LIBRO QUARTO
Caligola
1. Germanico, padre di Gaio Cesare, figlio di Druso e di Antonia minore, fu adottato dallo zio paterno Tiberio. Esercitò la carica di questore cinque anni prima rispetto al limite prescritto dalla legge e di seguito assunse la carica di console. Fu quindi inviato in Germania presso l’esercito e lì, quando giunse la notizia della morte di Augusto, non si sa se per rispetto filiale o per i suoi saldi principi, tenne a freno tutte le legioni che ricusavano con estrema fermezza Tiberio come imperatore e offrivano invece a lui il sommo potere dello Stato.
Vinse in seguito i nemici e celebrò il trionfo.
Fu eletto poi console per la seconda volta ma venne espulso prima di assumere l’incarico di riportare l’ordine in Oriente.
Sconfisse il re dell’Armenia e ridusse a provincia la Cappadocia.
Morì a 34 anni, in seguito a una lunga malattia, e si sospettò anche che fosse stato avvelenato. In effetti, presentava macchie bluastre in tutto il corpo e schiuma alla bocca, inoltre, dopo la cremazione, il cuore rimase intatto: si ritiene che tale sia la costituzione del cuore che non possa essere bruciato dalle fiamme, se è gonfio di veleno.
2. E morì, questa fu l’opinione generale, per volere di Tiberio e per opera di Gneo Pisone, il quale, allora governatore della Siria, senza nemmeno dissimulare di dovere avversare il padre o il figlio, come se fosse assolutamente inevitabile, tormentò Germanico, che pure era malato, con la grande durezza delle sue parole e dei suoi atti. Per questo, appena tornò a Roma, fu quasi linciato dal popolo e venne condannato a morte dal Senato.
3. È noto che Germanico ebbe in sorte tutte le qualità fisiche e morali come nessun altro: bellezza e forza straordinaria, ingegno eccelso nell’eloquenza e nella letteratura latina e greca, una particolare bontà d’animo, un desiderio ammirevole di conciliarsi il favore della gente e di attirarsi l’amore e la capacità di riuscirci.
Mal si addiceva alla sua bellezza l’esilità delle gambe ma anche quelle col tempo si irrobustirono, con l’esercizio dell’equitazione dopo i pasti.
Spesso combattè corpo a corpo con i nemici e li colpì. Anche dopo aver riportato trionfi, discusse cause e lasciò tra le testimonianze scritte dei suoi studi anche delle commedie scritte in greco.
Sempre socievole, in casa e fuori, si recava nelle città libere o confederate senza i littori.
Dovunque riconosceva i sepolcri di uomini illustri, tributava onori funebri ai loro Mani 1. Volendo dare sepoltura comune ai resti di tutti i soldati caduti nella sconfitta subita da Varo, per primo si mise a raccoglierne le spoglie e a trasportarle.
Fu clemente e benevolo anche verso i suoi detrattori, di qualunque genere e per qualunque motivo lo fossero, a tal segno che si decise ad adirarsi con Pisone, che pure vanificava i suoi decreti e perseguitava i suoi clienti, solo dopo che seppe di essere insidiato da lui anche con veleni e malìe. E anche in questo caso, non fece altro che negargli la sua amicizia, secondo la tradizione degli antichi, e avvertire i propri familiari di vendicarlo se gli fosse accaduto qualcosa.
4. Raccolse frutti in grande abbondanza da tali virtù e fu tanto stimato ed amato dai suoi che Augusto (tralascio infatti altre parentele), dopo aver a lungo esitato a darsi un successore, lo fece adottare da Tiberio.
Era tanto amato dal popolo che, come raccontano in molti, ogniqualvolta andava in qualche luogo o se ne allontanava, tale era l’affluenza della folla che accorreva e lo seguiva, che spesso la sua stessa vita fu in pericolo. Quando tornò dalla Germania, dopo avervi sedato la rivolta, gli corsero incontro tutte le coorti pretoriane, sebbene fosse stato dato ordine che ne uscissero due soltanto e inoltre tutto il popolo romano, senza distinzione di sesso, età, classe sociale, gli uscì incontro per venti miglia.
5. Ben più importanti e più nutriti furono i riconoscimenti tributati a lui alla sua morte e subito dopo. Il giorno in cui morì, furono lapidati i templi e abbattuti gli altari degli Dei, alcuni scagliarono i Lari familiari in strada, dei neonati furono esposti 2. Addirittura si racconta che anche i barbari, sia quelli che erano in guerra fra di loro, sia quelli che erano in guerra con noi, indissero la tregua, come per un lutto patrio della comunità. Alcuni principi si tagliarono la barba e fecero radere il capo alle mogli in segno di gravissimo lutto: perfino il re dei re 3 sembra che si sia astenuto dalla caccia e dal banchetto con i maggiorenti che, presso i Parti, equivale alla nostra sospensione delle cause per lutto pubblico.
6. A Roma invero, i cittadini erano rimasti attoniti e afflitti al primo annuncio della sua malattia e a quelli successivi e, quando verso sera si diffuse la notizia, messa in giro non si sa da chi, che si era ristabilito, accorsero da ogni parte con fiaccole e offerte in Campidoglio e quasi scardinarono le porte del tempio perché niente potesse trattenerli, impazienti di recare le offerte votive. Tiberio fu svegliato nel sonno dalle grida della folla che rendeva grazie agli dèi e d’ogni parte cantava in coro:
Roma è salva, salva è la Patria, salvo è Germanico.
E quando in fine fu annunciata pubblicamente la sua morte, non si potè impedire il lutto pubblico con nessuna forma di consolazione o di editto, e durò per tutti i giorni festivi di Dicembre.
Accrebbe la fama e il rimpianto del defunto anche l’atrocità dei tempi che seguirono: tutti infatti ritenevano che la ferocia di Tiberio, che si manifestò di lì a poco, fosse stata inibita dal rispetto e dalla paura di Germanico da parte di Tiberio.
7. Sposò Agrippina, figlia di Marco Agrippa e di Giulia, ed ebbe da lei nove figli, due dei quali morirono appena nati, un altro, delizioso, morì quando era ancora piccolo. A questo bimbo Livia aveva dedicato un ritratto nelle sembianze di Cupido, nel tempio di Venere Capitolina, che Augusto aveva posto nella sua camera e ogni volta che vi entrava lo baciava. Gli altri figli sopravvissero al padre: tre femmine, Agrippina, Drusilla e Livilla, nate una dopo l’altra nell’arco di tre anni e altrettanti maschi, Nerone, Druso e Caio Cesare.
Il Senato, su accusa di Tiberio, dichiarò nemici pubblici Nerone e Druso.
8. Caio Cesare nacque il 31 agosto, sotto il consolato del padre e di Caio Fonteio Capitone. Non si sa dove sia nato per la discordanza delle fonti.
Secondo Cneo Lentulo Getulico, nacque a Tivoli, mentre Plinio Secondo ritiene che sia nato nella zona di Treviri, nel villaggio di Ambitarvio, oltre Coblenza; adduce anche come prova la presenza in quei luoghi di are che recano l’iscrizione: «per il parto di agrippina». I versetti diffusi appena divenne imperatore, indicano che nacque nei quartieri invernali:
Esser nato in un campo e cresciuto tra Tarmi paterne, era già un presagio del suo fato di re.
Io ho letto negli Atti pubblici che nacque ad Anzio.
Plinio respinge la testimonianza di Getulico, come se avesse mentito per adulazione, trovando un pretesto per trarre lodi e omaggi al giovane principe anche dalla città sacra ad Ercole, e avesse usato impudentemente la sua menzogna perché, quasi un anno prima, a Germanico era nato un figlio a Tivoli ed anche quello si chiamava Caio Cesare: della sua tenera infanzia e della sua scomparsa prematura si è già detto. Il calcolo cronologico dimostra erronea l’opinione di Plinio. Infatti i memorialisti delle imprese di Augusto concordano nel dire che Germanico fu inviato in Gallia a conclusione del suo consolato, quando Caio era già nato. Del resto, nessuna iscrizione sugli altari potrebbe confortare la versione di Plinio, poiché Agrippina partorì due figlie in quella regione e qualsiasi parto, indipendentemente dal sesso del neonato si dice puerperium, poiché gli antichi chiamavano anche le bambine pueras, così come chiamavano pueros i bambini.
Esiste anche una lettera di Augusto, inviata alla nipote Agrippina pochi mesi prima di morire, proprio su questo Caio (e non c’era più un altro bambino con lo stesso nome), in cui scrive: «Ho stabilito ieri che il 18 maggio, col favore degli dei, Talario e Asillio accompagnino il piccolo Caio. Mando insieme a lui uno dei miei servi, un medico, che Germanico, come già gli ho scritto, se vuole può trattenere. Sta’ bene, mia cara Agrippina e cerca di arrivare sana e salva dal tuo Germanico».
Quindi mi sembra abbastanza evidente che Caio non poteva essere nato là se vi fu condotto da Roma quando aveva circa due anni. E questo invalida la credibilità di quei versucoli, per di più anonimi.
Pertanto bisogna seguire l’autorità della versione ufficiale, l’unica che rimane in piedi, soprattutto perché Caio amò Anzio, che preferiva sempre ad ogni altra località o luogo in cui ritirarsi, proprio come si ama la terra in cui si è nati e si racconta che, stanco di Roma, avesse in animo di trasferirvi la sede e la dimora imperiale.
9. Prese il soprannome di Caligola da uno scherzo di caserma, poiché era allevato in mezzo ai soldati con la divisa di gregario 4.
Quanto egli godette dell’affetto e del favore dei militari, proprio perché questi s’erano affezionati avendolo allevato, fu evidente dopo la morte di Augusto, quando solo lui riuscì a frenare le truppe in tumulto, quasi forsennate, con la sua presenza. Infatti non si placarono se non quando capirono che, per il pericolo della sommossa, Caio stava per essere trasportato, per salvaguardare la sua incolumità, nella città più vicina. Solo allora, pentiti, fermarono il carro e lo riportarono indietro, scongiurando così l’impopolarità che sarebbe venuta a loro.
10. Andò al seguito del padre anche nella campagna siriaca. Quando tornò rimase prima presso la madre, poi, quando questa fu relegata, visse con la bisnonna Livia Augusta e quando ancora indossava la pretesta puerile recitò in suo onore l’elogio funebre dinnanzi ai Rostri.
Si trasferì quindi dalla nonna Antonia e a 19 anni fu chiamato a Capri da Tiberio e, nello stesso giorno, assunse la toga virile e si rase la barba, senza gli onori che erano toccati ai suoi fratelli nel giorno del debutto.
Qui, pur essendo insidiato da tutti quelli che cercavano di indurlo o costringerlo a lamentarsi, non diede mai alcun appiglio, avendo rimosso a tal punto i suoi casi familiari come se non fosse mai successo nulla.
Lasciava correre con sorprendente dissimulazione anche le ingiustizie che egli stesso doveva sopportare e mostrava una tale riverenza verso il nonno e chi gli stava intorno che a buon titolo si disse che non vi fu servo migliore né padrone peggiore di lui.
11. Tuttavia non poteva neanche allora frenare la sua indole crudele e dissoluta dal partecipare con grande piacere alle torture e alle esecuzioni dei condannati a morte o dall’andare in giro di notte camuffato con una parrucca e una veste lunga alla ricerca di gozzoviglie e adulteri e dal dilettarsi con gran passione nelle arti sceniche della danza e del canto.
Tiberio era disposto a tollerare ciò di buon grado pensando di potere in tal modo tenere a bada la sua indole feroce. E Tiberio, vecchio assai sagace, aveva intravisto tale indole tanto a fondo che talvolta affermava che Caio viveva per la rovina sua e di tutti e che stava allevando un natrice (una specie di serpente) per il popolo romano e un Fetonte per il mondo intero.
12. Non molto tempo dopo sposò Giunia Claudilla, figlia del nobilissimo Marco Silano. Poi, designato augure al posto di suo fratello Druso, prima ancora di essere consacrato, fu insignito del titolo di pontefice, notevole riconoscimento questo della sua religiosità e della sua indole. Infatti, essendo ormai la reggia vuota e priva di altri sostegni ed essendo Seiano caduto in disgrazia e poco tempo dopo ucciso, egli a poco a poco veniva sospinto a sperare nella successione.
Per rafforzare ancor di più tale speranza, dopo che Giunia morì di parto, sedusse Ennia Nevia, moglie di Macronio, allora comandante delle coorti pretoriane, promettendole anche di sposarla appena fosse divenuto imperatore e sancì tale promessa con un giuramento e con un impegno scritto di suo pugno.
Insinuatosi quindi tramite la donna presso Macrone, avvelenò Tiberio, come alcuni ritengono, e gli ordinò di togliersi l’anello mentre ancora agonizzava. Poiché gli sembrava però che Tiberio facesse resistenza, gli fece premere addosso un cuscino e lo strozzò con le sue stesse mani, e fece immediatamente crocefiggere un liberto che, per l’orrore di quell’atto, si era messo a gridare.
Tutto ciò del resto non sembra inverosimile, poiché alcuni scrittori asseriscono che lo stesso Caligola aveva confessato che, anche se non era stato lui ad uccidere Tiberio, certamente una volta aveva pensato di farlo e, magnificando il proprio amore filiale, si era anche vantato spesso di essere entrato nella stanza dove Tiberio dormiva, per vendicare l’uccisione della madre e dei fratelli con il pugnale e di averlo gettato e di essere uscito, assalito da un sentimento di pietà. Diceva anche che Tiberio, sebbene se ne fosse accorto, non aveva osato accusarlo né punirlo.
13. Ottenuto così il potere imperiale, esaudì i voti del popolo romano (o dovrei dire piuttosto dell’intero genere umano?), principe desideratissimo dalla maggior parte dei provinciali e dei soldati, che in molti lo avevano conosciuto da bambino, ma anche da tutta la plebe urbana memore del padre Germanico e impietosita dallo sterminio quasi totale della sua famiglia.
Pertanto, quando lasciò Miseno, sebbene stesse accompagnando il feretro di Tiberio, vestito a lutto, tuttavia, tra le are e le vittime e le fiaccole ardenti, avanzò in mezzo a una fittissima ed entusiasta folla di gente che gli andava incontro e lo apostrofava, oltre che con nomi ben auguranti, «stella», «pulcino», «pupo», «figlio».
14. E, appena entrato in città, subito per volere unanime del Senato e della folla che fece irruzione nella Curia, fu annullata la volontà di Tiberio che nel testamento gli aveva dato come coerede l’altro nipote ancora fanciullo. Gli vennero conferiti potere e autorità assoluti, in un tale tripudio popolare che nei tre mesi successivi, neppure interi, si dice che furono immolate oltre centosessantamila vittime.
Quando poi, dopo alcuni giorni, si trasferì nelle isole vicine alla Campania, si fecero voti per il suo ritorno e nessuno trascurò la benché minima occasione di testimoniare la propria premura per la sua incolumità.
Quando si ammalò, mentre tutti vegliavano di notte intorno alla reggia sul Palatino, vi fu chi fece voto di combattere con le armi per la sua guarigione e chi offrì la propria vita in cambio della sua, esponendo un cartello col voto espresso.
A quell’immenso amore dei cittadini, si aggiunse anche un notevole favore degli stranieri. Infatti Atrabano, re dei Parti, che sempre aveva manifestato odio e disprezzo per Tiberio, chiese spontaneamente di essergli amico e venne a colloquio col legato consolare e, quando ebbe attraversato l’Eufrate, rese ossequio alle aquile e alle insegne romane e all’effigie dei Cesari.
15. Del resto anch’egli alimentava il favore delle genti con ogni forma di popolarità.
Dopo aver declamato in pubblico l’orazione funebre di Tiberio e dopo avere celebrato il funerale con grande solennità, subito si affrettò verso Pandataria 5 e Ponza, per portar via di là le ceneri della madre e del fratello, nonostante vi fosse una terribile tempesta, affinché ancor più spiccasse la sua pietà filiale e vi si avvicinò con grande devozione e con le sue stesse mani le mise nelle urne cinerarie. Inoltre, con una messinscena altrettanto spettacolare, le portò ad Ostia, avendo issato a poppa un vessillo, e di lì, lungo il Tevere a Roma, facendo trainare la nave dai cavalieri più insigni e in pieno giorno, in mezzo alla folla, le fece portare su due lettighe nel Mausoleo, istituì in loro onore riti funebri con celebrazioni pubbliche annuali e inoltre, in onore di sua madre istituì giochi circensi e un carpento 6 per trasportare in processione la sua effigie. Inoltre, per commemorare il padre, chiamò Germanico il mese di settembre.
In seguito, con un’unica delibera del Senato, conferì alla nonna Antonia tutti gli onori che erano stati conferiti a Livia Augusta; assunse come collega nel consolato lo zio Claudio, fino ad allora semplice cavaliere romano, adottò il fratello Tiberio lo stesso giorno in cui quello assunse la toga virile e lo denominò principe della gioventù. In onore delle sue sorelle decretò che a tutti i giuramenti si aggiungesse la formula: «Non considererò me stesso e i miei figli più cari di Caio e delle sue sorelle» e allo stesso modo nelle relazioni dei consoli fece aggiungere la frase: «Che sia di buon augurio e di buona fortuna a Caio Cesare e alle sue sorelle».
Con mossa egualmente popolare, graziò i condannati e i confinati e concesse indulgenza a tutte le imputazioni che fossero rimaste in sospeso dal periodo precedente.
Fece bruciare tutti gli atti processuali relativi alle cause della madre e dei fratelli, dopo averli fatti raccogliere tutti nel foro, affinché nessun delatore o testimone avesse a temere ancora, e dopo aver chiamato a testimoni gli dèi che egli non ne aveva letto né toccato alcuno.
Rifiutò di accettare un libello che denunciava rischi per la sua incolumità, contestando che non aveva fatto nulla per cui potesse essere odiato da qualcuno e disse di non avere orecchie per i delatori.
16. Fece allontanare dalla città i cinedi 7 che praticavano orribili atti di libidine, facendosi convincere a fatica a non farli gettare in mare.
Permise che le opere di Tito Labieno, Cremuzio Cordo e Cassio Severo, tolte di mezzo per decreto del Senato, fossero ripescate e messe in giro e lette e rilette, perché era suo massimo interesse che tutti gli eventi accaduti fossero tramandati ai posteri.
Rese pubblici i conti dello Stato, la cui pubblicazione, solitamente consentita da Augusto, era stata sospesa da Tiberio.
Concesse ai magistrati libertà di giurisdizione senza doversi appellare a lui.
Riesaminò con severità e attenzione, ma sempre con moderazione, i cavalieri romani e privò pubblicamente del cavallo chi si fosse macchiato di qualche misfatto o ignominia e fece soltanto tralasciare di nominare negli elenchi coloro che avevano commesso colpe minori.
Per alleviare il lavoro dei giudici, aggiunse una quinta decuria alle quattro precedenti.
Cercò anche di restituire al popolo il diritto di voto ripristinando l’uso dei comizi.
Pagò i lasciti del testamento di Tiberio, sebbene fosse stato annullato, ma anche quelli del testamento di Giulia Augusta che Tiberio aveva tenuto nascosti e lo fece fedelmente senza sollevare obiezioni.
Condonò il mezzo per cento delle vendite all’asta in Italia. Risarcì a molti i danni d’incendio.
Quando restituì ad alcuni re i loro domini, rese loro anche il ricavato dei tributi e il reddito prodotto nell’interregno, come nel caso di Antioco Commageno 8, al quale restituì cento milioni di sesterzi confiscatigli.
Per sembrare favorire al massimo ogni buon esempio, donò ottantamila sesterzi a una liberta che, sottoposta a terribili torture, non aveva confessato le colpe del suo padrone.
Per questo gli venne attribuito, tra gli altri riconoscimenti, un clìpeo d’oro che una volta l’anno i collegi sacerdotali dovevano recare in Campidoglio seguiti dai senatori in processione, mentre un coro di nobili fanciulli e giovinette celebrava le sue virtù con un canto modulato in versi. Si deliberò inoltre che il giorno in cui aveva assunto il comando venisse chiamato Parile 9, come segno di una rifondazione di Roma.
17. Ricoprì il consolato per quattro volte: la prima dal primo luglio per due mesi, la seconda dal primo gennaio per trenta giorni, la terza fino al 13 gennaio, la quarta fino al 7 gennaio; di questi, gli ultimi due consolati furono consecutivi. Il terzo lo intraprese a Lione, senza collega, non per tracotanza o negligenza delle leggi, come alcuni ritengono, ma perché non aveva avuto la possibilità di essere informato, essendo lontano da Roma, che il suo collega era morto il 31 dicembre. Per due volte fece una elargizione pubblica di trecento sesterzi a testa e per due volte offrì un ricco banchetto ai senatori e ai cavalieri, invitando anche le loro mogli e i loro figli. Nel secondo banchetto fece distribuire anche abiti da cerimonia agli uomini e fasce di porpora e viola alle donne e ai bambini.
E per prolungare stabilmente la festosità popolare, aggiunse un giorno alle feste Saturnali e lo chiamò Iuvenale10.
18. Fece allestire alcuni giochi gladiatori, alcuni nell’anfiteatro di Tauro, altri in Campo Marzio e vi fece partecipare le compagnie dei pugili africani e campani, i più bravi selezionati in quelle due regioni.
Non sempre fu lui a presiedere agli spettacoli, talvolta affidò tale incarico a magistrati o ad amici.
Fece allestire assai spesso spettacoli teatrali di vario genere e in vari luoghi, a volte anche di notte, con la città tutta illuminata.
Lanciava anche doni di vario genere alla folla e una volta distribuì cesti pieni di viveri ai singoli cittadini. In quell’occasione, a un cavaliere romano, che gli stava di fronte e mangiava con molto gusto e con grande gioia, mandò anche la sua porzione e ancora, per lo stesso motivo, a un senatore fece recare un suo biglietto, col quale lo nominava pretore soprannumerario.
Fece allestire anche molti spettacoli circensi che duravano da mattina a sera, intervallati ora da scene di caccia africana, ora dal Ludo Troiano 11 e altri spettacoli speciali per i quali il circo fu rivestito di minio e verderame e le bighe furono guidate solo da persone di rango senatorio.
Fece allestire anche spettacoli estemporanei, una volta che alcuni dalle verande vicine glielo richiesero, mentre assisteva dalla casa Geloziana ai preparativi del circo.
19. Inventò anche un genere di spettacolo nuovo e mai visto prima. Infatti, formò un ponte nel tratto di mare tra Baia e il porto di Pozzuoli, con navi da carico raccolte d’ogni parte e ancorate in doppia fila, ordinò poi di fare una gettata di terra sulle navi, in linea dritta, come un proseguimento della via Appia, e per due giorni andò avanti e indietro su questo ponte di navi, il primo giorno cavalcando un cavallo bardato di fàlere 12 con una corona di foglie di quercia in capo, uno scudo e una spada nelle mani e indosso una clàmide d’oro, il giorno dopo vestito da auriga, su una biga tirata da due cavalli famosi, accompagnato da una schiera di pretoriani e da una folla di amici montati su carri.
So che molti hanno ritenuto che Gaio avesse ideato un ponte di tal genere per emulare Serse che, suscitando ammirazione, aveva gettato un ponte di navi sull’Ellesponto che era un po’ più stretto; altri ritenevano che volesse incutere timore, con la fama di un’opera eccezionale, ai Germani e ai Britanni che si preparava ad attaccare. Ma io da piccolo ho sentito mio nonno narrare quale sarebbe stata la causa di tale opera, in base a quanto gli avevano detto in segreto i cortigiani più vicini all’imperatore, secondo i quali il matematico Trasillo aveva detto a Tiberio, quando era in ansia riguardo alla designazione del suo successore e propendeva verso il suo vero nipote, che sarebbe stato più difficile per Gaio divenire imperatore che attraversare a cavallo il golfo di Baia.
20. Anche durante i suoi spostamenti fece allestire spettacoli, in Sicilia i Giochi Urbani a Siracusa, e in Gallia, a Lione, i Miscelli 13, e anche una gara di eloquenza greca e latina. Si dice che durante questa gara i vinti dovettero consegnare i premi ai vincitori e tesserne gli elogi e che coloro che erano risultati i peggiori dovettero cancellare i propri scritti con una spugna o con la lingua se non volevano altrimenti essere frustati con le verghe o essere immersi nel fiume vicino.
21. Fece ultimare la costruzione degli edifici lasciati incompiuti da Tiberio: il tempio di Augusto e il teatro di Pompeo.
Diede inizio anche alla costruzione dell’acquedotto nella zona di Tivoli e dell’anfiteatro presso il Campo Marzio. Di queste opere, la prima fu portata a termine da Claudio, suo successore, l’altra fu interrotta.
A Siracusa furono ricostruite le mura, in rovina perché molto antiche e i templi degli dei.
Aveva stabilito di restaurare anche la reggia di Policrate a Samo, di ultimare il Didimeo a Mileto 14, di fondare una città sulle Alpi, ma prima di tutto di tagliare l’istmo in Acaia 15 e aveva già inviato un centurione a effettuare le misurazioni.
22. Finora ho parlato più o meno del principe; mi resta ora di parlare del mostro.
Dopo aver assunto vari epiteti (si faceva chiamare infatti Pio, Figlio dell’accampamento, Padre degli eserciti, Cesare Ottimo Massimo), quando sentì per caso alcuni re, giunti a Roma per rendergli ossequio, discettare durante la cena che si teneva alla sua mensa, della nobiltà di stirpe, esclamò: «Uno solo sia il sovrano, uno solo il re!». E mancò poco che si mettesse in testa immediatamente il diadema e mutasse la parvenza del principato nella forma effettiva del regno. Ma, poiché gli ricordarono che egli era andato ben oltre la grandezza dei principi e dei re, da quel momento iniziò ad attribuirsi la maestà divina. Diede incarico di portare dalla Grecia i simulacri degli dei, noti per la loro importanza religiosa o artistica, e tra questi la statua di Zeus Olimpio, e fece sostituire la testa di queste statue con la riproduzione della propria. Fece prolungare una parte del Palazzo fino al Foro e, trasformato il tempio di Castore e Polluce in vestibolo, si presentava spesso seduto tra i due Dioscuri a coloro che si recavano da lui, come terza divinità da adorare in mezzo agli altri due e alcuni lo salutavano anche come Giove Laziale. Instituí inoltre in onore del proprio nume un tempio, dei sacerdoti e vittime assai rare. Nel tempio era stata eretta una sua statua d’oro a grandezza naturale, che ogni giorno veniva avvolta da una veste identica a quella indossata da lui stesso. I cittadini più ricchi si contendevano le cariche di quel sacerdozio brigando e offrendo grandi somme di denaro per ottenerle. Le vittime erano fenicotteri, pavoni, urogalli, faraone, galli indiani, fagiani ed ogni giorno ne veniva immolata una specie diversa.
Di notte poi invitava la luna piena e luminosa, con preghiere assidue, a far l’amore e a giacere con lui; di giorno invece conversava in segreto con Giove Capitolino, ora bisbigliando e porgendo a sua volta l’orecchio, ora a voce alta e lanciando improperi. Lo si udì infatti minacciare: «O tu togli di mezzo me, o io te!». Finché, supplicato, così andava dicendo, e anzi invitato a vivere con lui, fece unire il Palatino con il Campidoglio, facendo passare un ponte sopra il tempio del Divo Augusto. Subito dopo, per stargli ancora più vicino, fece gettare le fondamenta della nuova reggia proprio nell’area capitolina.
23. Non voleva essere ritenuto, né detto nipote di Agrippa, in quanto questi non era nobile e si adirava se qualcuno, in un discorso o in un carme inseriva costui tra le figure dei Cesari. Diceva in giro che sua madre era nata da un rapporto incestuoso tra Augusto e sua figlia Giulia. Non contento di infamare così Augusto, vietò di celebrare con feste solenni le vittorie di Azio e di Sicilia, come funeste e rovinose per il popolo romano. Definiva la sua bisnonna Livia Augusta un Ulisse travestito da donna e osò anche accusarla, in una lettera al Senato, di ignobiltà, come se fosse nata da un avo materno, decurione di Fondi, mentre da documenti pubblici risulta che Aufidio Lurcone ricoprì cariche politiche a Roma.
Alla nonna Antonia negò un’udienza privata, da lei richiesta, a meno che non fosse presente anche il prefetto Macrone. Con tali umiliazioni e dinieghi ne causò la morte, se addirittura, come pensano alcuni, non la fece avvelenare.
Quando morì non le rese alcun onore e assistette alla sua cremazione dal triclinio.
Fece uccidere suo fratello, Tiberio, quando questi meno se l’aspettava, inviandogli all’improvviso un tribuno militare e spinse Silano, suo suocero, ad uccidersi tagliandosi la gola con un rasoio. Addusse come pretesto, nel caso del suocero, il fatto che costui non aveva voluto seguirlo, una volta che egli si era imbarcato con mare assai agitato ed era rimasto a Roma, nella speranza di assumere il potere se gli fosse successo qualcosa durante la tempesta; nel caso del primo, il fatto che il suo alito emanava odore di medicinale, come se facesse uso di antidoti per premunirsi da un suo avvelenamento.
In realtà, Silano aveva voluto evitare, non tollerandolo, il mal di mare e il disagio della navigazione e Tiberio aveva usato un medicamento perché affetto da una tosse insistente e sempre più ostinata.
Risparmiò lo zio Claudio solo per farne il suo zimbello.
24. Aveva abitualmente rapporti incestuosi con tutte le sue sorelle e in pieno banchetto a turno ne faceva sdraiare una alla sua destra, mentre teneva a fianco, dall’altro lato, la moglie. Si dice che abbia sedotto la sorella Drusilla, ancora vergine, quando ancora indossava la pretesta, e una volta fu anche sorpreso dalla nonna Antonia, che li allevava in casa sua, mentre giaceva con lei. Dopo averla data in sposa a Lucio Cassio Longino ex console, gliela portò via e la tenne con sé, pubblicamente, come una moglie legittima e, una volta che si era ammalato, la nominò erede dei suoi beni e del suo potere. Quando Drusilla morì, proclamò la sospensione dell’amministrazione della giustizia e in quel periodo fu ritenuto delitto capitale ridere, lavarsi, cenare con i genitori o con la moglie e i figli.
Non sopportando tuttavia il dolore, partì all’improvviso di notte da Roma, andò in Campania, da lì si diresse a Siracusa e di nuovo tornò subito indietro, facendosi crescere i capelli e la barba.
Da quel giorno in qualunque circostanza, anche nelle assemblee pubbliche e presso i militari, giurò solo sul nume di Drusilla.
Non amò con eguale intensità e considerazione le altre sorelle, anzi spesso le fece prostituire ai suoi amasii e poi, proprio per questo potè più facilmente farle condannare come adultere e complici di una congiura ai suoi danni, nel processo contro Emilio Lepido. Inoltre, non soltanto rese pubbliche le lettere scritte di loro pugno, che era riuscito a raccogliere con l’inganno e con la violenza, ma consacrò a Marte Vendicatore tre spade approntate per la sua uccisione, facendovi incidere sopra un’epigrafe.
25. È difficile discernere se sia stato più infame nel contrarre o nello sciogliere o nel gestire i suoi rapporti coniugali. Ordinò di portare da lui Livisa Orestilla, dopo aver assistito alle sue nozze con Caio Pisone ma, dopo alcuni giorni, la ripudiò e la relegò per due anni poiché gli era sembrato che in quel periodo di tempo la donna avesse ripreso i rapporti con il primo marito.
Altri raccontano che, invitato al banchetto nuziale, aveva intimato a Pisone che gli stava di fronte: «Non stare così addosso a mia moglie!» e che se l’era portata via dal convito all’improvviso e il giorno dopo aveva dichiarato in un editto di essersi procurato una moglie seguendo l’esempio di Romolo e di Augusto.
Avendo sentito dire che la nonna di Lollia Paolina, moglie di Caio Memmio, ex console e comandante dell’esercito, era stata una donna bellissima, fece venire subito dalla provincia Lollia e, toltala al marito, la sposò. Quasi subito dopo, la ripudiò e le vietò per tutta la vita di avere rapporti sessuali con alcuno.
Amò invece più intensamente e con maggior costanza Cesonia che non era particolarmente bella, né giovane, ed aveva già avuto tre figlie da un altro marito, ma era sfrenatamente sensuale e dissoluta e spesso la mostrò ai soldati al suo fianco a cavallo, con la clamide, lo scudo e l’elmo e la mostrò anche nuda ai suoi amici.
La onorò del titolo di moglie appena ebbe partorito e in quello stesso giorno si dichiarò suo sposo e padre della bambina appena nata.
Poi portò in giro per tutti i templi delle dee quella bambina, che chiamò Giulia Drusilla, e la pose in grembo a Minerva raccomandandole di nutrirla e di allevarla. La riteneva del suo seme se non altro perché ne riconosceva i segni della crudeltà, che in lei era già fin da allora tale da spingerla a graffiare e ficcare le dita negli occhi dei bambini che giocavano con lei.
26. Sarebbe futile e di poca importanza aggiungere a tutto questo in che modo abbia trattato parenti e amici: Tolomeo, figlio del re Giuba e suo cugino (era infatti anche lui nipote di Marco Antonio, essendo nato da sua figlia Selene) e soprattutto Macrone e la stessa Ennia, che l’avevano aiutato a prendere il potere. A tutti questi, per diritto di parentela e a ricompensa dei loro meriti, fu data una morte cruenta.
E non ebbe maggior rispetto o umanità verso il Senato: ad alcuni che avevano rivestito altissime cariche fece la concessione di correre in toga presso il suo cocchio per molte miglia e di stare ai suoi piedi o alla spalliera, con un tovagliolo alla cintola, mentre egli cenava; altri, dopo averli fatti ammazzare di nascosto, continuò a farli convocare, come se fossero vivi e dopo alcuni giorni, dichiarò, mentendo, che si erano suicidati.
Sospese l’incarico ai consoli che si erano dimenticati di annunziare al pubblico il suo giorno natale e lo Stato rimase per tre giorni senza la sua più alta carica.
Fece flagellare il suo questore, indiziato di congiura, avendo fatto gettare sotto i piedi dei soldati la veste che gli era stata strappata di dosso, affinché potessero poggiarvisi più saldamente per frustarlo.
Con eguale disprezzo e violenza trattò anche gli altri ordini. Irritato dal chiasso della folla che occupava i posti gratuiti del Circo nel bel mezzo della notte, fece scacciare tutti a bastonate. In quello scompiglio rimasero schiacciati più di venti cavalieri romani e altrettante matrone, oltre un numero imprecisato di altre persone della folla.
Durante i ludi scenici, per creare la rissa tra la plebe e i cavalieri, dava le elargizioni prima del tempo previsto, affinché i posti riservati ai cavalieri fossero occupati dai più poveri.
Durante alcuni spettacoli gladiatori, talvolta faceva togliere il velario quando il sole era più ardente, non permetteva a nessuno di uscire e, eliminato l’allestimento ordinario, offriva al pubblico bestie macilente, gladiatori scadentissimi e vecchissimi, talora gladiatori per burla, padri di famiglia noti per un qualche difetto fisico.
Spesso minacciò di affamare il popolo, dopo aver fatto chiudere i granai pubblici.
27. In questi modi rivelò al massimo la sua indole crudele. Poiché le bestie da dare in pasto alle fiere destinate allo spettacolo costavano troppo care, fece dare loro da sbranare alcuni condannati e, passando in rassegna le prigioni, senza guardare le note di alcuno, ordinò di farli uscire tutti, «da quel calvo a quell’altro calvo», standosene soltanto in mezzo al portico.
Pretese che un tale che aveva promesso di battersi come gladiatore per la guarigione dell’imperatore, mantenesse il voto e stette a guardarlo mentre combatteva con la spada e non lo fece smettere finché non risultò vincitore e solo dopo essersi fatto pregare a lungo.
Un altro che, per lo stesso motivo, aveva fatto voto di uccidersi, lo consegnò a dei ragazzi affinché cinto di verbene e bende sacre, lo spintonassero da un rione all’altro fino a farlo precipitare da un’altura.
Condannò molti cittadini di onorevole condizione, dopo averli sfregiati col marchio d’infamia, ai lavori forzati nelle miniere e nella lastricazione delle strade, o li fece rinchiudere in gabbia costringendoli a stare a quattro zampe, come bestie, altri li fece segare in due e non per gravi colpe, magari perché avevano giudicato male un suo spettacolo o non avevano mai giurato sul suo genio.
Costringeva i genitori ad assistere alla tortura dei figli e ad un genitore che aveva addotto il pretesto di un’indisposizione per sottrarsi, fece mandare una lettiga; un altro, subito dopo averlo fatto assistere al supplizio, lo invitò a pranzo e lo provocava a ridere e scherzare, con ogni tipo di allettamento.
Fece battere con le catene in sua presenza per svariati giorni un organizzatore di spettacoli e di cacce, e lo fece uccidere solo quando il lezzo della sua testa, per le ferite marcite d’infezione, divenne insopportabile.
Fece bruciare vivo in mezzo all’arena dell’anfiteatro il compositore di un’atellana, per un verso di senso ambiguo.
Ordinò di far ritirare dall’arena un cavaliere romano, condannato ad esser dato in pasto alle belve, che si proclamava innocente: gli fece strappare la lingua e poi lo mandò di nuovo nell’arena.
28. Una volta, poiché aveva chiesto a un tale che tornava da un lungo esilio, come fosse solito passare il tempo laggiù e quello, per adularlo, gli aveva risposto: «Pregavo sempre gli dei di far morire Tiberio, come poi è accaduto, e che divenissi tu imperatore», pensando che anche quelli condannati da lui all’esilio chiedessero in preghiera la sua morte, mandò degli emissari nelle isole per ucciderli tutti.
Essendogli venuta la voglia di fare a pezzi un senatore, istigò alcuni affinché, appena fosse entrato nella Curia, lo assalissero, proclamandolo nemico pubblico e dopo averlo trafitto con gli stili, lo dessero da straziare alla folla e fu pago solo dopo aver visto le membra e gli arti e le viscere di quello trascinati per le strade e poi ammucchiate davanti a sé.
29. E aggiungeva all’atrocità delle sue azioni quella delle parole. Diceva che la cosa che più lodava e approvava della propria indole era, per usare un suo termine, la ἀδιατρεψίαν (cioè l’impudenza).
Alla nonna Antonia che lo rimproverava, come se non bastasse solo disobbedire, disse: «Ricordati che a me è concesso fare ogni cosa e contro chiunque!».
Quando stava per uccidere il fratello e sospettava che quello, temendo d’essere avvelenato, prendesse un antidoto, disse: «Un antidoto contro Cesare?».
Minacciava le sorelle che aveva relegato in esilio, dicendo che egli oltre alle isole possedeva anche le spade.
Un ex pretore, da Anticira, dove si era ritirato per motivi di salute, aveva chiesto insistentemente di potere prolungare il congedo. Caligola, avendo ordinato di ucciderlo, soggiunse che a una persona alla quale non era giovato per tanto tempo l’elleboro, sarebbe giovato un salasso di sangue.
Quando ogni dieci giorni firmava l’elenco dei prigionieri da torturare, diceva che egli «regolava i conti».
Avendo condannato contemporaneamente dei Galli e dei Greci, si vantava di «aver soggiogato la Gallogrecia».
30. Non permise che si suppliziasse alcuno se non con colpi brevi e frequenti, per via di quel suo precetto noto e spesso da lui ribadito: «Ferisci in modo che senta di morire!».
Una volta, avendo fatto punire per un errore di nominativo una persona diversa, disse che anche quello aveva meritato eguale sorte.
Di tanto in tanto andava ripetendo quel verso di una tragedia:
Odino, purché temano.
Spesso inveì contro tutti i senatori allo stesso modo, appellandoli clienti di Seiano, delatori di sua madre e delle sue sorelle, tirando fuori i documenti che aveva fatto finta di bruciare, difendendo la efferatezza di Tiberio come inevitabile se si doveva prestar fede a così tanti accusatori.
Denigrò spesso l’ordine dei cavalieri come dedito agli spettacoli del Circo.
Adirato con la folla che plaudiva contrariamente alle sue preferenze, esclamò: «Ah, se il popolo romano avesse una sola testa!».
Quando venne richiesto il ladro Tetrinio, disse che erano Tetrinii anche quelli che lo richiedevano.
Cinque reziari 16 tunicati che combattevano in gruppo erano stati vinti da altrettanti avversari senza opporre alcuna resistenza. Avendo ordinato che fossero uccisi, uno di loro, afferrata di nuovo la fiocina, uccise tutti i vincitori: egli allora condannò come esecrabile quella strage e imprecò contro quelli che avevano tollerato un simile spettacolo.
31. Era solito anche dolersi della condizione dei suoi tempi, in quanto non erano stati contrassegnati da alcuna calamità pubblica. Il principato di Augusto era stato contrassegnato dalla sconfitta di Varo, quello di Tiberio dal crollo del Circo presso Fidene, il suo rischiava di cadere in oblio per la prosperità. E allora auspicava stragi militari, carestie, pestilenze, incendi, sprofondamenti di terre.
32. Eguale crudeltà, sia negli atti che nelle parole, mostrava anche quando si dedicava agli svaghi ed era intento al gioco o a banchettare.
Spesso, mentre pranzava e sbevazzava, faceva svolgere in sua presenza interrogatori con torture, e un soldato abile a decapitare mozzava il capo ad alcuni prigionieri tratti dal carcere.
A Pozzuoli, mentre si dedicava a quel ponte da lui escogitato, di cui abbiamo parlato prima, dopo aver invitato molti dalla riva ad avvicinarglisi, improvvisamente li gettò tutti in mare e con remi e pali ricacciò in acqua quelli che cercavano di salvarsi aggrappandosi ai timoni.
A Roma, durante un banchetto pubblico, affidò immediatamente al carnefice un servo che aveva rubato una lamina d’argento da un letto tricliniare, e ordinò che le mani gli fossero mozzate e appese al collo e che fosse portato in giro tra i convitati così conciato, preceduto da un cartello che spiegava il motivo di quella punizione.
Trafisse con un pugnale un gladiatore mirmillone 17 che era venuto dalla palestra per addestrarlo al combattimento con armi spuntate: quando questi si lasciò cadere spontaneamente a terra, egli lo trafisse e poi andò in giro correndo con la palma in mano a mo’ di vincitore.
Una volta, condotta una vittima all’altare, egli, con le vesti succinte da sacerdote sacrificatore 18, librato in aria il maglio, ammazzò il sacerdote che doveva sgozzare la vittima.
Durante un assai lauto banchetto, scoppiò improvvisamente a ridere e ai consoli seduti al suo fianco, che gli chiedevano perché mai ridesse in tal modo, rispose: «Di cos’altro se non del fatto che a un mio solo cenno voi due potreste essere immediatamente sgozzati?».
33. Tra le varie sue beffe, una volta, stando in piedi presso la statua di Giove, chiese ad Apelle, un attore tragico, chi dei due gli sembrasse più grande e, poiché quello esitava, lo frustò e mentre l’attore lo supplicava, egli magnificava quella voce come dolcissima perfino nei gemiti.
Ogni volta che baciava il collo della moglie o di un’amante qualsiasi, soggiungeva: «Un collo così bello sarà spezzato appena lo vorrò». E a volte soleva anche ripetere che anche con le corde 19 avrebbe cercato di far confessare alla sua Cesonia perché mai l’amasse tanto.
34. E con livore e cattiveria pari a tale arroganza e crudeltà, perseguitò quasi tutti gli uomini d’ogni età. Fece abbattere e rompere le statue degli uomini illustri che Augusto aveva fatto trasportare dalla piazza del Carìipidoglio alquanto angusta, al Campo Marzio, in modo tale che, in seguito, quando furono restaurate, non si poterono ricostruire le iscrizioni e vietò di erigere alcuna statua ad alcun uomo ancora vivo in alcun luogo se non con il suo consenso o per sua iniziativa.
Pensò persino di far distruggere i poemi omerici, chiedendosi «perché mai non dovesse esser lecito a lui ciò che lo era stato per Platone, che aveva bandito Omero dalla sua repubblica ideale».
E poco mancò che non facesse togliere da tutte le biblioteche i libri e le immagini di Virgilio e Tito Livio, criticando l’uno come privo d’ingegno e di scarsissima cultura, l’altro come prolisso e trascurato nella narrazione storica.
Anche dei giureconsulti spesso diceva in giro che aveva intenzione di abolire ogni uso della loro scienza e che egli «avrebbe fatto in modo, sì, per Ercole, che nessuno oltre lui amministrasse la giustizia».
35. Tolse ai cittadini più nobili gli antichi stemmi gentilizi: ai Torquati la collana 20; ai Cincinnati il ricciolo 21; ai Pompei, di antica stirpe, l’appellativo Magno.
Dopo aver invitato dal suo regno Tolomeo (del quale ho già parlato) e dopo averlo accolto con i dovuti onori, lo fece uccidere per la sola ragione che quello, al suo ingresso nell’anfiteatro, in occasione di uno spettacolo gladiatorio fatto allestire da Caligola, aveva attirato su di sé l’attenzione di tutti col suo splendido mantello di porpora.
Ogni volta che gli capitavano davanti giovani belli, dai bei capelli, ne deturpava l’aspetto, facendo radere loro la nuca. Esio Proculo, figlio di un primipilo 22, per la sua notevole mole e bellezza fisica, era soprannominato Colossero 23: Caligola lo fece arrestare all’improvviso, mentre assisteva a uno spettacolo e lo costrinse a duellare prima con un gladiatore trace e subito di seguito con un oplòmaco 24 e, poiché era riuscito entrambe le volte vincitore, ordinò di incatenarlo immediatamente, di trascinarlo per i rioni della città, mostrandolo alle donne ricoperto di stracci, e poi sgozzarlo.
Nessuno per lui fu tanto povero o disgraziato da non trovare il modo di recargli danno.
Istigò contro il sacerdote principale di Diana Nemorense, poiché da molti anni ormai era in carica, un avversario più vigoroso.
Un giorno in cui si teneva uno spettacolo gladiatorio, poiché l’essedario 25 Porio, mentre affrancava un suo schiavo per festeggiare il successo riportato nel combattimento, era stato applaudito dalla folla con particolare entusiasmo, Caligola si slanciò dagli spalti contro di lui con tale foga che, inciampando nell’orlo della toga, ruzzolò per i gradini, esecrando indignato che un popolo, signore delle genti, per una cosa così insignificante tributasse più onore a un gladiatore che ai prìncipi deificati o a lui stesso, vivo e presente.
36. Non rispettò né il suo né l’altrui pudore.
Si racconta che abbia avuto relazioni scandalose con Marco Lepido, con il pantomimo Mnestere e con alcuni ostaggi.
Valerio Catullo, giovane di famiglia consolare, raccontava in giro di averlo posseduto e di essersi sfiancato in quegli amplessi.
Oltre ai rapporti incestuosi con le sorelle e alla sua ben nota passione per la prostituta Pirallide, non risparmiò donna alcuna di rango elevato: le invitava per lo più a cena con i loro mariti, le faceva sfilare ai suoi piedi, le esaminava con cura e a lungo, come fanno i mercanti di schiavi, sollevandone con la mano il volto, se alcune, vergognandosi, chinavano il mento. Poi, quando gli veniva l’uzzolo, uscito dalla sala del triclinio, faceva chiamare quella che aveva trovato più piacente e poco dopo tornava in sala con i segni ancora evidenti dell’amplesso lascivo, e pubblicamente esprimeva elogi o critiche elencando pregi e difetti del corpo della donna e dell’amplesso. Ad alcune, a nome del marito, se costui era assente, comunicava il ripudio e ordinava che venisse registrato agli atti.
37. Nel dissipare, fu superiore in ingegno a qualsiasi scialacquatore. Ideò un nuovo tipo di bagni e straordinarie qualità di cibi e di cene, sì che si lavava con unguenti caldi e freddi, sorbiva preziosissime perle sciolte nell’aceto, faceva imbandire pani e vivande d’oro agli invitati, ripetendo spesso che o si era un uomo frugale o si era Cesare. E persino lanciò alla plebe dall’alto della Basilica Giulia, per alcuni giorni, monete in gran quantità.
Fece costruire anche navi liburniche a dieci ordini di rematori con poppe incastonate di gemme, vele variopinte, con dovizia di terme, portici e triclinii e grande varietà di viti e di alberi da frutta, a bordo delle quali, sdraiato, banchettava di giorno, tra danze e musiche, navigando lungo le coste della Campania.
Quando si faceva costruire ville e palazzi, senza alcun senso della misura, desiderava soprattutto la realizzazione di opere ritenute impossibili: costruire moli in acque di mare agitate e profonde, fendere rupi di pietra durissima, portare i campi all’altezza delle colline mediante terrapieni, spianare i gioghi dei monti con opere di scavo, il tutto con eccezionale rapidità, poiché ogni indugio si pagava con la vita.
Per non elencare ogni cosa, in meno di un anno, dissipò immense ricchezze e l’intero tesoro di Tiberio, duemila e settecento milioni di sesterzi.
38. Prosciugato il patrimonio, avendo bisogno di ricchezze, si diede alle ruberie, escogitando in maniera assai astuta ogni forma di calunnie, di aste giudiziarie e di tributi. Non riconosceva il diritto di cittadinanza ai discendenti di coloro che l’avevano ottenuta per sé e per i propri posteri, eccettuati i loro figli. Sosteneva infatti che non si dovessero intendere come posteri quelli che venivano dopo il primo grado e, se gli portavano come prove i diplomi del Divo Giulio o del Divo Augusto, li stracciava in quanto vecchi e obsoleti.
Denunciava come false le dichiarazioni di quei censi che, per un qualsiasi motivo, successivamente fossero aumentati.
Annullò i testamenti dei primipilari che, dall’inizio del principato di Tiberio, non avevano nominato come eredi né quello né lui stesso, in quanto esempi di ingratitudine ma ritenne nulli e vani anche i testamenti di chi, a detta di qualcuno, aveva deciso di nominare erede l’imperatore.
Instillò in tutti una tale paura, che lo nominavano erede, insieme ai loro familiari, anche persone a lui sconosciute e dei genitori lo inserirono, insieme ai propri figli, nei loro testamenti ed egli osava anche dire che lo avevano preso in giro, se continuavano a vivere dopo il testamento e a molti di loro fece recapitare manicaretti avvelenati.
Giudicava le cause solo dopo aver fissato la somma per la cui acquisizione si doveva procedere, e solo una volta ottenutala si levava la seduta.
Inoltre, non sopportando anche il più piccolo indugio, una volta arrivò a condannare con una sola sentenza più di quaranta imputati di cause diverse e si vantò con Cesonia, che si era appena ridestata, di aver fatto tutto questo nel tempo che lei riposava dopo pranzo.
Faceva mettere all’asta ciò che rimaneva dopo gli spettacoli e lo esponeva e lo vendeva fissando lui stesso i prezzi e facendoli salire a tal punto che alcuni, costretti a comprare a un prezzo altissimo e avendo perso così tutti i loro beni, si tagliarono le vene.
È ben noto che una volta Caio avvertì il banditore di non lasciarsi sfuggire l’ex pretore Aponio Saturnino che, sonnecchiando lì tra i sedili, chinava ogni tanto il capo in avanti, come se annuisse, e non si ultimò la licitazione se non quando, senza che quello lo sapesse, gli furono aggiudicati tredici gladiatori per nove milioni di sesterzi.
39. In Gallia, avendo messo in vendita a prezzi altissimi i gioielli, il mobilio, gli schiavi e anche i liberti dei socii condannati, spinto dall’avidità di guadagno, si fece portare da Roma tutte le anticaglie della reggia, requisendo per il trasporto anche i carri a nolo e i muli dei mulini, tanto che in quei giorni a Roma spesso mancò perfino il pane e a molti litiganti in causa decadde la causa perché, stando lontano, non riuscirono ad arrivare in tempo al processo.
Per alienare i beni altrui, ricorse ad ogni tipo di frode e di espediente, ora accusando le persone individualmente di essere avare e di non vergognarsi d’essere più ricche di lui, ora fingendo di pentirsi della propria generosità nel dare a cittadini privati cose degne dei principi.
Era venuto a sapere che un provinciale ricco aveva versato duecentomila sesterzi agli invitatori per partecipare clandestinamente ad un suo banchetto e non gli era spiaciuto affatto che tanto valesse l’onore di stare alla sua mensa. Il giorno dopo, a questo signore che partecipava ad un’asta, mandò ad offrire non so quale oggetto privo di alcun valore per duecento milioni di sesterzi, con la promessa che avrebbe cenato presso Cesare, invitato personalmente da lui stesso.
40. Riscosse nuove imposte singolari e inaudite, prima dando in appalto l’esazione ai pubblicani, in seguito, poiché il guadagno era eccessivo, facendo effettuare la riscossione a centurioni e tribuni e non tralasciò alcun tipo di cosa o di persona su cui non imponesse un tributo. Sui cibi che si vendevano in tutta la città c’era una tassa fissa e definita, sulle liti e le cause, dovunque avessero avuto luogo, la tassa era un quarantesimo della somma in questione ed era prevista una penale per chi avesse conciliato o avesse rinunciato alla causa. I facchini dovevano dare la ottava parte del guadagno giornaliero. Le prostitute dovevano versare ogni giorno il prezzo di una prestazione e si aggiunse a questa legge che fossero obbligati a tale imposta, oltre alle meretrici, anche i loro lenoni e non ne furono esentate neanche le persone sposate.
41. Imposti tali tributi senza renderli pubblici, poiché erano previste molte contravvenzioni per l’ignoranza delle leggi, alla fine, su insistenza del popolo, fece esporre al pubblico il testo della legge ma scritto in caratteri così minuti e affisso in un luogo così angusto, sì che nessuno potesse copiarlo.
Per non tralasciare alcun genere di spoliazione, fece aprire un lupanare nel Palazzo e lì, in varie stanzette, arredate in modo diverso, in relazione alla dignità del luogo, stavano donne e uomini di nobile famiglia. Fece quindi girare per le piazze e le basiliche dei banditori, per invitare al piacere giovani e vecchi: venivano offerti prestiti ad usura ai frequentatori e, sul posto, degli incaricati registravano ufficialmente i nomi degli avventori, come cittadini che contribuivano alle rendite dell’imperatore. E, non disprezzando neanche i proventi del gioco dei dadi, ci guadagnava sopra vincendo, molto spesso con l’inganno e lo spergiuro. Una volta, affidato il suo turno al giocatore a fianco, uscì nell’atrio del palazzo e ordinò di arrestare immediatamente due ricchi cavalieri romani che passavano di là e di confiscarne i beni, poi rientrò esultante e si vantò di non aver mai fatto un lancio di dadi più fortunato.
42. Quando poi gli nacque la figlia, lamentando gli oneri che doveva sostenere non solo da imperatore ma anche da padre, fece raccogliere tributi per il mantenimento e per la dote della bambina. Rese noto con un editto che a Capodanno avrebbe raccolto le strenne augurali e il primo gennaio si mise nell’atrio del Palazzo a ricevere le offerte che una folla d’ogni genere gli elargiva a piene mani e dal grembo delle vesti.
Negli ultimi tempi, invasato dalla voglia di toccare il denaro, spesso camminava a piedi nudi su enormi mucchi di monete disseminate in un ampio spazio e talvolta ci si voltolava con tutto il corpo.
43. Soltanto una volta si occupò di questioni militari e non di proposito.
Si era spinto fino a Mevania, per vedere il bosco e il fiume del Clitunno, quando gli proposero di aumentare il numero delle guardie batave che aveva intorno a sé, allora stabilì immediatamente di fare una spedizione contro i Germani e non frappose alcun indugio. Raccolse da ogni parte legioni e truppe ausiliarie, fece eseguire ovunque rigorosissimi arruolamenti, fece ammassare vettovaglie d’ogni genere, come mai prima d’allora, quindi intraprese la spedizione e impose un ritmo di marcia così forzato e veloce che le coorti pretoriane furono costrette, contravvenendo alle usanze, a caricare le insegne sui muli e così seguire lui che invece procedeva indolentemente e comodamente, tanto da voler essere trasportato su una lettiga da otto portantini e da esigere che la plebe delle città più vicine al suo itinerario gli spazzasse e bagnasse la strada per evitare il polverone.
44. Dopo essere giunto nell’accampamento, per mostrarsi comandante duro e severo, licenziò con nota di biasimo i legati che avevano indugiato nel raccogliere da luoghi diversi le truppe ausiliarie. Poi, mentre passava in rivista l’esercito, a molti centurioni ormai anziani, e ad alcuni ai quali mancavano pochissimi giorni al congedo definitivo, tolse il comando dei triarii, adducendo a pretesto la loro vecchiaia e la debolezza. Biasimando la avidità degli altri, ridusse il compenso del servizio prestato alla somma di seimila sesterzi. Avendo poi ottenuto soltanto la sottomissione del figlio del re britanno Cinobellino, Adminio, il quale, scacciato dal padre, era passato dalla parte dei Romani con la sua piccola schiera, inviò a Roma lettere entusiaste, come se gli si fosse arresa tutta l’isola, ingiungendo ai messaggeri di procedere col carro fin dentro al foro e nella Curia e di consegnarle ai consoli solo nel tempio di Marte e quando si fosse adunato in massa il Senato.
45. Poi, mancando il pretesto per combattere, ordinò che alcuni Germani della sua guardia venissero portati oltre il Reno e lì restassero nascosti e che, dopo il pranzo, fosse annunciato col più grande scompiglio possibile che i nemici stavano sopraggiungendo. A quel falso annuncio, egli si spinse con alcuni amici e parte della cavalleria nel bosco più vicino, fece abbattere alberi e li fece addobbare a mo’ di trofei, poi fece ritorno a lume di fiaccole e accusò di ignavia e vigliaccheria quelli che non erano andati con lui, mentre ai suoi compagni che avevano partecipato a quella vittoria donò corone di nuovo genere e denominazione che, ornate con le immagini di sole, luna e stelle, furono da lui dette esploratone.
Un’altra volta, dopo aver fatto uscire degli ostaggi da una scuola elementare e averli fatti procedere di nascosto, abbandonando all’improvviso la tavola, li inseguì con la cavalleria come se fossero dei fuggiaschi e, dopo averli catturati, li ricondusse in catene. Anche in questa sorta di commedia passò i limiti: tornato al convito, invitò gli ufficiali, venuti ad annunciargli che l’esercito era stato adunato, a prendere posto sui letti triclinarii, così come si trovavano, con tutta l’armatura indosso e li esortò, citando quel famosissimo verso di Virgilio, a «tener duro e riservarsi per tempi propizi 26».
46. Infine, come se volesse porre fine alla guerra, schierato l’esercito lungo le spiagge dell’Oceano e disposte le baliste e le macchine senza che alcuno sapesse o potesse avere idea di cosa intendesse fare, improvvisamente ordinò di raccogliere conchiglie e riempirne gli elmi e i mantelli, dicendo: «Sono le spoglie dell’Oceano che spettano al Campidoglio e al Palazzo».
Per lasciare un segno di questa vittoria, fece erigere un’altissima torre dalla quale, come da quella di Faro, di notte dovevano lampeggiare i fuochi per illuminare la rotta ai naviganti. Dopo aver annunciato ai soldati una ricompensa di cento denari ciascuno, come se avesse superato ogni altro esempio di generosità, disse: «Andate in letizia, andate in ricchezza».
47. Da quel momento, non pensò ad altro che alla celebrazione del suo trionfo. Oltre ai prigionieri e ai disertori barbari, fece selezionare anche nelle Gallie gli uomini più alti e, come diceva lui, «particolarmente trionfali», alcuni dei quali erano anche nobili, li tenne in serbo per il trionfo, obbligandoli non solo a farsi crescere i capelli e tingerli di rosso, ma anche ad imparare la lingua germanica e assumere nomi barbari.
Ordinò anche che le triremi con le quali era entrato nell’Oceano fossero riportate a Roma, per gran parte del tragitto, via terra. Scrisse inoltre ai procuratori di preparargli il trionfo più imponente di tutti ma anche con la minima spesa possibile a suo carico, dal momento che essi potevano disporre dei beni di tutti.
48. Prima di allontanarsi dalla provincia, prese una decisione di infame atrocità: trucidare le legioni che avevano mosso una sollevazione dopo la morte di Augusto, poiché avevano allora assediato suo padre, Germanico, e lui stesso bambino. A stento fu convinto a revocare tale decisione improvvisa ma non si potè evitare in alcun modo la sua ostinazione a volerle decimare. Pertanto, dopo avere convocato quelle legioni ad assemblea, senza armi, e aver fatto deporre loro anche la spada, li fece circondare da un drappello di cavalleria. Ma, quando si accorse che la maggior parte di loro, insospettita, si allontanava per andare a riprendere le armi, per difendersi in caso di violenza, allora abbandonò di corsa l’assemblea e partì immediatamente per Roma. Qui scaricò tutta la sua rabbia sul Senato e con minacce cercò di impedire la propagazione di tanto disonorevoli azioni e lamentava che il Senato, tra l’altro, lo aveva defraudato del trionfo dovuto, nonostante che, proprio poco tempo prima, avesse ingiunto che non si dovesse mai rendergli alcuna onoranza, pena la morte.
49. Quando, nel corso del viaggio, ricevette in visita i delegati del Senato che lo esortavano a tornare in fretta, rispose urlando: «Verrò, verrò e questa verrà con me», mentre batteva ripetutamente con la mano l’elsa della spada che gli cingeva il fianco.
Fece anche proclamare con un editto «che ritornava ma solo per coloro che lo desideravano, i cavalieri e il popolo; infatti per il Senato egli non sarebbe più stato né cittadino né principe».
Vietò ai senatori di andargli incontro e, rinunciando al trionfo, o differendolo, entrò in Roma il giorno del suo compleanno, con il rito dell’ovazione 27.
Meno di quattro mesi dopo morì mentre escogitava misfatti ancor più gravi di quelli osati fino ad allora, se è vero che aveva deciso di trasferirsi ad Anzio e poi ad Alessandria, dopo aver fatto uccidere i cittadini più ragguardevoli di entrambi gli ordini. E su questo nessuno può nutrire dubbi, poiché tra le sue carte segrete furono trovati due fascicoli con intestazione diversa: su uno «spada», sull’altro «pugnale»: entrambi contenevano i nomi e i capi d’accusa di quelli destinati a morire.
Fu trovata anche una glande cassa, piena di veleni di vario genere e si dice che, quando furono versati in mare per volere di Claudio, inquinarono il mare provocando una strage di pesci, che la marea trascinò morti a riva sulle spiagge vicine.
50. Fu alto di statura, di colorito assai pallido, di enorme corporatura, ebbe collo e gambe esilissime, occhi infossati e tempie incavate, fronte spaziosa e corrugata, pochi capelli e cranio calvo, mentre era assai peloso nel resto del corpo. Per questo era considerato un crimine capitale guardarlo dall’alto, quando passava o pronunciare, per qualsiasi motivo, la parola «capra».
Rendeva apposta ancor più spaventevole il suo volto, già terrificante e tetro per natura, atteggiandosi davanti allo specchio ad espressioni e smorfie che incutessero paura e terrore.
Non godette mai di buona salute, sia fisica che mentale. Affetto sin dall’infanzia dall’epilessia, nell’adolescenza, pur sopportando abbastanza la fatica, tuttavia talvolta, per collassi improvvisi, non ce la faceva neanche a camminare, stare in piedi, tirarsi su e reggersi dritto.
Era consapevole egli stesso della sua debolezza mentale, tanto da pensare talvolta di ritirarsi e curarsi la mente.
Si crede che la moglie Cesonia gli avesse propinato un filtro amoroso che lo aveva reso folle.
Era afflitto soprattutto dall’insonnia e non dormiva mai più di tre ore a notte e neanche queste tranquille bensì agitate da incubi strani, come quando gli sembrò di vedere il fantasma del mare parlare con lui.
Quindi, stufo di star disteso gran parte della notte senza dormire, soleva invocare e attendere l’alba, standosene seduto sul letto oppure percorrendo i lunghissimi porticati.
51. Potrei attribuire a buon diritto alla infermità mentale i suoi due vizi più contraddittori: la sua enorme arroganza e la sua enorme vigliaccheria.
Infatti, proprio lui, che tanto disprezzava gli dei, al benché minimo tuono o fulmine, soleva chiudere gli occhi, coprirsi il capo e, se questi aumentavano, si gettava giù dal letto e vi si nascondeva sotto.
Durante un viaggio in Sicilia, dopo essersi beffato dei portenti avvenuti in alcuni luoghi, nottetempo, di corsa fuggì da Messina, atterrito dal fumo e dai boati dell’Etna.
Dopo essersi mostrato assai minaccioso contro i barbari, mentre percorreva sul carro oltre il Reno un passaggio stretto, dove le truppe si accalcavano, sentì dire a qualcuno che se fosse apparso il nemico si sarebbe creato un enorme parapiglia. Allora salì immediatamente a cavallo e in gran fretta tornò ai ponti e qui, avendoli trovati ingombri di carriaggi e bagagli, non sopportando di aspettare, si fece passare a braccia sopra le teste dei soldati.
Ben presto, avendo saputo che la Germania era insorta, fece preparare la fuga e le navi che servivano ad essa, confortandosi al pensiero che sicuramente gli sarebbero rimaste le province d’oltremare se i Germani vincitori avessero valicato le Alpi, come i Cimbri, o avessero occupato Roma, come un tempo i Galli Senoni.
Da questo io credo che poi ai suoi assassini sia venuta l’idea di dire alle truppe in tumulto, mentendo, che Caligola s’era suicidato, disperato per l’annuncio di una disfatta.
52. Portò sempre vesti, calzature e ornamenti che non avevano niente di romano o di urbano o di virile o, addirittura, di umano. Spesso si presentava in pubblico indossando manti ricamati e adornati di pietre preziose, con tuniche a maniche lunghe e bracciali, a volte indossava vesti di seta o cicladi 28 e calzava a volte sandali o cuturni, a volte scarponcini da esploratore, a volte sandali femminili. Il più delle volte si metteva una barba d’oro e recava in mano un fulmine o un tridente o un caduceo, attributi questi delle divinità e apparve in pubblico persino vestito da Venere. Portava sempre le insegne del trionfo, anche prima di compiere la spedizione e a volte indossò anche la corazza di Alessandro Magno che aveva sottratto al sepolcro.
53. Riguardo alle arti liberali, si dedicò pochissimo alla letteratura, mentre coltivò con grande interesse l’eloquenza, essendo assai facondo e avendo una grande inclinazione naturale, soprattutto se doveva parlare contro qualcuno.
Nell’ira le parole e le frasi gli venivano spontanee e anche un particolare tono di voce, sì che non riusciva a star fermo per l’eccitazione e si faceva sentire anche da chi stava ben lontano.
Quando iniziava un’orazione, diceva minaccioso «che avrebbe impugnato le armi delle sue elucubrazioni notturne». Disprezzava lo stile alquanto sottile ed elegante, tanto da arrivare a dire che Seneca, allora particolarmente in auge, scriveva «pure e semplici prove da concorso» e che le sue opere erano costruzioni di «sabbia senza calce».
Soleva anche rispondere alle arringhe di successo degli oratori e studiare con attenzione le accuse e le difese di imputati importanti, quando si dibattevano le cause in Senato, per poi scegliere di intervenire a carico o a favore, a seconda di quanto si confacesse di più al suo stile. In tali circostanze invitava anche l’ordine equestre ad assistere tramite proclama.
54. Tuttavia esercitò anche altre arti di genere completamente diverso con grande interesse. Ora gladiatore trace, ora auriga, ora ballerino, ora cantante, si batteva con armi da battaglia, guidava il carro nei circhi costruiti in vari luoghi. Si eccitava a tal punto per il desiderio di cantare o danzare che non si frenava, neanche durante spettacoli pubblici, dall’accompagnare nel canto l’attore tragico che recitava o dal rifare davanti a tutti il gesto dell’istrione, in segno di approvazione o disapprovazione.
Sembra che egli, proprio il giorno in cui morì, avesse indetto una veglia sacra, soltanto perché la licenza notturna fosse di buon augurio al suo debutto in scena.
A volte danzava anche di notte e una volta chiamò al Palazzo tre ex consoli, tra le nove di sera e mezzanotte, e, mentre questi morivano di paura, li fece salire sul palco e improvvisamente, indossando un mantello e una tunica talare, si mise a danzare con un gran frastuono di pifferi e zoccoli e, dopo aver accompagnato con la danza un cantico, se ne andò.
Pur essendo pronto ad apprendere, non imparò mai a nuotare.
55. Favorì chi gli stava a cuore, fino alla follia.
Inviava baci all’attore di pantomimo Mnestere, anche durante lo spettacolo e se qualcuno faceva anche un minimo rumore mentre quello danzava, lo faceva trascinare presso di sé e lo flagellava con le sue stesse mani.
A un cavaliere romano che dava fastidio, fece notificare l’ordine di partire senza il minimo indugio per Ostia e recare al re Tolomeo, in Mauritania, un plico il cui contenuto era: «Non fare né bene né male al latore della presente».
Nominò a capo della sua guardia del corpo germanica alcuni Traci. Alleggerì l’armatura dei mirmilloni. A uno di essi, di nome Colombo, che aveva vinto il combattimento ma era rimasto leggermente ferito, fece stillare nella piaga un veleno che poi chiamò Colombino. Fu trovato infatti insieme agli altri veleni così denominato con una scritta di suo pugno.
Era accanito sostenitore dei Verdi 29 tanto che spesso si intratteneva a cena nelle scuderie e, durante una di queste gozzoviglie, diede vari doni per un valore di due milioni di sesterzi all’auriga Eutico.
Per il suo cavallo Incitato faceva imporre e rispettare il silenzio, anche con l’intervento delle guardie, la sera prima della corsa, affinché non fosse disturbato. Gli donò, oltre una stalla di marmo e una greppia d’avorio, coperte di porpora e bardamenti di pietre preziose e anche una casa con tanto di servitù e mobilio, perché le persone che faceva invitare a nome del cavallo fossero ospitate assai degnamente. Si dice che volesse persino candidarlo al consolato.
56. Mentre così imperversava nella sua follia, molti ebbero in animo d’ucciderlo. Ma dopo che una prima e una seconda congiura erano state sventate e altri esitavano in mancanza di una occasione favorevole, due cittadini si misero d’accordo e compirono l’impresa, con la complicità dei liberti più potenti e dei prefetti del pretorio che, essendo stati denunciati come complici di una congiura, sebbene innocenti, si sentivano sospettati ed invisi.
Caio, infatti, dopo averli chiamati da parte sollevò grandi sospetti su di loro, dicendo con la spada in pugno che «si sarebbe ucciso se anche essi lo avessero ritenuto degno di morte» e da allora non smise un momento di accusare l’uno all’altro e di seminare discordia tra di loro.
Poiché s’era convenuto di assalirlo a mezzogiorno, all’uscita dai giochi palatini, Cassio Cherea, tribuno della coorte pretoria, chiese di colpirlo per primo: Caio soleva sbeffeggiare quest’uomo, già vecchio, come molle ed effeminato, marchiandolo con ogni epiteto ingiurioso e, quando costui gli chiedeva la parola d’ordine, gli rispondeva «Priapo» oppure «Venere». Oppure, quando gli rendeva grazie per qualche motivo, egli, porgendogli la mano da baciare, la atteggiava e muoveva in un gesto osceno.
57. Molti prodigi premonirono la sua morte imminente. Ad Olimpia la statua di Giove, che egli aveva deciso di far smontare e trasportare a Roma, improvvisamente proruppe in una risata così fragorosa che, crollata l’impalcatura, gli operai fuggirono a gambe levate; subito dopo, giunse un tale di nome Cassio che sosteneva di aver ricevuto in sogno l’ordine di immolare un toro a Giove. Il Campidoglio di Capua il 15 marzo fu colpito da un fulmine e contemporaneamente a Roma fu colpita la cella di Apollo Atriense Palatino. E vi fu chi interpretò questo prodigio come segno di un pericolo per l’imperatore costituito dai suoi guardiani, l’altro come presagio di una nuova uccisione eccellente, come quella avvenuta già una volta in quello stesso giorno 30. L’astrologo Siila, da lui consultato sul proprio tema natale, affermò che, senza alcun dubbio, la sua uccisione era prossima. Anche i responsi della Fortuna Anziate lo ammonirono a guardarsi da Cassio e per questo Caio aveva dato l’incarico di uccidere Cassio Longino, che allora era proconsole in Asia, non considerando che anche Cherea si chiamava Cassio.
Il giorno prima di morire, sognò di trovarsi in cielo, accanto al trono di Giove il quale, spingendolo con l’alluce del piede destro, lo faceva precipitare sulla Terra.
Furono considerati presagi anche alcuni eventi che gli capitarono, proprio quel giorno, poco prima che morisse: mentre compiva un sacrificio, si era macchiato col sangue di un fenicottero; il pantomimo Mnestere rappresentò la stessa tragedia che aveva già rappresentato l’attore tragico Neottolemo durante i ludi nei quali era stato ucciso il re macedone Filippo e, durante la recitazione del mimo Laureolo, nel quale un attore, lanciandosi fuori da un edificio crollato, vomita sangue, poiché molti attori generici facevano a gara nel dare prova di altrettanta bravura, la scena si coprì di sangue; infine, era in allestimento per quella notte uno spettacolo in cui attori Egizi ed Etiopi dovevano rappresentare scene infernali.
58. Il 25 gennaio, verso l’una, Caio era indeciso se andare a pranzo, avendo ancora lo stomaco in disordine per quanto aveva mangiato il giorno prima. Alla fine, persuaso dagli amici, uscì. In una galleria, che doveva attraversare, alcuni nobili giovinetti chiamati dall’Asia per rappresentare uno spettacolo in scena stavano provando. Caio si fermò a guardarli e ad incoraggiarli e, se il capo della compagnia non avesse detto che avevano freddo, avrebbe deciso di tornare indietro e far eseguire lo spettacolo. Da questo punto ci sono due versioni diverse: alcuni raccontano che, mentre stava parlando con questi ragazzi, Cherea da dietro lo colpì pesantemente alla nuca con la spada, di taglio, dopo aver detto «Colpisci!» e subito l’altro congiurato, il tribuno Cornelio Sabino, gli trafisse il torace. Secondo altri, invece, Sabino, fatta allontanare la folla da alcuni centurioni complici della congiura, aveva chiesto a Caio la parola d’ordine, secondo la consuetudine militare e, quando quello aveva risposto «Giove», Cherea da dietro aveva gridato: «Prendilo per certo» e, mentre si voltava, lo aveva colpito alla mascella. Mentre Caio a terra, con le membra contratte, gridava di essere ancora vivo, gli altri lo finirono con trenta ferite. Infatti la parola d’ordine per tutti era: «Colpisci ancora!». Alcuni gli trafissero anche i genitali. All’inizio del tumulto accorsero i portantini e anche le guardie del corpo germaniche che uccisero alcuni degli attentatori e anche alcuni senatori innocenti.
59. Visse ventinove anni e fu imperatore per tre anni, dieci mesi e diciotto giorni. Il suo corpo fu portato di nascosto nei giardini di Lamia e, semicombusto su di un rogo allestito in gran fretta, fu coperto d’un leggero strato di terra. In seguito, le sorelle, tornate dall’esilio, lo riesumarono, lo cremarono e gli diedero sepoltura. Risulta che prima che ciò avvenisse, i custodi dei giardini erano perseguitati dai fantasmi e che, nella casa in cui era stato ucciso, non trascorse notte senza qualche motivo di terrore, finché la casa stessa non fu distrutta da un incendio.
Insieme a Caio fu uccisa anche la moglie, Cesonia, trafitta da un centurione e la figlia, sfracellata contro un muro.
60. Chiunque può farsi un’idea della condizione di quei tempi, anche da questi eventi. Infatti, anche quando si sparse la notizia degassassimo, non vi si credette subito e si sospettò che proprio Caio avesse simulato la sua stessa morte e ne avesse fatta diffondere la notizia, per scoprire quali fossero i sentimenti dei cittadini nei suoi confronti. I congiurati, dal canto loro, non affidarono ad alcuno il dominio e il Senato era talmente concorde nel volere ripristinare la libertà, che i consoli non convocarono la prima seduta nella Curia, perché si chiamava Giulia, ma in Campidoglio. Alcuni, nel dare il loro parere, espressero l’idea che si dovesse dannare la memoria dei Cesari e si dovessero abbattere i loro tempii.
Fu inoltre osservato e sottolineato, in particolare, che tutti i Cesari di nome Caio erano morti uccisi, a partire da quello che era stato assassinato al tempo di Cinna.