Introduzione

 

 

 

 

L’interesse per le grandi personalità operanti nella storia è stato da sempre molto vivo nei lettori di tutti i tempi. Al genere biografico, che gli antichi distinguevano da quello storiografico («non scriviamo storia, ma vite» diceva Plutarco), è legato il nome di Svetonio, forse il più noto fra i biografi romani, «il biografo per eccellenza» (Mazzarino), esponente di una cultura «equestre», «borghese», che si contrappone a quella aristocratica, tradizionalista e nostalgica, nella quale si possono invece riconoscere Tacito e Plutarco. Conscio della centralità della figura del principe, divenuto il perno dell’impero, l’elemento unificante di aree geografiche, di componenti etniche e di strati sociali diversi, Svetonio volle un approccio completamente differente, abbandonando del tutto la narrazione cronologica e affissandosi alla figura del prìncipe.

Da Svetonio in poi, i primi imperatori romani – ivi compreso quel Giulio Cesare, che proprio per aver voluto «aspirare alla tirannide», come tramanda la tradizione senatoria, era stato ucciso, e al quale invece Svetonio riconosce il merito di aver posto le fondamenta per l’istituzione dell’impero – vennero chiamati per antonomasia «i dodici Cesari» e divennero il simbolo del mondo romano, il mito dell’antichità.

Fin dalla tarda repubblica esistevano a Roma due forme biografiche, ereditate dal mondo greco: la prima, quella peripatetica, di derivazione aristotelica, moraleggiante, a volte persino romanzata a soggetto politico, mirante a evidenziare il carattere del protagonista del tipo della Ciropedia senofontea, delle Vite di Cornelio Nepote o dell’Agricola tacitiano; la seconda, quella ellenistica, o alessandrina, essenziale e scientifica, che si interessava agli uomini di lettere, attenta alle notizie, e ai dati concreti.

Secondo la vecchia formulazione del filologo tedesco F. Leo, che lo giudicava su un piano esclusivamente letterario, Svetonio utilizzò per la biografia politica il metodo tipico della biografia letteraria, già sperimentata con il De viris illustribus. Il rimprovero che spesso gli è stato mosso dagli studiosi moderni era di aver applicato a dei principi – per le cui vite sarebbe stato preferibile un impianto più solenne, di tipo plutarcheo – lo schema fisso, rigido, della biografia letteraria. Tale tesi, che ebbe in passato un largo seguito, non è più oggi accettata, in quanto, a guardare bene nelle Vite, si comprende che l’opera non è riconducibile a un unico modello; in realtà non c’è una opposizione così netta tra la biografia plutarchea e quella svetoniana e non bisogna dunque esagerare nel contrapporre Svetonio a Plutarco e Tacito.

Oggi ci si rivolge a Svetonio con un rispetto maggiore, ad esempio, di quello manifestato, alla fine del Settecento, dall’abbé de Mably, il quale riteneva che vale la pena di leggere Svetonio solo in quanto il tempo ci ha «rubato» una parte degli scritti di Tacito.

Il giudizio negativo ha accompagnato, peraltro, a lungo la forma biografica in generale e l’opera svetoniana in particolare. E sono sentenze che portano, fra gli altri, il nome di Schanz, di Funaioli, di Paratore, di Syme. Schanz valutò Svetonio come un modesto compilatore che lavorava «senza testa», meccanicamente. Funaioli considerò l’ottica del biografo non come quella di un artista «che crea e guarda l’anima», ma come quella di «un letterato vissuto un po’ fuori del mondo», dell’antiquario «che registra i fatti materiali», senza partecipazione e coinvolgimento, sicché i personaggi appaiono come in «tanti medaglioni staccati» o come in «schede isolate e mal connesse». Si tratta di posizioni oggi ampiamente superate, in quanto riduttive e non attente alla complessiva personalità dello scrittore. Del resto, lo stesso Funaioli ha riconosciuto che Svetonio «è uno studioso che indaga ed ama la verità, di sano criterio, di molto sapere, il quale ha gli occhi aperti per i piccoli, non meno, o più, che per i grandi avvenimenti della vita, per gl’ingegnosi motti di spirito, per gli epigrammi satirici, per i versi popolari, per tutto ciò che attira un pubblico di media levatura, al quale, appunto, si rivolge... e con ciò va talmente incontro al gusto della sua e delle future generazioni, che le Vite rimangono per secoli il modello della storia imperiale». E tuttavia ancora Syme rimprovera a Svetonio il disinteresse per i grandi temi della politica e per le questioni estere, nonché le disattenzioni e gli errori, che si rivelano proprio là dove l’autore si esprime al meglio, nella storia familiare.

La rivalutazione attuale di Svetonio, il riconoscimento di un suo metodo scientifico, la sua originalità nel variare l’organizzazione delle Vite, spetta a Steidle. In effetti le Vite dei dodici Cesari di Svetonio si configurano come un’assoluta novità. Il nostro autore capì che non poteva più seguire il vecchio sistema annalistico di Tacito, espressione di una mentalità senatoria, ma che i nuovi tempi richiedevano una nuova forma biografica, e che era necessario abbandonare del tutto la narrazione cronologica. L’elemento comune delle varie tesi rivalutative, sempre più frequenti a partire dai nostri anni Cinquanta, si fonda essenzialmente – pur nella varietà delle posizioni – sul riconoscimento della indubbia utilità delle Vite per la ricostruzione storica, grazie alla ricchezza e alla eterogeneità del materiale raccolto. Questo aspetto farebbe appunto di esse «una guida non banale» (Lanciotti) per la storia degli imperatori del primo secolo.

Peraltro, questa visione, dei «medaglioni» imperiali come eroi del cesarismo – eroi anche in negativo -, come descrizione dell’eccesso delle passioni straordinarie, come straordinari erano gli imperatores, ai nostri occhi di moderni può avere il difetto di essere caricata da secoli di interesse spesso morboso per la vita dei potenti e per i loro eccessi: imperatori del Sacro Romano Impero, prìncipi del Cinquecento, movimenti assolutistici in Francia, e così via fino a modelli più recenti e tristemente vicini.

Ma qual era l’ottica svetoniana? Cioè quale il momento iniziale di questa vicenda del ritratto imperiale che divenne un «genere» ed ebbe tanta fortuna? Lo dice chiaramente il Mazzarino: «La vera origine della biografia svetoniana è da cercare in questo prevalere dell’interesse per l’individuo, che finì col diventare, per l’età imperiale, non solo personalità da intendere nel suo ethos (con Plutarco), ma addirittura da presentare per rubriche “scientificamente"».

Il modello per la serie delle Vite non può essere stato – come anche si è pensato – qualche autore greco, come l’oscuro Phenias di Efeso, che scrive vite non solo di poeti e scrittori, ma anche di tiranni di Sicilia. Forse, in parte, lo sono stati il modello del panegirico e, in qualche misura, gli elogia romani (Steidle). Ma la creazione di Svetonio è assolutamente originale. In realtà la biografia peripatetica plutarchea e quella alessandrina – a cui si ispirò Svetonio – non sono più esattamente individuabili nel mondo romano, avendo subito tali generi ulteriori alterazioni tipiche della mentalità scientifica di quel popolo. E d’altra parte Svetonio non è estraneo alla cultura senatoria e aristocratica del tempo; contatti con l’ambiente di Tacito e Plinio dovette averne avuti. Egli non può non aver conosciuto l’opera tacitiana, e indubbiamente deve aver tenuto presente il Panegirico di Plinio, che forse costituì anche per lui una base ideologica per la costruzione delle Vite, seguendo il motivo prediletto della propaganda del tempo, secondo la quale bisognava dir bene di Traiano – il principe immune da vizi come mai nessun altro – e male di Domiziano. Non è escluso che Svetonio abbia conosciuto anche Plutarco, divenuto consigliere di Traiano per l’Oriente.

L’opera di Svetonio è in ogni caso da rivalutare per vari aspetti: non solo per quelli socio-politici ma soprattutto per l’importanza centrale che ha nelle Vite la storia amministrativa, che, ai fini di una valutazione generale, non è meno importante della storia politica, interna o estera. Una differenziazione fra i vari Cesari viene fatta proprio alla luce della loro politica amministrativa. Questo interesse, precipuo nell’opera svetoniana, è lo specchio della mentalità di un tipico esponente del ceto equestre, membro della burocrazia centrale, qual era Svetonio. Egli si configura quindi come «storico della cultura e storico della società» (Della Corte), rivelandosi più sensibile che non Tacito ai tempi nuovi. Allontanandosi dall’annalistica, egli non vede più la storia dell’impero come una successione di guerre, ma scopre una vita «non ufficiale», privata, trascorsa nell’intimità della propria casa, nelle scuole, nelle biblioteche. Sia pure in funzione del principe, egli intende dare un panorama della società romana. E raccoglie tutto ciò che può servirgli a questo fine. La sua attenzione a particolari futili non risponde solo all’esigenza di accontentare la curiosità del pubblico, ma a quella di fornire una visione integrale del personaggio, comprensiva di quegli aspetti quotidiani di cui né la tragedia né l’epos – generi nobili – potevano occuparsi.

Si è arrivati anche a riconoscere in Svetonio l’elaborazione di una filosofia della storia (Cizek), e la capacità di giudicare in profondità i fenomeni storici. Certo l’opera svetoniana non si può considerare per fetta: non mancano errori o contraddizioni: così ad esempio, se in un passo (Aug. 70) egli dice che ad Augusto piacevano i mobili belli e di valore, in altri luoghi (73) riferisce che l’imperatore non voleva ornare troppo la sua casa e preferiva oggetti semplici.

Il biografo era sempre alla ricerca di aspetti pittoreschi e curiosi, fatti inediti e piccanti, aberrazioni sessuali, per accontentare i lettori del suo tempo. Faceva notizia, ad esempio, il fatto che a Baia era ancora possibile vedere i regali fatti in Sicilia a Tiberio dalla sorella di Sesto Pompeo (Tib. 6), che Caligola non sapeva nuotare (Calig. 54), che passava notti insonni (50), che arrivava all’assurdo di invitare ad un amplesso la luna (22), che si era fatto fare una statua d’oro a grandezza naturale che ogni giorno faceva rivestire di un abito, uguale al suo (22), che ballava anche di notte (54), che tifava nel circo per la fazione dei «verdi», che aveva dotato il suo cavallo di una casa arredata e di servi, avendo addirittura in mente di nominarlo console (55), che meditava di distruggere i poemi omerici (34), e, soprattutto, che si divertiva a portare via le mogli ai mariti, alcune delle quali il giorno stesso delle nozze (12; 25; 36); oppure il particolare curioso che tutti i Cesari, che portavano il prenome di Gaio, erano morti assassinati (60); o ancora che Domiziano, per distendersi, acchiappava le mosche e le infilzava con un acutissimo stilo (Dom. 3). Né deve meravigliare che in un periodo di permissivismo, le dissolutezze, le perversioni e i comportamenti sessuali stravaganti di alcuni prìncipi potessero trovare ampio spazio in un’opera letteraria: così Svetonio racconta che Caligola ebbe rapporti incestuosi con le sorelle, una delle quali, Drusilla, amò follemente da quando era ragazzo, fino a strapparle la verginità e a portarla via al marito, trattandola poi come moglie e divinizzandola dopo la morte. Nerone pare abbia avuto rapporti sessuali con la madre. Domiziano depilava personalmente le sue concubine e faceva giochi erotici nell’acqua (22). E naturalmente tutt’altro che trascurato era il tema dell’omosessualità, testimoniata per Tiberio, Caligola, Otone, Domiziano.

Quello che Svetonio vuol far risaltare è, comunque, che tutti, o quasi, questi imperatori si lasciarono prendere dalla smania del potere, dalla «follia» del potere, che finì con il configurarsi come una vera e propria malattia, che un professore di medicina di Lione nel XIX secolo, Lacassagne, definì «cesante», fondando addirittura, intorno a questa sua teorìa, tutta una scuola. La malattia dei Cesari: il potere che rende pazzi.

Nella descrizione svetoniana l’immagine fisica ha una parte rilevante, anche se non sempre le caratteristiche evidenziate si accordano con le testimonianze di altre fonti o con lineamenti emergenti dalla ritrattistica ufficiale, quale risulta dalle monete e dalla statuaria contemporanea.

Se Plutarco riferisce di personaggi e avvenimenti secondo determinate categorìe morali e comportamentali, secondo un rigoroso ordine cronologico, con l’intento di creare un’opera d’arte mostrando il suo punto di vista, Svetonio considera eccezionali i suoi personaggi, li studia con curiosità, e senza mai seguire - lo dice espressamente (Aug. 9) – l’ordine cronologico (neque per tempora sed per species), attraverso una ben delineata divisione della materia Aug. 61): famiglia e nascita; presagi, vita pubblica e privata, costumi e caratteri, contatti con la famiglia, nuovi presagi e circostanze della morte, funerali. Rappresentazione, dunque, secondo ben precise categorie contrapposte: privato-pubblico, bene-male, virtù-vizi. Dice il Mazzarino che, come Tacito, Svetonio volle scrivere una sorta di bilancio morale della storia nel primo secolo, pur se in un «tono quasi scolastico, forse banale».

I moduli svetoniani – forma, habitus, cultus, mores – si possono individuare già in un passo della vita di Cesare Iul. 42): presentazione della personalità per rubriche – ma nelle prime due biografie la sezione relativa alla vita precedente e all’ingresso al potere è più protratta che nei Cesari successivi per i quali l’inizio del principato arriva relativamente presto e la vita precedente è scarsa di eventi -, poi le celebrazioni della vittoria sugli avversari con giochi pubblici, le riforme e i progetti futuri. Lo schema però può variare. Tutto sommato, una rigida applicazione del cosiddetto «schema svetoniano» si riscontra solo in cinque vite: le biografie non sono fatte tutte «con lo stampo» (Ailloud)!

Le caratteristiche variano secondo gli imperatori: quelli malvagi hanno, ovviamente, poche virtù, ma un lungo elenco di vizi. Altri hanno un misto di entrambi. Anche le parti relative al carattere non sono fatte tutte allo stesso modo: Svetonio evita sempre la generalizzazione.

Nelle Vite si intrecciano motivi romanzeschi e utilizzazione di documenti di diverso tipo: privati (lettere, testamenti) e pubblici. L’autore non si limita alle fonti storiografiche (Cicerone, Cesare, Pollione, Augusto, Servilio Nomano, Fabio Rustico, Plinio il Vecchio), ma usa gli archivi imperiali, i documenti ufficiali, gli acta senatus (resoconti delle sedute senatorie), gli acta diurna (cronache giornaliere), gli scritti imperiali, le raccolte di prodigi e di genealogie, i pamphlets, e persino i graffiti che si trovavano sui muri di Roma. C’è chi sostiene che per ogni vita abbia usato un’unica fonte. Ma Svetonio non cita mai le sue fonti, preferendo trincerarsi dietro allusioni generiche ad altri autori, oppure riferendo «è tradizione», «si dice comunemente», soprattutto quando menziona storie di dubbia veridicità. I suoi interessi sono deliberatamente concentrati sul carattere e la carriera dell’imperatore, che assommava in sé tutto il potere. Non solo nell’immaginario collettivo, ma anche di fatto, il principe, attraverso il suo apparato burocratico-amministrativo, gestiva uomini e cose, era l’assoluto e indiscusso padrone dell’impero: era questa l’ottica del ceto equestre, che costituiva il pubblico di Svetonio. Ma nel principe, padrone del mondo, Svetonio vede soprattutto l’uomo, con le sue tendenze naturali, le sue qualità, le sue passioni, i suoi vizi; egli lo segue nella sua vita privata, nei suoi rapporti con parenti, amici, entourage, ridimensionandone la figura. Naturalmente, i vizi riguardano solo la sfera privata. Infatti, per l’alto funzionario imperiale, sottolineare in genere le virtù del principe nella vita pubblica significava esaltarne l’ufficialità del ruolo, la rappresentatività statale; demolire l’opera del massimo rappresentante — in un certo senso l’incamazione dello Stato – avrebbe significato demolire, o quanto meno mettere in discussione, la bontà delle istituzioni dal principe rappresentate. Salvare, quindi, la figura pubblica del principe per salvare le istituzioni.

La tecnica di costruzione di una biografia, peraltro, «può portare a recuperare e veicolare materiale diverso da quello che lo storico conosce e mette a fondamento della sua ricostruzione generale» (Musti). Svetonio è un raccoglitore scrupoloso e attento: non di rado cita parola per parola brani interi di documenti latini e greci, come nessuno aveva fatto prima di lui. Egli si rivela, fra l’altro, esperto conoscitore delle antichità laziali e ci fornisce una enorme massa di dettagli sui giochi e sugli spettacoli che si svolgevano a Roma, e tutta una serie di informazioni non riscontrabili altrove.

E tuttavia è sempre pronto ad indulgere agli aneddoti e ad accettare storie incredibili e scandalose, anche quando le sue fonti offrivano versioni più plausibili: ad esempio, a proposito dell’incendio neroniano (Ner. 38), addossando tutta la colpa al prìncipe piromane, finge di ignorare che il disastro poteva avere una natura accidentale, come lascia supporre anche Tacito.

Alcuni aspetti negativi delle Vite derivano proprio dalla caratteristica biografica: la mancanza di indicazioni cronologiche spesso riduce le notizie a un elenco di fatti senza legame fra loro; l’eccessiva rubricazione (divisio) delle sezioni (species) fa dell’opera un insieme variegato di immagini, eventi, aneddoti non sempre legati da un filo logico. Eppure, è proprio da questa «episodicità» che deriva paradossalmente uno dei principali pregi dell’opera: la mancanza di monotonia che rende la narrazione vivace e interessante agli occhi del lettore, una «sfida», per dirla con Musti, «ad una nuova valutazione della storicità nella biografia». L’interesse si accresce con l’introduzione di battute, piccoli particolari curiosi e vivaci, inseriti però in un quadro generale serio e documentato.

Positiva può risultare anche la cosiddetta «impassibilità» svetoniana e il fatto che egli registri gli eventi in modo meccanico: non perché non sia capace di giudicare, ma per lasciare al lettore la facoltà di giudicare da sé, fornendogli gli elementi per farlo. E tuttavia il suo giudizio risulta ugualmente, se si considera la sua implicita valutazione dei prìncipi, lo sforzo di nascondere alcuni difetti di quelli a lui simpatici, qualche battuta gettata lì quasi distrattamente. Non è dunque neanche esatto parlare di una sua obiettività, ma piuttosto di una sua onestà. «Poche esposizioni sono così libere da pregiudizi come le biografie svetoniane» (Della Corte). Svetonio sorrìde e fa sorrìdere, crea fra sé e il lettore una sorta di «complice intesa», interrompendo con battute e scenette discorsi monotoni o austeri, sdrammatizzando la situazione.

L’età moderna ha forse più simpatia per il biografo-funzionario che non per i grandi nomi della storiografia repubblicana romana: Sallustio, Livio, Tacito. C’è qualcosa di «solidamente autentico» negli imperatori di Svetonio. Anche se le sue storie rimangono sospette, la sua narrativa è «estremamente espressiva», tanto da permetterci «di costruire le nostre figure con il suo materiale» (Townend); se non ci la sciamo fuorviare scandalizzati da alcuni suoi aneddoti, vediamo tornare in vita la Roma dei primi tempi dell’impero.

Dal punto di vista letterario, Vopera di Svetonio è indubbiamente manchevole: egli, nemico di ogni forma retorica, scrive le Vite come cataloghi comodi da consultare, in cui i fatti sono ordinati in una logica minuziosa. Il suo stile è alieno da velleità artistiche, è nudo e scarno; di più, è piatto, senza colore. Ma ciò non impedì il successo nelle età successive.

 

Alcuni studiosi hanno respinto ogni teoria sulle idee religiose di Svetonio. Ora, Svetonio non era né materialista né scettico, ma credeva alla forza dei prodigi. Vaticini e presagi favorevoli e sfavorevoli accompagnavano tutte le vicende degli imperatori. Le Vite pullulano di apparizioni, di avvoltoi, cadute di fulmini, portenti, fatti straordinari, sogni premonitori, storie favolose, pesci che guizzano fuori dall’acqua, mule che partoriscono, statue che ridono, voci che escono dai mausolei, ecc.: tutti prodigi inviati da forze soprannaturali che egli vedeva agire nella storia. Del resto, Svetonio era fedele alla religione romana tradizionale e all’idea che è l’uomo che fa la sua storia: è lui che accetta o respinge i prodigi inviatigli dalla divinità. Nell’ottica svetoniana si uniscono una concezione pragmatica e la fede in forze soprannaturali e misteriose. Egli «trova nei padroni del mondo il segno manifesto della volontà divina... apre le porte ad una interpretazione teologica della storia» (Della Corte). È possibile che questa sua fede nel divino risponda alla religiosità dell’epoca di Traiano e dei primi anni del regno di Adriano, quando la religione di Stato esigeva che non vi fosse incredulità fra i sudditi.

 

Appare eccessivo riconoscere a Svetonio una visione politico-ideologica coerente. Secondo Della Corte, egli sarebbe il rappresentante del ceto «piccolo equestre», ma non dobbiamo dimenticare che Setticio Claro, suo amico e protettore, era un membro della classe equestre di un certo livello, imparentato con senatori, e di molti di essi - primo fra tutti Plinio il Giovane – amico. Non c’è dubbio che la formazione di Svetonio nella cerchia pliniana abbia lasciato un’impronta nella sua ideologia politica e sociale.

L’immagine – cara alle vecchie teorie del Macé e del Funaioli – di uno Svetonio che, intellettuale e uomo di carriera, rifuggisse dall’assumere una posizione politica e sociale, è oggi assolutamente improponibile. L’opera di Svetonio ha, infatti, una corrispondenza con le ideologie politiche e sociali del suo tempo: egli si configura come il rappresentante della cultura e della politica adrianea, nella quale parte non piccola ha l’ascesa del ceto equestre; si pone come alternativa storiografica a Plinio e Tacito: un nuovo modello capace di esprimere punti di vista diversi da quelli senatori, un’innovazione storiografica di tendenza, in certo modo, democratica, «borghese» (Mazzarino).

Si è parlato (Brugnoli) di una precisa concezione sociologica di Svetonio, per il quale i momenti essenziali della personalità di un uomo sono – e lo abbiamo già visto -: nascita, «vita» (soprattutto vita intima, sessuale, nella quale il vero carattere si esteriorizza), morte. La nascita si accompagna ai presagi, alla predestinazione; la morte può essere qualificata unicamente attraverso i comportamenti, e quindi sono importanti le ultime parole del morituro, che rappresentano il consuntivo che il personaggio fa della sua vita e il messaggio che egli intende tramandare. Fondamentale convinzione di Svetonio è che la vita di un uomo è costituita da un equilibrio tra virtutes e vitia, e che la «fortuna» si realizza attraverso questo sinodo.

Un ruolo importante assume nelle Vite l’aspetto economico: nella ideologia sociale svetoniana, le opes e il successo hanno un valore ampiamente positivo, come indispensabili supporti alla dignitas del personaggio. Le Vite vanno dunque lette come il modello di una storiografia ispirata a princìpi democratici, in cui l’ascesa sociale è valutata molto positivamente. Per Svetonio, tutti, in ipotesi, possono raggiungere successo e ricchezza, a tutti è aperta la stessa possibilità di ascesa sociale. Di Cesare è detto, con giudizio implicitamente positivo, che infimi generis ad amplissimos honores provexit (Iul. 72). È questa la concezione che definivamo «democratica», e che è insieme moderna, della storia. Se in Tacito gli avvenimenti hanno il sopravvento sull’uomo, in Svetonio l’uomo costruisce il proprio destino. «Il pensiero sociologico di Svetonio che ne emerge è quello di un intellettuale illuminato e tollerante, ma anche giusto, un dirigente che ha innanzitutto presenti tutti i problemi di una sana gestione del pubblico denaro e dei quadri amministrativi» (Brugnoli). In sostanza, nell’opera svetoniana appare riflesso rinteresse dei ceti intellettuali del tempo per le iniziative manageriali di Adriano, le quali miravano a rafforzare le istituzioni, che incoraggiavano a loro volta le iniziative e le ambizioni dei singoli, promuovendo i quadri burocratici e incanalando il consenso.

Certamente non si può negare che sulle idee svetoniane abbia influito anche lo spirito aristocratico senatorio (della cerchia aristocratica è, ad esempio, l’idea dei cesari-mostri), nonostante la sua appartenenza alla classe equestre. Da questa duplice posizione deriva la profonda adesione di Svetonio al concetto della concordia ordinum, la quale ha un valore diverso che in età repubblicana, e indica la collaborazione fra senatori e cavalieri di vario livello nel nuovo ordinamento imperiale.

Il suo ideale politico fu dunque quello di un principato disposto ad accettare le nuove forze sociali, il ceto equestre e l’apparato amministrativo, anche se preoccupato di non inimicarsi i senatori, un assolutismo che si appoggiasse alle nuove forze economiche e politiche, ma che mantenesse gli ideali e l’eredità della tradizione senatoria. «Il nostro Tranquillo è stato l’uomo delle opzioni politiche e sociali sfumate» (Cizek). Egli sa che in ogni cosa, e in ogni uomo, c’è la parte buona e la parte cattiva e che è solo differenza di dosaggio.

 

La popolarità di Svetonio va al di là dell’interesse attorno ai particolari piccanti sulla vita privata degli imperatori. Egli creò il modello della biografia per i secoli successivi. La sua fortuna dura dalla tarda antichità ai giorni nostri, come attestano la copiosa messe di studi e le numerose edizioni e traduzioni in tutte le lingue. In ogni caso, egli fu saccheggiato già dall’antichità ad esempio da Frontone, Gellio, Tertulliano. La serie dei Cesari fu continuata un secolo dopo da Mario Massimo e quindi dall’anonimo redattore della Historia Augusta, nella quale sono frequenti i riferimenti ai Cesari di Svetonio, presi a modello per lo schema narrativo. L’influenza svetoniana si nota anche in Eutropio, in Aurelio Vittore, e in vari autori cristiani – primo fra tutti S. Girolamo -, i quali, però, utilizzarono il biografo come fonte più che come modello.

Non sembra che le Vite dei santi, così popolari, abbiano seguito lo stesso schema delle Vite dei Cesari. Si è considerata di scuola svetoniana la Vita di Ambrogio di Paolino di Milano. Ma, a parte qualche particolare sul carattere del santo, essa non possiede nessuna delle caratteristiche delle Vite svetoniane: l’ordinamento è cronologico, non ci sono aneddoti, non divisiones e non citazioni di documenti.

In ambito orientale, sapendo che il nostro autore era noto a Costantinopoli – come si può desumere dalle citazioni che ne dà la Suda – ci si potrebbe aspettare di trovare sue influenze nelle Vite imperiali prodotte in greco da autori bizantini. In effetti, organizzazione per species si riscontra particolarmente nella Vita dell’imperatore Basilio scritta nel X secolo dal nipote Costantino VII Porfirogenito, ma nulla richiama direttamente le Vite svetoniane, ed essa è piuttosto da ricollegare ai panegirici greci. Seguì invece Svetonio, naturalmente con le differenze dovute all’epoca diversa, lo storico Eginardo, suo grande ammiratore, che nella Vita Karoli ci ha lasciato una delle più belle biografie di Carlo Magno. Ma c’è una differenza importante; l’opera è panegiristica, non menziona vizi né scandali, né i mores sono trattati separatamente, a dispetto del progetto iniziale; Eginardo si mostra evidentemente parziale verso il suo imperatore; inoltre nella biografìa non mancano indicazioni cronologiche anche se non specifiche feodem anno, alio anno ecc.).

Vanno ancora ricordate le biografie dell’XI e XII secolo, quando Giovanni di Salisbury (XII secolo) – per fare un nome – si ispirò ai Caesares nel suo Policraticus. Nel Rinascimento, invece, a dispetto della popolarità dei Cesari, le Vite non furono imitate. Petrarca, nel De viris illustribus, sembra non seguire specifici modelli biografici. Nella innumerevole serie di Vite che seguì, l’influenza di Svetonio diviene sempre più indiretta. Ma il prestigio continuò, come mostra, fra l ’altro, la Praefatio in Suetonium, cioè la prolusione tenuta dal Poliziano a Firenze nel 1490.

Non si dimentichino, infine, i ritratti dei dodici Cesari che facevano bella mostra di sé nello studio del dottor Azzecca-Garbugli!

In tempi più vicini a noi sia il romanzo che il cinema si sono impossessati del mito dei Cesari. Chi non ricorda il Quo vadis? di Sienkiewicz, ambientato sotto Nerone, o il Ben Hur di Wallace?

Quale dunque la validità attuale di Svetonio?

Nel lettore di oggi, avido anch’egli di conoscere la vita privata dei grandi personaggi pubblici, appartenenti al mondo della politica, dello spettacolo, dello sport, per quella curiosità morbosa che induce l’uomo della strada a ricercare come essi siano fatti fisicamente, quali siano i loro affetti, i loro hobbies, le loro manie, non può non suscitare interesse la lettura delle Vite svetoniane che quindi continuano ad esercitare inalterato il loro fascino.

 

Non bisogna mai giudicare un personaggio per quello che non è, o per quello che vorremmo che fosse: bisogna considerarlo senza raffrontarlo a questo o quel modello, senza incasellarlo in schemi e generi. Così Svetonio va giudicato per quello che è e per quello che ha voluto tramandare. Non necessariamente il biografo è inferiore allo storico. I personaggi svetoniani non sono «eroi in veste da camera» come disse il Funaioli. Con la predilezione per la descrizione dell’aspetto fisico del personaggio, con l’attenzione alla sua vita intima, con il suo gusto per il documento, si può dire che Svetonio veda il mondo in un’ottica moderna.

L’opera Svetoniana risponde a una concezione moderna della storia, una storia fatta meno di guerre e più di società, meno di fatti politici, e più di affreschi di vita quotidiana, meno di grandi eventi storici, più di uomini, di particolari magari non sempre morbosi, che contribuiscono alla comprensione dell’umano e, ancorché smitizzino il personaggio, mostrandone le debolezze, le peculiarità umane, le piccole manie, lo rendono più vicino. I grandi imperatori, quali ci si presentano in Svetonio, mostrati nella loro quotidianità, appaiono meno onnipotenti e più uomini. E anche i Romani desideravano sapere tutto quanto riguardasse i loro governanti. Già lo aveva osservato, con disappunto, Orazio nella sua celebre Satira Non quia Maecenas (I, 6, vv. 23-37), sottolineando che chiunque voglia emergere e ricoprire cariche importanti deve mettere in conto che tutti si sentano autorizzati a frugare nella sua vita privata, a chiedergli ragione di ogni sua mossa:

 

L’amore per la gloria è una condanna: essa trascina attaccati al suo carro i nobili e gli oscuri. A te, Tillio cosa t’è servito riprendere il laticlavo e diventare tribuno? È cresciuta l’invidia ch’era minore quando eri privato. Appena uno sconsigliato si è passato le stringhe nere intorno ai polpacci e ha lasciato pendere sul petto il laticlavo, sente dire: «Chi è? e di chi è figlio?». Come, se uno è preso dal morbo di Barro, dalla smania di passare per bello; dovunque egli vada, fa venire voglia alle ragazze di guardare com’è, tutto, punto per punto, faccia, gambe, piedi, denti, capelli. Così se un tale promette: «penserò io ai cittadini, allo Stato, all’Impero, all’Italia, ai santuari degli dèi», costringe tutti i mortali a incuriosirsi e a domandare di chi sia figlio e se una madre di bassa origine abbia macchiato il suo nome. (Trad. Marchesi.)

 

LIETTA DE SALVO

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
Storici Latini
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