24. Catone
1. M. Catone1, nato nel municipo di Tuscolo2, da giovinetto, prima di dedicarsi alla carriera politica, visse nella Sabina, perché là aveva una eredità lasciatagli dal padre. Da là, per esortazione di L. Valerio Flacco, che poi ebbe collega nel consolato e nella censura, come soleva raccontare l’ex censore Marco Perpenna, si trasferì a Roma e cominciò a frequentare il Foro. Fece il suo primo servizio militare a diciassette anni. Fu tribuno dei soldati in Sicilia sotto il consolato di Q. Fabio e M. Claudio. Quando tornò da là, seguì l’esercito di C. Claudio Nerone e fu molto apprezzato il suo contributo nella battaglia di Senigallia, dove cadde Asdrubale, il fratello di Anníbale. Come questore, toccò al console P. Africano, col quale però non visse come imponevano le esigenze dell’ufficio: infatti fu in dissenso con lui per tutta la vita. Divenne edile della plebe insieme con C. Elvio. Come pretore ebbe la provincia di Sardegna, dalla quale in precedenza, di ritorno dall’Africa in qualità di questore, aveva portato con sé il poeta Q. Ennio e questo stimiamo merito non inferiore a qualsiasi grandissimo trionfo sardo.
2. Esercitò il consolato insieme con L. Valerio Flacco3, ottenne in sorte la provincia della Spagna Citeriore e da lì riportò un trionfo. E poiché si tratteneva colà troppo a lungo, P. Cornelio Africano, console per la seconda volta, di cui nel precedente consolato era stato questore, voleva cacciarlo dalla provincia e subentrargli lui stesso; ma non poté ottenere questo per mezzo del senato, quantunque certo Scipione avesse il primo posto tra i cittadini, perché allora lo Stato veniva governato non dal potere personale, ma dal diritto. Per la qual cosa adirato col senato, terminato il consolato, rimase nella città come privato cittadino. Catone, da parte sua, fatto censore insieme con lo stesso Flacco4, esercitò conseverità questo suo mandato. Infatti e prese provvedimenti contro molti nobili e aggiunse all’editto molte nuove disposizioni perché fosse contenuto il lusso, che già allora cominciava ad imperversare. Per circa ottanta anni, dalla giovinezza fino all’età estrema5, non smise mai di tirarsi addosso inimicizie per la causa dello Stato. Citato in giudizio da molti, non solo non ne subì alcuna diminuzione nella stima, ma, finché visse, crebbe nella fama delle sue virtù.
3. In tutte le cose mostrò una singolare energia: fu infatti agricoltore alacre ed esperto giureconsulto e bravo capitano e oratore degno di lode e appassionato cultore delle lettere. Sebbene avesse intrapreso tardi lo studio di queste, tuttavia fece un tale progresso che difficilmente si possono trovare fatti sia della storia greca che della storia italica che fossero a lui sconosciuti. Fin dalla giovinezza compose orazioni; vecchio cominciò a scrivere storie. Se ne hanno sette libri. Il primo contiene le imprese dei re del popolo romano; il secondo ed il terzo l’origine di ciascuna città italica; sembra che per questa ragione abbia intitolato tutta l’opera Orígini. Nel quarto è trattata la prima guerra punica, nel quinto la seconda; e tutti gli avvenimenti sono esposti per sommi capi. Illustrò anche le altre guerre con lo stesso criterio, fino alla pretura di Servio Galba che saccheggiò la Lusitania; e di queste guerre non nominò i capitani, ma registrò i fatti senza i nomi. Negli stessi libri espose gli avvenimenti o le cose comunque interessanti dell’Italia e della Spagna. In essi appare molto impegno e accuratezza, ma nessuno sfoggio di erudizione.
Della sua vita e dei suoi costumi, abbiamo parlato più diffusamente nel libro che su di lui abbiamo scritto a parte, su richiesta di T. Pomponio Attico. Rimandiamo perciò a quel volume coloro che sono interessati alla figura di Catone.
25. Áttico
1. Tito Pomponio Áttico, nato da una famiglia romana di antichissime origini1, conservò per tutta la vita la dignità equestre ereditata dagli antenati. Ebbe un padre oculato, amorevole e, per quei tempi, ricco e appassionato in sommo grado della cultura. E da quell’amante che era della cultura, questi fece istruire il figlio in tutte le discipline che devono essere impartite all’età fanciullesca. Ed il fanciullo, oltre a duttilità d’ingegno, possedeva grandissima dolcezza nella pronuncia e nella voce, sì che non solo apprendeva rapidamente quello che gli veniva insegnato, ma anche lo esponeva in maniera eccellente. Per questo motivo nella fanciullezza godeva fama tra i suoi coetanei e si distingueva con più splendore di quanto i nobili condiscepoli fossero disposti ad accettare. Così la sua passione era di stimolo per tutti. C’erano fra questi L. Torquato, C. Mario figlio, Marco Cicerone: egli, con le sue buone maniere, se li seppe conquistare tanto che per tutta la vita nessuno di loro ebbe amico più caro.
2. Il padre morì presto. Ancor giovinetto, a causa della sua parentela con P. Sulpicio, che fu ucciso mentre era tribuno della plebe, non fu esente da un simile pericolo: Anicia infatti, la cugina di Pomponio, aveva sposato M. Servio, fratello di Sulpicio. Pertanto, dopo l’uccisione di Sulpicio, come vide la città sconvolta dai tumulti di Cinna e che non gli era concessa la possibilità di vivere secondo la dignità del suo stato senza offendere l’una o l’altra delle due parti, perché gli animi dei cittadini erano divisi, parteggiando gli uni per il partito di Silla, gli altri per quello di Cinna, ritenendo quella una buona occasione per attendere ai suoi studi, si recò ad Atene2. Questo non gli impedì però di aiutare con i suoi mezzi il giovane Mario, dichiarato nemico pubblico, di cui agevolò col suo denaro la fuga. E perché quel suo soggiorno all’estero non arrecasse un qualche danno al suo patrimonio, trasferì colà gran parte delle sue fortune. Qua visse in modo da essere sommamente ed a buon diritto caro a tutti gli Ateniesi. Infatti, a parte la sua amabilità, che ebbe grande fin dalla adolescenza, spesso con le sue sostanze venne in soccorso della loro pubblica povertà. Quando infattisi trovavano nella necessità di contrarre un prestito e non riuscivano ad averlo a condizioni eque, sempre intervenne personalmente ed in modo tale da non pretendere da loro né interesse iniquo né da permettere che il loro debito durasse più a lungo di quanto fosse stato stabilito. L’una e l’altra cosa era loro salutare: infatti non permetteva che con proroghe il loro debito si consolidasse, né che crescesse con l’accumulo degli interessi. Accrebbe questo suo servigio anche con un’altra liberalità: donò frumento a tutti, in modo tale che a ciascuno toccassero sei moggi di grano, una misura che ad Atene è chiamata medimno3.
3. Qui si comportava in modo tale, da apparire agli infimi uno di loro, ai maggiorenti un loro pari. Per la qual cosa, avvenne che a lui concedessero tutte le pubbliche onorificenze possibili e volessero dargli la cittadinanza: ma lui declinò il favore perché, secondo l’interpretazione di alcuni, si perde la cittadinanza romana, quando se ne prende un’altra. Per tutto il tempo che rimase là, si oppose a che gli venissero innalzate statue di sorta; partito, non poté impedirlo. Così collocarono alcuni suoi ritratti nei luoghi più sacri: lo ritenevano ispiratore e protagonista in tutti gli affari dello Stato. Pertanto fu un primo dono della sorte, l’essere nato proprio nella città che era la sede del dominio del mondo, ed avere la stessa per patria e dimora; ma fu un segno della sua saggezza il fatto che, recatosi in una città che superava tutte per antichità, civiltà e scienza, seppe là farsi amare quanto nessun altro.
4. Quando Silla nel suo ritorno dall’Asia giunse qua4, per tutto il tempo che vi si trattenne, volle presso di sé Pomponio, conquistato dalla gentilezza e dalla cultura del giovane: parlava il greco così bene da sembrare nato in Atene; ma, nella sua conversazione latina, vi era tanta dolcezza che era chiaro che possedeva una certa quale grazia naturale, non acquisita. Recitava poi poesie greche e latine con una perfezione insuperabile. Per tutti questi motivi Silla lo volle sempre accanto a sé e desiderava portarlo con sé. E mentre cercava di convincerlo: «Ti prego», gli disse Pomponio, «di non volermi portare contro quelli a causa dei quali dovetti lasciare l’Italia per non prendere con loro le armi contro di te». Ma Silla lodò molto lo scrupolo leale del giovane, e partendo ordinò che fossero trasferiti a lui tutti i donativi che aveva ricevuto ad Atene. Qua rimase molti anni, attendendo al patrimonio familiare tanto quanto è dovere di un oculato capo di famiglia, dedicando tutto il resto del tempo alla cultura o agli affari pubblici degli Ateniesi; ma ebbe modo di prestare i suoi servigi anche agli amici di Roma. Infatti andò più volte alle loro campagne elettorali e non mancò quando si trattò qualche problema particolarmente importante. Per esempio a Cicerone mostrò una fedeltà straordinaria in tutti i suoi gravi frangenti; e quando questi lasciò la patria per l’esilio, gli fece dono di duecentocinquantamila sesterzi. Quando la situazione a Roma fu tornata tranquilla, vi fece ritorno sotto il consolato, mi pare, di L. Cotta e Lucio Torquato5; alla sua partenza lo accompagnò tutta la popolazione ateniese, dimostrando con le lacrime con quanto dolore lo avrebbero rimpianto.
5. Aveva come zio materno Q. Cecilio, cavaliere romano, intrinseco di L. Lucullo6, ricco, di carattere intrattabile; ma lui seppe prendere con tanto garbo la sua scontrosaggine che, mentre nessuno riusciva a sopportarlo, seppe mantenere senza screzi fino alla estrema vecchiaia la sua benevolenza. Ottenne così il frutto del suo affetto. Cecilio infatti, morendo, lo adottò nel suo testamento e lo fece erede per i tre quarti: da tale eredità ricevette circa dieci milioni di sesterzi. La sorella di Áttico era sposata a Q. Tullio Cicerone e tali nozze le aveva combinate M. Cicerone, col quale fin dagli anni della scuola viveva in stretti rapporti di amicizia, addirittura molto più stretti che con Quinto, sì che si può ritenere che nell’amicizia valga più l’affinità di costumi che non la parentela. Era poi intimo amico di Q. Ortensio, che a quel tempo era il principe dell’eloquenza, sì che non si poteva capire chi lo amasse di più, se Cicerone od Ortensio; e, impresa molto difficile, riusciva a far sì che tra loro tanta emulazione di gloria non portasse astio alcuno ed anzi fosse l’anello di congiunzione tra i due.
6. Nella politica si comportò in modo tale da essere ed essere ritenuto sempre del partito degli ottimati, senza però lasciarsi trascinare nei flutti civili, perché riteneva chi si fosse abbandonato a questi, non essere più padrone di sé di chi fosse sbattuto dai flutti del mare. Non concorse alle pubbliche cariche, quantunque gli fossero aperte e per il suo prestigio personale e per il suo rango sociale, perché, nella dilagante corruzione della campagna elettorale né vi si poteva concorrere secondo il costume dei padri né si potevano ottenere, osservando le leggi, né si poteva senza pericolo governare secondo il bene dello Stato, essendo corrotti i costumi dei cittadini. Non si presentò mai ad un’asta pubblica. In nessun appalto fu mai né garante né assegnatario. Non accusò nessuno né per sua iniziativa né per sottoscrizione: non finì mai in giudizio per i suoi affari privati; non subì alcun processo. Accettò le prefetture7 che gli vennero offerte dai molti consoli e pretori, ma fece in modo di non accompagnare nessuno nella provincia, pago dell’onore e trascurando il vantaggio del suo patrimonio; tanto che non volle accompagnare in Asia neppure Q. Cicerone, quantunque potesse avere con lui la qualifica di legato. Riteneva infatti che fosse disdicevole per lui, che aveva rifiutato di esercitare la pretura, di essere del seguito del pretore.
Ed in ciò badava non solo alla sua dignità personale, ma anche alla sua tranquillità, evitando persino il sospetto di incriminazioni. Avveniva così che il suo ritegno fosse più gradito a tutti, vedendo che esso era da attribuire al suo senso del dovere, non al timore né alla speranza.
7. Incappò nella guerra civile di Cesare, quando aveva circa sessanta anni. Si valse dell’esenzione dovuta all’età e non si mosse dalla città per nessun luogo. Quello di cui ebbero bisogno gli amici suoi che partivano per raggiungere Pompeo, lo dette attingendo tutto al suo patrimonio; non urtò Pompeo, che era suo parente. Da lui non aveva ricevuto alcun segno di distinzione, come gli altri che grazie a lui si erano accaparrati cariche e ricchezze; di questi alcuni seguirono l’esercito del tutto controvoglia, altri se ne rimasero a casa, con sua grandissima indignazione.
La neutralità di Áttico piacque tanto a Cesare che, una volta vincitore, mentre imperiosamente chiedeva denari ai privati attraverso lettere8, non solo non recò a lui molestie, ma addirittura fece uscire dal campo di Pompeo ed il figlio della sorella e Q. Cicerone. Così attenendosi all’antica abitudine di vita, evitò i nuovi pericoli.
8. Dopo l’uccisione di Cesare9, [seguì quel periodo in cui] lo Stato pareva che fosse nelle mani di Bruto e di Cassio10 e che tutti i cittadini avessero abbracciato il loro partito. Egli fu in rapporti tali con M. Bruto che quel giovane non ebbe con alcun coetaneo miglior dimestichezza che con questo vecchio e non solo lo aveva come primo consigliere, ma anche suo commensale.
Da certuni fu proposto che i cavalieri romani costituissero un fondo privato per gli uccisori di Cesare: ritennero che ciò si potesse fare facilmente, se i rappresentanti più in vista di quell’ordine avessero recato il denaro. Così Áttico fu fatto chiamare da C. Flavio, amico di Bruto, perché volesse farsi promotore di questa iniziativa. Ma lui che riteneva che agli amici si devono fare favori a prescindere dallo schieramento politico e che si era sempre tenuto lontano da tali maneggi, rispose: se Bruto avesse voluto approfittare delle sue sostanze, poteva servirsene, finché ce ne fossero; ma lui di tale iniziativa né avrebbe parlato con nessuno né si sarebbe associato con nessuno. Così quel gruppo unanime si sciolse per il dissenso di lui solo.
Non molto dopo cominciò a prevalere Antonio, sì che Bruto e Cassio, abbandonato il governo delle province che erano state loro assegnate per pura formalità dal consol11, vista la situazione disperata, partirono per l’esilio.
Áttico che a quel partito, quando era potente, non aveva voluto versare contributi insieme con altri, a Bruto caduto in disgrazia e che lasciava l’Italia fece avere in dono centomila sesterzi; ed ancora, pur in sua assenza, gliene fece dare trecentomila in Epiro.
Così facendo né adulò il potente Antonio né abbandonò i disperati.
9. Seguì la guerra combattuta presso Mòdena12. A proposito della quale se io lo dicessi soltanto prudente, direi meno di quanto dovrei, perché fu piuttosto un indovino, se si deve chiamare divinazione quella costante bontà naturale che non si lascia scuotere né indebolire da nessun evento.
Antonio dichiarato nemico pubblico aveva abbandonato l’Italia; non aveva alcuna speranza di ritornarvi. Non soltanto i nemici personali che allora erano potentissimi e tantissimi, ma anche coloro che passavano dalla parte degli avversari e speravano di poter trarre un qualche vantaggio dal recare offese a lui, perseguitavano i familiari di Antonio, ardevano dal desiderio di spogliare la moglie Fulvia di tutti i suoi beni, si preparavano addirittura a far fuori i figli. Áttico benché fosse intimo amico di Cicerone e amicissimo di Bruto non solo non li assecondò per nulla negli attacchi ad Antonio, ma anzi, per quanto poté, protesse i suoi intimi in fuga dalla città, li soccorse delle cose di cui avevano bisogno.
A Publio Volumnio13 poi dette tanti aiuti che di più non gliene sarebbero potuti venire da un padre. Alla stessa Fulvia14 che era impegolata in tante cause e vessata da gravi minacce, prestò con tanta premura i suoi servigi, che essa non si presentò mai in giudizio senza Áttico, il quale fu garante in tutti i suoi processi.
Anzi avendo essa, al tempo della buona fortuna, comprato un fondo da pagarsi a scadenza e non avendo potuto dopo la disgrazia trovare il denaro per il saldo, intervenne lui e le accreditò il denaro senza interesse e sulla parola, ritenendo il frutto più grande l’essere riconosciuto memore e grato e mostrando nello stesso tempo che egli era solito essere amico non della fortuna ma degli uomini.
E quando faceva queste cose nessuno poteva ritenere che egli agisse per opportunismo: a nessuno infatti passava per il capo che Antonio si sarebbe impadronito del potere. Anzi veniva cautamente rimproverato da alcuni ottimati suoi amici, perché sembrava di odiare troppo poco i cittadini malvagi. Ma egli ragionando con la sua testa badava a che cosa fosse per lui giusto fare piuttosto che non a quello che avrebbero approvato gli altri.
10. Improvvisamente la fortuna si ribaltò. Quando Antonio tornò in Italia15, tutti ritenevano che Áttico corresse un grande pericoloper l’intima familiarità con Cicerone e Bruto.
Pertanto poco prima dell’arrivo dei generali aveva smesso di apparire in pubblico, temendo la proscrizione e stava nascosto presso P. Volumnio, al quale, come abbiamo detto, aveva prestato poco prima il suo aiuto (tanto grande fu in quei tempi la mutabilità della fortuna che ora l’uno ora l’altro veniva a trovarsi o all’apogeo del potere o nel massimo pericolo) ed aveva con sé Q. Gellio Cano suo coetaneo ed in tutto simile a lui.
Anche questo sia un esempio della bontà di Áttico: il fatto che con lui che aveva conosciuto fanciullo alla scuola, visse tanto affiatatamele, che la loro amicizia crebbe fino all’età estrema.
Ma Antonio, sebbene fosse spinto da tanto odio contro Cicerone, da essere nemico non solo di lui ma anche di tutti i suoi amici e li volesse proscrivere, incoraggiato da molti, tuttavia fu memore del favore di Áttico e informatosi dove fosse, gli scrisse di sua mano che non temesse e che andasse subito da lui: egli aveva infatti fatto togliere lui ed in grazia sua Cano dalla lista dei proscritti. E perché non incappasse in qualche pericolo, dato che la cosa avveniva di notte, gli mandò una scorta.
Così Áttico, in quella situazione di grandissima trepidazione, fu di presidio non solo a sé ma anche a colui che aveva carissimo.
Non chiese mai infatti a nessuno aiuto per la sua salvezza soltanto, ma per tutti e due, sì da esser chiaro che non voleva per sé alcuna salvezza che fosse senza di quello.
E se viene esaltato con grandi lodi quel timoniere che salva la nave dalla tempesta e dagli scogli marini, perché non si dovrebbe lodare la singolare prudenza di chi attraversò incolume tante e tanto gravi tempeste civili?
11. Non appena uscì fuori da queste traversie, non fece altro che recare aiuto, con i mezzi a disposizione, al maggior numero di persone. Quando il volgo, allettato dai premi dei generali, andava in cerca dei proscritti, nessuno andò in Epiro, a cui sia mancato qualche cosa; a nessuno fu negata la possibilità di rimanere là per sempre: anche dopo la battaglia di Filippi16 e la morte di C. Cassio e M. Bruto, egli prese a proteggere l’ex pretore L. Giulio Mocilla ed il figlio Aulo Torquato e tutti gli altri colpiti dalla stessa sorte, e dall’Epiro fece loro arrivare a Samotracia17 tutti gli aiuti necessari.
Sarebbe difficile e non necessario narrare minutamente tutte le cose. Solo questo vogliamo che sia chiaro: la sua liberalità non fu né legata alle circostanze né interessata.
Lo si può vedere dai fatti stessi e dalle circostanze, perché non si vendette ai potenti, ma sempre venne in soccorso dei colpiti dalla sventura; lui che onorò Servilia, la madre di Bruto, non meno dopo la morte di lui che quando essa era potente. Mostrandosi così liberale, non ebbe inimicizie di sorta, perché non offendeva nessuno e se aveva ricevuto un qualche torto preferiva dimenticare piuttosto che vendicarsi. Nello stesso tempo conservava con memoria imperitura i benefici ricevuti; quelli invece che faceva lui, se li ricordava tanto a lungo fino a che gli serbava riconoscenza quello che li aveva ricevuti. E così egli fece sembrare vero il detto:
Sono i loro propri costumi che plasmano la fortuna degli uomini18:
ma lui prima della fortuna plasmò sé stesso e badò a non fornire mai occasione di giusto biasimo.
12. È proprio grazie a queste sue qualità, che M. Vipsanio Agrippa19, legato da intima amicizia al giovane Cesare, quantunque e per la sua influenza e per il potere di Cesare potesse aspirare a qualsiasi parentado, scelse senz’altro la parentela con lui e preferì la figlia20 di un cavaliere romano alle nozze con fanciulle della migliore nobiltà. E mediatore di queste nozze fu (non va tenuto nascosto) M. Antonio, il triunviro per il riordinamento dello Stato.
Con il favore di questo avrebbe potuto ingrandire le sue proprietà, ma si tenne tanto lontano dalla cupidigia del denaro, che in nessuna occasione fece ricorso ad esso, se non per scongiurare i pericoli o i danni degli amici. Questo rifulse proprio durante il periodo delle proscrizioni. Per esempio, i triunviri avevano venduto, secondo il costume con cui si operava allora, i ricchi possedimenti in Italia del cavaliere romano L. Saufeio21, suo coetaneo, il quale preso dalla passione per la filosofia dimorava in Atene da diversi anni; ebbene, grazie agli sforzi ed all’abilità di Áttico, avvenne che Saufeio fosse informato con lo stesso messaggio di aver perduto il patrimonio e di averlo recuperato.
M. Giulio Calido, che dopo la morte di Lucrezio e di Catullo credo di poter dichiarare senza tema di errore il poeta di gran lunga più elegante prodotto dalla nostra generazione22 e non meno persona onesta ed istruita nelle migliori discipline, dopo le proscrizioni dei cavalieri, era stato inserito durante la sua assenza, a causa delle enormi ricchezze d’Africa, nella lista dei proscriti da P. Volumnio prefetto del genio di Antonio, ma egli lo trasse fuori da lì.
È difficile giudicare se in quel suo intervento di allora sia stata per lui maggiore la fatica o la gloria, perché è noto che Áttico quando gli amici erano in pericolo, si prese cura di loro sia che fossero presenti che assenti.
13. Ed egli non fu ritenuto meno bravo amministratore che cittadino. Infatti, quantunque fosse danaroso, nessuno fu meno avido di comprare di lui, meno smanioso di costruire. Non per questo però non ebbe una abitazione tra le migliori e non godette di tutte le comodità. Infatti abitò la casa Tanfiliana23 sul Quirinale, lasciatagli in eredità dallo zio materno, la cui bellezza era costituita non tanto dall’edificio quanto dal bosco. La costruzione di per sé, fatta in tempi antichi, aveva più buon gusto che sfarzo; in essa non apportò alcun cambiamento, se non quando fu costretto dalla vetustà. Ebbe una servitù, se si guarda all’utilità, ottima, se all’apparenza, appena mediocre. Ne facevano parte schiavi eruditissimi, lettori ottimi e moltissimi copisti, sì che tra i suoi accompagnatori non c’era nessuno che non sapesse fare bene l’una e l’altra cosa; parimenti quanto mai capaci tutti gli altri artigiani, che richiede il buon funzionamento di una casa. E nessuno di questi ebbe se non nato ed ammaestrato in casa; il che è segno non solo di parsimonia, ma anche di oculatezza. Infatti desiderare con misura quello che è desiderato dai più deve essere ritenuto proprio del parsimonioso ed il procacciarsi le cose piuttosto con la solerzia che con il denaro, è segno di non mediocre operosità.
Elegante, non magnifico; splendido, non sfarzoso; e tutto il suo zelo manifestava finezza, non sfarzo. Modesto l’arredamento e non eccessivo, sì da non dare nell’occhio né in un senso né nel l’altro. E non passerò sotto silenzio, quantunque ciò possa sembrare ad alcuni di poco interesse, che benché fosse cavaliere romano tra i più ricchi ed invitasse a casa sua con grande liberalità uomini di tutte le classi, egli di solito portava in uscita per le spese sul registro dei conti giornalieri non più di tremila assi in ugual misura per ogni mese. E questo lo diciamo non per sentito dire, ma per conoscenza diretta; spesso infatti in grazia dell’amicizia siamo stati partecipi dei suoi affari domestici.
14. Nessuno, ai suoi banchetti, ascoltò altro intrattenimento24 che quello del lettore, che è la cosa più piacevole almeno secondo noi; né mai a casa sua si pranzò senza una qualche lettura, in modo che i convitati si dilettassero nell’animo non meno che nel ventre: infatti invitava quelli, le cui abitudini non fossero troppo diverse dalle sue.
Pur avendo accumulato una così grande quantità di denaro, non cambiò nulla né del suo tenore quotidiano né delle sue abitudini di vita e si mostrò sempre tanto moderato, che né fece vita meno splendida con i due milioni di sesterzi che aveva ereditato dal padre, né con dieci milioni di sesterzi visse più sontuosamente di come aveva sempre fatto e seppe mantenersi nello stesso grado sia nell’una che nell’altra fortuna. Non ebbe parchi, nessuna villa sontuosa né fuori città né al mare, eccetto il podere rustico di Arezzo e quello di Nomento25 e tutte le sue entrate in denaro provenivano dai possedimenti dell’Epiro e di Roma. Da questo si può capire che era solito regolare l’uso del denaro non in base alla quantità ma secondo un calcolo oculato.
15. Menzogne non le diceva né poteva sopportarle. Così la sua affabilità non era scevra da severità, né la sua serietà senza cordialità; sì che difficilmente si capiva, se gli amici lo amassero o rispettassero di più. Di qualunque cosa fosse richiesto, era molto cauto nel promettere, perché riteneva che fosse di persona non liberale ma leggera promettere quello che non si può mantenere. Ma poi nel tener fede a quello che avesse una volta accordato, metteva un tale impegno, da sembrare che trattasse non una commissione, ma un affare suo proprio.
Mai ebbe a pentirsi di un impegno preso; riteneva infatti che in esso fosse in giuoco la sua riputazione, la cosa a cui teneva di più. Così egli si trovò a dover trattare tutti gli affari dei Ciceroni, di M. Catone, di Q. Ortensio, di A. Torquato, inoltre di molti cavalieri romani. Dal che si può giudicare che non tanto per pigrizia, quanto a ragion veduta egli abbia evitato l’amministrazione dello Stato.
16. Della sua umanità non posso citare testimonianza maggiore del fatto che da giovane egli fu carissimo al vecchio Silla, da vecchio al giovane M. Bruto; con i suoi coetanei poi Q. Ortensio e M. Cicerone, visse in modo tale che è difficile giudicare per quale età egli fosse più idoneo. Cicerone comunque lo amò in sommo grado, tanto che neppure il fratello Quinto gli fu più caro o più intrinseco. Di questo sono prova oltre i libri nei quali fa menzione di lui, che sono di pubblico dominio, gli undici volumi26 di lettere inviategli, dal tempo del suo consolato fino agli ultimissimi tempi: chi le legge, non sentirà molto il bisogno di una storia organica di quei tempi. Passioni dei capi, vizi dei capitani, rivolgimenti dello Stato, sono stati così accuratamente narrati che nulla in esse è rimasto nascosto e si può facilmente ritenere che la saggezza sia una sorta di divinazione. Cicerone infatti predisse non solo che sarebbero avvenute quelle cose che accaddero quando era vivo, ma anche presagì, come profeta, quelle cose che si stanno avverando adesso.
17. Che dovrei dire poi dell’affetto di Áttico per i suoi? Al funerale della madre che seppellì dell’età di novanta anni, quando lui ne aveva sessantasette, io l’ho sentito vantarsi di questo: che mai aveva dovuto riconciliarsi con la madre, che mai c’era stato astio tra lui e la sorella, che aveva all’incirca la stessa età. Questo vuol dire o che tra loro non ci fu mai un litigio o che lui fu nei confronti dei familiari così generoso, da ritenere sacrilego adirarsi con quelli che doveva amare. E questo fece non solo per indole naturale, a cui tutti obbediamo, ma anche per la sua formazione: infatti ebbe così assimilati gli insegnamenti dei più illustri filosofi, da servirsene per regola di vita quotidiana, non per vana ostentazione.
18. Fu anche scrupoloso seguace dei costumi degli antenati e amante dell’antichità, la cui conoscenza egli acquisì con tanto zelo, da esporla tutta quanta nel volume nel quale ha messo in ordine la successione delle magistrature. Non c’è infatti legge, né pace, né guerra, né fatto illustre del popolo romano che non si trovi lì registrato nel suo ordine cronologico; e, il compito più difficile, vi inserì l’origine delle famiglie in modo tale che da là possiamo conoscere le varie propaggini degli uomini illustri. Lo stesso fece anche separatamente in altri libri, sì che su richiesta di M. Bruto illustrò per ordine la famiglia Giunia, dal capostipite fino all’età nostra, registrando i discendenti di ciascuno, le cariche ricoperte e le date; parimenti su richiesta di Marcello Claudio fece della famiglia dei Marcelli; di Scipione Cornelio e di Fabio Massimo, dei Fabi e degli Emili. Per coloro che hanno una qualche curiosità di conoscere gli uomini illustri, nulla può essere più gradito di questi libri. Si dedicò anche alla poesia, crediamo, tanto per non essere privo della sua dolcezza. Infatti trattò in versi di coloro che per cariche e grandezza d’imprese si distinsero tra gli altri del popolo romano in modo che sotto i ritratti dei singoli, illustrò le imprese e le magistrature di ognuno in non più di quattro o cinque versi: si stenterebbe a credere, che cose tanto impor tanti potessero essere esposte in maniera così concisa. Rimane anche un libro scritto in greco sul consolato di Cicerone.
19. Quanto esposto fin qui fu da noi pubblicato quando Áttico era ancora vivo. Ora che la fortuna ha voluto che gli fossimo superstiti, esporremo le altre cose e per quanto potremo, con esempi pratici dimostreremo ai lettori, come abbiamo indicato sopra, che il più delle volte sono i costumi a plasmare la fortuna di ognuno. Infatti costui, pago dell’ordine equestre in cui era nato, si imparentò con il generale figlio del Divino, dopo che era entrato già da tempo in amicizia con lui, per nessun altro motivo che per la signorilità dei suoi modi, con la quale aveva conquistato i maggiori esponenti della città, pari a quello per prestigio, inferiori per fortuna. Tanta prosperità infatti accompagnò Cesare, che la fortuna non gli negò nulla di quanto avesse prima elargito a qualche altro e gli procacciò quello che finora nessun Romano ha potuto conseguire. Ad Áttico nacque una nipote da Agrippa, a cui aveva dato in sposa la figlia in prime nozze. Cesare, quando questa aveva appena un anno, la destinò in sposa al figliastro Ti. Claudio Nerone, figlio di Drusilla27; questo legame suggellò la loro amicizia e rese più frequenti i loro rapporti.
20. Comunque già prima di questi sponsali, Ottaviano non solo, trovandosi lontano da Roma, non mandò mai lettere a nessuno dei suoi senza scrivere anche ad Áttico per dirgli che cosa facesse, che cosa leggesse soprattutto ed in quali luoghi fosse e quanto a lungo vi sarebbe rimasto; ma anche quando era in città ed a causa degli infiniti suoi impegni meno spesso di quanto volesse godeva della compagnia di Áttico, non passò giorno, senza grave motivo, che non gli scrivesse, ora per chiedergli qualche informazione sulla storia antica ora per sottoporgli qualche questione di poesia, qualche volta scherzando per strappargli lettere più lunghe. E così fu che, stando il tempio di Giove Feretrio sul Campidoglio28, fondato da Romolo, scoperchiato per la vetustà e l’incuria, sul punto di crollare, per suggerimento di Áttico, Cesare lo fece restaurare. Né quando era lontano veniva meno onorato da Antonio con le sue lettere, tanto che quello, dalle terre più remote, aveva cura di informare dettagliatamente Áttico di quello che faceva. Che cosa significhi ciò, valuterà più facilmente chi potrà rendersi conto di quanta saggezza richiedesse mantenere i contatti e la benevolenza di coloro tra i quali intercorreva non solo la gara per il supremo potere, ma anche tanta ostilità, quanta era fatale che ci fosse tra Cesare ed Antonio, dal momento che sia l’uno che l’altro desiderava essere il capo non solo della città di Roma, ma di tutto il mondo.
21. Giunse così al compimento di settantasette anni e fino all’estrema vecchiaia crebbe non meno in dignità che in simpatia e ric chezza (infatti ottenne molte eredità per nessun’altra ragione che per la bontà) e godette anche di così prospera salute che per trenta anni non ebbe bisogno di medici; quando fu colto da una malattia, a cui all’inizio né lui né i medici dettero importanza: credettero infatti che si trattasse di una dissenteria per la quale si proponevano rimedi semplici ed efficaci. In questa trascorse tre mesi, senza dolori, eccetto quelli che gli venivano dalle cure, ma poi repentinamente il morbo scoppiò violento nel basso intestino sì che verso la fine vennero fuori nei fianchi fistole purulente. E già prima che gli capitasse questo, quando si accorse che i dolori crescevano ogni giorno più e si erano aggiunti gli attacchi di febbre, mandò a chiamare il genero Agrippa e con lui L. Cornelio Balbo e Sesto Peducèo.
Quando li vide giunti, reggendosi sul gomito, disse: «Quanta premura e diligenza io abbia messo in opera in questo periodo per difendere la mia salute, avendo voi per testimoni, non è necessario che io stia a ricordare con molte parole. Vi ho dimostrato, spero, che non ho tralasciato nulla che servisse alla mia guarigione; non rimane altro che sia io stesso a provvedere a me. Non ho voluto tenervi nascosta la mia decisione di smettere di alimentare la malattia. In questi giorni, con il cibo che ho preso, ho prolungato la vita solo per accrescere i dolori, senza speranza di guarigione. Perciò io chiedo a voi in primo luogo che approviate la mia decisione; poi che non cerchiate di impedirla con inutili esortazioni».
22. Disse queste parole con tanta fermezza di voce e di volto da sembrare che migrasse non dalla vita, ma da una dimora ad un’altra, mentre Agrippa piangendo e baciandolo lo pregava e lo scongiurava che non affrettasse a sé quello che la natura imponeva e, poiché anche allora poteva superare la crisi, si mantenesse per sé e per i suoi; ma egli rese vane le sue preghiere con la sua taciturna ostinazione. Così non prese cibo per due giorni e d’improvviso la febbre sparì e la malattia cominciò a migliorare; ma non per questo rinunziò a mandare ad effetto il suo proponimento. Così cinque giorni dopo aver preso quella decisione, il giorno prima delle calende di aprile, essendo consoli Gn. Domizio e Gaio Sosio, spirò29.
Fu portato al funerale su una lettiga comune, come aveva egli stesso disposto, senza alcuna pompa funebre, accompagnato da tutti i buoni, tra la folla innumerevole del volgo.
Fu sepolto lungo la via Appia, al quinto miglio, nel monumento di Q. Cecilio, suo zio materno.