La congiura di Catilina
1. Per tutti coloro che mirano a emergere su altri esseri viventi, è conveniente applicarsi con fortissimo impegno al fine di non trascorrere la vita senza lasciare memoria di sé, a guisa di bestie che la natura ha formato prone a terra e dedite unicamente alla preoccupazione del cibo. Per contro, il valore dell’uomo risiede nell’anima e nel corpo; nell’agire l’anima comanda e il corpo obbedisce. La parte spirituale la condividiamo con le divinità, quella corporale con gli animali. E quindi mi pare più retto cercare la gloria più con l’intelligenza che con la forza. La vita è breve ma viene resa più lunga dal ricordo che di noi lasciamo. Infatti il prestigio, che ci viene dal danaro e dalla prestanza fisica scorre come un fiume ed è fragile come un fuscello. La rettitudine, invece, risplende eternamente.
E gli uomini hanno sempre disputato se la potenza militare derivi dalla forza fisica oppure dalle facoltà dell’intelletto. È chiaro che prima di operare si progetta. Una volta progettato, subito si pone in atto la cosa. Pertanto progetto e azione, per sé insufficienti, necessitano ciascuno dell’ausilio dell’altro.
2. Agli albori ci furono i «re» – questo fu il primo nome dei potenti su la terra – che si caratterizzavano, a seconda delle loro inclinazioni, per saggezza o per forza fisica: in quei tempi la vita degli uomini si svolgeva immune da cupidigia. Ciascuno si contentava del suo. In seguito, però, dopo che Ciro1 in Asia, e in Grecia gli Ateniesi e gli Spartani2, si misero a soggiogare città e popoli, a ritenere motivo di guerra la brama di dominio e massima gloria il potere più esteso, e massimo prestigio, si scoprì pure che in guerra, facendo fronte al rischio e all’azione, molto più si può ottenere con l’intelligente strategia. E se i re e i capi di Stato conservassero in pace lo stesso criterio che in guerra, le vicende umane avrebbero un andamento più equilibrato e più stabile e non si verificherebbero le condizioni per rivolgimenti politici e disordini interni. Infatti il potere si mantiene facilmente con quelle stesse opere con le quali si è ottenuto. Ma quando l’indolenza subentrò all’operosità, la dissolutezza alla continenza e all’equità l’arroganza, allora i destini si mutano insieme ai costumi; così che sempre il comando si trasferisce da persone meno capaci a quelle più capaci.
Tutti i successi che gli uomini ottengono dall’agricoltura, dai commerci, dall’arte del costruire, tutti obbediscono al valore. Ma molti uomini, occupati unicamente dal mangiare e dal dormire, rozzi e incolti, sono soliti condurre la propria vita come fossero di passaggio. Questi certamente, contravvenendo all’ordine naturale, si servono del corpo come fonte di piacere, mentre l’anima risulta loro di peso. La loro vita e la loro morte hanno per me lo stesso valore: di entrambe si tace. Mentre invece considero uomo degno di tale nome colui che vive secondo i dettami dell’anima e ne segue i consigli e, dedicandosi a qualche occupazione, cerca onore da un’attività decorosa e da un’attività degna.
Nella molteplicità delle attività umane la Natura offre sempre a ciascuno la propria strada.
3. È positivo dedicarsi al buon andamento dello Stato, ma è anche conveniente saper parlare; in pace e in guerra si può diventare famosi e sono lodati in gran numero coloro che operarono ma anche quelli che scrissero sull’operato altrui. A me, sebbene non tocchi uguale successo allo scrittore e all’autore delle imprese, tuttavia sembra quanto mai difficile narrare le imprese; in primo luogo è necessario che le parole siano adeguate ai fatti realmente accaduti; poi, siccome la maggior parte delle persone potrebbe ritenere che tu abbia biasimato gli errori per invidia e malevolenza, quando ricordi le virtù e la gloria di onesti cittadini, questo viene accolto con indifferenza, perché ciascuno pensa sia alla sua portata; quando invece le cose raccontate sono al di sopra delle comuni possibilità, vengono ritenute frutto di fantasia.
Anche io, da ragazzo, come la maggior parte dei miei coetanei, fui spinto alla vita pubblica dalla passione ma andai incontro a molte avversità. Infatti al posto della modestia, della moderazione, della virtù, erano di norma: temerarietà, prodigalità, avidità. Nonostante la mia coscienza rifiutasse questo stile di vita, non abituata ad esso, tuttavia io, ingenuo per l’età, trasportato dall’ambizione, vivevo fra tanti vizi, ma, per quanto contrario a quella cattiva condotta, la mia brama di distinguermi mi esponeva come gli altri alla cattiva fama e al malanimo.
4. Allora, quando il mio animo trovò sollievo dopo sventure e pericoli, e decisi che il resto della vita l’avrei trascorso lontanodalla politica, non fu mia intenzione di lasciar consumare il tempo nella pigrizia e nella inoperosità, ma neppure trascorrere il resto della vita intento alla coltivazione dei campi, alla caccia, o a lavori umili; ma, ritornato alla primitiva occupazione, ossia lo studio, dal quale la nefasta ambizione politica mi aveva allontanato, decisi di scrivere i fatti storici di Roma, per sommi capi, a seconda che sembrassero degni di memoria, tanto più che il mio animo era ormai liberato da inutili speranze, da paure, da legami politici. E dunque esporrò, quanto più possibile attenendomi alla realtà, con brevità la congiura di Catilina. Infatti, credo che queste vicende siano degne di ricordo per la singolarità della macchinazione delittuosa e del rischio corso dallo Stato. Ma prima di cominciare il racconto, esporrò brevemente le peculiarità dell’individuo che diede principio alla congiura.
5. Lucio Catilina3, di nobili origini, godeva di gran vigore fisico e morale, ma era d’animo malvagio e depravato. Fin dall’adolescenza amò lotte civili, fatti sanguinosi, rapine, lotte intestine e tra simili fatti trascorse la giovinezza. Il suo giovane corpo resisteva alla fame, al freddo, alle notti in bianco, più di quanto ognuno potrebbe credere. Temerario, strisciante, mutevole, era bugiardo, era dissimulatore, desiderava la roba altrui e sprecava le sue cose acceso da cupidigia. Era sufficientemente eloquente ma povero di cultura. Il suo animo smodato bramava sempre, insaziabile, di conquistare vette irraggiungibili, smodate, altissime. Dopo la dittatura di Silla4, fu preso da una smodata smania di farsi padrone unico dello Stato. E a tal fine avrebbe usato ogni mezzo, non importa quale. Di giorno in giorno il suo animo furente si agitava per la modesta situazione dei suoi, per la coscienza dei delitti, che aumentavano con la pratica delle scelleratezze, come ho ricordato in precedenza.
Inoltre, Catilina era incitato dal cattivo spettacolo offerto dalla cittadinanza corrotta, nella quale predominavano due vizi, quasi opposti fra loro: lusso e avarizia. L’argomento stesso, poiché il momento mi ha indotto a parlare dei costumi della città, sembra sospingermi a riandare al passato e trattare brevemente delle istituzioni dei nostri maggiori in patria e in guerra, in che modo abbiano ereditato lo Stato e quanto grande l’abbiano lasciato, e come invece gradatamente sia degenerato da splendido e illustre in corrotto e turbolento.
6. Come insegna la tradizione, la civiltà romana fu fondata e iniziò con i Troiani che, guidati da Enea5, profughi, vagavano senza una sede fissa; assieme a loro erano presenti gli indigeni, gente selvaggia, non vincolata da leggi e non governata da capi. Ed è quasi incredibile come costoro, quando si aggregarono entro le stesse mura, di lingua e di razza differenti, diversi per abitudini, siano riusciti ad amalgamarsi così facilmente; infatti i rapporti di buon accordo riuscirono, in breve, a trasformare una moltitudine dispersa ed errante in un popolo vero e proprio. Ma come il loro Stato, progredito e sviluppatosi per numero di componenti, per usanze, per attività lavorative, sembrava ormai prospero e potente, come capita spesso nelle vicende dei mortali, la ricchezza suscitò l’invidia. Così, i popoli e i re confinanti mossero contro di loro la guerra, ed essi non potevano contare sull’aiuto di popoli amici, che, in preda al terrore, si tenevano lontani dai pericoli.
Ma i Romani sempre attenti in pace e in guerra, si affaccendavano, si preparavano, si incoraggiavano e reagirono contro i nemici, difendendo con le armi la libertà, la patria, la famiglia. Superato, poi, valorosamente il pericolo, prestavano aiuto ad alleati e amici e si procacciavano la loro amicizia più col dare che col ricevere. Fra di loro erano sovrani la legge e il re; delegati a sovrintendere agli interessi dello Stato erano coloro che, avanti negli anni, avevano grande sapienza: a questi davano il nome di «Padri»6, in riferimento all’età o all’ufficio che rivestivano. Quando, poi, i re – che da principio erano garanzia di libertà e di progresso – si trasformarono in arroganti dittatori, si cambiò consuetudine: si eleggevano due capi che reggevano per un anno il governo7; infatti si credeva che in questa maniera il rischio che qualcuno divenisse dispotico si sarebbe ridotto al minimo.
7. In quel periodo ciascuno cominciò a salire e ostentare i propri meriti. Ai potenti, infatti, risulta più sospetta l’onestà che la depravazione e per loro la virtù altrui è fonte di angoscia. Ma lo Stato – quasi incredibilmente – ottenuta la libertà, in breve tempo diventò prospero, mentre gli animi dei cittadini erano catturati dal desiderio di gloria. I giovani, in primo luogo, non appena pronti per la vita militare, si istruivano all’arte della guerra nell’aspro rigore degli accampamenti e traevano piacere più dalle armi lucenti e dall’equitazione militare che dai bordelli o dai banchetti. Infatti questi uomini si sottoponevano spesso alla fatica; nessun posto era per loro aspro o arduo; mai avevano terrore del nemico: il coraggio superava ogni ostacolo. Fra loro vi era una grande competizione per raggiungere la gloria: ciascuno si affrettava ad assalire il nemico, a salire per primo sulle mura della città, a mettersi ben in risalto mentre compiva queste imprese. Per costoro questo tipo di valore era sacro: la buona fama, la grande nobiltà. Erano avidi di lodi, e generosi nello spendere il danaro. Desideravano glorie smisurate e un moderato benessere. Potrei enumerare quante volte il popolo romano riuscì a disperdere con un pugno di uomini un gran numero di nemici e quante città furono espugnate, benché forti per la loro posizione naturale; ma questo elenco ci allontanerebbe troppo dal nostro cammino.
8. In tutte le cose la sorte è padrona e a suo capriccio, più che in base alla verità, le imprese vengono rese illustri oppure oscure. Gli Ateniesi, io credo, compirono molte e magnifiche imprese; ma minori di quanto vengano narrate. E poiché in Atene fiorirono scrittori di grande ingegno, grazie a questi, le sue gesta riecheggiano magnificamente per tutto il mondo. Così, la virtù di coloro che compirono tali imprese è stimata tanto grande in misura delle parole colle quali la illustrarono gli ingegnosi scrittori. Ora, ai Romani mancò sempre questa fortuna, poiché i più alti ingegni erano anche i più laboriosi e non si concepiva esercizio della mente senza esercizio del corpo; i più valorosi preferivano l’azione alla parola; lasciavano agli altri la lode delle imprese; essi non le narravano.
9. In pace e in guerra, quindi, vigevano i buoni costumi: massima concordia, minima cupidigia. La giustizia e l’onestà traevano vigore non dall’imposizione delle leggi, quanto dalla natura degli uomini. Sfogavano le contese, le discordie, i rancori piuttosto quando erano di fronte al nemico; fra di loro c’era competizione solo riguardo alla virtù. Il culto per gli dèi era solenne, la vita privata modesta, l’amicizia fedele. Lo Stato e i cittadini erano sostenuti da queste due qualità: in guerra l’audacia, in pace l’equità. A riprova di ciò espongo due casi che sono in grado di documentare: spesso, in guerra, si procedeva alla punizione di coloro che, contravvenendo ad un ordine dato, avevano combattuto contro il nemico, oppure, richiamati, si erano ritirati troppo tardi dalla battaglia; invece si era più clementi col disertore o con colui che aveva osato abbandonare la postazione in battaglia. In pace, poi, il governo veniva esercitato più con la benevolenza che incutendo timore; e i cittadini oggetto di offesa, preferivano il perdono alla vendetta.
10. La laboriosità e l’equità, orbene, avevano reso Roma potente: grandi re furono sconfitti, nazioni barbare e popoli ingenti furono sottomessi8; Cartagine, emula dell’impero romano, era stata distrutta dalle fondamenta9; ma proprio quando tutti i mari e le terre erano aperti alla conquista, la fortuna cominciò a mostrarsi nemica e a mescolare le sorti. Per quanti avevano sopportato fatiche, pericoli, il riposo, l’abbondanza e quant’altro in precedenza si sarebbe potuto desiderare divennero motivo di aggravio e di preoccupazione. Al desiderio di danaro si aggiungeva la brama di potere, e questi sentimenti, a loro volta, diventarono la causa della loro disgrazia. Dunque, l’avidità annientò la lealtà, l’onestà, ogni virtù; e al posto dei parchi costumi presero il sopravvento la superbia, la crudeltà, l’irreligiosità, il mercimonio. L’ambizione indusse molti alla falsità, a fingere sentimenti e lusinghe; insomma gente per cui le liti o gli accordi non dipendevano da sincere disposizioni d’animo, ma da volgare tornaconto; e nel volto simulavano benevolenza o dispiacere, a prescindere da quanto avevano nell’anima. Questi vizi si diffusero poco a poco; talvolta furono anche puniti, ma poi il contagio si diffuse come una peste, la città fu mutata e il governo, il più legittimo e benefico dei governi, diventò crudele e intollerabile.
11. In primo luogo era l’ambizione, più che l’avarizia, ad accendere l’animo degli uomini; un vizio che era però vicino alla virtù. Difatti il giusto e lo sciagurato ugualmente aspiravano alla gloria, agli onori, al comando; ma mentre il primo si sforza di ottenere il potere seguendo la via dell’onestà, il secondo, ormai privo di virtù, cerca di raggiungerlo con frodi e menzogne. L’avidità non ama che il denaro, cosa non certo tipica dei saggi; questa forma di avidità è simile ad un veleno mortale: illanguidisce il corpo e l’animo dell’uomo; è sempre inesauribile e insaziabile, né l’abbondanza, né la penuria di mezzi riescono a placarla. Dunque, dopo che Silla ebbe preso il potere con le armi, a buoni inizi seguirono esiti funesti: tutti i suoi uomini si misero a rubare e rapinare; chi ambiva prendersi l’abitazione altrui, chi i poderi; insomma, sebbene avessero già trionfato, non ebbero ritegno o moderazione nel commettere contro i cittadini delitti infamanti e crudeli. A questo si aggiungeva il fatto che Lucio Silla ai soldati che aveva condotti in Asia, consentiva, per accattivarsene il favore, di vivere, contro le antiche consuetudini, nell’indisciplina e nel lusso. Luoghi ameni e pieni di piaceri avevano facilmente fiaccato gli animi fieri dei soldati: essi laggiù, si dilettavano del vino e dell’amore; attratti da statue, pitture, vasi cesellati, li toglievano a privati cittadini e a città; spogliavano i santuari, contaminavano il sacro e il profano. Infatti, questi soldati, una volta ottenuta la vittoria, depauperavano compietamente i vinti. Ora, se la prosperità riesce ad infiacchire persino l’animo del saggio, a maggior ragione costoro, dalla condotta sciagurata, non potevano moderarsi nel momento del trionfo sui nemici.
12. Dopo che le ricchezze cominciarono a rappresentare un merito e ne derivarono prestigio, autorità, potere, la virtù cominciò a intorpidirsi, la povertà ad essere considerata un disonore e l’integrità un’ostentazione. Così, i giovani, in conseguenza del lusso, furono invasi da libidine, avarizia, arroganza: rubavano e scialacquavano, stimavano poco il loro e guardavano con invidia le cose altrui, senza scrupoli né moderazione riguardo al pudore e alla temperanza; non distinguevano più le cose umane e le cose divine. Se vedi case e ville edificate, simili a città, vale la pena ammirare i templi che i nostri religiosissimi antenati costruirono in onore degli dèi: l’ornamento dei santuari era la fede alla divinità, il decoro delle case era la fama onesta. In quei tempi ai vinti era tolta solo la possibilità di offendere. Per contro, i contemporanei, uomini davvero inetti e scellerati, hanno portato via agli alleati tutti i beni, a cui pure gli eroi antichi, per quanto vincitori, rinunciavano; questo, ora, avveniva data la convinzione che la supremazia si dimostra coll’oltraggio.
13. Dunque, a che scopo passerei in rassegna cose che nessuno crederebbe se non chi le vide di persona, ossia il fatto che numerosi privati cittadini rovesciarono le montagne e colmarono i mari? Mi sembra che questi si siano serviti dei danari in maniera vergognosa; danari che era possibile investire onestamente e che essi subito dilapidavano per fini immorali. Ma una non minore passione per orge e depravazioni e ogni altra dissolutezza aveva invaso il loro animo: gli uomini si prestavano sessualmente come fossero donne, le donne mettevano oscenamente in piazza il loro pudore. Cercavano dappertutto, per terra e per mare, delizie per la gola; dormivano prima di avere necessità di riposo; non aspettavano la fame, la sete, il freddo, la stanchezza; ma sopperivano a questi bisogni, lussuosamente, prima che ci fosse reale necessità. Questo spettacolo abominevole incitava ai delitti la gioventù, quando il patrimonio cominciava a scarseggiare; il loro animo inebriato dai vizi difficilmente resisteva alle passioni; per cui, sempre più largamente si davano ad ogni tipo di guadagno e allo sperpero.
14. In una città così grande e così corrotta, Catilina non ebbe alcuna difficoltà ad attirare una cerchia di delinquenti e depravati e farne quasi la sua corte. Difatti tutti quelli che avevano dilapidato il patrimonio paterno nella lussuria, nel bordello, nei banchetti, nel gioco, chi era stracarico di debiti per riscattarsi da fatti delittuosi, poi i parricidi, come formiche, e i profanatori condannati o in attesa di giudizio, chi tirava avanti come falso testimone o esecutore di omicidi; tutti quelli – insomma – che erano sconvolti dal rimorso della colpa e dalla miseria, tutti questi erano vicini a Catilina e suoi compari. Ma se qualcuno, pur integro, capitava nei lacci della sua amicizia, anche lui diventava simile agli altri per la frequentazione e i vantaggi lusinghieri. Catilina si prodigava in ogni modo per farsi amici i giovani: li ingannava e catturava, profittando della loro giovanile inesperienza. E costoro si lasciavano plagiare dalle brame giovanili: a chi assicurava puttane, a chi cani, cavalli. A questo scopo Catilina non badava a spese né all’onore suo, pur di renderli a sé obbligati e fedeli. So che alcuni hanno ritenuto perciò che i giovani assidui della casa di Catilina avessero turpi abitudini; ma questa voce si basava su tutto il contorno più che su prove.
15. Già da ragazzo, Catilina aveva commesso azioni vergognose. Aveva sedotto una nobile vergine, una vestale10, e si era reso responsabile di altri atti simili contrari al diritto e alle consuetudini religiose; fu preso, poi, dalla passione per una certa Aurelia Orestilla11, della quale non c’è uomo onesto che abbia trovato alcun pregio tranne la bellezza; ma questa donna era assai indecisa sulle nozze; difatti aveva timore del figlio di Catilina, ormai adulto12. Allora – e sembra cosa certa – lo stesso Catilina rimosse questa difficoltà, per le sue sciagurate nozze, con l’uccisione del proprio figlio. Questa faccenda, senza dubbio, è stata alla base per il maturarsi della sua impresa nefasta. Difatti, il suo animo sciagurato, inviso agli uomini e agli dèi, non poteva trovare pace né durante le veglie né durante il riposo: il rimorso sconvolgeva la sua mente squilibrata; il volto esangue, gli occhi torvi, il passo ora svelto, ora lento, aveva l’aspetto e il volto simile ad uno squilibrato.
16. I giovani che aveva adescato, come ho detto in precedenza, poi li istruiva su i molti modi di commettere turpi crimini: prestarsi come falsi testimoni, contraffare le firme, non tenere in alcun conto la fiducia, i risparmi, i rischi; dopo aver offuscato la loro onorabilità e il loro pudore, li incaricava di delitti ancora peggiori. E anche in assenza di reali possibilità di delinquere, non di meno li spingeva a circuire, a uccidere innocenti e colpevoli; ciò al fine che l’inattività non li disabituasse all’esercizio della violenza; si può ben dire che la sua malvagità era gratuita e crudele. Catilina riponeva la sua fiducia in questa specie di amici e complici: quelli che dovunque avevano pesantissimi debiti, parecchi soldati già al comando di Silla, spiantati per aver scialacquato i loro beni e memori delle passate rapine e del successo conseguito su Mario: costoro tutti aspiravano a mettere in atto una guerra civile; in questo contesto Catilina concepì il disegno di rovesciare lo Stato. Del resto in Italia non vi era alcun presidio militare, per il fatto che Pompeo era impegnato in una campagna bellica nei lontani confini dell’impero13; così Catilina era sicuro di poter assumere la carica di console, anche perché il Senato era del tutto all’oscuro circa la faccenda, e la situazione era piuttosto tranquilla e priva di rischi; quindi Catilina credeva fosse proprio arrivato il suo momento.
17. Dunque, al principio di giugno, sotto il consolato di Lucio Cesare e Caio Figulo14, Catilina si mise a prender contatto con singole persone; poi esortava e prometteva vantando i suoi mezzi rivoluzionari e i grandi vantaggi che si potevano ottenere da una congiura, realizzabile grazie alla debolezza dello Stato. Dopo aver fatto le sue verifiche, radunò insieme tutti quelli che si trovavano in condizioni disperate e i più audaci. Aderirono dei senatori: Publio Lentulo Sura15, Publio Autronio16, Lucio Cassio Longino17, Caio Cetego18, Publio e Servio, figli di Servio Silla19, Lucio Vargonteio20, Quinto Annio21, Marco Porcio Leca22, Lucio Bestia23, Quinto Curio24; e dei cavalieri: Marco Fulvio Nobiliore25, Lucio Statilio26, Publio Gabinio Capitone27, Caio Cornelio28. Ma vi erano anche molti nobili delle colonie e dei municipi, come anche parecchi altri nobili che meno palesemente appoggiavano il progetto, spinti non dal bisogno di ricchezze, ma dalla speranza di avere più prestigio. D’altronde i giovani, quasi tutti, ma in particolare i nobili, applaudivano all’impresa di Catilina; questi che avevano la possibilità di vivere negli agi e nel lusso preferivano l’incertezza derivante dalla guerra che la certezza della pace. C’è anche chi crede che in quella bufera Marco Licinio Crasso29 non fosse del tutto all’oscuro di quella faccenda: poiché Cneo Pompeo, a lui inviso30, conduceva un grande esercito, egli avrebbe voluto che crescessero le forze di chi si fosse messo contro lo strapotere di quello; nelle stesso tempo confidava che, se la congiura fosse riuscita, facilmente si sarebbe messo alla testa dei congiurati.
18. Già c’era stato un precedente di congiura, a cui però avevano partecipato in pochi, fra questi Catilina31: di questo fatto parlerò attenendomi alla verità. Mentre erano consoli Lucio Tulio e Manlio Lepido32, i consoli designati per la successione, P. Autronio e P. Silla, furono messi in stato d’accusa per corruzione elettorale e quindi puniti, secondo la legge, con l’espulsione. Dopo poco tempo anche Catilina subì il provvedimento di non eleggibilità al consolato, perché, accusato di concussione, non era riuscito a discolparsi pubblicamente, essendo scaduti i termini33. A quel tempo vi era pure un certo Cneo Pisone34, giovane di nobile famiglia, ma assai temerario, squattrinato, fazioso, che l’indigenza e i costumi corrotti incitavano a sovvertire lo Stato. Raggiunto un accordo con Catilina e Autronio, verso il 5 dicembre, tramavano di sopprimere, in Campidoglio, i primi giorni di gennaio, i consoli Lucio Cotta e Lucio Torquato. Essi, poi, usurpato il potere consolare, intendevano mandare Pisone con un esercito per occupare la Spagna. Venutasi a sapere la cosa, rinviarono invece la strage al 5 febbraio. Ora, poi, macchinavano non solo contro la vita dei consoli, ma anche di molti senatori. E se Catilina non si fosse affrettato a bloccare i suoi compagni, facendo loro dei segni dall’alto dell’assemblea35, in quel giorno sarebbe stato compiuto il più orribile delitto dalla fondazione di Roma. Ma siccome erano convenuti pochi uomini armati, le circostanze stesse consigliarono di sospendere l’azione.
19. In seguito Pisone fu inviato nella Spagna citeriore come questore con funzioni pretorie36, coll’assenso di Crasso, il quale era venuto a sapere che questi era acerbo nemico di Pompeo; a ciò, inoltre, non era sfavorevole il Senato, che voleva allontanare un uomo così infame dallo Stato; e contemporaneamente molti aristocratici vedevano in lui un rimedio contro il pauroso strapotere di Pompeo. Ma Pisone, mentre si recava nella provincia, fu ucciso dai cavalieri spagnoli che militavano nella sua truppa. Alcuni sostengono che quei barbari non ne potessero più di un capo così crudele, ingiusto, arrogante; altri, invece, dicono che quei cavalieri, già fedeli veterani di Pompeo, per ordine di costui avessero tolto di mezzo Pisone; difatti gli Spagnoli non avevano mai commesso un simile misfatto oltre a questo, pur avendo sopportato in precedenza molti comandanti dispotici. Per me questo problema è ancora aperto e, poi, ho detto abbastanza di questo primo tentativo di congiura.
20. Catilina, radunati i congiurati, che ho già in precedenza menzionato, per quanto avesse avuto molti scambi di vedute con lesingole persone, ritenne conveniente, per la buona riuscita della congiura, convocarli tutti insieme e rivolgere loro un discorso. Quindi si ritirò in una parte segreta del suo palazzo e, tenuti lontani tutti i possibili testimoni, rivolse loro queste parole:
«Se io non avessi sperimentato la vostra determinazione e la vostra fedeltà, invano si sarebbe presentata a noi questa occasionefavorevole; inutile sarebbe la nostra grande aspettativa di potere, né io cercherei, attraverso uomini codardi e falsi, l’incertezza al posto della certezza. Ma siccome io conosco la vostra fortezza e lavostra fedeltà nei miei confronti in molti e ardui cimenti, proprioper questo il mio animo mi consente di intraprendere questaimpresa davvero grande e gloriosa, anche perché ho constatatoche condividete con me i possibili vantaggi ma anche i pericoli.
Infatti una vera amicizia si basa sugli scopi e interessi comuni.
Io ho già esposto a ciascuno di voi singolarmente quanto ho progettato; del resto il mio animo si infiamma ogni giorno di più, quando medito su quale sarà la nostra vita futura, se noi stessi non ci guadagniamo la libertà. Infatti, da quando lo Stato ha consegnato il diritto e l’autorità nelle mani di pochi potenti, persino i re e i tetrarchi37 sono diventati loro tributari, e i popoli e le nazioni pagano loro imposte. Noialtri, pur valorosi e onesti, nobili e plebei, non siamo stati che volgo senza influenza, senza autorità, sottomessi a questa gente, che in una repubblica degna di questo nome avrebbe paura di noi. Così hanno amministrato, manipolando per sé e per i propri amici, favori, potere, cariche pubbliche e pubblico danaro; a noi hanno riservato situazioni incerte, emarginazione, processi ingiusti, povertà. Fino a quando, dunque, o miei prodi, sopporteremo tali angherie? Non è più degno morire da valorosi, piuttosto che trascorrere passivamente e con vergogna un’esistenza misera e senza onori, soggetti allo scherno e all’alterigia? In verità, grazie al cielo, la vittoria è nelle nostre mani, dato che siamo vigorosi e potenti, al contrario di loro, che sono logorati dagli anni e dalle ricchezze. Ora è necessario agire, il resto verrà da sé. Infatti, quale uomo sano ed equilibrato può sopportare che questi sperperino il danaro, per così dire, spianando montagne e costruendo sul mare, mentre a noi manca persino lo stretto necessario? Come tollerare che si costruiscano di seguito due o più palazzi, mentre noi non possediamo neppure una casa? Per quanto acquistino quadri, statue, vasi decorati; per quanto distruggano strutture ancora solide per edificarne delle altre; insomma, per quanto cerchino in tutti i modi di sperperare le ricchezze, tuttavia non riescono, con tutti i loro stravizi, a dar fondo al loro danaro. A casa nostra regna la miseria, fuori il tormento dei debiti; viviamo una situazione disastrosa destinata a diventare molto peggiore: insomma, che ci rimane d’altro se non la nostra misera vita?
Perché dunque non vi svegliate dal sopore? Ecco, quella libertà, proprio quella libertà che spesso avete atteso; le ricchezze, il decoro, la gloria tanto bramate, ecco, le avete davanti agli occhi. La fortuna ha posto tutte queste cose quale premio per i vincitori. La situazione, l’occasione, i rischi, la povertà, i magnifici bottini di guerra, più che il mio discorso vi devono convincere. Valetevi di me come capo e come soldato: non vi mancherà il mio coraggio né la mia forza. Io, console, come spero, concederò tutti quei vantaggi, uno ad uno; a meno che non mi venga meno il coraggio e voi preferiate restare servi più che diventare padroni».
21. Dopo che questi uomini spregevoli in ogni senso, privi di ogni qualità e di onesti propositi, ebbero ascoltato questo discorso, per quanto fossero convinti che turbando la quiete dello Stato ne avrebbero ricevuto grandi vantaggi, tuttavia molti di loro chiesero che esponesse quali premi avrebbero ottenuto con l’uso delle armi, quali sarebbero state le condizioni della guerra, quali appoggi e speranze si prospettassero. Allora Catilina promise che i debiti sarebbero stati cancellati, che i ricchi sarebbero stati messi al bando e che i congiurati avrebbero ottenuto le cariche di magistrati e di sacerdoti38, i bottini e tutte quelle cose, che la cupidigia del vincitore si procaccia con la guerra. Espose anche questa situazione: nella Spagna citeriore vi era Pisone; in Mauritania, con una truppa, Publio Sittio Nucerino39, complici e alleati del suo progetto. Caio Antonio40, suo amico, pronto ad agire, per via delle sue ristrettezze economiche, aspirava al consolato e Catilina sperava di averlo come collega: con lui avrebbe dato inizio alla congiura, se fosse stato eletto console. Oltre a ciò, insultava ogni aristocratico e invece lodava i suoi, chiamandoli per nome; ad alcuni ricordava il loro bisogno, ad altri la loro ambizione, a parecchi il rischio dell’ignominia, a molti la vittoria di Silla, nella quale si erano procurati ingente bottino.
Non appena si accorse dell’impazienza degli astanti, dopo averli esortati a sostenere la sua candidatura, sciolse la riunione.
22. In quel periodo alcuni dissero che Catilina, tenuto il suo discorso, mentre costringeva i complici della sua macchinazione a giurare, facesse passare fra di loro una coppa di sangue umano misto a vino41; quando tutti, dopo il giuramento ebbero bevuto di quella coppa, come avviene durante i sacri rituali42, si dice che avesse rivelato il suo proposito, affermando che li aveva costretti ad un simile sacrilegio perché, consapevoli l’un l’altro di un’azione così turpe, sarebbero stati maggiormente fedeli l’uno verso l’altro. Ci fu qualcuno che ritenne queste cose e molte altre ancora frutto di fantasia, inventata da coloro che, amplificando l’atrocità dei delitti compiuti dai condannati, volevano attenuare l’animosità contro Cicerone. A me questo racconto appare non sufficientemente accertato per la sua stessa mostruosità.
23. Fra i congiurati vi era Quinto Curio43, appartenente ad una nota famiglia, un uomo che si era macchiato di delitti e tradimenti ed era stato denunciato al Senato dai censori per colpe infamanti. Quest’uomo possedeva una leggerezza non inferiore alla malvagità; nel dire e nel fare non si faceva alcuno scrupolo di riferire quanto aveva sentito e non si curava di nascondere i suoi stessi crimini. Da tempo, Curio aveva una relazione con una certa Fulvia44, donna della nobiltà, alla quale era diventato meno gradito dacché, a causa del bisogno, era divenuto meno generoso con lei. Poi cominciò a vantarsi, a prometterle mari e monti e a minacciarla persino di morte se avesse smesso di concedersi a lui; e in ultimo si lasciava trasportare dall’ira più di quanto non fosse solito. Quando Fulvia venne a conoscenza del motivo della sua arroganza, non tenne nascosto un così grande pericolo per lo Stato; così, tacendo la fonte della notizia, raccontò a molti la faccenda della congiura di Catilina. La cosa immediatamente suscitò la preoccupazione dei cittadini che consentirono a Cicerone il conferimento del consolato. Per la verità, in precedenza, tutta la nobiltà si era accesa di invidia nei confronti di Cicerone; infatti si pensava che il consolato sarebbe stato quasi contaminato dalla presenza di lui, poiché questi, per quanto uomo stimato, era pur sempre un nonnobile emergente45. Ma nell’urgenza del pericolo, l’odio e la superbia passarono in secondo piano.
24. Dunque, convocati i comizi, vennero eletti consoli Marco Tullio e Caio Antonio, il che, a tutta prima, sconvolse i progetti dei congiurati. Per certo il furore di Catilina non si placava, ma di giorno in giorno aumentava le sue macchinazioni: distribuire armi nei luoghi più nevralgici, fornire danaro preso a prestito, con la garanzia sua e dei suoi amici, a un certo Manlio Torquato46 a Fiesole47: costui fu poi l’iniziatore della guerra. Ora, si dice che Catilina si fosse attorniato di gente di ogni genere, tra cui anche delle donne; queste si erano concesse grande sfarzo facendo le prostitute, e ora, giacché l’età aveva posto termine ai loro illeciti guadagni, ma non certo alla loro brama di lusso, si ritrovavano cariche di debiti. Catilina, per loro mezzo, intendeva far ribellare gli schiavi di Roma, incendiare la città, guadagnare alla sua causa i mariti di queste, oppure farli trucidare.
25. Tra queste donne vi era Sempronia48, che aveva al suo attivo molte azioni delittuose, compiute con audacia virile. Era stata molto fortunata per le sue nobili origini, per la sua avvenenza, nonché per il marito e per i figli. Esperta nelle lettere greche e latine, si esibiva nella cetra e nella danza, più di quanto si addica a una donna onorata. Era pure esperta in molte altre arti che sono fonte di mollezza e a lei tutto fu assai più caro della decenza e dell’onestà; non era facile a stabilirsi se fosse meno incline a risparmiare il denaro o la sua reputazione; era così infiammata dalla libidine che spesso era lei a sedurre gli uomini più che a lasciarsi corteggiare da loro. Prima d’allora molte volte aveva tradito la fiducia altrui, aveva negato con falso giuramento di aver ricevuto danari a prestito, era stata complice di omicidi. Il lusso, poi, e la mancanza di mezzi l’avevano profondamente degradata. Eppure, il suo ingegno non era di poco conto: era abile nel comporre versi, nel suscitare il buon umore, nell’esprimersi ora in maniera graziosa, ora provocante, insinuante; in una parola possedeva un grande spirito e molta grazia.
26. Sebbene la congiura fosse stata preparata nel dettaglio, nondimeno Catilina sperava di diventare console l’anno successivo, nella certezza che, se fosse stato eletto, facilmente avrebbe piegato Antonio al suo volere. Nel frattempo, però, non si acquietava: il suo bersaglio era Cicerone, al quale tendeva ogni insidia, anche se quest’ultimo era tutt’altro che sprovveduto nel garantirsi sempre protezione. Infatti, appena diventato console, ottenne, facendo grosse promesse, che, attraverso Fulvia, Curio, già ricordato in precedenza, gli illustrasse minuziosamente il disegno di Catilina. A tal fine, si accordò col suo collega Antonio sull’assegnazione della provincia49, affinché questi non si ponesse, anche lui, contro lo Stato; inoltre Cicerone era sempre sotto la protezione e la sorveglianza di amici e sostenitori. Quando arrivò il giorno delle consultazioni elettorali, Catilina non fu eletto console, come pure fallì l’agguato che aveva teso contro i consoli in Campo Marzio50; ciò che aveva tramato nascostamente gli riuscì di danno e di scorno, così che decise di aprire le ostilità e di tentare la congiura con tutti i mezzi.
27. Dunque, inviò C. Manlio a Fiesole e nei paesi circostanti dell’Etruria51, un certo Settimio da Camerino52 nella zona del Piceno53, Caio Giulio54 nella Apulia55, poi altri ancora in diversi luoghi dove credeva gli sarebbero stati d’aiuto. Frattanto a Roma aveva messo in moto molti piani: tendere agguati ai consoli, preparare incendi, far stanziare uomini armati in luoghi strategici; egli stesso girava armato e ordinava che anche i congiurati lo fossero, esortandoli alla prontezza e all’attenzione; notte e giorno era in azione, vegliava non sentendosi mai stanco, né per la mancanza di riposo, né per la fatica. Ma poiché non sortiva niente da tutta quella macchinazione, convocò, nel cuore della notte, i capi della congiura, presso la casa di Marco Porcio Leca56; e, di là, dopo essersi lagnato della loro inconcludenza, li informò di aver posto Manlio a capo di quella banda, che aveva l’incarico di prendere le armi; comunicò poi che aveva dislocato altri uomini in altrettanti luoghi opportuni, affinché dessero inizio alle ostilità; infine disse che avrebbe raggiunto l’esercito solamente quando avessero soppresso Cicerone: costui, infatti, rappresentava un grosso ostacolo per i suoi piani.
28. Senonché, mentre i suoi compagni erano presi da esitazione e paura, Caio Cornelio57, cavaliere romano, si impegnò a dare il suo contributo e assieme al senatore L. Vargonteio58 combinò questa trama: si sarebbero introdotti, di lì a poco in quella stessa notte, nella casa di Cicerone con una scorta armata, come per rendergli onore, e avrebbero soppresso il console, che era all’oscuro di tutto, nella sua stessa casa. Curio capì l’enormità del pericolo che incombeva sopra Cicerone e per questo inviò Fulvia al fine che gli comunicasse il colpo che era stato preparato contro di lui. Così a quelli fu impedito di entrare e un tale misfatto fu reso vano.
Nel frattempo Manlio, in Etruria, spingeva i plebei alla ribellione: costoro desideravano un cambiamento che ponesse fine alla miseria e alle sofferenze fino ad allora patite, ossia l’aver visto, durante la dittatura di Silla, i loro campi e i loro beni usurpati. Inoltre sobillava furfanti di ogni specie, che in quella regione erano presenti in gran numero, e non pochi coloni di Silla, ai quali il lusso e la dissipazione avevano lasciato ben poco di ciò che avevano rubato.
29. Quando queste notizie furono riferite a Cicerone, questi, turbato per la duplice minaccia, per il fatto che la sua singola vigilanza non poteva difendere più a lungo la città da quelle insidie, e inoltre, non conoscendo esattamente le intenzioni di Manlio e quanto consistenti fossero i suoi mezzi, riferì al Senato la faccenda che già il mormorio popolare aveva diffuso. Così, come accade quando lo Stato versa in situazioni gravissime, il Senato emanò il decreto che incaricava i consoli di agire in modo che lo Stato non subisse alcun danno. Questi ampi poteri, secondo le consuetudini romane, venivano attribuiti dal Senato ai massimi magistrati: organizzare l’esercito, fare la guerra, costringere all’obbedienza in tutti i modi gli alleati e i cittadini, valersi – in pace e in guerra – di un potere militare e giudiziario senza limiti; altrimenti, senza delega dei rappresentanti del popolo, ai consoli non era attribuito nessuno di questi poteri.
30. Pochi giorni dopo il senatore Lucio Senio59 lesse in Senato una lettera che diceva aver ricevuto da Fiesole e che conteneva queste notizie: il 27 ottobre C. Manlio aveva impugnato le armi e con lui un grande numero di uomini. Nello stesso tempo, come accade in simili circostanze, chi riferiva prodigi, chi assembramenti di truppe, trasporto di armi, la rivolta degli schiavi a Capua60 e nell’Apulia.
Dunque, in forza di un decreto del Senato, vennero mandati Quinto Marcio Re61 a Fiesole, Quinto Metello Cretico62 nell’Apulia e luoghi vicini; a questi due generali era stato impedito l’ingresso trionfale in Roma, per le calunnie di pochi e la corruzione diffusa. Furono inviati pure, in qualità di pretori, Quinto Publio Rufo63 a Capua e Quinto Metello Celere64 nel territorio del Piceno, con ampio potere decisionale sui movimenti dell’esercito, date le circostanze di pericolo. A questo scopo, se qualcuno avesse fornito notizie sulla congiura intentata contro lo Stato, avrebbe ricevuto in premio la libertà e 100.000 sesterzi, se servo; se libero, l’impunità e 200.000 sesterzi. Fu pure decretato di dislocare a Capua e in altri municipi compagnie di gladiatori, secondo la loro disponibilità; di distribuire per tutta Roma delle sentinelle coordinate dai magistrati minori.
31. A queste notizie la cittadinanza fu sconvolta e la città mutò volto. Sparì l’allegria e la spensieratezza che un lungo periodo di pace aveva generato, e d’improvviso tutti furono invasi da tristezza. Agitazione e affanno dominavano gli animi, si diffidava di tutto e di tutti e ci si tormentava in una situazione che non era né di pace né di guerra, si misurava il pericolo dalla propria paura. Le donne erano prese da un timore mai provato per le sorti della patria: si disperavano, commiseravano i piccoli figli, alzavano le mani al cielo, ponevano continue domande, si spaventavano al minimo rumore, e, deposta l’usata superbia e i piaceri, tremavano per sé e per la patria.
Catilina, dal canto suo, con il suo spirito feroce persisteva negli stessi propositi, benché le difese fossero allertate ed egli fosse stato messo sotto accusa da Lucio Paolo65, in base alla legge Plauzia66. Insomma, per confondere le acque e mostrarsi innocente, come se si fosse tramato contro di lui, si recò in Senato. Allora, il console Marco Tullio, temendo la presenza di quello e mosso da sdegno, tenne un discorso splendido e teso a difendere lo Stato, discorso che più tardi fu scritto e pubblicato. Quando Cicerone ebbe terminato, Catilina, pronto a smentire tutto, con volto umile, si mise a supplicare e chiedere ai senatori di non considerarlo nemico se non in presenza di prove. Ricordava la sua origine nobile e di essersi ispirato a nobili princìpi per raggiungere il prestigio; chiedeva di desistere dal sospetto che egli, patrizio romano, avendo lui stesso e la sua famiglia beneficato il popolo, intendesse recare danno allo Stato, e che lo salvasse Cicerone, un inquilino dell’Urbe. Mentre proseguiva nell’aggiungere insulto a insulto, i senatori cominciarono a strepitare e a dargli del traditore e del parricida. Allora, egli furente disse queste parole: «Visto che i miei nemici mi attorniano e mi spingono alla rovina, spegnerò il mio incendio con una catastrofe!».
32. Lasciata l’assemblea, Catilina si precipitò a casa sua. Turbato da mille pensieri, siccome non si riusciva a uccidere il console e l’incendio della città era impossibile per la presenza di guardie, ritenne necessario aumentare il numero degli uomini che dovevano attaccare e, prima che fossero reclutati i legionari, disporre molte cose che avrebbero garantito la riuscita del golpe. Così, nottetempo, si diresse con pochi uomini all’accampamento di Manlio. Incaricò Cetego, Lentulo e altri, di cui conosceva l’incosciente avventatezza, di rendere forte, il più possibile, la fazione dei congiurati, di far fuori al più presto Cicerone, di approntare stragi, incendi e altri atti di guerra. Egli avrebbe raggiunto di lì a poco la città con un forte esercito.
Mentre a Roma succedevano queste cose, C. Manlio, scelti alcuni uomini della sua truppa, li inviò come ambasciatori per riferire a Marcio Re queste cose:
33. «Davanti agli dèi e agli uomini, noi attestiamo, Generale, di non esserci armati contro la patria, né per recare danno ad altri: piuttosto lo abbiamo fatto perché le nostre persone fossero al riparo dall’oltraggio; noi, miseri, privi di risorse finanziarie a causa della inesorabile prepotenza degli usurai, per lo più siamo senza patria e, tutti, siamo privati dell’onore e delle sostanze. A nessuno di noi è stato concesso, secondo le antiche consuetudini, di appellarsi alla legge: difatti, perduto il patrimonio, ci hanno tolto pure la libertà: queste sono le sevizie che ci hanno riservato usurai e magistrati. Spesso i vostri antenati, mossi a compassione per la plebe romana, con i loro decreti, vennero in soccorso della sua miseria e ultimamente, come ricordiamo, di fronte a debiti enormi, coll’assenso di tutti gli aristocratici, fu accettata in pagamento la moneta di rame al posto di quella d’argento67. Spesso la stessa plebe prese le armi e si separò dal patriziato spinta dal desiderio di dominio o dall’alterigia dei magistrati. Non ricerchiamo il dominio o la ricchezza, che fra gli uomini seminano sconvolgimenti e discordie; noi vogliamo la libertà che i veri uomini perdono solo al momento della morte. Noi supplichiamo te e il Senato: provvedete ai miseri cittadini, restituite vigore alle leggi, che pretori iniqui hanno calpestato, e non addossateci un’urgenza tale da indurci a ricercare, fino in fondo, la vendetta per il nostro sangue con la stessa nostra morte».
34. A queste parole, Q. Marcio rispose che, se volevano ottenere qualcosa dal Senato, dovevano abbandonare le armi e recarsi a Roma per supplicare i benefici: carattere del Senato romano fu sempre la bontà e la compassione, così che nessuno aveva mai invocato aiuto inutilmente. Frattanto Catilina, lungo il suo viaggio, invia delle lettere a molti consolari68 e a ciascuno degli ottimati; diceva di essere invischiato in accuse infondate e, non potendo far fronte alla congrega dei suoi nemici, si arrendeva alla sorte e se ne andava in esilio a Marsiglia, non perché implicato in un così orrendo delitto, ma perché non voleva che lo Stato fosse perturbato da tumulti, a causa del suo sforzo teso a smentire le accuse. Quinto Catulo69, per contro, lesse in Senato una lettera, assai diversa dalla precedente, che diceva aver ricevuto da Catilina; di sotto se ne riporta una copia.
35. «Salve, Catulo. La tua singolare fedeltà, a me ben nota, che mi è stata di conforto durante le mie gravi disgrazie, mi induce a sperare che tu mi accorderai un favore. Non è mia volontà preparare una pubblica discolpa; per i fatti recenti ho stabilito di discolparmi, consapevole della mia innocenza. Puoi ben conoscere per vera la mia difesa, quanto è vero Iddio. Sdegnato da provocatorie e ingiuste offese, mi furono del tutto vani la fatica e lo zelo che impiegai per raggiungere la meritata posizione; così ho sostenuto la causa dei miseri, secondo la mia abitudine, ma non perché non potessi far fronte ai debiti contratti da altri a nome mio e con la garanzia dei miei beni – giacché all’estinzione dei debiti avrebbero pensato Orestilla70 e la sua figliola, generose e non prive di mezzi -, ma perché vedevo uomini indegni carichi di onori e mi sentivo escluso dal consolato a causa di falsi e malevoli sospetti. Per questo ho continuato a seguire le strade dell’onestà, nonostante la mia disgrazia, nella speranza di conservarmi quel poco di dignità che mi resta. Vorrei scrivere altre cose, ma sento che la mia persecuzione è vicina. Ora ti affido Orestilla, sicuro della tua fedeltà: difendila dall’ingiuria, per amore dei tuoi figli. Stammi bene.»
36. Invece, Catilina, trattenutosi alcuni giorni da Flaminio71, nei pressi di Arezzo, fornisce di armi le genti vicine, che già si erano ribellate; poi si dirige verso l’accampamento di Manlio portando fasci e altre insegne simbolo di comando. Quando queste cose furono risapute a Roma, il Senato dichiarò Catilina e Manlio nemici dello Stato e fissò una data entro la quale il resto dei rivoltosi, eccetto quelli già condannati a morte, avrebbero deposto le armi senza incorrere nella punizione; si predispose inoltre che i consoli arruolassero degli uomini, che Antonio e il suo esercito raggiungessero Catilina, che Cicerone se ne rimanesse a difesa della città.
A me sembra davvero degna di commiserazione la classe dirigente romana di quel tempo; difatti, mentre all’esterno, da Oriente a Occidente, tutte le genti, sottomesse con le armi, erano ossequiose verso Roma, all'interno, benché abbondassero tranquillità e agiatezza – cose che gli uomini reputano necessarie al di sopra di tutto – ci furono cittadini risoluti che intendevano mandare in rovina se stessi e lo Stato. Infatti, pur avendo il Senato emesso due provvedimenti72 per arginare la congiura, fra i tanti implicati non ci fu nessuno, neppure sotto lo stimolo di ricompense per la collaborazione, che rivelasse il piano della congiura o avesse desistito dal rimanere all’accampamento di Catilina: così grande era la virulenza della malattia che, come una peste, aveva invaso l’animo dei cittadini.
37. I complici della congiura non erano i soli ad avere la mente sconvolta, ma tutto il popolo, per desiderio di novità, come spesso fanno le masse, approvava l’impresa di Catilina. Infatti, sempre in uno Stato coloro che non hanno niente invidiano gli aristocratici, esaltano gli sciagurati, detestano le antiche usanze, plaudono al nuovo, si alimentano di disordini e sedizioni senza pensarci, perché chi è miserabile non ha niente da perdere. In realtà era la plebe urbana che si gettava a precipizio in quegli sconvolgimenti: prima di tutto coloro che ovunque si segnalavano per grandissima infamia e sfrontatezza, poi altri che in azioni disdicevoli avevano perso il patrimonio, infine tutti coloro che erano stati esiliati per azioni delittuose; questi, feccia di ogni paese, erano confluiti a Roma. In secondo luogo vi era chi ricordava la vittoria di Silla: in quella circostanza alcuni, da semplici soldati erano diventati persino senatori, così ricchi da vivere nella raffinatezza e nel lusso, simili a re; così ciascuno, aggregandosi a Catilina, pensava di raggiungere i vantaggi dalla vittoria. Poi vi erano i giovani che nella campagna avevano tollerato le stentate paghe del lavoro manuale, e che ora, attratti da donativi ed elargizioni73, preferivano al duro lavoro dei campi l’ozio cittadino. La corruzione diffusa alimentava questi e tutti gli altri. E non c’è da meravigliarsi se uomini così miserabili, di costumi corrotti, di sconfinata brama, degradassero se stessi e trascinassero nello stesso degrado lo Stato. Inoltre c’erano coloro i cui padri dalla vittoria di Silla ne erano usciti proscritti74, privati dei beni, dei diritti, della libertà: questi, con lo stesso intento, aspettavano lo scatenarsi della guerra. Inoltre, tutti quelli che si opponevano all’autorità del Senato, preferivano sconvolgere lo Stato piuttosto che veder diminuita la loro potenza: questa sciagura dopo molti anni era ormai ripiombata sulla città.
38. Dopo che, durante il consolato di Pompeo e Crasso75, era stato ristabilito il potere dei tribuni76, alcuni giovani pieni di ardimento per via dell’età, essendo riusciti ad ottenere il tribunato, incominciarono ad agitare il popolo screditando con accuse i senatori, e a eccitare sempre più gli animi con elargizioni e promesse, riuscendo così ad ottenere prestigio e consenso. Contro costoro erano tesi gli sforzi della nobiltà che, con il pretesto di tutelare l’onore del Senato, intendeva accrescere la sua potenza; ma, per farla breve, in realtà, dopo la dittatura di Silla, tutti coloro che creavano disordini, non mancavano di nobili pretesti: alcuni per difendere i diritti del popolo, altri per aumentare il più possibile l’autorità del Senato; insomma tutti, fingendo di operare per il bene pubblico, in realtà si adoperavano per accrescere la loro stessa influenza. Certo è che costoro non avevano moderazione o ritegno nelle competizioni elettorali; gli uni e gli altri se vittoriosi si comportavano con ferocia.
39. Ora, dopo che Pompeo fu inviato per far guerra ai pirati e poi per sconfiggere Mitridate, il peso politico del popolo si indebolì, mentre il potere venne in mano a pochi: questi ultimi detenevano le magistrature, il governo delle province, tutti gli apparati dello Stato; e si concessero, impunemente, una vita di privilegi e tranquillità; intimorivano i rappresentanti del popolo con la minaccia di processi, affinché durante il tribunato non incitassero la plebe alla ribellione. Ma non appena la situazione incerta offrì la speranza di un mutamento, nei loro animi si ridestò l’animosità. Se nella prima battaglia Catilina fosse risultato vincente o comunque non vinto, sicuramente la Repubblica sarebbe andata distrutta fra stragi e disastri; e coloro che avessero vinto, non avrebbero trionfato certo a lungo, per il fatto che stanchi e senza forze, sarebbero stati privati della libertà e del potere da qualcuno più forte di loro. Ci furono, tuttavia, molti che pur non conoscendo i piani della congiura, all’inizio della guerra seguirono Catilina. Fra questi un certo Fulvio77, figlio di un senatore; fattolo ritornare dal viaggio, il padre ordinò che fosse ucciso. Nello stesso tempo a Roma, Lentulo, secondo le disposizioni di Catilina, premeva, o personalmente o attraverso altri, su chiunque credeva fosse disposto a cambiare le cose, spinto dai cattivi costumi e dalla malasorte; non solo cittadini ma uomini di ogni specie, purché fossero utili alla guerra.
40. Lentulo pertanto, incaricò un certo Publio Umbreno78 di prendere contatti con i rappresentanti degli Allobrogi e di indurli, in tutti i modi, ad associarsi alla congiura, ritenendo che questi fossero facili a convincersi perché oppressi dal debito pubblico e privato e perché, in quanto Galli, erano di natura bellicosi. Umbreno, che aveva fatto grossi affari in Gallia, conosceva la maggior parte dei capi ed era ben noto a loro. Dunque, non appena poté incontrare i rappresentanti degli Allobrogi nel foro, senza indugio, si informò brevemente sulla situazione della loro gente e, quasi compiangendo la loro sventura, chiese quale via d’uscita sperassero per tali disgrazie. Quelli si lamentavano dell’avidità dei magistrati, accusavano il Senato che nulla aveva fatto per aiutarli e affermavano che non c’era altro rimedio per la loro situazione se non la morte. Allora, Lentulo disse loro: «Io vi mostrerò il modo, se siete uomini di valore, per sottrarvi ad una sciagura così grande». Dette queste cose, negli Allobrogi si riaccese la speranza e supplicarono Umbreno che avesse compassione di loro; dicevano che avrebbero fatto qualsiasi cosa, valorosamente, che non vi era niente di aspro o arduo per loro, purché servisse a liberare la nazione dai debiti. Lentulo condusse costoro presso la casa di Bruto79, che si presentava luogo favorevole per la riunione, data la sua vicinanza al foro e la presenza di Sempronia; difatti Bruto era lontano da Roma. Quindi mandò a chiamare Gabinio80, per aumentare l’autorevolezza del suo discorso. Quando quest’ultimo fu presente, rivelò il piano della congiura, facendo il nome degli implicati e di tanti altri di ogni classe, che con quel progetto non avevano nulla a che fare, allo scopo di persuadere gli Allobrogi. Dopo che questi ebbero promesso il loro appoggio, li congedò.
41. Ma gli Allobrogi rimasero a lungo incerti sulla decisione da prendere; dalla congiura potevano sperare la cancellazione dei debiti, il desiderio di prendere le armi, la libertà per la patria; dall’altra, c’erano forze superiori, maggior sicurezza e vantaggi sicuri contro vaghe speranze; e inoltre si prospettavano premi per i delatori del piano a fronte delle vane aspettative derivanti dalla congiura. Mentre questi rivolgevano nel loro animo queste cose, la Fortuna dello Stato ebbe la meglio; essi, così, rivelano tutta la faccenda a Quinto Fabio Sanga81 che molte volte aveva beneficato il loro popolo. Cicerone, appreso l’accordo attraverso Sanga, ordina agli Allobrogi di fingersi caldi sostenitori della congiura, di avvicinare gli altri congiurati, di promettere appoggi e aiuti, al fine di indurli a scoprirsi il più possibile.
42. Circa negli stessi giorni scoppiarono rivolte nella Gallia Cisalpina e Transalpina82, nonché nella zona picena, nel Bruzio, nell’Apulia. Infatti, coloro che Catilina in precedenza aveva mandato là, eseguivano le manovre simultaneamente, come fossero sconsiderati o pazzi: tenevano riunioni notturne, facevano trasportare armi da una parte all’altra, preparavano sommosse; produssero più timore che danno. La maggior parte di costoro fu posta in catene dal pretore Q. Metello Celere, il quale aveva espletato l’indagine secondo le disposizioni del Senato; lo stesso fece Caio Murena83 nella Gallia Cisalpina, regione che governava in qualità di legato.
43. A Roma Lentulo e gli altri capi della congiura, preparate grandi truppe, a quanto sembrava, stabilirono che, quando Catilina fosse giunto con l’esercito presso Fiesole, il tribuno della plebe Lucio Bestia84 dovesse tenere una riunione del popolo, lamentandosi della condotta di Cicerone e attribuendo all ottimo console la colpa di una guerra gravissima. A questo segnale, la notte seguente, ciascun congiurato avrebbe dovuto portare a termine il suo incarico. I compiti – si diceva – erano stati così divisi: Statilio e Gabinio, con un forte manipolo, dovevano appiccare il fuoco in dodici luoghi strategici di Roma; a quel trambusto si pensava che più facilmente sarebbero accorsi il console e tutti gli altri per i quali erano state preparate delle imboscate; Cetego, bloccato l’ingresso della casa di Cicerone, doveva aggredirlo con forza; altri allo stesso modo. Molti figli, per lo più di nobile famiglia, dovevano trucidare i padri. Quando la strage e gli incendi avessero atterrito il popolo, i congiurati dovevano raggiungere Catilina. Fra questi preparativi e decisioni, Cetego lamentava sempre l’inefficienza dei compagni; essi, infatti, indugiando e rimandando le operazioni di giorno in giorno, mandavano in fumo molte occasioni favorevoli; in situazioni così critiche occorrevano fatti, non parole; dunque, anche con l’aiuto di pochi, anche se gli altri restavano inattivi, egli avrebbe comunque fatto irruzione nel Senato. Cetego, feroce e violento di natura, sempre incline ai colpi di mano, pensava di ottenere il massimo successo con un’incursione improvvisa.
44. Intanto gli Allobrogi, secondo le istruzioni di Cicerone, grazie a Gabinio parteciparono ad un incontro dei congiurati. Di là chiedono un giuramento scritto, firmato da Lentulo, Cetego, Statilio e pure da Cassio, da inviare ai loro concittadini, i quali, senza questa assicurazione, difficilmente avrebbero contribuito ad una così grande impresa. Quelli, non sospettando niente, concedono il documento. Cassio assicura che, a breve scadenza, si sarebbe recato in Gallia e, poco prima dei legati, parte da Roma. Lentulo manda con quelli un certo Tito Volturcio da Crotone85, affinché gli Allobrogi, prima di continuare il cammino verso casa, confermassero fedeltà al progetto di Catilina giurando davanti a lui. Lentulo, poi, fa recapitare, per il tramite di Volturcio, una lettera destinata a Catilina, nella quale si diceva:
«Chi io sia lo saprai da colui che ti mando; pensa in quale cimento ti trovi e ricordati che sei un uomo; considera quali provvedimenti richieda la situazione; cerca aiuto presso chiunque, anche da quelli di infima condizione».
Poi aggiunse queste parole da riferire a voce: perché non avvalersi dell’appoggio di schiavi, dal momento che il Senato l’aveva già dichiarato traditore della patria? In città era stato preparato tutto quello che egli aveva prescritto: non doveva indugiare a raggiungerla.
45. Preparati gli ultimi dettagli e stabilita la notte della partenza degli Allobrogi, Cicerone, ricevute da loro tutte le informazioni, ordina ai pretori Lucio Valerio Flacco e Caio Pomptino86, di catturare, con un agguato, gli Allobrogi e il loro seguito, sul ponte Milvio87; poi spiega ad essi il perché della missione; inoltre dà loro carta bianca sulle operazioni da eseguire secondo la convenienza. I pretori, uomini di guerra, disposte ordinatamente le guardie, bloccano di nascosto il ponte, come era stato deciso. Arrivati che furono gli Allobrogi e Volturcio nel punto stabilito, da un’estremità e dall’altra del ponte si levò un clamore: i Galli, capito subito quanto accadeva, si consegnano senza indugio ai pretori, ma Volturcio, impugnata la spada, dapprima esorta anche gli altri a difendersi, poi, vistosi solo, supplica Pomptino – che conosceva – di risparmiargli la vita; poi tremante per paura di morire, si arrende ai pretori come fossero nemici.
46. Dopo questi fatti, il tutto fu comunicato sollecitamente al console per mezzo di corrieri. Questi fu preso da grande preoccupazione mista a gioia: difatti si rallegrava, conscio che, ora che era rivelata la congiura, la città era ormai libera da pericoli; d’altro lato pieno d’ansia, non sapeva che fare di cittadini tanto noti arrestati per un delitto di tali dimensioni: se fossero stati puniti, questo si sarebbe ritorto contro di lui; se fossero rimasti impuniti, non si sarebbe scongiurata la rovina dello Stato. Dunque, preso coraggio, ordina che gli vengano condotti Lentulo, Cetego, Statilio, Gabinio e anche Cepario da Terracina che si preparava a trasferirsi nell’Apulia per sollevare gli schiavi. Gli altri arrivarono senza indugio, ma Cepario, che uscito poco prima di casa aveva saputo della denuncia, era fuggito dalla città. Il console accompagna di persona Lentulo in Senato, tenendolo per la mano, in quanto era pretore; gli altri, ordina che vengano condotti sotto scorta al tempio della Concordia. Lì convoca il Senato; tra grande affluenza di senatori, fa introdurre Volturcio e gli Allobrogi, poi ordina al pretore Flacco di portare lì la lettera ricevuta dai messi allobrogi.
47. Volturcio viene sottoposto a interrogatorio sul viaggio, poi su la lettera, poi su le sue intenzioni e sul perché di queste adduce motivi diversi, nasconde la congiura. Poi, quando gli fu ingiunto di parlare con la solenne promessa dell'impunità, egli chiarì come fossero andate le cose veramente: non sapeva niente di più degli Allobrogi, per il fatto che era stato coinvolto nella congiura solo pochi giorni prima da Gabinio e Cepario; inoltre aveva sentito spesso da Gabinio che Autronio, Servio Silla, L. Vargonteio e molti altri erano coinvolti nella congiura. I Galli confermarono e dimostrarono che Lentulo era un mentitore, facendo presenti le lettere e i discorsi che era solito tenere: diceva che era scritto nei libri Sibillini88 che a tre Cornelii89 sarebbe passato il regno di Roma; e che egli era il terzo dopo Cinna90 e Silla destinato a impadronirsi della città; che erano passati esattamente vent’anni dall’incendio del Campidoglio, quindi – secondo le previsioni degli aruspici – in quell’anno si sarebbe sparso sangue in una guerra civile. Quindi fu data lettura delle lettere; quando i congiurati ebbero riconosciuto la propria firma, il Senato decise che, deposto dalla carica Lentulo, gli altri venissero liberati dalle catene ma tenuti sotto custodia. Lentulo fu affidato a Publio Lentulo Spintere91, che allora era edile, Cetego a Quinto Cornificio92, Statilio a Caio Cesare, Gabinio a Marco Crasso, Cepario – che poco prima era stato riacciuffato mentre si dava alla fuga – al senatore Cneo Terenzio93.
48. Frattanto il popolo era venuto a conoscenza della congiura; ma se prima, per desiderio di novità, aveva applaudito la guerra, ora, mutato parere, malediva i progetti di Catilina e portava al cielo Cicerone: come sottratta alla schiavitù, la gente gioiva e si rallegrava; era sempre convinta che le guerre procurano più tesori che danni, ma vedeva l’incendio della città come una crudeltà e un pericolo inauditi, per chi, come il popolino, aveva come ricchezza soltanto oggetti d’uso e di che sostentarsi.
Il giorno seguente fu condotto in Senato un tale Lucio Tarquinio94 che era stato catturato – diceva – mentre cercava di raggiungere Catilina. Costui disse che avrebbe rivelato particolari della congiura, se gli fosse stata accordata l’impunità; il console gli ordinò di esporre quello che sapeva; dopo aver riferito al Senato dei tentati incendi, della soppressione di senatori, del percorso dei nemici – grosso modo quello che aveva confessato Volturcio -, aggiunse di essere stato inviato da Crasso a Catilina per dirgli di non perdersi d’animo per l’arresto di Lentulo, Cetego e degli altri congiurati e tanto più di affrettarsi a raggiungere la città, per rincuorare gli altri e sottrarre più facilmente al pericolo i suoi. Ma quando Tarquinio fece il nome di Crasso, uomo nobile, di grande ricchezza e potenza, alcuni magistrati ritennero la cosa incredibile, altri, invece ci credevano, ma poiché la situazione suggeriva di tener buono un uomo tanto potente più che irritarlo, poi perché molti erano obbligati a Crasso per affari privati, tutti proclamarono che il delatore fosse un impostore e che si doveva mettere la cosa in deliberazione. Quando Cicerone richiese il parere dei senatori, questi – unanimemente – decisero che la deposizione di Tarquinio non appariva attendibile, che doveva essere messo in catene, senza che potesse testimoniare oltre, fino a che non avesse indicato la persona per conto della quale aveva pronunciato una simile menzogna. Ci fu chi credette che la denuncia fosse stata escogitata da P. Autronio affinché, coinvolto Crasso nell’accusa, nel pericolo comune, con la sua potenza avrebbe salvato gli altri. Altri dicevano che Tarquinio fosse stato istigato da Cicerone al fine che Crasso non turbasse lo Stato, assumendo la difesa dei rei, come suo solito. Io, poi, ho sentito Crasso dichiarare che quella vergognosa accusa gli era stata lanciata da Cicerone.
49. Ma in quello stesso tempo Q. Catulo e Cn. Pisone95 non riuscirono né con preghiere, né con danaro, né con autorità a persuadere Cicerone al fine che, grazie alla falsa testimonianza degli Allobrogi o di altro delatore, Cesare fosse ingiustamente messo sotto accusa. Quest’ultimo era fortemente inviso a quei due; Pisone perché in un processo per concussione aveva ingiustamente condannato un transpadano; Catulo era pieno di livore perché, uomo avvezzo a prestigiosi incarichi, all’apice della carriera, non aveva potuto assumere la carica di pontefice perché superato dal giovane Cesare. L’accusa poteva sembrare credibile, perché egli si era caricato di debiti, per la sua grande generosità privata e le grandi spese come politico, in quanto magistrato. Quelli, quando non poterono spingere il console a questa vile macchinazione, plagiavano singole persone diffondendo menzogne infamanti, spacciandole per affermazioni fatte da Volturcio e dagli Allobrogi; avevano sollevato contro di lui una forte ostilità, a tal punto che alcuni cavalieri romani armati e messi a guardia attorno al tempio della Concordia, spinti dall’enormità del rischio o da volubilità d’animo, al fine che risultasse più evidente il loro zelo per lo Stato, minacciarono di spada Cesare, che usciva dal Senato.
50. Mentre in Senato si discutevano queste cose e mentre si concedevano ricompense ai rappresentanti degli Allobrogi e a T. Volturcio, una volta verificata la consistenza delle loro rivelazioni, contemporaneamente i liberti di Lentulo e alcuni suoi seguaci in diversi posti incitavano lavoranti e servi dei sobborghi, perché lo liberassero; altri contattavano i capipopolo che per danaro solevano creare tumulti contro lo Stato. Cetego, dal suo canto, mandò messaggi ai suoi servi e liberti, persone scelte e addestrate all’audacia, con la preghiera che venissero nel luogo dove era prigioniero e che, armati e riuniti a schiera, facessero irruzione per trarlo fuori. Il console venne a sapere che si stavano progettando queste cose; allora, disposte le guardie secondo l’impellente necessità, convocò il Senato e chiese quale fosse la volontà circa la sorte dei prigionieri; ma i senatori già avevano deciso all’unanimità che quelli dovevano essere considerati rei di alto tradimento. Allora, Decio Giunio Silano96, che per primo doveva esporre il suo parere, perché console designato per quel periodo, decretò che gli arrestati – e anche L. Cassio, P. Furio, P. Umbreno, Q. Annio una volta catturati – dovevano essere giustiziati; questi, poi, profondamente scosso dal discorso di Cesare, disse di essere più propenso per il parere di Tito Nerone97: dato che era stato aumentato il numero delle guardie, era consigliabile prendere decisioni in merito con più calma. Dunque, quando arrivò il turno di Cesare, richiesta dal console la sua opinione, si espresse in questo modo:
51. «O senatori, quando si prendono in esame questioni poco chiare, è necessario non lasciarsi influenzare dall’odio e dallo sdegno, dalle simpatie e dalla pietà. Difficilmente l’animo discerne il vero quando questi sentimenti lo offuscano; e nessuno di noi può obbedire contemporaneamente al proprio arbitrio e al proprio interesse. Quando tu tendi l’ingegno come un arco, esso dispiega la sua forza; se la passione ti possiede, essa fa da padrona e l’anima si svigorisce. Potrei ricordare abbondantemente, senatori, quanti re e popoli, spinti da sdegno o da pietà, presero iniziative sbagliate. Ma preferisco esporre quelle situazioni in cui i nostri avi ottennero successi, con onestà e giustizia, trascurando gli impulsi del loro animo. Durante la guerra macedonica che combattemmo contro il re Perseo98, la magnifica e splendida isola di Rodi, che grazie a noi Romani si era arricchita, ci diventò, poi, nemica e avversa. Ma a guerra conclusa, perché nessuno dicesse che si era intentata una campagna militare motivata da imperialismo, non già in risposta all’oltraggio, il Senato decise di lasciare i cittadini di Rodi impuniti. Ugualmente, durante le guerre puniche99, benché i Cartaginesi, nel periodo bellico come nelle tregue, avessero compiuto molte viltà e nefandezze, mai i Romani contraccambiarono, nonostante ne avessero l’occasione; difatti a loro stava a cuore più la dignità che la vendetta, seppur giusta. Ora, senatori, dovete fare in modo che in voi prevalga la dignità, piuttosto che la scelleraggine di Lentulo e degli altri; e salvaguardare più il vostro buon nome che il vostro sdegno. Dunque, se troverete pene proporzionate alle loro colpe, io sarò favorevole ad un provvedimento eccezionale; ma se l’atrocità dei delitti sarà più grande di quanto immaginiamo, io propongo che si applichino quelle pene che la legge ha stabilito.
La maggior parte di coloro che hanno parlato prima di me hanno deplorato, con arte e magniloquenza le disgrazie dello Stato: hanno passato in rassegna quali crudeltà comporti la guerra, quali siano i destini dei vinti: vergini e bimbi rapiti, figli strappati alle braccia dei genitori, madri di famiglia costrette al piacere dei vincitori, santuari e case depredati; stragi e incendi, e poi dappertutto armi, cadaveri, sangue, pianto.
Ma, per gli dèi del cielo, quale lo scopo di un simile discorso? Forse per mostrarvi ostili alla congiura? Certo, potrebbe smuovere chi ancora ignorasse un pericolo così grave e atroce. No, non è così: le ingiurie che subiamo non ci paiono mai cosa lieve, semmai le vediamo ingigantite! Ma, o senatori, ciascuno giudichi come vuole. Quelli di umile condizione che passano la loro vita nell’anonimato, quando si lasciano prendere dal furore, pochi lo vengono a sapere e la loro fama sarà pari alla loro situazione; coloro che, per contro, sono preposti a grandi incarichi e vivono in una condizione elevata, espongono il loro comportamento alla luce del sole. Così, chi occupa una posizione sociale assai rilevante, ha una libertà di movimento limitata: non è decoroso per lui parteggiare, né avere in odio e tanto meno adirarsi. Quella passione che in un comune cittadino chiameresti ira, fra i potenti viene chiamata alterigia e crudeltà. Quanto a me, dunque, il mio pensiero è questo, senatori: qualsiasi tortura sarebbe poca cosa di fronte ai misfatti di costoro. Ma, per lo più, c’è sempre il rischio che si tenda a ricorda re la punizione più che ciò che la motivò e, nel caso di uomini scellerati, passati in secondo piano i loro infami delitti, si è portati a discutere se la pena non sia stata troppo severa.
Io, per certo, so che D. Silano, uomo forte e valente, ha espresso quel parere in forza dell’amore che nutre per lo Stato, e che in un affare così cruciale non ha fatto prevalere lo spirito di parte; conosco il suo carattere moderato. In verità, la sua proposta non è crudele – e cosa può essere crudeltà contro questi assassini? -, piuttosto è contraria ai nostri ordinamenti. Ora, certamente, o Silano, è la paura o la gravità della sciagura che ti ha spinto a proporre, in qualità di console designato, un tipo di pena straordinaria. Del timore e del pericolo è inutile stare a discorrere, specialmente dal momento che, grazie alla sollecitudine del console Cicerone, uomo assai onorato, sono state predisposte numerose guardie armate. Riguardo alla pena, io potrei senz’altro dire – il che è vero – che, indubbiamente, nella disgrazia e nella miseria è la morte che pone fine agli affanni, non la tortura; infatti la morte dissolve tutti i mali degli uomini; dopo di questa non esiste né gioia né dolore. Ordunque, per gli dèi del cielo, perché quando hai proposto la pena capitale, non hai pure aggiunto la preventiva fustigazione? Forse perché la legge Porcia100 lo vieta? Però, ugualmente altre leggi vietano di giustiziare certi cittadini e prevedono che si possano esiliare101. Dunque, perché dovrebbe essere più doloroso venire fustigati che morire di spada? Che cosa sarà mai troppo crudele o insopportabile per simili criminali? Altrimenti, chi potrà ben applicare la legge riguardo alla fustigazione, se la si è tralasciata nel caso della pena di morte, superiore alla prima?
Come sarà possibile biasimare le pene comminate ai traditori della patria? L’occasione, il tempo, la sorte e il capriccio di questa governano le genti. Quanto a loro toccherà in sorte – meritatamente – ebbene, questo avvenga. Voi, senatori, per parte vostra, meditate bene che state decidendo il destino di altri. Sempre, capita che da buoni propositi nascano cattive decisioni. Quando a decidere sono persone incapaci o indegne, una punizione così grave si applica indistintamente all’innocente e al colpevole. Gli Spartani, vinti che ebbero gli Ateniesi, misero a capo dello Stato trenta uomini102. Costoro dapprima si misero a far sopprimere personaggi loschi e invisi al popolo, senza regolare procedura. Il popolo ne fu contento, ritenendo giuste queste esecuzioni; dopo, quando, poco a poco, l’eccezione diventò regola, si uccidevano, a capriccio, ugualmente buoni e cattivi, seminando il terrore tra la gente; ecco qui che una cittadinanza, oppressa dalla prepotenza, dovette pagar cara la stabilità politica, in cui avevano stupidamente creduto. È nel nostro ricordo come Silla, vittorioso, ordinò la morte di Damasippo103 e di altre persone di quel genere, che si erano arricchite a danno dello Stato: ci fu qualcuno che non applaudì a quella disposizione? Si affermava che erano stati giustiziati, a ragione, uomini sciagurati e faziosi che avevano perturbato lo Stato con sedizioni. Ma questo provvedimento fu l’inizio di una vera e propria strage. Infatti se qualcuno soltanto bramava la casa, la villa, poi le suppellettili o gli abiti altrui, si faceva in modo che fosse messo nella lista dei proscritti. Così, proprio quelli che si erano rallegrati della morte di Damasippo, ben presto, pure loro, finirono in tribunale e non si pose termine allo spargimento di sangue, finché Silla non ebbe saziato i suoi seguaci con i beni dei cittadini. Ora io non temo che di questi tempi, mentre è console Cicerone, queste cose possano ripetersi, però nella nostra città si agitano molte varie tendenze. Può darsi che in un altro tempo e con un altro console, che avesse a disposizione un esercito, il pericolo avrebbe una qualche consistenza. Quando, per esempio, il console, per delega di un decreto senatorio, avrà sguainato la spada, chi potrà imporgli un limite e chi lo potrà fermare?
I nostri padri, senatori, non mancarono mai né di senno né di intraprendenza; né per orgoglio si opposero a che si imitasse ciò che di buono trovarono nelle consuetudini dei popoli vicini; così adottarono gli stessi tipi di armi difensive e offensive dei Sanniti, e per lo più, i caratteri della magistratura dei Tusci104. Inoltre, ciò che di decoroso avevano appreso dai costumi di alleati o nemici, lo mettevano in pratica con grande impegno in patria: preferivano imitare che invidiare le buone istituzioni. Ma in quello stesso tempo, a imitazione degli usi greci, punivano i cittadini a sferzate e, nel caso di reati più gravi, con la pena capitale. Quando lo Stato crebbe, così come crebbe il numero dei cittadini, cominciarono a prevalere le fazioni: cittadini innocenti venivano oppressi e accadevano abomini di questo genere; fu così approntata la legge Poreia – e altri provvedimenti simili – in base a cui fu concesso ai condannati, al posto della morte, l’esilio. Questo esempio, senatori, credo che debba convincerci a desistere dalle recenti disposizioni prese contro i condannati. Certamente la virtù e la saggezza dei nostri avi, che riuscirono con pochi mezzi a mantenere il potere, furono molto maggiori che in noi, che a stento riusciamo a mantenere in piedi lo Stato, che ricevemmo in eredità.
Dunque, sarebbe cosa gradita liberare costoro, perché se ne vadano a rinforzare l’esercito di Catilina? Niente affatto! Difatti io propongo questo: i loro beni devono essere confiscati, essi devono finire in catene presso municipi che ne garantiscano la custodia; di costoro non si senta più neppure il nome nelle assemblee e nelle piazze e, se qualcuno contravvenisse a quest’ordine, venga pure dichiarato nemico della patria e attentatore della pubblica salute».
52. Terminato il discorso di Cesare, i senatori, chi più chi meno, concordavano con i pareri espressi. Chiamato a intervenire, M. Porcio Catone105 così si pronunciò:
«Senatori, io ho un parere assai diverso sulla nostra grave situazione e assai discordante da quello espresso da alcuni, e che è stato oggetto di profonda meditazione da parte mia. Hanno discusso sulla pena che spetta a questi attentatori della patria, dei cittadini, della religione, della famiglia. Ma la situazione richiede che noi ci guardiamo da loro, più che discutere e decretare punizioni; avremo tempo di perseguire malfattori, quando ce ne sarà bisogno. Ma in questo caso è inutile invocare giustizia, se non si è provveduto a stroncare sul nascere questo disastro; hanno già assediato la città, hanno già spogliato i vinti. Ora, per gli dèi del cielo, io mi rivolgo a voi: avete curato più i vostri palazzi, le vostre ville, le statue e i dipinti, di meno lo Stato; se volete conservare queste cose che voi amate, qualunque sia il loro valore, se volete conservare tranquillità e piaceri, ridestatevi dal vostro sopore una buona volta, prendete in mano lo Stato! Non stiamo trattando di tributi riscossi con frode, né di offese perpetrate ad alleati: la nostra libertà, la nostra vita sono in pericolo!
Spesse volte in questa assemblea ho preso la parola, spesse volte ho denunciato il lusso e l’avarizia dei nostri cittadini: per questo molti mi detestano. Ma siccome sono stato intransigente contro i difetti miei e del mio animo, difficilmente indulgevo verso le colpe e le passioni altrui. Ma per quanto voi stimaste di poco conto quelle trasgressioni, tuttavia la repubblica mantenne la sua saldezza e la sua fortezza compensò la vostra negligenza. Ora non si tratta di stabilire se il nostro vivere è retto o ingiusto, o di misurare la grandezza o la potenza del popolo romano, ma se ciò che abbiamo costruito rimarrà nostro, qualunque sia il suo valore, oppure se passerà nelle mani dei nemici. Adesso sento alcuni parlare di mitezza e misericordia. Ma noi da gran tempo abbiamo perso il vero senso delle parole; difatti lo spreco del danaro altrui è detto “liberalità”, la temerarietà nel compiere scelleratezze è chiamata “coraggio”; per questo motivo lo Stato è ridotto allo stremo. Siano pur essi – se questa è la moda attuale – prodighi del denaro degli alleati, siano pure clementi verso chi ruba il pubblico danaro, ma non sia consentito loro di dissanguarci fino in fondo; non sia consentito loro, mentre usano clemenza per pochi sciagurati, di mandare in rovina tutti gli onesti cittadini.
Poco fa, davanti a voi, Cesare ha fatto una trattazione eloquente, elegante, sul tema della vita e della morte; credo che però egli abbia deriso quanto la tradizione ci dice sull’aldilà: ossia che dopo la morte i malvagi siano condotti, contrariamente ai buoni, in luoghi aspri, sporchi, tetri, terribili. Così ha stabilito per gli imputati la confisca dei beni e l’incarcerazione nei municipi; forse egli ha paura che, se questi restano a Roma, verranno liberati a furor di popolo da congiurati e popolani prezzolati. Come dire che mascalzoni e sciagurati siano tutti in città e non anche nel resto d’Italia; come dire che i colpi di mano siano meno fattibili là dove minori sono le forze di difesa. Per questo il provvedimento di Cesare mi sembra inutile, se egli teme che quelli possano arrecare ancora danno; ma se fra la paura generale, solo lui è esente da timore, tanto più io e voi dobbiamo preoccuparci. Per ciò, quando emetterete la sentenza su Lentulo e gli altri, prendete contemporaneamente una decisione sull’esercito di Catilina e su tutti i congiurati. Quanto più energica sarà la vostra risoluzione, tanto più quelli si svigoriranno. Se vi mostrerete anche solo un po’ titubanti, vi attaccheranno come cani feroci.
Non crediate che i nostri avi abbiano così tanto ingrandito lo Stato col solo uso delle armi. Se così fosse, il nostro Stato sarebbe veramente magnifico, giacché adesso – più che nel passato – ci possiamo valere dell’aiuto di alleati e cittadini, di un gran numero di soldati e cavalieri. Però i nostri antichi ebbero altre cose che li resero grandi e che a noi mancano del tutto: in patria l’operosità, al di fuori un equo governo, un giusto equilibrio nelle deliberazioni, esente da bramosia e iniquità; al contrario fra noi vige il lusso e l’avarizia, il debito pubblico e l’opulenza privata. Teniamo in gran conto le ricchezze e pratichiamo l’ozio. Tra il giusto e l’empio non c’è differenza. La bramosia di consenso e prestigio domina ogni istituto dello Stato. E questo non fa meraviglia; infatti voi stessi prendete decisioni separatamente e ciascuno per proprio tornaconto; e dal momento che a casa vostra vi dominano le passioni, qui in Senato vi guidano brama di danaro e clientelismo. Così accade che si possa attaccare lo Stato perché sprovvisto di difesa.
Ma lasciamo questo argomento. Cittadini ben in vista si sono alleati per distruggere lo Stato, come in un incendio; hanno chiamato alla guerra dei Galli, gente aspramente ostile al popolo romano; il condottiero dei nemici incombe sul nostro capo con un esercito; e voi siete ancora esitanti e dubbiosi su ciò che dovete fare dei nemici che tenete arrestati in città? Abbiate pietà, ve lo chiedo, di questi giovanotti che sbagliarono per ambizione, e lasciateli pure andare colle armi in pugno; ma badate bene che questa vostra mitezza e pietà non si trasformi in disgrazia per voi se costoro ingaggiassero di nuovo la lotta! La situazione è certamente cruciale ma voi non siete turbati... Invece sì, lo siete, eccome! Ma vacillate e aspettate l’uno le decisioni dell’altro, perché siete d’animo fiacco e accidioso. Forse aspettate un aiuto dagli dèi del cielo che già preservarono spesso questa patria in gravissime sciagure.
No, i voti e le suppliche, che si addicono a fragili donne, non servono a procurare il soccorso divino; quando si vigila, quando si agisce, quando si prendono sagge decisioni, allora tutto ha un buon esito. Coloro che si trascinano nell’ozio e nell’indolenza, pregano al vento, poiché gli dèi nutrono sdegno e disprezzo per questo genere di persone.
Al tempo dei nostri avi, A. Manlio Torquato106, durante la campagna contro i Galli ordinò che fosse trucidato il proprio figlio, perché quegli – contravvenendo all’ordine dato – aveva intrapreso un’azione di guerra; quell’ottimo giovane pagò con la morte il suo sconsiderato coraggio. E voi ancora indugiate sulla pena che spetta a questi crudelissimi assassini? Forse costoro prima di compiere questo delitto erano persone dabbene. Abbiate riguardo per la dignità di Lentulo, semmai egli usò lo stesso rispetto per il pudore, per il suo nome, per gli dèi. Siate clementi con Cetego, ragazzo appena, se non vi risulta che egli ha mosso guerra contro lo Stato per ben due volte. Che dire poi di Gabinio, Statilio, Cepario? Se avessero avuto solo un briciolo di coscienza non avrebbero concepito questa trama a danno della Repubblica.
Insomma, senatori, se – per Giove! – non ci fosse il rischio di prendere decisioni sbagliate, dal momento che non tenete in gran conto le mie parole, io permetterei di buon grado che fossero i fatti a convincervi. Siamo accerchiati. Catilina, con la sua truppa, ci tiene per il collo; altri nemici serpeggiano fra le mura e nel cuore di Roma; non è più tempo di piani e decisioni segreti; per questo, a maggior ragione, affrettiamoci.
Dunque, io sono di questo parere: siccome per un progetto criminale, costruito da sciagurati cittadini, questa Repubblica ha corso grave rischio, quelli che, in base alla confessione di Volturcio e degli Allobrogi, riconosciuti colpevoli o dichiaratisi responsabili di aver preparato stragi, incendi, e altri terribili e atroci delitti contro i cittadini e lo Stato, come coloro che hanno compiuto il massimo reato, secondo l’antica usanza devono essere messi a morte».
53. Quando Catone ebbe finito di parlare, tutti i presenti nell’assemblea e i senatori stessi in gran numero, lodarono il discorso di Catone, esaltandone la probità, mentre i suoi sostenitori tacciavano i cesariani di scarso appoggio. Catone venne esaltato come eroe e salvatore; il Senato, con un decreto, aderì completamente alla sua decisione.
A me è sempre piaciuto interessarmi, leggendo e ascoltando, delle cose straordinarie e avventurose compiute dai Romani, in pace e in guerra, per terra e per mare; ma badai pure ad indagare le cause che determinarono tali avvenimenti. Mi risulta che spessissimo i Romani, con pochi mezzi, si sono scontrati con grandi eserciti, che grandi re sono stati sbaragliati con poche forze, nonostante l’avversa fortuna; poi sono venuto a sapere che Roma fu soggiogata dalla cultura dei Greci e dalla forza militare dei Galli; ebbene, dopo molte riflessioni ho concluso che, grazie ad azioni giuste ed eminenti, la frugalità prevalse sul lusso; così i Romani, per quanto pochi, riuscirono ad avere la meglio su popoli numerosi. Ma dopo che la città fu corrotta dal lusso e dall’ozio, la Repubblica dovette sopportare la degenerazione di generali e magistrati, e, come spossata da un parto, in molte traversie, non ci fu nessuno a Roma che si distinguesse per grandezza e onestà. Ma, a ben vedere, vi furono due uomini di grande virtù, ma di carattere differente: M. Catone e C. Cesare. Essi, dato che l’argomento li ha messi in evidenza non ho creduto opportuno passarli sotto silenzio e, come potrò, vorrei rivedere dell’uno e dell’altro il carattere e la condotta.
54. Orbene, essi, furono pressoché uguali per l’età, la nascita e l’eloquenza, pari per grandezza d’animo, per fama ma differenti sotto altri lati. Cesare era considerato grande perché munifico e generoso, Catone per la sua integrità di vita. Il primo fu reso famoso dalla mitezza e generosità, il secondo dalla severità, Cesare fu reso glorioso dalla prodigalità, dal soccorso prestato ad altri, dal perdono, Catone era diventato famoso per il rigore. Il primo era rifugio per i miseri, il secondo rovina per i malfattori. Di quello era lodata la condiscendenza, dell’altro la tenacia. Insomma, Cesare si era proposto di adoprarsi a vegliare e per curare gli affari degli amici trascurava i suoi, non rifiutava niente che fosse adatto per essere dato in dono. Per sé desiderava ardentemente comandare, predisporre un esercito, portare una guerra nuova per far trionfare la virtù. Catone, invece, era modesto, dignitoso e soprattutto severo. Non veniva a contesa col ricco per la ricchezza, né col fazioso per gli intrighi; piuttosto entrava in competizione per la virtù col valoroso, con il modesto per il pudore, coll’onesto per l’integrità. Preferiva essere retto più che sembrarlo, così che egli quanto meno inseguiva la fama, tanto più se la guadagnava.
55. Dopo che il Senato, come ho detto, ebbe votato a favore della proposta di Catone, il console, pensando cosa opportuna non lasciar passare la notte imminente, per evitare che in quel mentre succedessero inaspettati avvenimenti, ordinò ai triumviri che fosse preparato il supplizio. Egli, disposte le guardie nei vari punti, fa uscire dal carcere Lentulo, così i pretori fanno per gli altri condannati. Ora, nel carcere107 c’è un settore denominato «Tulliano», per raggiungere il quale bisogna salire un po’ a sinistra, per poi scendere circa dodici piedi sotto terra; lo chiudono da ogni lato delle pareti e, al di sopra, una volta formata da archi di pietra; ma per lo squallore, il buio, il fetore è un luogo dall’aspetto ripugnante e terribile. Dopo che Lentulo fu fatto scendere laggiù, gli esecutori, incaricati di sopprimerlo, lo strangolarono. Così quel patrizio, della rinomata famiglia dei Corneli che aveva detenuto a Roma il potere consolare, ebbe una fine degna della sua disonorata condotta. Cetego, Statilio, Gabinio, Cepario fecero la medesima fine.
56. Mentre a Roma accadevano queste cose, Catilina formò due legioni da tutta la gente che aveva radunato con sé e da quella che già era al seguito di Manlio, e completò, così, le coorti secondo il numero di soldati richiesto108. Poi, come giungevano all’accampamento volontari e uomini da parte degli alleati, li distribuì in giusto numero nei reparti; così riuscì in breve a completare le legioni nel numero di effettivi, mentre prima non avrebbe potuto contare che su 2000 soldati. Ora, di tutta la milizia solo la quarta parte, circa, era costituita di soldati veri e propri, gli altri erano armati alla meglio: chi con piccoli giavellotti o lance, altri con pertiche acuminate. Ma poiché Antonio con il suo esercito si avvicinava sempre più, Catilina si mosse attraverso le montagne, ora portando le milizie verso Roma, ora attraverso la Gallia e non dava occasione ai nemici, in tal modo, di uno scontro aperto. Sperava che di lì a poco avrebbe ottenuto numerosi rinforzi, nel caso che a Roma i congiurati avessero messo in atto i piani stabiliti. Poi rifiutò l’appoggio degli schiavi che all’inizio accorrevano a lui numerosi; confidava nelle forze della congiura e credeva sarebbe stato dannoso per i suoi interessi associare alla causa dei cittadini liberi quella degli schiavi fuggitivi.
57. Dopo che giunse all'accampamento la notizia che a Roma la congiura era stata scoperta e che Lentulo e Cetego e gli altri, da me nominati in precedenza, erano stati messi a morte, la maggior parte di coloro che si erano lasciati coinvolgere nella guerra dalla speranza di guadagni e dal desiderio di rivoluzione si dileguò; Catilina allora condusse quelli che erano rimasti al suo fianco verso le campagne di Pistoia, a marce forzate e per aspre montagne, con l’intenzione di fuggire da lì, attraverso scorciatoie segrete, nella Gallia Transalpina. Ma Quinto Metello Celere stava a presidio, con tre legioni, del Piceno e poteva valutare le mosse di Catilina dalla difficoltà del percorso, cui ho prima accennato. Dunque, quando venne a conoscere l’itinerario di Catilina dalle rivelazioni dei disertori, mosse prontamente le truppe e le fece stanziare alle falde dei monti dai quali Catilina sarebbe disceso per raggiungere la Gallia. Antonio, poi, non era lontano da quei luoghi, per il fatto che con il suo grande esercito poteva raggiungere speditamente i fuggiaschi per luoghi pianeggianti. Ma Catilina, quando si trovò circondato dalle montagne e dai nemici e si rese conto che a Roma le cose erano andate diversamente dal previsto, che non poteva né contare su aiuti, né darsi alla fuga, ritenne che in quella circostanza fosse quanto mai opportuno tentare la guerra; decise pertanto di scontrarsi, quanto prima, con Antonio. E radunati i suoi, tenne un discorso di questo tenore:
58. «Sono certo, o soldati, che le parole non rendono l’uomo più valoroso, che il discorso di un generale non rende coraggioso e impavido un esercito di vili e paurosi. Quanto più ognuno ha un animo audace, per carattere o esercizio, tanto più lo rivela in battaglia. È vano esortare colui che né la gloria, né il pericolo riescono a stimolare: la paura rende sordi. Ma io vi ho radunato per dirvi poche parole e contemporaneamente per esternarvi il motivo della mia decisione.
Sapete certamente, soldati, quanta rovina, a lui come a noi, abbiano recato la viltà e l’ottusità di Lentulo, e per qual motivo, nell’aspettare gli appoggi da Roma, mi sia visto bloccare la strada per la Gallia. Ora voi capite come me quanto gravoso sia per noi questo frangente. Due eserciti nemici sbarrano la nostra strada: uno dalla parte di Roma, l’altro dalla parte della Gallia. Anche se non ci manca il coraggio, la penuria di cibo e d’altro ci impedisce di stare più a lungo in questi luoghi. Dovunque intendessimo andare, dovremmo aprirci un varco con le spade. Perciò vi ammonisco ad essere pronti a tutto e, quando vi scaglierete in battaglia, ricordate che sono nelle vostre mani: ricchezza, onore, gloria, oltre che la libertà e la patria. Se vinciamo, tutto ciò sarà per noi assicurato: i beni saranno abbondanti, municipi e colonie saranno in nostro potere; se dovessimo cedere alla paura, avremmo il contrario di tutti quei vantaggi. Non può esserci luogo sicuro o amico fedele per chi non si procacciò la sicurezza con le armi.
Inoltre, soldati, noi e i nostri nemici non siamo spinti dalla medesima urgenza: noi combattiamo per la patria, per la libertà, per la vita; a quelli interessa assai poco combattere per il potere di pochi. Perciò gettatevi con ardore nella pugna, memori dell’antico valore. Forse avreste potuto finire i vostri giorni in un vergognosissimo esilio, oppure – spogliati dei vostri beni – vivendo a Roma dell’altrui elemosina: ma siccome queste cose vi sono sembrate indecorose e disdicevoli per veri uomini, avete deciso di riscattarvi con le armi. Se volete uscire dalla ristrettezza, armatevi di coraggio: a nessuno, se non per il vincitore, la guerra si muta in pace. Dunque, è da pazzi sperare di salvarsi fuggendo, dopo aver smesso di tendere le armi contro il nemico. Sempre in battaglia chi molto teme corre il maggiore pericolo. L’audace è invece come un solido muro.
Quando penso a voi, soldati, quando passo in rassegna le vostre imprese, riprendo a sperare fortemente che ce la faremo. Mi persuadono la vostra fermezza, la vostra età, e la situazione estrema in cui ci troviamo che renderebbe risoluti persino i vili. Infatti questo luogo angusto non consente alla schiera dei nostri nemici di circondarci. Dunque se la sorte, nonostante il vostro valore, vi sarà contraria, non morite senza perpetrare la vostra vendetta; non fatevi catturare per poi farvi sgozzare come bestie, piuttosto, combattendo valorosamente, fate pagare la vittoria al nemico a prezzo di lacrime e sangue».
59. Dopo aver detto queste cose, fatta una breve pausa, Catilina ordinò di dare inizio al suono delle trombe e condusse i soldati schierati in un luogo pianeggiante; fatti allontanare i cavalli di tutti, affinché nel pericolo imminente l’animo dei soldati fosse più saldo, a piedi egli stesso, diede istruzioni all’esercito, secondo la conformazione del posto e il numero delle truppe. Ora, siccome lo spazio aperto pianeggiante stava tra montagne da un lato e un burrone dall’altro, collocò di fronte otto coorti e in file più serrate le altre come riserva. Poi sceglie i centurioni109 e, fra i soldati semplici, quelli scelti e li colloca in prima fila. Caio Manlio doveva guidare la destra della schiera e un Fiesolano110 la sinistra; egli stesso si pose al centro, coi liberti e i coloni, presso l’aquila che si diceva fosse stata quella dell’esercito di C. Mario durante la guerra contro i Cimbri111.
D’altra parte, C. Antonio, siccome sofferente di podagra, affidò l’esercito alla guida di M. Petreio112 per il motivo che non poteva combattere in prima linea; egli colloca le coorti formate da veterani, arruolati per l’occasione, e dietro di essi il resto dell’esercito, come rinforzo. Poi, andando attorno ai soldati, seduto a cavallo, chiama ciascuno di essi per nome, li esorta, chiede di tenere a mente che dovranno combattere con briganti male armati, per il bene della patria, per i figli, per i templi e il focolare. Uomo d’armi, era stato per più di trentanni nell’esercito tribuno, prefetto, legato, poi pretore, con grande onore; dunque, ben conoscendo i soldati e le loro coraggiose imprese, le menzionava per accendere i loro animi.
60. Orbene, fatto un ultimo controllo generale, Petreio fa squillare le trombe e fa avanzare lentamente le coorti; ugualmente fa l’esercito nemico. Arrivati nel punto dove i soldati armati alla leggera potevano cominciare la battagliarsi levò un grandissimo clamore, mentre accorrevano con le insegne rivolte contro il nemico; lasciate le aste, si combattè con le spade. I veterani, memori dell’antico valore, da vicino incalzano vigorosamente; gli altri, per nulla intimoriti, resistono; si combatte con furore.
Nel frattempo Catilina si aggira, in prima linea, con soldati armati alla leggera, soccorre coloro che cadono, sostituisce i feriti con i sani, egli stesso combatte con coraggio, spesso colpisce il nemico, esegue contemporaneamente i compiti del soldato coraggioso e del valente generale. Petreio, come vide, contro le sue aspettative, che Catilina spiegava grande energia, fa collocare la coorte pretoria al centro contro i nemici e li uccide, come pure fa uccidere coloro che, qua e là, opponevano resistenza; quindi assale gli altri, da entrambi i lati. Manlio e il Fiesolano, che combattevano in prima linea, soccombono. Catilina, quando vide che le sue truppe erano state sbaragliate e che con lui pochi si erano salvati, memore della sua nobile origine e dell’antica dignità, si getta nella mischia dei nemici e là, combattendo, muore trafitto.
61. A battaglia conclusa, si sarebbe potuto vedere con quanto ardire e forza d’animo avesse combattuto l’esercito di Catilina; infatti quasi tutti, da morti, ricoprivano quello spazio che avevano occupato durante il combattimento. Pochi, d’altronde, ossia quelli che la coorte pretoria aveva disperso, giacevano morti poco lontano, tutti, comunque, feriti al petto. Catilina fu ritrovato lontano dai suoi fra i cadaveri nemici, ancora con un fil di vita, mentre mostrava nel volto quella stessa ferocia che aveva avuto da vivo. Insomma, di tutta quella gente, nessun libero cittadino fu catturato in battaglia o in fuga: talmente ciascuno aveva risparmiato la vita sua e quella del nemico ugualmente. E tuttavia neppure l’esercito del popolo romano ottenne una vittoria facile e incruenta. Molti, infatti, che si erano allontanati dall’accampamento in avanscoperta o per spogliare i nemici delle armi, nel rivoltare i cadaveri dei nemici, trovavano fra questi chi un amico, chi un ospite, chi un parente; ci fu anche chi riconobbe suoi nemici personali. Così per tutto l’esercito si agitavano sentimenti diversi: letizia e cordoglio, pianti e grida d’esultanza.