LIBRO QUINTO
Claudio

 

1. Poiché Livia, essendosi sposata con Augusto già incinta, partorì dopo solo tre mesi Druso, il padre di Claudio Cesare, che prima ebbe il prenome di Decimo e poi assunse quello di Nerone, nacque il sospetto che fosse figlio del patrigno, nato da un rapporto adulterino. Certo è che subito fu messo in giro il verso:

 

I fortunati riescono a far figli anche in tre mesi.

 

Questo Druso, mentre ricopriva la carica di questore e poi di pretore, avendo assunto il comando della guerra retica e poi di quella germanica, fu il primo condottiero romano che navigò nell'Oceano settentrionale e fece scavare oltre il Reno dei canali per la navigazione, opera monumentale, e ancora oggi questi canali si chiamano Drusinì.

Sbaragliò più volte i nemici e li ricacciò nei recessi più isolati e smise di incalzarli soltanto quando una donna barbara, dall’aspetto e dalle dimensioni sovrumane, gli vietò, in latino, di spingere oltre la sua vittoria. Per questi meriti ebbe l’onore dell’ovazione e le insegne trionfali.

Divenuto console dopo la pretura e avendo immediatamente ripreso quella spedizione, morì di malattia nei quartieri estivi che per questo furono denominati «scellerati».

La salma, traslata a Roma dai maggiorenti dei municipi e delle colonie e consegnata alle decurie degli scribi venute incontro, fu tumulata in Campo Marzio. L’esercito invece gli eresse un cenotafio intorno al quale ogni anno, in un determinato giorno, i soldati avrebbero dovuto sfilare e le città della Gallia avrebbero recitato pubbliche preghiere.

Il Senato, inoltre, decretò che, oltre a numerosi monumenti, gli fosse dedicato un arco di marmo con trofei sulla via Appia e che fosse attribuito a lui e ai suoi discendenti il soprannome di Germanico.

Alcuni ritengono che in Druso l’ambizione alla gloria non fu inferiore all’amor di patria, infatti, oltre a vincere i nemici, ne prese anche le spoglie opime 1, correndo gravissimi rischi nell’inseguire assai spesso per tutto il campo di battaglia i capi germanici. Inoltre non aveva mai dissimulato che, appena fosse stato possibile, avrebbe restituito allo Stato le istituzioni repubblicane.

Per questo ritengo che alcuni abbiano osato asserire che Augusto, sospettando di lui, lo aveva fatto richiamare dalla provincia e, poiché quello indugiava, lo aveva fatto avvelenare.

Ho riferito questa versione per non tralasciare alcun elemento e non tanto perché io la ritenga vera o verosimile. Infatti Augusto amò Druso da vivo a tal punto da considerarlo sempre suo erede insieme ai propri figli, come disse una volta anche in Senato, e dopo la sua morte lo elogiò in pubblico tanto da pregare che «gli dei rendessero i suoi Cesari simili a lui e concedessero a lui stesso, quando fosse giunto il momento, una fine altrettanto nobile». E non si contentò di aver fatto incidere sul suo sepolcro un’epigrafe con versi scritti da lui in persona ma compose anche un testo in prosa per commemorare la vita di Druso.

Da Antonia Minore, Druso ebbe molti figli ma solo tre gli sopravvissero: Germanico, Livilla e Claudio.

 

2. Claudio nacque sotto il consolato di Iullo Antonio e Fabio Africano il primo agosto, a Lione, proprio nel giorno in cui in quella città per la prima volta fu dedicata un’ara ad Augusto, e gli fu dato il nome di Tiberio Claudio Druso. Poi, quando il fratello maggiore fu adottato dalla famiglia Giulia, prese il soprannome di Germanico.

Rimasto orfano di padre da piccolo, per quasi tutta l’infanzia e l’adolescenza fu affetto da gravi malattie di vario genere sì che, debole sia nel fisico che nella mente, non si riteneva che fosse in grado di assumere alcun incarico, né pubblico né privato, anche quando divenne grande.

Anche dopo aver conseguito la maggiore età, rimase a lungo sotto la tutela di altri e sotto la guida di un pedagogo. Egli stesso lamenta in un suo scritto che «un barbaro, un ex ispettore delle stalle, gli era stato messo accanto apposta, per reprimerlo assai severamente per qualunque motivo».

A causa della salute cagionevole, assistette ad uno spettacolo gladiatorio che aveva indetto insieme al fratello in memoria del padre, inusitatamente, a capo coperto. Il giorno in cui assunse la toga virile, fu portato in lettiga in Campidoglio intorno alla mezzanotte senza alcun accompagnamento solenne.

 

3. Tuttavia fin dalla tenera età si dedicò con grande impegno alle arti liberali e spesso ne diede buona prova pubblicamente.

Eppure non riuscì ugualmente ad acquisire un minimo di considerazione o a far nutrire migliori speranze su di sé per l’avvenire.

Antonia, sua madre, spesso ripeteva in giro che era «un mostro d’uomo, non compiuto ma solo abbozzato dalla natura» e quando voleva offendere qualcuno, tacciandolo di stupidità, diceva che era «più scemo di suo figlio Claudio».

La nonna Augusta nutrì sempre per lui il massimo disprezzo e non gli rivolgeva la parola se non rarissimamente e soleva rivolgersi a lui con rimproveri assai duri e brevi scritti o tramite terze persone.

La sorella Livilla, avendo sentito dire che egli prima o poi sarebbe stato imperatore, apertamente e pubblicamente deplorò una tale sorte così ingiusta e indegna del popolo romano.

In quanto ad Augusto, suo prozio, perché si sappia con maggior certezza quale fosse la sua opinione riguardo al nipote, sia in positivo che in negativo, riporto qui di seguito alcuni passi delle sue lettere.

 

4. «Cara Livia, ho parlato con Tiberio, come mi avevi chiesto, per decidere come comportarci con tuo nipote [Claudio] Tiberio in occasione dei Ludi di Marte 2. Siamo entrambi d’accordo sul fatto che bisogna stabilire una buona volta che atteggiamento assumere nei suoi confronti. Infatti, se è del tutto, per così dire, a posto, perché dovremmo esitare a fargli intraprendere la stessa carriera del fratello? 3 Se invece riteniamo che gli manchi qualcosa, e che sia menomato sia fisicamente che mentalmente, allora non dobbiamo dare alla gente, che usa sbeffeggiare e schernire simili cose, l’occasione di deridere lui e noi allo stesso tempo. Altrimenti ci troveremo sempre in difficoltà se ogni volta dovremo decidere riguardo ad ogni singola situazione, senza esaminare prima se riteniamo o meno che egli possa assumere un qualsiasi incarico. Tuttavia, per questa volta, riguardo a quel che tu chiedi, non sono contrario a che presieda la mensa dei sacerdoti nei Ludi di Marte, se si lascerà guidare dal figlio di Silvano, suo parente, affinché non faccia qualcosa che possa essere notata e costituire motivo di scherno. Non intendo invece che egli assista ai giochi dal palco imperiale: esposto in prima fila, darebbe troppo nell’occhio. Non intendo inoltre che vada sul colle Albano o che stia a Roma durante le Ferie Latine 4. Perché, in effetti, non dovrebbe avere il governo della città se potesse salire sul colle insieme al fratello? Cara Livia, ecco le mie decisioni con le quali vorrei una volta per tutte definire alcuni punti riguardo all’intera questione, per non dover sempre esitare tra speranze e timori. Se vuoi, puoi far leggere questa parte della mia lettera alla nostra Antonia.»

E ancora in un’altra lettera:

«Mentre tu sarai assente, inviterò a cena ogni sera il giovane Tiberio, perché non ceni da solo con il suo Sulpicio e con Atenodoro. Vorrei che si scegliesse con più attenzione e meno sventatamente qualcuno da imitare nei modi, nel contegno e nel portamento. Poveretto, è proprio sfortunato! Infatti nelle cose serie, quando la sua mente è lucida, rivela un nobile ingegno».

E così in una terza lettera: «Che io possa morire, Livia mia, se non mi sono sorpreso ad apprezzare tuo nipote Tiberio, mentre declamava! Infatti, non capisco come riesca a declamare in modo così chiaro, uno che parla in modo così oscuro!».

E evidente che cosa abbia in seguito deciso Augusto, sì da lasciarlo al di fuori di qualsiasi incarico, tranne quello di sacerdote augurale, e da non nominarlo neanche erede, se non tra quelli in terzo grado, e quasi estranei, per una sesta parte, aggiungendo un lascito di soli ottocentomila sesterzi.

 

5. Lo zio paterno Tiberio, quando [Claudio] gli chiese degli incarichi, gli conferì soltanto le insegne consolari, ma, quando egli insistette per assumere la carica effettiva, gli rispose per lettera soltanto questo: «che gli aveva mandato quaranta monete d’oro per i Saturnali e i Sigillari 5». Allora soltanto, persa ogni speranza di ottenere qualche incarico, si dedicò all’ozio, vivendo in disparte ora nei giardini e nella sua villa suburbana, ora nel suo ritiro in Campania e, poiché frequentava persone assai sordide, si conquistò la fama di avvinazzato e di giocatore d’azzardo, che si aggiunse a quella di imbecillità.

 

6. Tuttavia, pur vivendo in tal modo, non gli venne mai meno il rispetto degli uomini né il pubblico riconoscimento.

I cavalieri lo elessero per due volte come patrono per condurre un’ambasceria per conto loro: una volta quando chiesero ai consoli di portare sulle loro spalle a Roma la salma di Augusto; un’altra volta quando si congratularono con gli stessi consoli per l’eliminazione di Seiano. E anzi, solevano alzarsi in piedi e togliersi il mantello quando egli entrava nel Circo.

Anche il Senato deliberò che fosse aggiunto, fuori dall’ordinario, nell’elenco dei sacerdoti Augustali eletti a sorte e anche che gli fosse ricostruita a spese dello Stato la casa distrutta da un incendio e che avesse il diritto di esprimere il suo parere insieme agli ex consoli. Quest’ultimo decreto però fu abrogato da Tiberio che addusse a pretesto la sua infermità mentale e promise di risarcirgli il danno a proprie spese. Tuttavia, prima di morire, lo nominò erede insieme a quelli in terzo grado, per la terza parte e aggiunse un lascito di circa due milioni di sesterzi, inoltre lo raccomandò agli eserciti, al Senato e al popolo romano insieme agli altri suoi parenti.

 

7. Finalmente, sotto Caio, figlio del fratello, che agli esordi del suo principato cercava di procacciarsi una buona reputazione con ogni genere di lusinghe, [Claudio] avendo intrapreso la carriera politica, esercitò per due mesi il consolato insieme a quello e accadde che, quando entrò per la prima volta nel Foro con i fasci, un’aquila che volava sopra di lui gli si posò sulla spalla destra.

Ebbe in sorte di nuovo il consolato, quattro anni dopo, e spesso presiedette agli spettacoli al posto di Caio e il popolo lo acclamava, gridando alcuni «Evviva lo zio del principe», altri «Evviva il fratello di Germanico!».

 

8. Ciò nonostante, fu sempre esposto allo scherno. Se infatti giungeva un po’ in ritardo ad una cena, rispetto all’ora prevista, trovava posto con difficoltà e solo dopo aver fatto il giro di tutto il triclinio e, ogni volta che si appisolava, dopo pranzo, cosa che gli avveniva di frequente, veniva bersagliato dal lancio di noccioli di olive e di datteri e talvolta i buffoni, come per scherzo, lo svegliavano a colpi di frusta o di bacchetta. Di solito, mentre russava, gli infilavano i calzari alle mani affinché, svegliato all’improvviso, se li strofinasse in faccia.

 

9. E non fu sempre al riparo dai rischi. Innanzitutto, proprio durante il suo consolato rischiò di essere rimosso dalla carica perché aveva curato la collocazione e l’erezione delle statue di Nerone e di Druso, fratelli del principe, con eccessiva lentezza; in seguito fu continuamente tormentato dalle varie accuse mossegli da persone estranee o anche da parenti.

Quando poi venne scoperta la congiura di Lepido e di Getulico, fu inviato in Germania insieme ad altri legati per congratularsi con il principe e rischiò la vita: Caio, infatti, si indignò, infuriandosi perché gli avevano mandato lo zio, neanche fosse stato un bambino da tutelare, e ci fu anche chi raccontò che Claudio era stato gettato nel fiume, vestito così come era arrivato.

Da quel momento, non espresse mai il proprio parere in Senato se non per ultimo, dopo tutti i consolari, essendo interpellato solo alla fine, in segno di affronto.

Fu anche discussa una causa per un testamento falso che anch’egli aveva firmato.

Per ultimo, costretto a sborsare otto milioni di sesterzi per essere ammesso in un nuovo collegio sacerdotale, cadde in tali ristrettezze economiche che, non potendo pagare i debiti all’erario, i suoi beni furono messi all’asta per decreto prefettizio, secondo la legge di confisca.

 

10. Dopo aver vissuto in tali condizioni ed altre simili la maggior parte della sua vita, a cinquanta anni divenne imperatore per un caso assai singolare.

Ritiratosi insieme agli altri, quando i congiurati che attentavano alla vita di Caio, con la scusa che l’imperatore voleva stare solo, avevano fatto allontanare la folla, era entrato in una stanzetta chiamata Ermèo. Poco dopo, terrorizzato dai rumori di quell’omicidio, strisciò fino al terrazzo adiacente e si nascose tra le pieghe della tenda della porta. Mentre se ne stava così nascosto, un soldato, che passava di lì per caso, notò i piedi, lo tirò fuori per scoprire chi fosse e, riconosciutolo, mentre quello gli si gettava ai piedi tremante di paura, lo salutò imperatore; quindi lo trascinò presso gli altri suoi commilitoni ancora tutti confusi e tremanti. Questi lo posero su di una lettiga e, poiché i suoi servitori erano scappati, portandolo a turno a spalla, lo accompagnarono sgomento e tremante fino al Castro, mentre la folla che lo incontrava provava pietà per lui, pensando che venisse ingiustamente condotto al supplizio.

Lo fecero entrare nel vallo e lì trascorse la notte tra le sentinelle con speranze inferiori alla fiducia.

Infatti i consoli avevano occupato il foro e il Campidoglio insieme al Senato e alle coorti urbane, con l’intenzione di reinstaurare la libertà repubblicana. Claudio, convocato in Senato dai tribuni della plebe per esprimere il suo parere, rispose che «era impedito da cause di forza maggiore». Il giorno seguente, però, poiché il Senato era troppo lento nel perseguire i suoi intenti, vuoi per stanchezza, vuoi per dissensi interni, e la folla d’intorno chiedeva insistentemente che le venisse dato un governatore unico e faceva proprio il suo nome, [Claudio] consentì che l’esercito, riunito in assemblea, gli prestasse giuramento. Promise a ciascuno quindicimila sesterzi e fu il primo tra i Cesari a comprare la fedeltà dell’esercito.

 

11. Reso stabile il suo potere, nulla gli sembrò più urgente che cancellare il ricordo di quei due giorni in cui si era rischiato di mutare la costituzione dello stato.

Pertanto sancì il perdono e l’oblio perpetuo di quanto fosse stato detto o fatto in quei due giorni, limitandosi a far giustiziare soltanto alcuni tribuni e centurioni che avevano fatto parte della congiura contro Caio, per dare un esempio, ma anche perché aveva saputo che quelli avevano chiesto anche la sua uccisione.

Si volse quindi ai doverosi atti di devozione e stabilì che il suo giuramento più sacro e più consueto sarebbe stato quello prestato su Augusto.

Si assicurò che venissero conferiti onori divini alla nonna Livia e che nella processione circense venisse trasportata su un carro trainato da elefanti, simile a quello di Augusto.

Istituì pubbliche cerimonie funebri per i suoi genitori e inoltre ludi circensi da festeggiare ogni anno nella ricorrenza della nascita del padre e un carro dedicato alla madre Antonia su cui trasportarne l’immagine durante la processione circense. Le fece anche conferire il titolo di Augusta, titolo da lei rifiutato in vita.

Riguardo alla memoria del fratello, da lui celebrata in ogni circostanza, fece anche allestire a Napoli, in un agone, una commedia greca scritta da quello, che fu da lui premiata con una corona, secondo la sentenza degli arbitri di gara.

Non lasciò privo di onori e di menzioni di gratitudine neanche Marco Antonio, infatti in un editto una volta dichiarò che chiedeva la celebrazione dell’anniversario della nascita di suo padre, Druso, tanto più insistentemente in quanto coincideva con quella di suo nonno Antonio.

Fece eseguire la costruzione dell’arco di marmo dedicato a Tiberio accanto al teatro di Pompeo, che un tempo il Senato aveva decretato e che poi non aveva avuto seguito.

Quanto a Caio, pur avendo annullato tutti i suoi atti, vietò che fosse considerato festivo il giorno della sua uccisione, sebbene fosse anche il primo del suo principato.

 

12. Modesto e moderato nell’esaltazione della sua persona, ricusò il prenome di imperatore 6 e gli onori esagerati. Celebrò in silenzio, solo con cerimonie private, le nozze della figlia e la nascita del nipote.

Non richiamò nessuno dall’esilio senza l’approvazione preventiva del Senato.

Chiese come un favore personale che gli fosse consentito di portare con sé, nella Curia, il prefetto del pretorio e i tribuni militari e che venissero ratificate le sentenze stabilite dai suoi procuratori nei giudizi.

Chiese il permesso ai consoli di istituire un mercato nei suoi poderi 7.

Spesso partecipò ai processi tenuti dai magistrati come uno dei consiglieri e, quando essi davano spettacolo, anch’egli si alzava in piedi insieme al pubblico e manifestava apprezzamento con la voce e con gli applausi.

Per questo in poco tempo si conquistò tanto affetto e consenso che, quando fu annunziato che egli, partito alla volta di Ostia, era stato ucciso in un’imboscata, il popolo affranto non cessò di inveire con terribili ingiurie contro l’esercito, in quanto traditore, e contro il Senato, in quanto parricida, se non quando prima un cittadino, poi un altro, poi molti altri, chiamati sui Rostri dai magistrati, assicurarono che il principe era incolume e stava tornando.

 

13. Tuttavia non riuscì a evitare le insidie, anzi le subì da parte di singole persone, fu oggetto di una congiura e infine anche di una guerra civile. Un plebeo fu sorpreso in piena notte vicino alla sua stanza da letto con un pugnale. In due occasioni furono anche scoperti due cavalieri che lo aspettavano in luoghi pubblici, l’uno col coltello e l’altro col pugnale, pronti ad assalirlo: uno intendeva aggredirlo all’uscita dal teatro, l’altro mentre attendeva a un sacrificio presso il tempio di Marte.

Cospirarono contro di lui, avendo aggregato in una congiura sovversiva molti suoi liberti e schiavi, Gallo Asinio e Statilio Corvino, rispettivamente nipoti degli oratori Pollione e Messala.

Furio Camillo Scriboniano, legato di Dalmazia, intraprese una guerra civile contro di lui ma, dopo cinque giorni, fu sopraffatto poiché le sue legioni che avevano cambiato a suo favore il giuramento di fedeltà, si erano pentite, per via di una sorta di superstizione, dopo che, dato l’ordine di marciare verso il nuovo imperatore, per caso o per volontà divina, non si riuscì a sistemare le aquile sulle aste né a svellere e portar via le insegne.

 

14. Esercitò quattro volte il consolato, dopo quello iniziale, due di seguito, gli altri intervallati di quattro anni; l’ultimo durò sei mesi, gli altri, due mesi, nel terzo sostituì, novità assoluta per un principe, un console deceduto.

Amministrò la giustizia con sommo zelo, sia da console che quando non rivestiva quella carica, anche in giorni solenni per lui o per i suoi e talvolta anche in giorni ritenuti festivi o sacri fin dai tempi antichi.

Non sempre rispettò le prescrizioni delle leggi, ma spesso ne temperò la durezza o la mitezza, in molti casi con buon senso ed equanimità, basandosi sulla sua impressione. Infatti, da un canto, diede facoltà di riaprire il processo a quelli che, per aver chiesto troppo presso giudici ordinari, avevano perso la causa, d’altro canto, superando la pena prevista per legge, condannò alle belve alcuni che erano risultati rei di frodi assai gravi.

 

15. Nei processi e nelle sentenze poi fu estremamente mutevole: ora accorto e avveduto, ora avventato e precipitoso, talvolta insulso e quasi folle.

Dovendo controllare le decurie dei giudici, radiò un cavaliere, che aveva risposto alla chiamata, non avvalendosi del diritto di esenzione in quanto padre di prole numerosa, giudicandolo troppo desideroso di giudicare. Un altro, che era stato chiamato in causa dagli avversari riguardo a una sua controversia, e che sosteneva che quella causa era di competenza di un tribunale ordinario e non straordinario, fu obbligato da lui a dibattere immediatamente il processo presso di lui, per dimostrare, in un giudizio che lo riguardava personalmente, quale giudice equanime sarebbe stato in vertenze che riguardavano estranei.

A una donna che non riconosceva un figlio come suo, essendo dubbia l’attendibilità delle prove sia a favore che contro, fece confessare la verità imponendole di sposare il giovane.

Emetteva sentenze favorevoli ai presenti, a sfavore degli assenti, con la massima disinvoltura, senza alcun criterio, indipendentemente dal fatto che le persone non si fossero presentate per colpa loro o per validi motivi.

Una volta che un tale reclamò che si mozzassero le mani ad un falsario, fece venire immediatamente un boia con ceppo e mannaia.

Poiché era sorta una stupida controversia tra alcuni avvocati riguardo all’opportunità che un imputato, reo di avere usurpato la cittadinanza, presenziasse al processo indossando la toga o il pallio, ordinò che mutasse veste di volta in volta, a seconda che parlasse l’accusatore o il difensore.

Si racconta anche che in un altro processo, sulla tavoletta giudiziaria, abbia emesso tale sentenza: «che egli era a favore di chi aveva detto la verità». Per questo si screditò a tal punto da essere dovunque apertamente disprezzato.

Un tale, scusando l’assenza di un testimone convocato da Claudio, disse che non poteva presenziare, senza addurre una giustificazione per un bel po’; alla fine, dopo svariate richieste, disse : «È morto, ne aveva il diritto, credo!».

Un altro, nel ringraziarlo per aver permesso ad un imputato di essere difeso, aggiunse: «Eppure, talvolta si usa così».

Anche questo sentivo dire dagli anziani, che gli avvocati di solito abusavano della sua pazienza a tal segno che, mentre si allontanava dal tribunale, lo richiamavano indietro non solo con la voce ma anche tirandogli il lembo della toga e talvolta lo trattenevano, afferrandolo per il piede. E, perché ciò non sembri incredibile, persino a un grecuncolo che sosteneva una controversia scappò detto: «Anche tu sei vecchio e rimbambito».

Ed è abbastanza certo che un cavaliere romano, imputato di oscenità verso le donne ma con accuse false, imbastite da rivali accaniti, quando vide che venivano citate e sentite come testimoni a suo carico delle volgari prostitute, gli scagliò in faccia, accusandolo di dabbenaggine e crudeltà, lo stilo e le tavolette giudiziarie che teneva in mano, con tale violenza che gli ferì la guancia e non lievemente.

 

16. Ricoprì anche la carica di censore, che per molto tempo era stata trascurata, dopo i censori Planco e Paolo, ma anche questa in modo poco adeguato e con atteggiamenti e decisioni mutevoli.

Durante la rivista dei cavalieri, congedò senza note di demerito un giovane carico d’infamia, che il padre invece asseriva essere a parer suo irreprensibile, dicendo che «quello già aveva il suo censore personale».

Si limitò solo ad ammonire un altro, noto come seduttore e adultero, ad «indulgere di meno o con più moderazione alla sua giovinezza» e aggiunse: «Perché, infatti, io debbo sapere chi è la tua amante?».

Quando cancellò la nota di demerito apposta a un tale, cedendo alle preghiere dei suoi amici, disse: «La cancellatura tuttavia rimane!».

Non soltanto cancellò dall’albo dei giudici un uomo illustre e tra i più ragguardevoli della provincia della Grecia perché non sapeva il latino, ma lo privò anche della cittadinanza.

A nessuno consentì di rendere conto della propria condotta se non a voce, come ciascuno poteva, senza la presenza di un patrocinatore.

Diede note di demerito a molti, ad alcuni senza che se l’aspettassero, per un motivo insolito: perché avevano lasciato l’Italia a sua insaputa, senza il suo permesso. Bollò d’infamia un tale, addirittura perché in provincia era stato nel corteo di un re, ricordando che anticamente a Rabirio Postumo, che aveva seguito re Tolomeo ad Alessandria, per non perdere un suo credito, era stata intentata una causa davanti ai giudici con l’accusa di lesa maestà.

Tentò di dare note di biasimo a molti altri ma, per la grave negligenza degli inquisitori e a suo maggior discredito, questi si rivelarono del tutto innocenti, risultando coniugati, con prole o ricchi, mentre egli li aveva accusati di essere celibi, senza figli e poveri.

Accusò persino un tale di aver tentato il suicidio con la spada e quello, spogliatosi, mostrò il proprio corpo assolutamente illeso.

Di quella sua censura vai la pena ricordare che diede ordine di comprare e poi distruggere in sua presenza un carro d’argento di preziosissima fattura che era stato messo in vendita nel rione dei Sigillarì; che in uno stesso giorno emanò venti editti, tra i quali, uno esortava a impeciare bene le botti in considerazione dell’abbondante vendemmia, un altro ricordava che niente era più efficace contro i morsi di vipera quanto il succo di tasso.

 

17. Organizzò una sola campagna militare e per di più di scarsa importanza. Ritenendo infatti che l’onore delle insegne trionfali, conferitegli dal Senato, fosse decisamente inadeguato alla sua maestà di principe e aspirando all’onore di un reale trionfo, per ottenerlo, scelse tra tutte la Britannia che nessuno, dopo il Divo Giulio, aveva più cercato di conquistare e che allora era in agitazione perché non le erano stati restituiti dei disertori.

Salpato da Ostia per questa spedizione, nel corso della navigazione, a causa di un violento maestrale, rischiò due volte di naufragare, presso le coste della Liguria e vicino alle isole Stecadi 8. Quindi da Marsiglia proseguì il viaggio via terra fino a Gesoriaco 9 e da qui traghettò [in Britannia]. Ottenne in pochissimi giorni la resa di parte dell’isola, senza alcuna battaglia e senza spargimenti di sangue. Fece ritorno a Roma sei mesi dopo la partenza e celebrò un trionfo assai fastoso. Permise di tornare a Roma per assistere al suo trionfo non solo ai prèsidi delle province ma anche ad alcuni esuli e, tra le spoglie dei nemici, fece anche affiggere sul frontone del Palazzo, accanto alla corona civica, anche una corona navale, a rappresentare l’attraversamento e la sottomissione, per così dire, dell’Oceano.

Messalina, sua moglie, seguiva il suo cocchio su di un carpento 10; anche quelli che avevano ottenuto le insegne trionfali lo seguivano, ma a piedi e in toga pretesta, tranne Marco Crasso Frugi, che indossava una veste con palme ricamate e montava un cavallo bardato con falere, perché aveva ottenuto per la seconda volta quell’onore.

 

18. Pose sempre grande cura all’approvvigionamento e alla sicurezza della città: quando s’incendiò il rione Emiliano, passò due notti nel diribitorio 11 e poiché le forze dei soldati e degli schiavi non bastavano, tramite i magistrati fece chiamare in soccorso la plebe di tutti gli altri rioni e, poste delle ceste piene di monete davanti a sé, l’invitò a prestare aiuto, dando a ciascuno, in cambio dell’opera prestata, una degna ricompensa.

Quando scarseggiarono i viveri per una serie di cattivi raccolti, una volta, fu trattenuto dalla folla che inveiva contro di lui lanciandogli insulti e tozzi di pane, sì che a stento riuscì a riparare nel Palazzo, attraverso un passaggio posteriore. Allora non lasciò nulla di intentato per importare nella città viveri anche nella stagione invernale. Assicurò infatti ai commercianti un guadagno certo, accollandosi l’onere di eventuali perdite a causa di tempeste e offrì grandi premi agli armatori di navi da carico, proporzionati alla loro condizione.

 

19. Ai cittadini romani, offrì l’esenzione dalla legge Papia Poppea 12, ai latini, il diritto di piena cittadinanza, alle donne il diritto dei quattro figli 13 e tali ordinamenti sono ancora oggi vigenti.

 

20. Realizzò grandi opere, non molte, ma molto utili. Tra di esse le principali furono: la costruzione dell’acquedotto già iniziata da Caio, il canale emissario del lago Fucino e il porto di Ostia, nonostante sapesse che la realizzazione della seconda di queste opere era stata rifiutata da Augusto agli abitanti della Marsica che pure insistevano, l’ultima era stata progettata a più riprese dal Divo Giulio ma poi abbandonata per la difficoltà di esecuzione.

Tramite uno splendido acquedotto di pietra portò a Roma le fresche e abbondanti fonti dell’acqua Claudia che si chiamano una Cerulea, l’altra Curzia e Albudina, insieme alle acque della derivazione dell’Aniene e le fece distribuire in numerose e bellissime fontane. Fece intraprendere l’opera del Fucino sperando, oltre che nella gloria che gli sarebbe derivata, anche nel guadagno, dal momento che alcuni si impegnarono a eseguire a proprie spese le opere di prosciugamento, in cambio di una concessione delle terre prosciugate. Alla fine, con varie difficoltà, riuscì a portare a termine la realizzazione di un canale di tre miglia attraverso un monte che fu in parte scavato e in parte tagliato e ci vollero undici anni, sebbene vi lavorassero ininterrottamente trentamila uomini.

Fece costruire il porto di Ostia circondato da un braccio a destra e da uno a sinistra e fece ergere un molo all’ingresso, in acque profonde, anzi, per poter gettare fondamenta più solide, vi fece affondare una nave che aveva trasportato dall’Egitto l’Obelisco Grande 14 e, fissati su quella dei pali, vi fece costruire sopra un’altissima torre, ispirandosi al Faro di Alessandria, che guidasse la rotta delle navi con le sue luci notturne.

 

21. Distribuì assai spesso donativi al popolo e fece allestire anche numerosi spettacoli fastosi, e non soltanto quelli consueti nei soliti luoghi, ma anche di nuovo genere o riesumati dai tempi antichi e in luoghi dove mai prima d’allora erano stati allestiti.

Aprì i giochi per l’inaugurazione del teatro di Pompeo, fatto da lui ricostruire dopo un incendio, stando in un palco posto nell’orchestra 15, dopo aver pregato nel tempio sovrastante, dal quale era disceso attraversando la cavea 16 in mezzo al pubblico che sedeva in assoluto silenzio.

Indisse anche i Ludi secolari 17, come se quelli indetti da Augusto fossero stati celebrati in anticipo e non a tempo debito, sebbene poi, nelle sue memorie, egli stesso affermi che Augusto li aveva ripristinati avendo eseguito con la massima attenzione il calcolo degli anni trascorsi da quando non erano stati più celebrati. Per questo fece ridere assai l’annuncio del banditore che, con la formula consueta, invitava a partecipare ai Ludi «che nessuno aveva visto e che nessuno avrebbe più visto in seguito», giacché alcuni di quelli che avevano assistito ai Ludi precedenti erano ancora vivi e alcuni attori che avrebbero recitato in questi erano gli stessi di allora.

Spesso fece allestire giochi circensi sul monte Vaticano, inserendo talvolta una battuta di caccia ogni cinque gare. Fece abbellire il Circo Massimo con stalle di marmo e mete 18 d’oro, mentre prima le stalle erano di tufo e le mete di legno; stabilì che ai senatori, che prima assistevano ai giochi in mezzo al pubblico, venissero riservati dei posti fissi.

Oltre alle corse delle quadrighe, fece rappresentare anche il Ludo troiano e cacce a belve africane eseguite da un manipolo di cavalieri pretoriani, guidati dai tribuni e dal prefetto in persona, e fece anche gareggiare cavalieri tessalici che inseguivano per tutto il circo dei tori selvaggi e dopo averli stancati vi saltavano sopra e li costringevano a piegarsi a terra, tenendoli per le corna.

Aumentò il numero dei giochi gladiatori e ne indisse di vario genere e in luoghi vari: uno si teneva una volta l’anno nel Castro Pretorio, senza cacce e senza apparato, un altro, regolare, rispettava la tradizione e si svolgeva in Campo Marzio, mentre proprio lì ebbe luogo un altro tipo di gioco insolito, breve, che durò pochi giorni e fu denominato sportula 19 perché la prima volta [Claudio] l’aveva indetto «invitando il popolo ad una sorta di spuntino improvvisato, deciso tutti insieme alla buona». E in nessun altro genere di spettacolo si mostrava più affabile o cordiale, come in questo e, ponendosi alla stessa stregua del pubblico, contava ad alta voce, numerandole con le dita della mano sinistra, le monete d’oro offerte ai vincitori e spesso suscitava ilarità negli spettatori, facendo il tifo con incitamenti e preghiere, chiamandoli «signori», accompagnando il tifo con battute a volte ricercate e con freddure, come quando, ad alcuni tifosi che richiedevano a gran voce Palombo, rispose che «glielo avrebbe dato se fosse stato pescato». Ma una battuta almeno fu tempestiva e opportuna: quando a un gladiatore essedario 20, per le preghiere dei suoi quattro figli, ebbe concesso, con grande assenso del popolo, la verga del congedo 21, immediatamente fece girare una tavoletta scritta in cui esortava il popolo a fare figli, poiché ben si vedeva quanto questi potessero essere d’aiuto e sostegno persino ad un gladiatore.

Organizzò anche nel Campo Marzio uno spettacolo che consisteva nella simulazione dell’assedio e del saccheggio di una città, come avviene in guerra, e la resa dei re della Britannia e vi presiedette in divisa da generale.

Inoltre, dovendo far prosciugare il lago di Fucino, prima vi fece allestire una naumachìa 22. Ma, poiché ai combattenti che gli dicevano: «Ave, Cesare, coloro che si accingono a morire ti salutano!», egli aveva risposto: «Non è detto!», nessuno voleva più combattere, deducendo da quella battuta di essere stato graziato. Allora egli, dopo avere esitato a lungo se farli uccidere tutti col ferro e col fuoco, alla fine balzò giù dal suo posto e corse lungo il lago, caracollando in modo alquanto ridicolo, e li spinse a combattere, vuoi con minacce, vuoi con preghiere. In questo spettacolo si affrontarono una flotta sicula e una rodiese, di dodici triremi ciascuna e il segnale di tromba fu emesso da un Tritone d’argento che, grazie ad un congegno meccanico, era emerso dal centro del lago.

 

22. Riguardo alle cerimonie sacre e alle consuetudini civili e militari, ne modificò alcune, ne ripristinò altre, che erano cadute in disuso, ne istituì di nuove; lo stesso dicasi dello stato giuridico degli ordini dei cittadini, in patria e fuori.

Nello scegliere i sacerdoti dei singoli collegi, non nominò alcuno senza che avesse prima prestato giuramento.

Osservò con cura che, nel caso in cui a Roma si fosse verificato un terremoto, il pretore convocasse un’assemblea e indicesse la sospensione delle attività e che, nel caso in cui fosse stato avvistato su Roma o sul Campidoglio un uccello di malaugurio, si tenesse un rito apotropaico, presieduto da lui stesso in qualità di pontefice, in presenza del popolo, davanti ai Rostri e dopo aver fatto allontanare la folla di schiavi e di operai.

 

23. Abolì l’interruzione dei processi la cui esecuzione era prima divisa tra i mesi estivi e quelli invernali. Delegò ai governatori, stabilmente e anche nelle province, la giurisdizione dei fidecommessi, che prima era consuetudine delegare di anno in anno e solo ai magistrati di Roma.

Abrogò l’articolo aggiunto da Tiberio alla legge Papia Poppea, in base alla presupposizione che chi avesse compiuto sessanta anni non fosse in grado di generare prole.

Sancì anche che i consoli potessero assegnare tutori straordinari ai loro pupilli e che fossero tenuti lontani da Roma e anche dall’Italia coloro ai quali fosse stato interdetto dal magistrato l’ingresso nella propria provincia.

Egli stesso istituì una nuova forma di relegazione, vietando ad alcuni cittadini di allontanarsi da Roma oltre il terzo miglio.

Quando doveva trattare affari di particolare rilievo nella Curia, sedeva nel seggio dei tribuni o in mezzo ai seggi dei consoli.

Si attribuì la concessione dei congedi, che solitamente si chiedevano al Senato.

 

24. Concesse le insegne consolari anche ai procuratori stipendiati con duecentomila sesterzi. A chi non accettava la dignità senatoria tolse anche quella equestre.

Sebbene avesse dichiarato in un primo tempo che non avrebbe nominato senatore nessuno che non fosse stato almeno pronipote di un cittadino romano, poi diede il laticlavio 23 perfino al figlio di un liberto, ponendo come unica condizione che fosse prima adottato da un cavaliere romano. Tuttavia, temendo di essere egualmente biasimato, ricordò che anche il censore Appio Claudio il Cieco, capostipite della sua famiglia, aveva nominato senatori i figli dei libertini, non considerando che allora, ma anche in seguito, si denominavano libertini non gli schiavi liberati bensì i loro figli.

Al collegio dei questori, al posto della pavimentazione delle strade, affidò l’allestimento degli spettacoli gladiatori e, dopo aver sottratto loro la provincia di Ostia e quella Gallica, gli restituì la cura dell’erario del tempio di Saturno, che precedentemente era stata affidata ai pretori in carica o, come adesso, agli ex pretori.

Attribuì le insegne trionfali a Silano, fidanzato di sua figlia, ancora impubere, e poi ai maggiorenni le concedeva con tale facilità e in tal numero che gli fu inviata una lettera (che esiste ancora) firmata da tutte le legioni, con cui si chiedeva di assegnare ai legati consolari le insegne trionfali, insieme al comando dell’esercito, affinché quelli non cercassero pretesti per muovere guerre in ogni modo 24.

Ad Aulo Plazio concesse anche l’ovazione e gli andò incontro quando fece il suo ingresso a Roma e, mentre quello saliva al Campidoglio e ne ridiscendeva, si pose al suo fianco a sinistra.

A Gabinio Secondo, per la vittoria riportata sulla popolazione germanica dei Cauci, accordò l’assunzione del soprannome di Caucico.

 

25. Regolò la carriera militare dei cavalieri in modo tale da dare loro prima il comando d’una coorte, poi di un’ala e poi il tribunato di una legione. Istituì gli stipendi e una sorta di milizia fittizia, chiamata soprannumeraria, in cui, senza prestare servizio, si poteva usufruire del titolo solo nominalmente. Con decreto senatorio proibì ai soldati di entrare nelle case dei senatori per salutarli.

Confiscò i beni dei libertini che si facevano passare per cavalieri romani.

Ricondusse alla condizione di schiavi quelli che non mostravano gratitudine o quelli i cui padroni si lamentavano, minacciando gli eventuali difensori di non prendere provvedimenti contro i loro liberti.

Poiché alcuni cittadini, per non darsi la pena di curarli, esponevano i loro servi malati o debilitati nell’isola di Esculapio, egli sancì che tutti quelli che fossero stati esposti in tal modo dovevano essere considerati liberi e non potevano tornare ad essere schiavi, qualora fossero guariti e che fosse ritenuto colpevole di omicidio chi avesse ucciso un proprio schiavo anziché esporlo.

Emanò un editto col quale proibiva ai viandanti di transitare attraverso le città italiche se non a piedi, in portantina o in lettiga. Mandò a Pozzuoli e ad Ostia un contingente, per la difesa contro gli incendi. Vietò agli stranieri di adottare nomi romani o comunque gentilizi. Fece decapitare nel campo Esquilino quelli che si facevano passare per cittadini romani.

Restituì al Senato l’Acaia e la Macedonia che Tiberio aveva trasferito alla sua amministrazione.

Tolse la libertà ai Liei, a causa delle loro rovinose discordie intestine; la restituì invece ai Rodiesi, pentiti delle loro antiche malefatte.

Esentò in perpetuo i Troiani dai tributi, in quanto progenitori del popolo romano, dopo aver dato pubblica lettura di una antica lettera in cui il Senato e il popolo promettevano l’alleanza al re Seleuco, a patto che esentasse da ogni tributo i Troiani, in quanto loro consanguinei.

Bandì dalla città i Giudei che, istigati dalla dottrina di Cristo, creavano sempre disordini.

Permise agli ambasciatori dei Germani di sedere nell’orchestra, colpito dalla loro ingenua fierezza, poiché, essendo stati invitati a sedersi nei posti popolari, quando si erano accorti che gli ambasciatori dei Parti e degli Armeni sedevano tra i senatori, si erano spostati di loro spontanea volontà in quello stesso settore, dopo aver dichiarato che il loro valore o la loro condizione non era assolutamente inferiore.

In Gallia abolì del tutto la religione terribilmente feroce dei Druidi, che Augusto aveva vietato solo ai cittadini. Cercò invece di importare a Roma dall’Attica i misteri eleusini e propose di far ricostruire a spese dello Stato in Sicilia il tempio di Venere Ericina crollato perché assai vetusto.

Stipulava i trattati con i re nel Foro, dopo aver immolato una scrofa ed aver usato l’antica formula dei feriali 25.

Ma sia queste che altre cose e, in generale, l’intera gestione del suo principato, furono frutto non tanto della sua volontà, quanto di quella delle sue mogli e dei liberti e, quasi in ogni situazione, egli si comportò come a loro piaceva o giovava.

 

26. Ancora adolescente, ebbe due fidanzate: Emilia Lepida, pronipote di Augusto, e Livia Medullina, detta anche Camilla, dell’antica famiglia del dittatore Camillo. Ripudiò ancora vergine la prima, perché i suoi genitori avevano offeso Augusto, perse la seconda a causa di una malattia, proprio nel giorno fissato per le nozze. In seguito sposò Plauzia Urgulanilla, il cui padre aveva ottenuto l’onore del trionfo e poi Elia Petina, figlia di un ex console. Divorziò da entrambe: da Petina per lievi offese, da Urgulanilla per la sua infamante dissolutezza e anche perché sospettata di omicidio.

Dopo queste, sposò Valeria Messalina, figlia di Barbato Messala, suo cugino. Ma dopo che venne a sapere che questa, a parte altre ignominiose scelleratezze, aveva anche sposato Caio Silio, consegnando la dote davanti ai testimoni, la condannò a morte e proclamò in assemblea, davanti ai pretoriani, che, «poiché i matrimoni gli andavano male, avrebbe osservato il celibato e, se non l’avesse fatto, li autorizzava a ucciderlo con le loro stesse mani».

Ma non ce la fece a trattenersi a lungo dal cercare nuove unioni, con quella stessa Petina che prima aveva ripudiato e con Lollia Paolina che era stata la moglie di Caio Cesare. Ma poi, conquistato da Agrippina, figlia di suo fratello Germanico, che lo sedusse usando pretestuosamente baci ed effusioni a lei consentite dal legame di parentela, subornò alcuni, affinché proponessero nella successiva seduta del Senato di costringerlo a sposarla, come se ciò fosse importantissimo per la Ragion di Stato e di dare a tutti la licenza di contrarre matrimoni di tal genere, fino a quel momento ritenuti incestuosi. E il giorno dopo celebrò le nozze ma non si trovò nessuno che seguì il suo esempio, tranne un liberto e un centurione primipilo ed egli stesso partecipò con Agrippina alla celebrazione di quelle nozze.

 

27. Ebbe dei figli da tre delle sue mogli: da Urgulanilla, Druso e Claudia; da Petina, Antonia; da Messalina, Ottavia e Britannico (in un primo tempo chiamato Germanico). Druso gli morì a Pompei, ancora fanciullo, strozzato da un pezzo di pera che per gioco aveva lanciato in aria e poi afferrato con la bocca. Alcuni giorni prima lo aveva fatto fidanzare con la figlia di Seiano, per questo mi stupisce che alcuni abbiano riferito che era stato ucciso da un’insidia tesagli da Seiano.

Fece esporre e scaraventare nuda, davanti alla porta della madre, Claudia, come se fosse stata concepita da un rapporto col liberto Botere, sebbene fosse già nata cinque mesi prima del divorzio e si fosse cominciato ad allevarla.

Diede Antonia in sposa prima a Cneo Pompeo Magno, poi a Fausto Siila, giovani di grande nobiltà, mentre Ottavia, dapprima promessa a Silano, la fece sposare con il suo figliastro Nerone.

Britannico, nato durante il suo secondo consolato, venti giorni dopo l’assunzione del principato, ancora piccolino, lo raccomandava all’esercito, portandolo egli stesso in braccio alle assemblee militari, e lo raccomandava spesso anche al popolo, tenendolo in grembo o seduto davanti a lui, durante gli spettacoli e lo apostrofava con formule di buon augurio insieme alla folla acclamante.

Dei suoi generi, adottò Nerone, mentre, non solo ripudiò Silano e Pompeo, ma li fece anche uccidere.

 

28. Tra i liberti, predilesse l’eunuco Poside, al quale, come ad altri militari, durante il suo trionfo britannico, conferì Vasta pura 26, e Felice, marito di tre regine, al quale assegnò il comando di squadroni e di coorti e il governo della Giudea e anche Arpocrate, al quale concesse il privilegio di farsi portare in lettiga per la città e di indire spettacoli pubblici. Oltre a questi, tenne in particolare considerazione anche Polibio, suo segretario addetto agli studi, che spesso andava in giro passeggiando tra i due consoli. Ma più di tutti amò Narcisso, suo segretario addetto alla corrispondenza, e Pallante, segretario addetto all’amministrazione. A costoro consentì che, per decreto del Senato, venissero onorati non solo con ingenti emolumenti, ma anche con l’attribuzione delle insegne pretorie e questorie e inoltre gli lasciò compiere ogni sorta di ruberia e di appropriazione indebita, tanto che, una volta, mentre egli si lamentava dell’assottigliamento del suo patrimonio, gli fu risposto a tono che i suoi tesori sarebbero divenuti abbondanti se si fosse messo in società con i suoi due liberti.

 

29. Succube di questi, come delle sue mogli, agì non da principe bensì da servitore. A loro vantaggio o piacimento e secondo i loro capricci, assegnò magistrature, cariche militari, impunità, punizioni, talvolta addirittura a sua insaputa.

E, tralasciando di elencare una per una le cose di minore importanza, come liberalità revocate, sue sentenze annullate, nomine inventate o alterate anche palesemente, fece uccidere Appio Silano, suo consuocero, le due Giulie, una figlia di Druso, l’altra di Germanico, con imputazioni vaghe e senza accordare loro il diritto alla difesa e ancora Cneo Pompeo, marito della sua figlia maggiore, e Lucio Silano, fidanzato della minore.

Pompeo fu trafitto mentre giaceva con un giovane amante, Silano fu costretto a dimettersi dalla pretura il 30 dicembre e ad uccidersi all’inizio dell’anno, proprio il giorno delle nozze di Claudio con Agrippina. Firmò la condanna di trentacinque senatori e oltre trecento cavalieri romani con tale superficialità che, quando un centurione gli riferì che era stato eseguito quel che egli aveva ordinato riguardo all’uccisione di un ex console, Claudio disse che egli non aveva dato alcun ordine del genere ma che comunque dava la sua approvazione, e questo perché i liberti affermavano che i militari avevano fatto il loro dovere, avendo precorso spontaneamente la vendetta dell’imperatore.

Mentre supera qualsiasi limite di credibilità il fatto che sarebbe stato indotto ad autenticare egli stesso l’atto di dote, per le nozze di Messalina con l’amante Silio, avendogli fatto credere che quelle nozze venivano simulate per allontanare da lui e trasferire su un altro un pericolo che, secondo alcuni presagi, incombeva su di lui.

 

30. Non gli mancò una certa autorevolezza e dignità sia che stesse in piedi sia che sedesse o soprattutto giacesse disteso: infatti era alto e ben messo, aveva un bell’aspetto, una bella capigliatura canuta e un collo robusto. Ma nell’andatura, le ginocchia deboli gli cedevano e molti difetti lo imbruttivano sia quando scherzava che quando si dedicava a cose serie: una risata indecente, un’irascibilità assai sgradevole con tanto di bava alla bocca e naso colante, e ancora, una certa balbuzie e un tentennare continuo del capo che aumentava soprattutto quando attendeva alla benché minima azione.

 

31. La sua salute, che prima era stata cagionevole, durante il suo principato fu ottima, eccetto un dolore allo stomaco così forte da fargli dire che, quando ne era stato colpito, aveva pensato persino di uccidersi.

 

32. Diede spesso lauti banchetti e quasi sempre in spazi assai aperti, tanto che il più delle volte vi partecipavano seicento convitati.

Una volta ne offrì uno presso l’emissario del Fucino, dove per poco non affogò investito dall’impeto violento dell’acqua quando uscì con gran getto.

Ad ogni sua cena faceva assistere anche i suoi figli con i giovani e le fanciulle più nobili, che, secondo un’antica usanza, mangiavano seduti ai piedi dei triclini.

Una volta invitò un convitato sospettato d’aver rubato il giorno prima una coppa d’oro e gli fece imbandire una coppa di argilla.

Si dice anche che avesse pensato di fare un editto per consentire di fare peti e rutti durante i banchetti, dopo aver saputo che uno aveva rischiato di morire, essendosi trattenuto in sua presenza per pudore.

 

33. Fu in ogni situazione e dovunque assai ingordo di cibo e di vino. Un giorno, mentre sedeva in giudizio nel Foro, colpito dal profumo del pranzo che si stava preparando per i Salii nel vicino tempio di Marte, lasciò il tribunale, salì e si mise a mangiare insieme ai sacerdoti.

Non si alzava mai dalla mensa se non era ben sazio e brillo tanto che, appena si sdraiava supino e si addormentava a bocca aperta, gli introducevano una penna in gola, per alleggerirgli lo stomaco.

Dormiva pochissimo (infatti prima della mezzanotte era sempre sveglio), sicché talvolta si addormentava durante il giorno, mentre amministrava la giustizia, e a stento gli avvocati riuscivano a svegliarlo alzando apposta la voce.

Era assai libidinoso con le donne mentre si astenne del tutto da rapporti con uomini.

Aveva una grande passione per il gioco dei dadi e scrisse anche un libro su questa arte. Soleva giocare anche in viaggio, facendo predisporre la carrozza e il tavoliere in modo tale che il gioco non risentisse dei movimenti.

 

34. Sia dalle cose importanti che da quelle insignificanti si può rilevare che fu d’indole crudele e sanguinaria. Faceva sempre eseguire in sua presenza le torture degli inquisiti e faceva eseguire immediatamente i supplizi dei parricidi.

Desideroso di assistere a Tivoli a un supplizio secondo le usanze arcaiche, poiché mancava il carnefice, ne mandò a chiamare uno da Roma e rimase fermo ad aspettarlo fino a tarda sera, mentre i condannati restavano legati ai pali.

In tutti gli spettacoli gladiatori, offerti da lui o da altri, faceva sgozzare anche quelli caduti per caso, soprattutto i reziari, per vedere la loro espressione mentre morivano.

Una volta che due gladiatori si erano colpiti a morte reciprocamente, ordinò senza esitazione che dalle loro spade gli si facessero dei coltellini da usare.

Gli piacevano talmente le lotte dei gladiatori bestiari e meridiani 27 che si recava agli spettacoli di primo mattino e vi rimaneva anche durante l’intervallo a mezzogiorno, dopo aver lasciato andare il pubblico a pranzo, e oltre a quelli già destinati a combattere, faceva scendere nell’arena, con pretesti minimi e improvvisati, anche altri, presi tra i fabbri o i servitori o simili, se qualche macchinario, congegno o una cosa del genere non avesse funzionato perfettamente.

Fece scendere nell’arena anche un suo servo nomenclatore 28 vestito con la toga, così com’era.

 

35. Ma soprattutto fu pavido e diffidente. Nei primi giorni del suo principato, sebbene, come abbiamo detto, facesse gran mostra di cordialità, osò recarsi ai banchetti solo se circondato dalle sue guardie del corpo armate di lance e solo se erano i suoi soldati a servirlo e non si recava mai a far visita a una persona malata senza aver fatto prima ispezionare la stanza e tastare e scuotere materassi e coperte.

Ma anche successivamente faceva perquisire, e in modo assai sgradevole, chiunque andasse a rendergli omaggio. Infatti solo nell’ultimo periodo e a malincuore accettò che non si perquisissero i fanciulli, le donne e le ragazze e che non venissero requisite ad accompagnatori o copisti le cassettine per le penne da scrivere e gli stili.

Durante una sommossa cittadina, dopo che Camillo, convinto di poterlo intimidire, senza bisogno di una guerra civile, gli ebbe inviata una lettera ingiuriosa, zeppa di minacce e insulti, con la quale gli intimava di abdicare al comando e di ritirarsi agli ozi della vita privata, egli, consultatosi con i cittadini più ragguardevoli, fu tentato di accettare tale intimazione.

 

36. Si spaventò a tal punto per la denuncia infondata di alcuni complotti che cercò di abdicare al comando.

Quando, come ho giò riferito, fu arrestato presso di lui mentre attendeva ad un sacrificio, un tale armato di pugnale, convocò in fretta il Senato tramite i banditori e piangendo e gridando lamentò la sua misera condizione, non essendo mai al sicuro in nessun luogo e per un lungo periodo non apparve in pubblico.

Anche il suo fortissimo amore per Messalina fu vinto non tanto dall’infamia dei tradimenti di lei, quanto dal timore del pericolo, poiché aveva sospettato che la donna volesse impadronirsi del potere col suo amante Silio.

In quel periodo, in modo vergognoso, si ritirò spaventato negli accampamenti, non chiedendo altro per tutto il viaggio se non di sapere se «l’impero fosse ancora suo».

 

37. Non vi fu alcun sospetto o alcun delatore per quanto inconsistente che non lo spingesse, assalito da una grave angoscia, a difendersi e a vendicarsi. Un tale che era parte in causa in un contenzioso, lo prese da parte nel salutarlo e gli disse di aver sognato qualcuno che lo uccideva nel sonno; quindi subito dopo, fingendo di riconoscere l’aggressore del sogno, gli indicò il suo avversario che gli stava porgendo una supplica. Immediatamente costui fu arrestato e condotto all’esecuzione capitale.

Si dice che nello stesso modo fu ucciso Appio Silano che Messalina e Narcisso volevano fare fuori. Si divisero i compiti: uno, fingendosi sconvolto, fece irruzione all’alba nella stanza da letto dell’imperatore, affermando d’aver sognato che Appio lo assaliva con violenza, l’altra, simulando stupore, riferì che anche ella da alcune notti faceva quello stesso sogno. Non molto tempo dopo, secondo gli accordi, fu annunciato che Appio, al quale il giorno prima era stato recapitato l’ordine di venire a quell’ora, stava facendo irruzione. Sembrò dunque che si confermasse perfettamente la veridicità del sogno e si ordinò immediatamente che Appio fosse arrestato e ucciso. E il giorno dopo Claudio non esitò affatto a riferire al Senato lo svolgimento di tali fatti e di ringraziare il liberto che anche nel sonno vegliava sulla sua incolumità.

 

38. Consapevole della propria iracondia e irascibilità, si scusò per entrambe con un editto, distinguendo però i due sentimenti e promise che la prima sarebbe stata di breve durata e innocua, l’altra mai ingiustificata.

Dopo aver aspramente ripreso gli abitanti di Ostia, che non gli avevano mandato incontro le barche, quando aveva imboccato il Tevere, con tanta animosità da scrivere che era stata lesa la sua dignità, immediatamente dopo li perdonò, in modo tale che sembrava quasi chiedere scusa.

Respinse con le sue stesse mani alcuni che gli si erano avvicinati in pubblico intempestivamente.

Allo stesso modo relegò uno scriba questorio e un senatore che aveva ricoperto la carica di pretore, che non avevano alcuna colpa, rifiutandosi di ascoltarli, il primo perché aveva sostenuto una causa contro di lui, quando era ancora un cittadino privato, con eccessivo accanimento, il secondo perché, quando era edile, aveva multato i coloni delle sue proprietà che avevano venduto cibi cotti, nonostante il divieto vigente e perché aveva fatto flagellare un suo fattore che si era intromesso. Fu per questo che tolse anche agli edili il controllo delle taverne.

E non mostrò reticenza neanche riguardo alla sua stupidità e in alcune sue orazioni minori sostenne di averla simulata di proposito sotto Caio, perché altrimenti non si sarebbe salvato e non sarebbe giunto alla dignità imperiale. Tuttavia non fu convincente, poiché, dopo poco tempo, fu pubblicato un libro intitolato La ribellione degli stolti, il cui argomento era che nessuno può fingere la stoltezza.

 

39. Tra l’altro, meravigliava tutti per la sua smemoratezza e la sua distrazione, o per dirla alla greca, la μετεωρίαν e l’ἀβλεψίαν.

Fatta uccidere Messalina, poco dopo nel triclinio chiese «come mai l’imperatrice non fosse ancora arrivata».

Fece chiamare al Palazzo, per una consulenza o per una partita a dadi, molti di coloro che aveva condannato a morte il giorno prima e mandò alcuni messi a rimproverarli, in quanto ritardatari, di essere dei dormiglioni.

Mentre si accingeva a sposare, contro ogni regola, Agrippina, non smise di chiamarla in ogni suo discorso «figlia sua, sua pupilla, nata e cresciuta sul suo grembo».

Quando stava per accogliere Nerone nella sua famiglia, come se non fosse già abbastanza riprovevole il fatto che adottasse un figliastro pur avendo un figlio adulto, disse più volte in giro che «nessuno mai era entrato per adozione nella famiglia Claudia».

 

40. Spesso mostrò una tale sbadataggine nei suoi discorsi e nelle sue azioni da far supporre che egli non fosse consapevole o non sapesse proprio né chi egli fosse, né con chi parlasse, né dove, né quando.

Mentre si discuteva di alcuni provvedimenti riguardo a macellai e vinai, esclamò in Senato: «Chiedo a voi, chi può vivere senza un po’ di carne?» e descrisse l’abbondanza delle vecchie taverne dove egli stesso un tempo soleva andare personalmente a prendere il vino.

Tra i motivi per cui suffragava la candidatura a questore di un tale, pose il fatto che «il padre di quello gli aveva dato tempestivamente dell’acqua fredda, una volta che era malato».

Una volta fece introdurre una testimone in Senato e disse: «Costei è stata liberta e pettinatrice di mia madre ma ha sempre considerato me come suo padrone. Dico ciò perché adesso c’è chi nella mia stessa casa non mi considera come padrone».

E una volta, durante un processo, avendo dato in escandescenze con gli abitanti di Ostia che gli chiedevano pubblicamente un favore, si mise a gridare che «non aveva nessun motivo di ingraziarseli e che anch’egli era libero, come gli altri».

Ripeteva poi continuamente, ogni giorno quasi ogni ora e ogni momento frasi del genere: «Ti sembro forse Telegenio?» oppure: «Ciancia pure, ma non mi toccare!» e altre simili espressioni, disdicevoli anche per i cittadini comuni e ancor più per un principe facondo e colto anzi appassionato di studi liberali.

 

41. Quando era adolescente, sollecitato da Tito Livio, grazie anche all’aiuto di Sulpicio Flavo, si diede a scrivere un’opera d’argomento storico. E, quando la lesse per la prima volta, davanti a un folto pubblico, fece una gran fatica ad arrivare fino in fondo, interrompendosi da solo. Infatti, all’inizio della sua lettura, il pubblico scoppiò a ridere, perché alcuni banchi si erano rotti sotto il peso di uno spettatore obeso. Anche quando si calmarono, tuttavia, egli non riuscì più a controllarsi e continuava a scoppiare a ridere non appena gli tornava in mente l’accaduto.

Anche durante il suo principato continuò a scrivere molte opere e a farle recitare da un lettore.

Dapprima cominciò a scrivere una storia cominciando dall’uccisione del dittatore Cesare ma poi passò a periodi più recenti e partì dalla pacificazione civile, poiché si rendeva conto che non gli si lasciava la facoltà di raccontare liberamente la verità riguardo al periodo precedente. Veniva infatti continuamente ripreso per questo, sia dalla madre che dalla nonna.

Lasciò due libri sul primo argomento e quarantuno sul secondo. Scrisse anche otto volumi Sulla sua vita, insulsi, ancorché scritti con eleganza, e una Difesa di Cicerone contro i libri di Asinio Gallo, alquanto dotta. Inventò anche tre nuove lettere dell’alfabeto che aggiunse, come assolutamente indispensabili, a quelle tradizionali. Sull’opportunità di tale operazione, aveva già pubblicato persino un volume quando era ancora un cittadino privato e appena divenne principe ottenne facilmente che si adottassero nell’uso comune. Tale scrittura è rimasta documentata in molti libri, negli Atti diurni e nelle iscrizioni di opere pubbliche.

 

42. Attese con eguale interesse anche allo studio delle lettere greche, ribadendo in ogni occasione il suo amore per il greco, lingua superiore.

Una volta, disse a uno straniero che dissertava in greco e in latino: «Tu sai parlare le mie due lingue!». E, nell’atto di affidare l’Acaia ai senatori, disse che «quella provincia gli era cara per averne praticato gli stessi studi». Spesso in Senato rispose agli ambasciatori, con un discorso continuato, in greco. Più volte in tribunale citò i versi di Omero. Ogni volta che si vendicava di un nemico o di un attentatore, al tribuno di servizio che gli chiedeva, come di consueto, la parola d’ordine, quasi sempre rispondeva in greco:

 

[Respingere colui che provocò per primo] 29.

 

Scrisse infine anche delle opere d’argomento storico in greco: una Storia dei Tirreni, in venti libri e una Storia dei Cartaginesi, in otto. Fu proprio grazie a queste due opere che all’antico Museo di Alessandria se ne aggiunse uno nuovo che recava il suo nome e si istituì che ogni anno, in determinati giorni, vi venissero letti in uno la Storia dei Tirreni e nell’altro la Storia dei Cartaginesi, per intero, da lettori che si alternavano ad ogni libro, come in un pubblico uditorio.

 

43. Verso la fine della sua vita, diede qualche segno evidente di essersi pentito di aver sposato Agrippina e di aver adottato Nerone. Certo è che, mentre un giorno i liberti ricordavano con approvazione la sentenza da lui emessa il giorno prima, con la quale aveva condannato una donna accusata di adulterio, disse provocatoriamente che «anch’egli aveva avuto in sorte matrimoni con tutte donne impudiche ma non impunite» e poco dopo abbracciò assai forte il figlio Britannico trovandoselo davanti e lo esortò «a crescere perché egli potesse rendergli conto delle sue azioni» e aggiunse in greco: «chi ha ferito sarà anche colui che curerà». E quando ordinò di fare indossare la toga virile al figlio ancora troppo giovane e impubere, appena la statura glielo avesse consentito, aggiunse: «Così finalmente il popolo romano avrà un vero Cesare!».

 

44. Poco tempo dopo, fece redigere il proprio testamento e lo fece siglare da tutti i magistrati. Per questo, prima che andasse ancora oltre, fu fermato da Agrippina che era spinta anche dalla consapevolezza delle proprie colpe numerose e dalla presenza di delatori.

È opinione unanime che egli sia stato ucciso col veleno ma dove e per mano di chi, questo non si sa per certo: alcuni raccontano che fu avvelenato in Campidoglio dall’eunuco assaggiatore 30 Aloto, mentre era a banchetto con i sacerdoti; altri invece sostengono che ciò avvenne durante un pranzo in famiglia, per mano della stessa Agrippina, che gli aveva imbandito un fungo avvelenato, poiché egli era assai ghiotto di quel cibo. Anche riguardo a quel che successe subito dopo, c’è discordanza: molti dicono che, appena ebbe assimilato il veleno, si ammutolì e, straziato dai dolori per tutta la notte, morì all’alba; altri sostengono che, dopo uno stato di torpore iniziale, abbia poi vomitato tutto il cibo che gli era tornato su, e quindi gli fu propinato dell’altro veleno, versato forse in una minestra di farro, con la scusa di farlo riprendere con del cibo, poiché era esausto, oppure in un clistere somministratogli col pretesto di aiutarlo in tal modo a smaltire l’indigestione.

 

45. La sua morte fu tenuta nascosta, finché non fu predisposto tutto il necessario per la successione. Quindi si continuò ancora a pregare per la sua guarigione e si fecero venire dei comici simulando che dovessero distrarlo, secondo il desiderio da lui espresso.

Morì il 13 ottobre, durante il consolato di Asinio Marcello e di Acilio Aviola, a sessantaquattro anni, nel quattordicesimo anno del suo principato.

Gli furono rese le esequie funebri col fasto solenne riservato ai principi, e fu annoverato tra le divinità. Tale onore gli fu poi tolto da Nerone e restituito da Vespasiano.

 

46. Questi furono i presagi più significativi della sua morte: una stella chiomata (che chiamano cometa) apparve; il mausoleo di suo padre Druso fu colpito da un fulmine e la maggior parte di coloro che ricoprivano cariche d’ogni genere in quell’anno morirono. Ma sembra, anche in base ad alcuni indizi, che egli stesso non abbia ignorato né si sia nascosto di essere prossimo alla fine dei suoi giorni. Infatti, nel designare i consoli non ne nominò alcuno per i mesi successivi a quello in cui morì e l’ultima volta che era andato al Senato, dopo aver a lungo esortato i suoi figli alla concordia, li aveva affidati entrambi come supplice ai senatori, data la loro giovane età.

Infine, durante l’ultimo suo processo, dal tribunale aveva detto «di essere giunto alla fine della sua vita mortale» e, sebbene i presenti facessero gli scongiuri, lo aveva ripetuto una seconda volta.

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
Storici Latini
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