e ad Aterio Antonino pure l’imperatore assegnò una cifra annua, benché avessero sperperato il patrimonio di famiglia nel vizio. Al principio dell’anno, la guerra tra Parti e Romani per il dominio dell’Armenia, che si era trascinata alla stracca fino a quel momento, fu ripresa con violenza, perché Vologese non sopportava né che il fratello Tiridate fosse privo del regno che gli aveva dato né che lo ricevesse come dono da una potenza straniera; Corbulone da parte sua riteneva degno della grandezza del popolo romano recuperare ciò che Lucullo e Pompeo avevano conquistato. Gli Armeni inoltre, popolo infido, lanciavano appelli all’uno e all’altro esercito; più vicini ai Parti per la situazione del territorio, per analogia di costumi e legati ad essi attraverso matrimoni, non conoscendo la libertà, erano più disposti a subire il dominio di quelli.
35. A Corbulone peraltro pesava, più che la malafede dei nemici, l’indolenza dei soldati: le legioni trasferite dalla Siria infatti, impigrite dalla pace prolungata, tolleravano molto male i doveri imposti dai Romani. Si constatò che in quell'esercito vi erano veterani che non erano mai stati di guardia né di sentinella e guardavano terrapieni e fossati come cose nuove e sorprendenti; privi di elmo e di corazza, eleganti e avidi, per aver compiuto il servizio militare nella città. Congedati dunque quelli che erano invalidi per l’età o per malattia, egli chiese rinforzi. Ordinò leve in Galatia e Cappadocia e fu aggiunta una legione venuta dalla Germania, con cavalleria e coorti di fanteria. Tutto l’esercito fu trattenuto sotto le tende, benché l’inverno fosse così freddo che la terra non consentiva che si piantassero le tende se non scavando nel ghiaccio che la ricopriva. Molti ebbero gli arti congelati per il freddo intenso, altri morirono ai posti di guardia. Fu visto un soldato, intento a portare un fascio di legna, che ebbe le mani congelate al punto da restare attaccate al carico, mentre le braccia rimasero monche. Corbulone, con vesti leggere, a capo scoperto, nelle marce e nei lavori era sempre presente e rivolgeva parole di lode ai valorosi, di conforto ai più stanchi, ed era di esempio a tutti. In seguito, poiché molti si rifiutavano di sopportare il rigore del clima e del servizio e disertavano, si fece ricorso alla severità. Si lasciava impunita, come negli altri eserciti, la prima e la seconda mancanza, ma chi aveva abbandonato il suo posto era punito sùbito con la morte. Questo metodo si rivelò salutare e migliore dell’indulgenza: in quell’accampamento infatti i disertori furono in minor numero che in quelli dove si usava perdonare.
36. Corbulone intanto trattenne le legioni negli accampamenti fino alla primavera inoltrata, dispose le coorti ausiliarie in località adatte, comandò ai suoi di non azzardare un attacco per primi. Affidò a Paccio Orfito, già insignito del titolo di primipilo, la sorveglianza sui presidi. Questi, benché avesse notificato per iscritto che i barbari non stavano sulle difese e che si presentava l’occasione d’un buon successo, ricevette l’ordine di starsene entro le fortificazioni e di attendere i rinforzi. Ma egli disobbedì all’ordine; poiché dalle fortezze vicine erano arrivate poche squadre di cavalleria, che per inesperienza chiedevano di dar battaglia, aggredì il nemico e fu battuto. Atterriti dalla sua sconfitta, quelli che avrebbero dovuto portargli aiuto fecero ritorno ciascuno nel suo accampamento in fuga disordinata. Corbulone la prese molto male, rimproverò aspramente Paccio e ordinò che prefetti e soldati piantassero le loro tende al di là del terrapieno. Furono trattenuti in questa situazione umiliante fino a che non ne furono assolti dalle preghiere dell’esercito.
37. Tiridate intanto, sostenuto, oltre che dalle proprie forze, da quelle del fratello Vologese, operava scorrerie in Armenia, non più di nascosto, ma a viso aperto; rapinava tutti coloro che reputava fedeli a noi, eludeva le formazioni che gli si mandavano contro e trascorrendo di luogo in luogo diffondeva il terrore più con la fama che con vere battaglie. Corbulone allora, deluso per aver atteso lungamente invano lo scontro, e costretto dall’esempio del nemico ad estendere l’area delle operazioni, distribuì le forze, in modo che prefetti e legati attaccassero nello stesso momento su punti diversi. Al tempo stesso avvertì il re Antioco di muovere contro le province a lui più vicine. Farasmane infatti aveva fatto uccidere il figlio Radamisto per tradimento, e, per dimostrare a noi la sua fedeltà, si accaniva sempre più ferocemente contro gli Armeni, che aveva sempre odiati. Allora per la prima volta furono attratti verso di noi i Moschi, popolazione che ci fu fedele più delle altre e che operò scorrerie nelle zone più impervie dell’Armenia. Così i piani di Tiridate si volgevano all’opposto; ed egli mandava messi a nome suo e dei Parti e chiedeva per quale ragione, dopo che recentemente aveva consegnato ostaggi e rinnovata l’amicizia, sì da offrire nuovi vantaggi, si voleva cacciarlo dall’Armenia, suo antico dominio. Se fino a quel momento lo stesso Vologese non s’era mosso, era perché essi preferivano le trattative anziché la forza; ma se si persisteva nella guerra, agli Arsacidi non mancava il valore né la fortuna, e i Romani più volte l’avevano sperimentato con gravi perdite. Corbulone, al corrente del fatto che Vologese era trattenuto per la defezione degli Ircani, consigliò Tiridate di rivolgersi all’imperatore con preghiere: avrebbe potuto ottenere un regno stabile e una situazione pacifica se avesse rinunciato a speranze remote e di lento adempimento e si fosse proposto un domani imminente e migliore.
38. Poi, dato che il reciproco invio di legati non portava alcun giovamento al raggiungimento della pace, si stabilì di fissare la data e il luogo per un incontro tra i capi. Tiridate disse che sarebbe stato accompagnato da una scorta di mille cavalieri; Corbulone invece non precisò né quanti né a quale arma appartenessero i soldati che lo avrebbero accompagnato, purché, deposti gli elmi e le corazze, si presentassero in aspetto pacifico. A chiunque dei mortali, e tanto più a un comandante anziano e accorto, sarebbero apparse evidenti le insidie barbariche: se da una parte si denunciava un numero limitato e se ne concedeva uno maggiore alla parte avversa, era per preparare un’insidia; e infatti se a una cavalleria esperta nel lancio delle saette si contrapponevano corpi inermi, a nulla sarebbe giovato che fossero in molti. Corbulone, senza far vedere che aveva capito, rispose che di argomenti di pubblico inte resse sarebbe stato più corretto discutere alla presenza degli eserciti al completo. Scelse un luogo che da una parte aveva colli in lieve pendìo, atti ad accogliere schiere di fanteria, dall’altra si estendeva in piano, in modo da consentire lo spiegamento della cavalleria. Il giorno stabilito, Corbulone per primo dispose le coorti alleate e gli ausiliari dei re, al centro collocò la legione sesta, alla quale aveva mescolato tremila uomini della legione terza, che aveva fatto venire di notte da un altro accampamento, ma schierati dietro una sola aquila, come fosse una legione sola. Tiridate, quando ormai il giorno declinava, si fermò lontano, in modo che si potesse vederlo più che udirlo. Così il comandante romano ordinò alle truppe di rientrare ciascuna nel proprio accampamento, senza che il colloquio avesse avuto luogo.
39. Il re, sia che sospettasse un tranello, sia che volesse intercettare i rifornimenti che ci arrivavano per mare o dalla città di Trapezunte, si affrettò ad andarsene. Ma non riuscì ad assalire i convogli perché si facevano passare attraverso monti presidiati dai nostri, e Corbulone, per evitare che la guerra si trascinasse senza alcun risultato e per costringere gli Armeni a difendersi, si apprestò a smantellare le fortezze e scelse per sé la più forte, che si chiamava Volando; affidò quelle di minor conto al legato Cornelio Fiacco e al Prefetto del campo, Insteio Capitone. Indi, ispezionate le difese, e dopo aver provveduto a quanto serviva per l’attacco, esortò le truppe a privare d’ogni rifugio quel nemico incostante, non disposto né alla pace né alla guerra, che con la fuga dimostrava sia la propria malafede sia la propria viltà; pensassero solo alla gloria e alla preda. Poi suddivise l’esercito in quattro formazioni e le guidò compatte in forma di testuggine, a scalzare il terrapieno, altri ad appoggiare le scale alle mura, molti a scagliare dalle macchine fiaccole e giavellotti. Fu assegnato uno spazio ai frombolieri e agli arcieri per poter lanciare missili da lontano, in modo che non vi fosse una zona tranquilla per i colpiti e il terrore fosse lo stesso in ogni parte. Fu tale l’entusiasmo dei combattenti che bastò un terzo della giornata per spogliare le mura dai difensori, i ripari delle porte furono rovesciati, occupati con la scalata i bastioni, trucidati tutti i giovani, senza perdite da parte nostra e solo pochi feriti. La massa degli inabili fu venduta all’incanto. Il bottino fu lasciato ai vincitori.
Il legato e il prefetto furono altrettanto fortunati: in un solo giorno furono espugnate tre fortezze mentre tutte le altre si arresero, sia per paura, sia per volontà degli abitanti di arrendersi. Onde si cominciò a sperare di poter assalire la capitale, Artaxata. Le legioni tuttavia non vi furono condotte per il tragitto più breve, poiché se avessero attraversato il ponte sul fiume Araxe, che scorre lungo le mura, sarebbero state oggetto dei colpi nemici. Attraversarono più lontano, dove il guado era più largo.
40. Tiridate era in preda a vergogna e timore di apparire completamente indifeso, se avesse consentito all’assedio, ma se si fosse opposto, di trovarsi chiuso in luoghi impraticabili con la cavalleria; finì per disporre le truppe in ordine di battaglia e decise in un giorno stabilito di attaccare, oppure, fingendo di fuggire, tendere un agguato. Quindi all’improvviso accerchiò l’esercito romano, manovra prevista dal nostro comandante; il quale aveva disposto l’esercito in modo adatto sia alla marcia sia al combattimento. Avanzavano la terza legione sul fianco destro, la sesta sul sinistro, al centro gli uomini scelti della decima, le salmerie entro le schiere, mentre mille cavalieri proteggevano la retroguardia; a questi aveva ordinato di resistere corpo a corpo ai nemici se gli si facevano addosso, ma di non inseguirli se si ritiravano. Alle estremità gli arcieri a piedi e gli altri della cavalleria, più estesa l’ala sinistra fino ai piedi dei colli in modo che, se il nemico fosse riuscito a penetrare entro le linee, si trovasse accerchiato al tempo stesso al centro e di fianco. Tiridate li investiva ora da una parte ora dall’altra, non tanto da esporsi al lancio dei dardi, ma a volte in atteggiamento minaccioso, altre volte simulando timore, per cercare di allentare le file e attaccarli separatamente. Ma nessuno ebbe la temerità di allontanarsi da solo, tranne un decurione di cavalleria, il quale, spintosi avanti con troppo ardire, fu trafitto dai dardi; servì di esempio e rafforzò negli altri la disciplina. Sul far della notte Tiridate si ritirò.
41. Corbulone allora piantò le tende sul posto; e rifletteva se fosse meglio dirigersi la notte stessa con le legioni senza bagagli fino ad Artaxata, convinto che Tiridate vi si fosse rifugiato. Ma quando gli esploratori gli riferirono che il re si era diretto lontano, non era chiaro se dirigendosi verso i Medi o gli Albani, attese l’alba, poi mandò avanti una formazione ad armi leggere, per disporsi attorno alle mura e dare inizio all’assedio da una certa distanza. Ma gli abitanti della città spalancarono spontaneamente le porte e consegnarono ai Romani se stessi e quanto possedevano. Fu la loro salvezza, poiché Artaxata fu data alle fiamme, distrutta e rasa al suolo: data l’ampiezza delle mura, non sarebbe stato possibile tenerla senza un valido presidio, né del resto avevamo forze sufficienti per dividerle, una parte a presidiare la città, una parte a fare la guerra; e d’altro canto, se l’avessimo lasciata intatta e incustodita, il fatto d’averla espugnata non ci avrebbe procurato né gloria né alcun vantaggio. Per di più, si verificò un fatto portentoso, che sembrava mandato da un dio: mentre tutto il territorio circostante era illuminato dal sole, l’area contenuta entro le mura improvvisamente fu coperta da una nube nera, il cielo solcato da lampi, quasi che la città fosse condannata dagli dèi alla distruzione. A seguito di questi avvenimenti, Nerone fu acclamato imperatore, per decreto del Senato furono celebrate preghiere ed erette statue ed archi in onore del principe; gli furono conferiti vari consolati successivi, dichiarati festivi il giorno in cui era stata ottenuta la vittoria, quello in cui era stata annunciata, e quello in cui era stato letto il comunicato in Senato; infine furono decretate altre cerimonie del genere, talmente fuori della norma che C. Cassio, pur dichiarandosi d’accordo, espresse il parere che se si fossero considerati giorni di rendimento di grazie tutti quelli in cui s’era vista la benevolenza della sorte, non sarebbe stato sufficiente un anno di preghiere; di conseguenza era opportuno dividere i giorni in festivi e feriali, in modo che si praticassero i riti religiosi ma al tempo stesso non si ostacolassero le attività umane.
42. Un uomo che aveva avuto un’esistenza turbata da varie jatture e aveva suscitato l’odio di molti, fu imputato e condannato, non senza che Seneca attirasse su di sé un giudizio severo. Quest’uomo fu Publio Suillio, il quale, fino a che regnò Claudio, si comportò con estrema durezza e venalità, ma, mutati i tempi, decadde, non quanto però gli avrebbero augurato tutti coloro che lo detestavano; e tuttavia preferì sempre apparire un ribaldo piuttosto che un supplice. Si credeva fosse stato spinto alla rovina dal decreto senatorio che, in base alla legge Cincia, prevedeva la pena contro chi avesse difeso una causa dietro compenso. Né del resto Suillio si asteneva dal proferire proteste e recriminazioni, poiché, a prescindere dal suo orgoglio indomabile, si sentiva libero, data la tarda età che aveva raggiunto; copriva di contumelie Seneca perché ostile agli amici di Claudio, sotto l’impero del quale aveva subito una condanna all’esilio ampiamente meritata e perché dedito a studi perfettamente inutili, avvezzo alla compagnia di giovani inesperti, e invidioso di coloro che mettevano la loro vivace e incorrotta eloquenza al servizio dei concittadini. Lui, diceva, era stato questore di Germanico, Seneca invece aveva commesso adulterio nella sua famiglia: accettare un compenso spontaneamente offerto da un cliente per aver svolto un lavoro onorato si dovrà considerare un reato più grave che profanare il talamo delle donne imperiali? con quale dottrina, con quali precetti filosofici, in soli quattro anni d’amicizia del principe, Seneca era riuscito ad accumulare trecento milioni di sesterzi? Andava in giro per Roma, l’avvolgeva come in una rete, a caccia di testamenti e di persone senza eredi, dissanguava le province e l’Italia con usure elevatissime, mentre lui altro non possedeva che un modesto patrimonio, guadagnato con il suo lavoro. Avrebbe affrontato l’imputazione, il processo, qualsiasi cosa, piuttosto che umiliare la dignità raggiunta in tanti anni di fronte a una ricchezza troppo rapidamente accumulata.
43. Non mancavano persone pronte a riferire a Seneca queste voci, esattamente o in termini ancora più duri; e si trovarono altri che accusarono Sillio d’aver spogliato gli alleati, quando si trovava al governo della provincia d’Asia, e d’essersi approfittato del pubblico denaro. Poi, dato che per lo svolgimento dell’inchiesta era stato chiesto un anno, sembrò più rapido incominciare dai reati commessi nell’Urbe, per i quali era più facile reperire i testimoni. Gli fu imputato il reato d’aver sospinto Q. Pomponio, con le sue aspre accuse, al gesto disperato di provocare una guerra civile, d’aver costretto Giulia, figlia di Druso, al suicidio e Sabina Poppea d’aver messo alle strette Valerio Asiatico, Lucio Saturnino, Cornelio Asiatico e aver fatto condannare innumerevoli cavalieri romani; inoltre si imputavano a Suillio tutte le crudeltà commesse da Claudio.
Suillio si difendeva affermando che nessuna delle azioni che gli venivano imputate l’aveva commessa di sua iniziativa; che non aveva fatto che obbedire all’imperatore. Nerone allora lo interruppe, dicendo che dalle memorie di suo padre non risultava che avesse mai imposto di accusare qualcuno. Suillio allora replicò che gli ordini glieli aveva dati Messalina, ma con questa giustificazione la sua difesa vacillò: perché mai non era stato trovato nessun altro per prestare la sua voce alla crudeltà di quella spudorata? Gli esecutori di quelle atrocità bisognava punirli, quando, intascato il compenso dei loro crimini, li scaricavano su altre persone. Di conseguenza, gli fu confiscata una parte del patrimonio, – se ne lasciò una parte al figlio e alla nipote, dopo aver detratto quanto avevano già ricevuto per il testamento della madre e della nonna -. Suillio fu esiliato nelle isole Baleari; né durante il processo, né dopo la condanna apparve avvilito, anzi in seguito si disse che nell’isolamento conducesse un’esistenza agiata e gradevole. Gli accusatori per odio verso il padre accusarono di concussione anche il figlio Nerullino, ma l’imperatore intervenne in quanto ormai era stata sufficiente la pena.
44. Nello stesso periodo, Ottavio Sagitta, travolto dalla passione per una donna sposata, la indusse all’adulterio per mezzo di splendidi regali; poi, con la promessa di sposarla, la indusse ad abbandonare il marito, impegnandosi alle nozze con il consenso di lei. Ma quando fu libera, la donna incominciò a frapporre indugi, adducendo la volontà contraria del padre e rinnegò la parola data, nella speranza d’un matrimonio più facoltoso. Ottavio ora cercava di persuaderla, ora la minacciava, le faceva presente che per lei aveva compromesso il suo buon nome, aveva dilapidato il patrimonio e infine le poneva nelle mani l’unica cosa che gli restava, la vita. Ma poiché la donna lo respingeva, egli la supplicò di concedergli ancora una sola notte per poter dare sfogo alla sua passione, in modo da affrontare così placato il futuro. Ponzia affidò la guardia della camera a un’ancella di sua fiducia e il giovane arrivò, accompagnato da un solo liberto, con un pugnale nascosto nelle vesti. Poi, come avviene quando c’è amore e dissenso, vi furono ingiurie, preghiere, rimproveri, discolpe; una parte della notte fu dedicata al piacere, il che tolse la ragione a Ottavio a tal segno che con il pugnale trafisse la donna che non temeva nulla e mise in fuga, colpendo lei pure, l’ancella atterrita, indi si precipitò fuori dalla camera. Il giorno dopo fu scoperto l’assassinio e non vi furono dubbi sul colpevole, perché c’era chi poteva provare che i due erano rimasti insieme a lungo. Ma il liberto dichiarò d’esser stato lui l’autore dell’omicidio, per vendicare l’offesa che era stata fatta al suo padrone. E già aveva commosso molti per la nobiltà del suo gesto, quando l’ancella, riavutasi dalla ferita, rivelò la verità. Ottavio allora fu denunciato dal padre dell’uccisa e, appena scaduto il mandato di tribuno, con una sentenza del Senato fu condannato in base alla legge sui sicari13.
45. Una spudoratezza non meno vistosa l’anno stesso fu l’origine di gravi danni per lo Stato. Abitava nell’Urbe Sabina Poppea, la quale, benché figlia di T. Ollio, portava il nome dell’avo materno, Poppeo Sabino, personaggio illustre per dignità consolare e vari trionfi. Il padre Ollio, infatti, prima d’aver percorso la carriera degli onori, era stato rovinato dalla sua amicizia con Seiano. Questa donna possedeva tutte le doti, tranne che l’onore. La madre, che aveva superato in bellezza tutte le donne della sua età, le aveva trasmesso l’avvenenza e la rinomanza; possedeva un patrimonio adeguato alla posizione sociale; amabile nel parlare, d’intelligenza vivace, simulava castità, ma si abbandonava al piacere. Raramente usciva e teneva il viso in parte celato dietro un velo, sia per non saziare chi la guardava, sia perché la cosa le donava. Non ebbe mai alcun riguardo per il suo buon nome e non fece distinzione tra i mariti e gli amanti; mai si lasciò dominare dal sentimento, suo o altrui, ma poneva il suo piacere dove le appariva un utile. Benché coniugata con un cavaliere romano, Rufrio Crispino, dal quale aveva avuto un figlio, fu sedotta da Otone, giovane dissoluto, legato a Nerone da intima amicizia. All’adulterio seguirono, senza intervallo, le nozze.
46. Otone, incauto per troppo amore o per eccitare Nerone, sì che, se avessero posseduto la stessa donna, avrebbe aggiunto questo nuovo vincolo al suo potere, non faceva che lodare al principe la bellezza, l’eleganza della sua sposa; fu udito spesso, nell’alzarsi dal banchetto dell’imperatore, esclamare che andava da quella donna che gli era stata concessa, e ne vantava la nobiltà, la bellezza, una donna desiderata da tutti, fonte di piacere per chi aveva la fortuna di possederla. A queste frasi eccitanti non seguì il minimo indugio. Poppea fu ricevuta a corte e si impose sulle prime con adulazione e frasi lusinghiere, fingendo d’esser incapace di resistere al desiderio e avvinta dalla bellezza di Nerone. Poi, quando ormai il principe era innamorato pazzo di lei, cominciò a mostrarsi sdegnosa: se egli voleva trattenerla una o due notti, gli ripeteva che lei era una donna sposata, che non poteva rinunciare al matrimonio; diceva d’esser legata a Otone perché aveva un tenore di vita che nessuno avrebbe eguagliato; che Otone era un uomo ammirevole per il sentire e per i modi e che con lui si sentiva al più alto livello della condizione sociale; Nerone, al contrario, legato per abitudine ad Atte, concubina e ancella, da quella convivenza con una serva altro non aveva tratto che volgarità e abbiezione. In un primo tempo Otone fu escluso dall’intimità consueta, poi dalla compagnia del principe e dal suo seguito, infine, per non averlo come rivale in città, Nerone gli affidò il governo della provincia di Lusitania. Qui, fino alla guerra civile, egli si discostò dal malcostume antecedente e si comportò con integrità e correttezza: quanto era stato dissoluto nella vita privata, tanto si comportò con temperanza nell’esercizio del potere.
47. Fino a quel momento Nerone aveva cercato di tenere nascoste le cattive azioni e i delitti. Sospettava di Cornelio Silla, un uomo dal carattere indolente, che egli al contrario riteneva astuto e simulatore. I suoi sospetti furono aggravati da Grapto, un liberto dell’imperatore, uomo esperto degli usi della corte fin dai tempi della vecchiaia di Tiberio, con una menzogna. A quel tempo il Ponte Milvio era noto per le dissipazioni notturne e Nerone vi si recava spesso per potersi abbandonare al vizio più liberamente che a Roma; mentre rientrava per la via Flaminia, evitò per puro caso un’imboscata che gli era stata tesa, per aver cambiato itinerario ed esser tornato a casa attraverso gli Orti Sallustiani: e fu indicato Silla come autore del tranello. In realtà era avvenuto che alcuni giovani balordi, come facevano spesso, avevano fatto paura ad alcuni della scorta del principe. Per la verità, nessuno di loro fu riconosciuto come servo o cliente di Silla, e soprattutto il suo carattere, in genere disprezzato perché incapace di qualsiasi atto audace, aborriva dal delitto. Ciononostante, come se fosse riconosciuto reo, Silla ricevette l’ordine di lasciare l’Italia e di risiedere entro le mura di Marsiglia.
48. (58 d.C.) Sotto gli stessi consoli, ottennero udienza due legazioni di Pozzuoli, inviate al Senato una dalla plebe, l’altra dai decurioni della città. I primi accusavano il popolo di violenza, i secondi i notabili e i magistrati di avidità. Fu dato incarico a L. Cassio di soffocare quella rivolta, già trascesa al lancio di pietre, alle minacce d’incendio, per impedire che si spingessero fino alle armi e agli omicidi; ma poiché quelli si mostravano insofferenti alla sua fermezza, dietro sua richiesta l’incarico fu deferito ai fratelli Scriboniani, accompagnati da una coorte pretoria; per il terrore della quale e l’esecuzione di pochi tornò la concordia tra gli abitanti della città.
49. Non riferirei un insignificante decreto senatoriale, con il quale si permetteva ai Siracusani di superare il numero limitato di gladiatori, se non si fosse dichiarato contrario Trasea Peto, offrendo così ai suoi avversari argomento per contraddire il suo voto. Per quale ragione, se era convinto che lo Stato avesse bisogno dell’indipendenza del Senato, argomentava contro un decreto così insignificante? perché non esponeva il suo consenso o dissenso su questioni di guerra e di pace, di imposte e di leggi, su qualsiasi soggetto riguardante lo Stato? Tutte le volte che avevano facoltà di esprimere la loro opinione, i Senatori potevano dichiarare le loro proposte e chiedere che fossero messe all’ordine del giorno. Era dunque questo l’unico emendamento di cui valesse la pena discutere, che non si concedessero ai Siracusani spettacoli troppo fastosi? in tutto il resto dell’impero, tutto procedeva così bene come se non fosse Nerone, ma Trasea a capo del governo? Se si lasciavano correre, fingendo di non accorgersene, questioni della massima importanza, non era opportuno, a maggior ragione, non soffermarsi su quelle trascurabili? Agli amici, che gli chiedevano che cosa avesse in mente, Trasea rispondeva che non intendeva proporre emendamenti di quel genere perché ignaro dei problemi più urgenti, ma per onorare il Senato con la dimostrazione evidente che i Padri non trascuravano le questioni importanti, dato che volgevano l’animo anche a quelle di nessun valore.
50. Lo stesso anno, a seguito delle frequenti lagnanze del popolo contro l’avidità dei pubblicani14, Nerone meditò di abolire tutte le imposte e offrire questo bellissimo regalo al genere umano. Ma i senatori, dopo aver molto lodato la sua grandezza d’animo, frenarono il suo slancio, facendogli presente che l’impero sarebbe crollato se fossero diminuiti i redditi con i quali si manteneva lo Stato; una volta abolite le dogane, ne sarebbe conseguita la richiesta di cancellare anche le imposte dirette. Le società per l’esazione dei tributi erano state costituite per la maggior parte da consoli e tribuni della plebe, quando era ancora viva la libertà del popolo. I provvedimenti successivi erano stati adottati in modo che la misura delle entrate e le esigenze delle spese fossero proporzionate. Senza dubbio, l’avidità dei pubblicani doveva esser frenata, affinché non rendessero intollerabili con nuovi incrudimenti gli oneri tributari tollerati per tanti anni senza proteste.
51. Nerone quindi emanò un editto, secondo il quale le leggi riferite a ciascun tributo, che fino a quel momento erano segrete, fossero pubblicate; che le riscossioni non pagate non potessero esser richieste al di là d’un anno; che il pretore a Roma, nelle province i propretori o i proconsoli, nei casi di denunce a carico di pubblicani rendessero ragione con precedenza su tutti gli altri; che rimanesse in vigore l’esenzione dalle imposte a favore dei militari, tranne che per le cose di cui facessero commercio; ed altri provvedimenti equi, che per qualche tempo furono rispettati, poi caddero in disuso. Restò tuttavia in vigore l’abolizione della quarantesima, della cinquantesima e di quante altre tasse avevano escogitato i pubblicani per le loro esazioni illecite. Furono facilitati i trasporti del frumento dalle province d’oltremare, e stabilito che le navi non fossero calcolate tra gli averi di quei commercianti, sì che fu annullato per esse il tributo.
52. Cesare assolse Sulpicio Camerino e Pompeo Silvano, denunciati dai provinciali dell’Africa, dove avevano esercitato il potere proconsolare. Contro Camerino c’erano pochi privati, i quali gli imputavano atti di crudeltà più che profitti illeciti. Contro Silvano invece c’era una folta schiera di accusatori, i quali chiedevano tempo per produrre testimoni, mentre l’imputato chiedeva d’esser giudicato immediatamente. Gli giovarono la ricchezza, la mancanza di figli e la tarda età, che protrasse oltre la vita di quelli, grazie agli imbrogli dei quali l’aveva scampata.
53. Fino a quel momento la situazione in Germania era tranquilla, per merito dei comandanti, i quali, dato che ormai le insegne trionfali si concedevano a tutti, contavano di raggiungere maggior onore dall’aver mantenuto a lungo la pace. In quel momento, alla testa dell’esercito si trovavano Paolino Pompeo e L. Vetere; per evitare che i soldati rimanessero in ozio, il primo portò a compimento la diga di contenimento del Reno che era stata iniziata da Druso sessantatré anni prima, mentre Vetere stava per unire la Mosella e l’Arari per mezzo d’un canale scavato tra l’uno e l’altro fiume, per far sì che i rifornimenti trasportati per mare, poi sul Rodano e l’Arari, infine entrati nel fiume Mosella, fossero poi dalla Mosella portati sul Reno, di là nell’Oceano; sì che, abolite le difficoltà del tragitto via terra, le sponde dell’occidente e quelle del settentrione comunicassero tra loro attraverso vie navigabili.
54. Per la prolungata inazione degli eserciti corse la voce che ai legati fosse stata abrogata la facoltà di muovere contro il nemico. Di conseguenza, i Frisii incominciarono a far avanzare i giovani attraverso boschi e paludi, gli invalidi sui laghi, e a porre la loro residenza su territori vuoti, destinati ad uso dell’esercito, per iniziativa di Verrito e Malorige, i quali regnavano su quella popolazione, per quanto si regna sui Germani. Già avevano costruito case e seminato terre e si comportavano come fossero stati su terra natia, quando Dubio Avito, che aveva ereditato la provincia di Paolino, minacciò la forza di Roma se non tornavano nelle loro antiche sedi o non chiedevano le nuove all’imperatore, il che costrinse Verrito e Malorige a ricorrere alle preghiere. Partirono dunque per Roma. E mentre aspettavano di ottenere udienza da Nerone, impegnato in altre faccende, tra le altre cose che vengono mostrate ai barbari, furono introdotti nel teatro di Pompeo, affinché vedessero quella moltitudine di popolo. Ivi, per ozio, dato che, incolti com’erano, non s’interessavano agli spettacoli, s’informavano sul pubblico delle gradinate, sulle distinzioni dei posti, quali fossero i cavalieri, dove sedessero i senatori; tra questi, s’accorsero che ve n’erano alcuni con abiti da stranieri e domandarono chi fossero. E come appresero che era un onore concesso agli ambasciatori di quei popoli che eccellevano per il valore e l’amicizia verso Roma, esclamarono che nessuno tra i mortali superava i Germani nelle armi e per la lealtà; quindi si alzarono e andarono a sedersi in mezzo ai senatori. Quel gesto fu preso con benevolenza dai presenti, come un atto di spontaneità d’altri tempi ed emulazione. Nerone donò loro la cittadinanza romana, ma ordinò che si ritirassero dai territori occupati. E poiché i Frisii non se ne davano per inteso, li costrinse un’improvvisa incursione di cavalleria; quelli che resistevano con pervicacia furono catturati e uccisi.
55. Quegli stessi campi furono poi occupati dagli Ampsivari, più forti non soltanto per il numero, ma per la compassione dei popoli vicini, dato che erano stati espulsi dai Cauci e, privi d’una sede, imploravano un asilo sicuro. Militava con loro un uomo illustre tra quelle genti e fedele a noi, un certo Boiocalo, il quale diceva d’esser stato messo in prigione per ordine di Arminio durante la rivolta dei Cherusci, poi d’aver combattuto agli ordini di Tiberio e di Germanico, e di aggiungere a cinquant’anni di fedeltà anche questa benemerenza, di porre il suo popolo sotto la nostra giurisdizione. A che scopo lasciare tanto spazio, solo per farlo attraversare ogni tanto dalle greggi e dagli armenti dei soldati! Che lasciassero un ricovero per le greggi, mentre gli uomini morivano di fame! ma non scegliessero il deserto e il vuoto in luogo di popoli amici. Quei campi erano appartenuti un tempo ai Camavi, poi ai Tubanti, infine agli Usipi: come il cielo è concesso agli dèi, così la terra al genere umano; quelle che non sono occupate, appartengono a tutti. Poscia, levando gli occhi al sole e a tutte le altre luci del cielo, chiedeva loro se volevano vedere uno spazio vuoto; piuttosto, sommergessero con il mare gli usurpatori delle terre.
56. Turbato da queste parole, Avito rispose che si doveva obbedienza agli ordini dei più forti; che quegli stessi dèi che essi invocavano avevano voluto che appartenesse ai Romani il potere di dare e di togliere, e di non tollerare altri giudici che se stessi. Con queste parole rispose a tutti gli Ampsivari, ma a Boiocalo privatamente disse che, in ricordo della loro amicizia, gli avrebbe concesso i terreni. Egli però respinse l’offerta come prezzo d’un tradimento e disse: «Ci manca la terra per vivere, ma non può mancare quella in cui morire». Così si separarono, sdegnati gli uni e gli altri.
Quelli fecero appello ai Bructeri, ai Teucteri e anche ad altri popoli più lontani affinché si alleassero a loro nella guerra: Avito scrisse a Curtilio Mancia, legato dell’esercito superiore, di attraversare il Reno e mostrarsi in armi alle loro spalle, mentre lui si portava con le legioni nel territorio dei Teucteri, minacciando un massacro, se non abbandonavano la causa degli Ampsivarii. Come questi si dissociarono, i Bructeri furono atterriti del pari; e poiché anche gli altri non se la sentirono di affrontare pericoli altrui, gli Ampsivari, rimasti soli, tornarono indietro, verso il terreno degli Usipi e dei Tubanti. Scacciati dalle loro terre, dopo aver chiesto ospitalità ai Catti, indi ai Cherusci, vagarono a lungo come stranieri, miserabili, infine nemici su terra altrui, fino a che quanti erano giovani furono uccisi, gli inabili furono spartiti a guisa di preda.
57. Lo stesso anno si combattè duramente tra Ermonduri e Catti, i quali volevano appropriarsi con la forza di un fiume ricco di sale, che divide i loro terreni; oltre alla loro passione di trattare ogni questione con le armi, vi è una credenza, radicata nell’animo loro, che quelle località siano molto vicine al cielo e di conseguenza in nessun luogo meglio che in quello le preghiere dei mortali siano udite dagli dèi: dalla loro benevolenza derivava infatti la presenza del sale nel fiume e nelle foreste, non, come accade presso altri popoli, dall'evaporazione di acque marine ivi depositate, ma da elementi opposti tra loro, dall’onda versata sopra una catasta di tronchi accesa. L’esito della guerra, propizio agli Ermonduri, fu avverso ai Catti, perché i vincitori avevano dedicato l’esercito nemico a Marte e a Mercurio, un voto con il quale si destinano al massacro cavalli, uomini e tutto ciò che appartiene ai vinti. Ma la popolazione degli Ubii, nostra alleata, fu colpita da un’improvvisa sciagura: fiamme scaturite dalla terra divoravano città, campi, villaggi, ora in un luogo ora in un altro e si spingevano fino alle mura della colonia recentemente fondata, né si potevano spegnere, nemmeno se cadeva la pioggia o con le acque del fiume o con qualsiasi altro liquido; fino a che alcuni campagnuoli, esasperati per l’impossibilità di porre rimedio a quel flagello, presero a lanciare pietre di lontano, poi, dato che le fiamme rallentavano, si fecero più vicino e si misero a respingerle a colpi di bastone o di altro, come fossero belve. Infine, si strapparono di dosso le vesti e le stesero sul fuoco, e tanto più servivano a spegnere le fiamme quanto più erano spesse e consumate dall’uso.
58. L’anno stesso, nel luogo delle adunanze, si seccarono alcuni rami e si disseccò il tronco dell’albero Ruminale15, che ottocento anni prima aveva steso le sue fronde sopra l’infanzia di Romolo e Remo. Il vederlo appassire parve un presagio funesto, fino a che non emise nuovi germogli.