LIBRO SECONDO
Il divino Augusto

 

1. Che la gens Ottavia fosse un tempo tra le principali di Velletri 1, lo dimostrano molti elementi. Anzitutto un quartiere nella zona più popolosa della cittadina si chiamava già da tempo Ottavio, e poi vi si mostrava un altare consacrato a un Ottavio: questi, comandante supremo in una guerra contro i confinanti, stava celebrando un sacrificio a Marte, quando fu annunciato un attacco nemico; allora strappò dal fuoco le viscere della vittima ancora semicrude, le fece a pezzi e senz’altro uscì in battaglia tornandone vincitore. Si conservava pure un pubblico decreto, con cui si stabiliva che anche in avvenire si offrissero nello stesso modo le viscere a Marte, e i resti si portassero agli Ottavii.

 

2. Quella gens fu accolta in Senato dal re Tarquinio Prisco tra le gentes minori; fu poi da Servio Tullio trasferita nel patriziato; ma nel corso del tempo era ritornata alla plebe, e solo dopo lungo intervallo ritornò al patriziato grazie al Divino Giulio. Il primo della famiglia che ebbe una magistratura per voto del popolo fu Gaio Rufo. Costui, che fu questore 2, ebbe due figli, Gneo e Gaio. A partire da essi la gens Ottavia si divise in due rami, di ben diversa posizione: Gneo e poi tutti i suoi discendenti esercitarono le più alte cariche; invece Gaio e i suoi discendenti, o per caso o per loro scelta, restarono nell’ordine equestre sino al padre di Augusto. Il bisavolo di Augusto, durante la seconda guerra Punica, prestò servizio in Sicilia come tribuno militare agli ordini di Emilio Papo; il nonno si accontentò di cariche municipali e invecchiò in piena tranquillità con un ingente patrimonio. Ma questo lo hanno raccontato altri. Augusto stesso, invece, scrive semplicemente di essere disceso da famiglia equestre, antica e ricca, nella quale il primo senatore era stato suo padre. Marco Antonio 3 gli rinfaccia un bisavolo liberto, un cordaio della zona di Turi, e un nonno agente di cambio. Sugli avi paterni di Augusto non ho trovato altro.

 

3. Il padre, Gaio Ottavio, fin dalla giovinezza ebbe un cospicuo patrimonio ed alta considerazione, sicché mi stupisco che anche di lui alcuni abbiano detto che era un agente di cambio, o addirittura un galoppino elettorale o un attivista del Campo Marzio; in realtà, allevato tra cospicue ricchezze, conseguì facilmente, ed egregiamente esercitò, le cariche pubbliche. Dopo la pretura ebbe in sorte la Macedonia; e mentre raggiungeva la sua destinazione, annientò, per espresso ordine straordinario del Senato, alcuni schiavi fuggiaschi, un residuo delle bande di Spartaco e di Catilina, che la facevano da padroni nel territorio di Turi 4. Governò la provincia con energia, ma anche con altrettanta giustizia. Sconfitti in una grande battaglia i Bessi e i Traci 5, trattò così bene gli alleati, che Cicerone, in alcune lettere che ci sono conservate 6, esorta e sollecita il fratello – che con reputazione poco lusinghiera esercitava allora il proconsolato d’Asia – a seguire l’esempio del suo vicino Ottavio per tenersi buoni gli alleati.

 

4. Al ritorno dalla Macedonia, prima di potersi candidare al consolato, morì improvvisamente; lasciava tre figli: Ottavia maggiore – che aveva avuto da Ancaria –, Ottavia minore e Augusto, che aveva avuto da Azia. Azia era nata da Marco Azio Balbo e da Giulia sorella di Gaio Cesare 7. Per ceppo paterno, Balbo era di Ariccia. Aveva molti senatori tra i ritratti di famiglia, e per parte di madre era strettamente imparentato con Pompeo Magno. Dopo la pretura fu tra i venti che, in forza di una legge Giulia, suddivisero tra la plebe il territorio di Capua. Eppure il medesimo Antonio, di cui dicevo più sopra, volendo infangare anche l’ascendenza materna di Augusto, gli rinfaccia che il suo bisavolo era di origine africana ed era stato ora profumiere ora mugnaio ad Ariccia. Cassio Parmense, in una lettera, taccia Augusto da nipote non solo di un mugnaio, ma anche di un cambiavalute. Dice così: «La tua farina materna ti viene dal più grossolano mulino di Ariccia; la impastò, con le sue mani imbrattate di denaro, un cambiavalute di Nèrulo».

 

5. Augusto nacque sotto i consoli Marco Tullio Cicerone e Gaio Antonio 8, il 23 settembre, poco prima dell’alba, nella zona del Palatino presso le Teste di Bue, dove ora c’è un santuario, collocatovi però qualche tempo dopo la sua morte. Infatti, come risulta dagli Atti del Senato, un giovane patrizio di nome Gaio Letorio, per stornare da sé una pena, piuttosto grave, per adulterio, appellandosi all’età e ai suoi natali, anche questo sostenne dinanzi ai senatori, che egli era il proprietario, e quasi il guardiano, di quel suolo che primo il Divino Augusto aveva toccato nascendo; e chiese di essere offerto in dono a quello che era, in certo modo, il suo proprio e particolare dio. E si decretò che quella parte del palazzo venisse consacrata.

 

6. Ancor oggi si mostra la casetta in cui egli fu allevato, nella terra dei suoi avi alla periferia di Velletri: molto modesta e simile a un piccolo magazzino; i vicini sono convinti che lì sia pure nato. Ora ci si fa scrupolo ad entrarvi, se non per necessità e devotamente: è ormai radicata opinione che a chi vi entri senza seri motivi venga addosso una specie di orrore e paura; e la credenza è stata confermata anche recentemente: il nuovo proprietario del casolare, o per caso o per esperimento, vi si recò per dormirvi, e accadde che dopo poche ore, nella notte, ne fu buttato fuori da un’improvvisa e inspiegabile forza; lo si trovò poi quasi inanimato, con tutto il suo letto, davanti alla porta.

 

7. Bambino, gli fu messo l’appellativo di Turino, o in ricordo dell’origine dei suoi avi, o perché nella zona di Turi, quando lui era appena neonato, suo padre Ottavio aveva condotto felicemente l’azione contro gli schiavi fuggiaschi. Che avesse quell’appellativo di Turino, posso affermarlo con una prova ben precisa: io stesso ho trovato un’antica statuetta di bronzo, di lui bambino, che reca iscritto questo nome in lettere di ferro ormai quasi cancellate dal tempo: ne ho fatto dono all’imperatore 9, ed ora è venerata tra i Lari della sua stanza da letto. Ma anche da Marco Antonio, nelle sue lettere, è spesso chiamato sprezzantemente Turino, e Augusto gli risponde semplicemente che si meraviglia che gli si getti in faccia come insulto il suo primo nome. Poi assunse il nome di Gaio Cesare e successivamente quello di Augusto, l’uno in forza del testamento del prozio materno, l’altro per iniziativa di Munazio Planco 10: alcuni proponevano che lo si chiamasse Romolo, in quanto anche lui, in certo modo, fondatore di Roma; ma prevalse l’idea di chiamarlo piuttosto Augusto, con un appellativo non solo nuovo, ma anche più pomposo: anche i luoghfvenerandi, nei quali, dopo una cerimonia augurale, si consacra qualche cosa, sono chiamati augusti, da auctus, cioè accresciuto, o da avium gestus o gustus, cioè dal movimento o degustazione degli uccelli. Lo dice anche Ennio 11, scrivendo:

 

Poi che Roma gloriosa fu fondata

con augusto presagio.

 

8. A quattro anni perse il padre. A undici anni, davanti al pubblico riunito, tenne l’elogio funebre della nonna Giulia. Quattro anni più tardi assunse la toga virile. E in occasione del trionfo Africano di Cesare ricevette in dono le ricompense militari, sebbene, data l’età, non avesse partecipato a quella guerra. Successivamente, quando suo zio partì per la Spagna contro i figli di Gneo Pompeo, egli, sebbene ancora convalescente da una grave malattia, lo raggiunse con pochissimi compagni attraverso zone infestate dai nemici e facendo anche naufragio: si accattivò decisamente il favore di Cesare, che ne apprezzò sùbito anche il carattere oltre che l’arditezza del viaggio. Mentre Cesare, riconquistate le Spagne, preparava la spedizione contro i Daci e poi contro i Parti, egli, mandato avanti ad Apollonia 12, si dedicò agli studi. E appena seppe che era stato ucciso e che ne era lui l’erede, fu a lungo in dubbio se dovesse chiedere il sostegno delle più vicine legioni, ma poi mise da parte quel progetto, come precipitoso e prematuro. Comunque, tornato a Roma, rivendicò il possesso dell’eredità, sebbene sua madre fosse perplessa e il suo patrigno Marcio Filippo, già console, cercasse in ogni modo di dissuaderlo. Da quel momento, procuratosi degli eserciti, governò lo Stato prima con Marco Antonio e con Marco Lepido, poi per circa dodici anni soltanto con Antonio, infine, per quarantaquattro anni, da solo.

 

9. Premessa questa sintesi della sua vita, ne svilupperò ora dettagliatamente le diverse parti, non cronologicamente, ma per settori, perché con maggior chiarezza si possano esporre ed apprendere. Combattè cinque guerre civili: quella di Modena, quella di Filippi, quella di Perugia, quella di Sicilia e quella di Azio: la prima e l’ultima contro Marco Antonio, la seconda contro Bruto e Cassio, la terza contro Lucio Antonio fratello del triumviro, la quarta contro Sesto Pompeo figlio di Gneo.

 

10. Ed ecco la causa iniziale di tutte queste guerre. Anzitutto, ritenendo che non ci fosse nulla di più urgente che vendicare l’uccisione dello zio e tutelarne gli atti, sùbito, appena ritornò da Apollonia, decise di perseguire Bruto e Cassio: prima con la forza mentre non se lo aspettavano, poi – dato che quelli, fiutato il pericolo, se l’erano svignata – a termini di legge, deferendoli in contumacia come imputati di assassinio. Poi, dato che le autorità, a cui toccava quel compito, non osavano indire i Ludi per la Vittoria di Cesare, li diede egli stesso 13. Allo scopo, poi, di realizzare con maggiore certezza anche tutto il resto, si candidò tribuno della plebe – al posto di uno di essi che era morto – sebbene egli fosse patrizio e non ancóra senatore. Senonché, alle sue iniziative si oppose il console Marco Antonio, proprio quello che egli aveva sperato suo principale sostenitore. Antonio non gli lasciava godere, in nessun campo, nemmeno il diritto comune e tradizionale senza patteggiare con lui gravosissimi compensi; passò allora agli ottimati, a cui sentiva che Antonio era inviso, soprattutto perché questi tentava con le armi di espellere Decimo Bruto 14, assediandolo a Modena, dalla provincia datagli da Cesare e confermatagli dal Senato. Dietro consiglio di alcuni degli ottimati, Augusto assoldò contro di lui dei sicarii; ma, scopertasi questa brutta faccenda, temendo di essere a sua volta in pericolo, chiamò a raccolta i veterani di Cesare, in aiuto suo e della Repubblica, spendendo in largizioni tutto quanto potè. Fu invitato ufficialmente a comandare in qualità di propretore l’esercito che aveva raccolto, e, insieme con Irzio e Pansa, che avevano assunto il consolato, portare aiuto a Decimo Bruto. In poco più di due mesi e con due battaglie 15 concluse la guerra affidatagli. Quanto alla prima, Antonio scrive che egli scappò, e ricomparve solo due giorni dopo, senza il mantello di generale e senza cavallo; quanto alla seconda, risulta con certezza che egli compì il suo dovere non solo di comandante ma anche di soldato: in mezzo alla mischia, essendo stato gravemente ferito l’aquilìfero della sua legione, si caricò lui stesso l’aquila in spalla e per un pezzo la portò.

 

11. Ma poiché in questa guerra Irzio perì sul campo di battaglia e Pansa poco dopo in séguito a una ferita, si diffuse la voce che entrambi avesse eliminato lui, per restare da solo al comando degli eserciti vittoriosi, una volta che Antonio fosse stato costretto alla fuga, e lo Stato fosse privo dei due consoli. Almeno la morte di Pansa fu tanto sospetta, che il medico Glicone fu arrestato con l’accusa di aver versato del veleno sulla ferita. Aquilio Nigro aggiunge che Irzio, l’altro console, fu ucciso da Augusto stesso nella mischia della battaglia.

 

12. Ma quando venne a sapere che Antonio, dopo la fuga, era stato accolto da Marco Lepido, e che gli altri condottieri e i loro eserciti si legavano al partito avverso, senza esitazione abbandonò la causa degli ottimati: a pretesa giustificazione del mutato atteggiamento, interpretava calunniosamente le parole e gli atti di alcuni di essi, che lo avrebbero definito un ragazzo o avrebbero affermato che bisognava coprirlo di fiori e innalzarlo al cielo 16, per non rendere la dovuta riconoscenza a lui stesso e ai suoi veterani. E, per meglio dimostrare che era pentito di aver aderito alla fazione avversa, colpì gli abitanti di Norcia con una multa enorme e tale che non potevano pagarla, cosicché li bandì dalla città; e questo perché avevano eretto a spese pubbliche un sepolcro per i concittadini caduti nella guerra di Modena, con un’iscrizione che li diceva morti per la libertà.

 

13. Stretta alleanza con Antonio e Lepido, sebbene debole e malato concluse con due battaglie anche la guerra di Filippi 17. Ma nella prima di esse, spogliato persino dell’accampamento, a stento si era salvato rifugiandosi nell’ala di Antonio. E non si moderò nella vittoria, anzi, inviata a Roma la testa di Bruto perché fosse collocata ai piedi della statua di Cesare, infierì contro tutti i prigionieri illustri, non senza oltraggi anche verbali. Per esempio, si dice che a uno che gli chiedeva supplichevolmente la sepoltura, rispose che ben presto ci avrebbero pensato gli avvoltoi. Altri due, padre e figlio, che gli chiedevano la vita, li invitò a tirare a sorte o a giocare tra loro alla morra, per stabilire a quale dei due dovesse essere concessa; poi li stette a guardare entrambi morire: dopo che il padre, che spontaneamente si era offerto, era stato ucciso, anche il figlio volontariamente si diede la morte. Perciò gli altri, e tra essi Marco Favonio 18, il famoso emulo di Catone, mentre, incatenati, venivano condotti al supplizio, salutarono rispettosamente Antonio col titolo di generale, ma lui lo coprirono degli insulti più sanguinosi. Dopo la vittoria, divisisi i compiti, mentre Antonio si assumeva di riordinare l’Oriente, Augusto si incaricò di ricondurre in Italia i veterani e di sistemarli in terreni municipali. Con ciò si inimicò sia i veterani sia i vecchi proprietari: questi si lamentavano di essere cacciati, quelli di non essere trattati in proporzione ai loro meriti.

 

14. In quel tomo di tempo, Lucio Antonio, forte del consolato che esercitava e della potenza di suo fratello, macchinava rivolgimenti politici; Augusto lo costrinse a rifugiarsi a Perugia e ad arrendersi poi per fame: ma in questa operazione non mancò di correre gravi pericoli, sia prima della guerra, sia durante la guerra stessa. Per esempio, durante uno spettacolo di giochi aveva fatto espellere da un suo subordinato un soldato che si era seduto nel settore dei cavalieri, e da parte dei suoi denigratori era stata diffusa la voce che poi egli lo avesse fatto torturare ed uccidere: allora mancò assai poco che, accorsa una folla di soldati indignata, egli venisse ucciso. Lo salvò il fatto che ricomparve incolume e senza segni di violenza quel soldato di cui si lamentava la perdita. Un’altra volta, mentre stava celebrando un sacrificio intorno alle mura di Perugia, fu quasi ammazzato da un gruppo di gladiatori che aveva fatto una sortita dalla città.

 

15. Conquistata Perugia, prese duri provvedimenti contro moltissimi; e a quelli che chiedevano perdono o cercavano di giustificarsi, rispondeva invariabilmente: «Devi morire». Alcuni hanno scritto che scelse trecento uomini di entrambi gli ordini, fra quelli che si erano arresi, e li sacrificò come vittime, alle Idi di marzo, presso l’altare eretto in onore del Divino Giulio. Ci fu pure chi raccontò che egli ricorse alle armi a bella posta, perché, presentatasi l’occasione di avere Lucio Antonio come capo, uscissero allo scoperto i suoi avversari segreti e quelli che erano tenuti buoni più dalla paura che da autentica volontà: così, una volta sconfìttili e confiscati i loro beni, egli poteva pagare ai veterani i premi promessi.

 

16. La guerra di Sicilia fu tra le prime che intraprese, ma la trascinò a lungo, interrompendola ripetutamente, ora per ricostituire la flotta, che aveva perduto in due naufragi, per di più d’estate, ora concludendo una pace, richiesta con insistenza dal popolo per l’interruzione dei rifornimenti di viveri e per la conseguente fame che si aggravava. Finalmente, costruite le navi ripartendo da zero e affrancati e messi ai remi ventimila schiavi, realizzò il porto Giulio presso Baia, facendo giungere il mare nei laghi di Lucrino e di Averno: e dopo avervi per tutto l’inverno esercitato le sue truppe, sconfisse Pompeo tra Milazzo e Nàuloco 19. Ma verso l’ora della battaglia fu vinto da un sonno così pesante, che dovettero svegliarlo gli amici perché egli desse il segnale. Probabilmente è da ciò che fu offerta ad Antonio l’occasione per rimproverargli che non era riuscito nemmeno a guardare in faccia lo schieramento nemico, e sdraiato, con gli occhi rivolti al cielo, era rimasto a giacere istupidito, e non si era rialzato né era venuto al cospetto dei soldati prima che Marco Agrippa avesse messo in fuga le navi nemiche. Altri gli rinfacciano una frase da lui pronunciata, e un gesto da lui compiuto: perdute le flotte per una tempesta, avrebbe gridato che anche a dispetto di Nettuno egli otterrebbe la vittoria; poi, nel giorno dei giochi del circo che seguirono, avrebbe escluso dalla solenne processione la statua del dio. Raramente in alcun’altra guerra egli affrontò più numerosi e più grandi pericoli. Trasferito in Sicilia un esercito, mentre ritornava sul continente per prendere il resto delle truppe, fu colto alla sprovvista da Demòcare e Apollòfane, luogotenenti di Pompeo 20; assai a stento e con una sola imbarcazione, riuscì alla fine a mettersi in salvo. Un’altra volta si recava a piedi a Reggio, e quando fu nei dintorni di Locri vide in lontananza delle biremi pompeiane che costeggiavano la zona: credendo che fossero navi sue, scese fino alla riva, e quasi quasi fu catturato. Sempre nella stessa circostanza, mentre fuggiva per sentieri fuori mano, uno schiavo di Emilio Paolo 21 che lo accompagnava, ancóra risentito del fatto che Paolo padre fosse stato da lui proscritto, vedendo che gli si offriva l’occasione di vendicarlo, tentò di ucciderlo. Dopo la fuga di Pompeo, uno dei suoi due colleghi, Marco Lepido – che egli aveva chiamato in aiuto dall’Africa – spavaldamente contando sulle sue venti legioni, con terrore e minacce rivendicava per sé il primo posto: Augusto riuscì a spogliarlo dell’esercito e, quando l’altro gli si rivolse supplichevole, gli concesse la vita, ma lo relegò per sempre a Circeo.

 

17. L’alleanza con Marco Antonio era sempre stata dubbia ed incerta, mal rabberciata da varie riconciliazioni: alla fine egli la ruppe definitivamente, e, per meglio dimostrare che si trattava di un cittadino degenere, fece aprire e leggere pubblicamente il testamento che quello aveva lasciato a Roma designando tra gli eredi anche i figli avuti da Cleopatra. Tuttavia, quando Antonio fu dichiarato nemico dello Stato, gli rimandò tutti i parenti ed amici, e tra gli altri Gaio Sosio e Tito Domizio, che in quel momento erano ancóra consoli. Dispensò ufficialmente anche i Bolognesi, che da gran tempo erano clienti degli Antonii, dallo schierarsi dalla sua parte con tutto il resto d’Italia. Non molto tempo dopo vinse la battaglia navale di Azio 22: lo scontro si protrasse tanto a lungo, che egli, dopo la vittoria, dovette passare la notte sulla nave. Da Azio si ritirò nei quartieri invernali a Samo, ma, turbato dalle notizie di una sollevazione dei soldati che chiedevano premi e congedo – erano soldati d’ogni genere, che, dopo la vittoria, egli aveva mandato avanti, a Brindisi – riprese la via dell’Italia. Durante la traversata dovette però lottare due volte con la tempesta: una prima volta tra il promontorio del Peloponneso e quello dell’Etolia, una seconda volta intorno ai monti Ceraunii 23. In entrambe le circostanze fu affondata una parte delle sue navi libùmiche: di quella in cui viaggiava lui si sfasciarono le attrezzature e il timone. Trattenutosi a Brindisi non più di ventisette giorni – il tempo che gli occorse per regolare ogni cosa secondo i desideri dei soldati –, costeggiando l’Asia e la Siria puntò sull’Egitto. Assediata Alessandria, dove Antonio si era rifugiato con Cleopatra, in breve se ne impadronì. Antonio, veramente, aveva tentato, sia pure tardivamente, di trattare la pace, ma egli lo spinse a darsi la morte e lo poté vedere morto. Quanto a Cleopatra, teneva moltissimo a riservarla al suo trionfo; e le mandò persino alcuni Psilli per sùggeme il sangue infetto e il veleno 24, dato che si riteneva che fosse stata uccisa dal morso di un serpente. Concesse ad entrambi l’onore della sepoltura comune, e fece terminare il sepolcro da essi incominciato. Antonio il giovane, il maggiore dei due figli nati da Fulvia, egli lo fece strappare dalla statua del Divino Giulio, presso la quale dopo molte e vane preghiere si era rifugiato, e lo mise a morte. Analogamente Cesarione, che Cleopatra diceva di aver avuto da Cesare, riacciuffato mentre fuggiva, fu da lui fatto morire. Gli altri figli di Antonio e della regina, come se fossero suoi parenti, non solo li risparmiò, ma anche poi li sostenne e li favorì secondo la condizione di ciascuno.

 

18. Nello stesso periodo, contemplato con i suoi occhi il sarcofago e il corpo di Alessandro Magno, tratto fuori dal sepolcro, lo venerò, ponendogli una corona d’oro e cospargendolo di fiori; e quando gli fu chiesto se volesse visitare anche il sepolcro dei Tolomei, rispose di aver voluto vedere un re, non già dei morti. Ridusse l’Egitto a provincia romana e, per renderlo più fertile e quindi più adeguato all’approvvigionamento di Roma, fece ripulire, servendosi di manodopera militare, tutti i canali in cui trabocca il Nilo, ormai, col passare del tempo, intasati dal limo. Perché il ricordo della sua vittoria ad Azio fosse più glorioso anche per l’avvenire, fondò presso Azio la città di Nicòpoli, e in essa istituì giochi quinquennali; inoltre ingrandì l’antico tempio di Apollo e consacrò a Nettuno e a Marte il luogo dell’accampamento da lui usato, adorno di trofei navali.

 

19. Ci furono poi avvisaglie di moti rivoluzionari e parecchie congiure, scoperte però, grazie a denunce, prima che prendessero piede: ora una ora l’altra egli le represse. Ce ne fu di Lepido il giovane, poi di Varrone Murena e Fannio Cepione, poi ancóra di Marco Egnazio, quindi di Plauzio Rufo e di Lucio Paolo, marito di sua nipote; oltre a queste, quella di Lucio Audasio, imputato di false scritture, vecchio e malandato, e ancóra, di Asinio Epicadio, un mezzosangue di razza illirica; infine quella di Tèlefo, schiavo nomenclatore 25 di una donna: effettivamente, nemmeno dalle congiure di persone di infimo rango egli fu al sicuro. Audasio ed Epicadio avevano progettato di rapire, per portarli agli eserciti, sua figlia Giulia e suo nipote Agrippa dalle isole in cui erano relegati; Tèlefo, convinto che a lui fosse dovuto dal fato il dominio di Roma, aveva progettato di aggredire Augusto stesso e il Senato. Non basta: una volta fu sorpreso vicino alla sua camera da letto, armato di un coltello da caccia, un vivandiere dell’esercito illirico che aveva eluso le guardie; non si sa se fosse uno squilibrato o se la sua pazzia fosse una finta: fatto sta che non se ne potè cavare niente nemmeno con la tortura.

 

20. Due sole guerre esterne egli fece personalmente: quella di Dalmazia, ancóra giovanissimo, e quella contro i Càntabri dopo sconfitto Antonio 26. In quella di Dalmazia fu anche ferito: in una battaglia fu colpito da una pietra al ginocchio destro, in un’altra fu ferito ad entrambe le braccia dal crollo di un ponte. Le altre guerre le fece servendosi di suoi delegati; però, durante alcune campagne Pannòniche e Germaniche, o intervenne anche di persona o non ne era lontano, essendosi spinto da Roma fino a Ravenna o a Milano o ad Aquileia.

 

21. Sottomise, o di persona o comunque sotto i suoi auspici, la Cantàbria, l’Aquitania, la Pannonia, la Dalmazia con tutto l’Illirico, e anche la Rezia e i Vindèlici e i Salassi, popolazioni alpigiane 27. Fermò anche le incursioni dei Daci 28, annientando tre loro condottieri con gran parte delle loro truppe, respinse i Germani al di là dell’Elba; ma i Suebi e i Sigambri, che si arrendevano, trasferì in Gallia e stanziò in territori vicini al Reno. Anche altre popolazioni poco quiete ridusse all’obbedienza. A nessun popolo portò guerra senza giusti e ineludìbili motivi; e fu tanto lontano dalla brama di estendere in qualsiasi modo l’impero o di accrescere la propria gloria, che anzi costrinse i capi di alcuni gruppi barbari a giurare nel tempio di Marte Vendicatore che si sarebbero attenuti ai patti e alla pace che chiedevano; ad alcuni poi chiese un nuovo tipo di ostaggi, cioè delle donne, perché si rendeva conto che si disinteressavano dei pegni maschili: e tuttavia lasciò sempre a tutti la facoltà di riprendersi gli ostaggi quando volessero. E quanto a quelli che troppo spesso o troppo slealmente si ribellavano, non li punì mai più gravemente che vendèndone i prigionieri, a patto però che non fossero schiavi in una zona vicina e che non fossero liberati prima di trent’anni. Con questa fama di forza congiunta a moderazione indusse a inviare ambasciatori, per chiedere l’amicizia sua e del Popolo Romano, anche gli Indiani e gli Sciti, conosciuti solo per sentito dire. Anche i Parti gli cedettero facilmente l’Armenia, quando la rivendicò, e restituirono, quando le chiese, le insegne militari che avevano tolto a Marco Crasso e Marco Antonio 29; per di più offrirono ostaggi; infine, una volta che molti si contendevano il trono, non accettarono se non il re scelto da lui.

 

22. Il tempio di Giano Quirino era stato chiuso solo due volte prima di lui 30. Ebbene, in uno spazio di tempo di gran lunga più breve, Augusto, raggiunta la pace per terra e per mare, lo chiuse tre volte. Due volte entrò in Roma con gli onori dell’ovazione: una prima volta dopo la guerra di Filippi, una seconda volta dopo la guerra di Sicilia. Celebrò tre trionfi curuli: quello Dalmatico, quello Azìaco e quello Alessandrino, tutti in tre giorni consecutivi.

 

23. Gravi e ignominiose sconfitte subì solo due volte, entrambe in Germania, quella di Lollio e quella di Varo 31. Ma quella di Lollio fu più disonorevole che dannosa; quella di Varo, invece, fu una tragedia quasi rovinosa: furono massacrate tre legioni con il loro generale e con tutti i loro ufficiali e ausiliari. Quando ne giunse la notizia, Augusto dispose pattuglie qua e là per la città per evitare che scoppiassero disordini, e prorogò il comando ai governatori delle province, perché gli alleati fossero tenuti a bada da uomini ormai esperti e pratici. Promise in voto anche solenni giochi a Giove Ottimo Massimo, s’egli riportasse a più felice stato la repubblica: lo stesso si era fatto al tempo delle guerre contro i Cimbri e contro i Marsi 32. Raccontano ch’egli rimase tanto stravolto dall’evento, che per mesi e mesi si lasciò crescere barba e capelli, e ogni tanto batteva il capo contro le porte, gridando «Quintilio Varo, ridammi le mie legioni!»; e considerò sempre triste e luttuoso l’anniversario della sconfitta.

 

24. Nel campo militare fece molti mutamenti e innovazioni, ma in qualche settore richiamò in vita antiche tradizioni. Regolò la disciplina con la massima severità. Nemmeno ai suoi luogotenenti consentì, se non a malincuore ed eventualmente nei mesi invernali, di andare a trovare la moglie. Fece vendere all’asta, insieme con tutti i suoi beni, un cavaliere romano, per aver amputato i pollici a due figli allo scopo di evitar loro il servizio militare. Ma poiché vedeva che all’acquisto miravano i pubblicani, lo fece aggiudicare a un suo liberto, perché lo relegasse a vivere in campagna, sia pure come libero. Congedò con ignominia l’intera decima legione che obbediva con una certa riluttanza; altre, che sfrontatamente chiedevano il congedo, sciolse senza accordare loro i vantaggi dei premi maturati per il lungo servizio. Le coorti che avevano abbandonato la posizione, le decimò e poi mantenne ad orzo. I centurioni che avevano abbandonato il loro posto li punì con la pena capitale, esattamente come i soldati semplici. Anche gli altri tipi di colpe punì con diverse pene umilianti: faceva restare in piedi tutto il giorno davanti alla tenda del generale, talvolta anche in semplice tunica e discinti, a volte con in mano una pertica da agrimensore o anche una zolla di terra.

 

25. Dopo le guerre civili, né in pubblica adunanza, né in alcun editto chiamò mai i soldati commilitoni, ma semplicemente soldati, e non permise che fossero chiamati diversamente nemmeno dai suoi figli o figliastri che avessero un comando militare: considerava ciò più adulatorio di quanto esigesse la disciplina militare o la tranquillità dei tempi o la maestà sua e del suo casato. Solo due volte si servì, come soldati, di schiavi affrancati – tranne che a Roma in occasione di incendi e quando si temessero disordini in momenti di scarsezza di viveri –: una volta a presidio delle colonie in prossimità dell’Illirico, una seconda volta a difesa della riva del Reno. Erano ancóra schiavi, la cui consegna egli impose agli uomini o donne più facoltosi; li affrancò immediatamente e li tenne in prima linea, ma non mescolati con quelli di nascita libera né armati allo stesso modo. Come ricompense militari dava più facilmente fàlere e collane, e ogni insegna che fosse d’oro o d’argento, piuttosto che corone castrensi e murali, che avevano valore simbolico. Queste ultime assegnava con la massima parsimonia, senza ricerca di popolarità e spesso anche a soldati semplici. A Marco Agrippa, dopo la sua vittoria navale in Sicilia, tributò un vessillo azzurro. Solo ai condottieri che avevano riportato il trionfo, per quanto suoi compagni di guerra e partecipi delle sue vittorie, non ritenne mai di dover tributare decorazioni, perché anch’essi avevano il diritto di conferirle a chi volessero. Era convinto che ad un perfetto generale niente si confacesse meno della fretta e della temerità. Ripeteva spesso il famoso adagio Affrèttati lentamentel 33 e l’altro

 

È migliore un capitano circospetto che uno ardito 34,

 

e l’altro ancora: «si fa abbastanza in fretta ciò che si fa abbastanza bene». Diceva che non si doveva assolutamente intraprendere una battaglia o una guerra, se non quando si prospettasse maggiore speranza di vantaggio che timore di danno: diceva che quelli che cercavano minimi vantaggi con tutt’altro che minimo rischio erano come quelli che pescassero con un amo d’oro, la cui perdita, se staccatosi, non poteva essere compensata da alcuna buona pesca.

 

26. Assunse cariche ed onori anche prima del tempo legale, alcune poi nuove ed a vita. Si pigliò il consolato a diciannove anni, avvicinando a Roma minacciosamente le sue legioni e inviando chi lo chiedesse per lui a nome dell’esercito; e poiché il Senato si mostrava esitante, il centurione Cornelio, capo della delegazione, gettò indietro il mantello, mostrando l’impugnatura della spada, e non esitò a dire in piena Curia: «Lo farà questa, se non lo farete voi». Esercitò il secondo consolato dopo nove anni, e il terzo con l’intervallo di un solo anno; i successivi, fino all’undicesimo, tutti di séguito. Dopo averne rifiutati molti che gli venivano conferiti, chiese egli stesso, dopo un lungo intervallo – erano trascorsi diciassette anni – il dodicesimo, e, due anni dopo, il tredicesimo: voleva accompagnare nel Foro rivestito della suprema magistratura i due figli Gaio e Lucio per il loro tirocinio, ciascuno a suo turno. I cinque consolati centrali – dal sesto al dodicesimo – li esercitò per tutto l’anno, gli altri, invece, o per nove mesi, o per sei o per quattro o per tre; il secondo, poi, per pochissime ore: il primo di gennaio sedette per un po’ sul seggio curule dinanzi al tempo di Giove Capitolino, poi rinunciò alla carica, mettendo un altro al suo posto 35. Non tutti i consolati inaugurò a Roma: il quarto in Asia, il quinto nell’isola di Samo, l’ottavo e il nono a Tarragona 36.

 

27. Per dieci anni fece parte del triumvirato per la riorganizzazione dello Stato. In esso, per qualche tempo veramente resistette ai colleghi perché non si facessero proscrizioni, ma, una volta iniziate, le esercitò più spietatamente degli altri due. In effetti, mentre quelli, dinanzi a molte personalità, si mostravano spesso arrendevoli alle influenze e alle preghiere, lui solo insistette molto perché non si risparmiasse nessuno, e arrivò a proscrivere il suo tutore Gaio Toranio, che per giunta era stato collega di suo padre Ottavio nella carica di edile. Giulio Saturnino 37 riferisce in più anche questo, che allorché, conclusa la proscrizione, Marco Lepido in Senato giustificava il passato e prospettava una speranza di clemenza per il futuro giacché si era punito abbastanza, lui al contrario dichiarò di aver fissato come limite alle proscrizioni il momento in cui avesse completamente mano libera. Ciò nonostante, in compenso di tanta ostinazione, onorò più tardi con la dignità di cavaliere Tito Vinio Filopèmene, perché si diceva che a suo tempo avesse tenuto nascosto il suo patrono proscritto. Durante l’esercizio di questa stessa magistratura accese molti odii contro di sé. Una volta, mentre teneva un discorso alle truppe – e c’era presente anche una folla di civili – notò che un certo Pinario, cavaliere romano, prendeva furtivamente qualche appunto; allora, ritenendolo un curioso o una spia, lo fece ammazzare seduta stante. A Tedio Afro, console designato, per aver criticato con parole maligne un suo atto, incusse tanta paura con le sue minacce, che quello si buttò giù nel vuoto. Il pretore Quinto Gallio durante la cerimonia del saluto 38 teneva sotto la toga un dittico di tavolette; Augusto sospettò che nascondesse un’arma; ma, non osando sul momento indagare oltre, perché non si trovasse dell’altro, lo fece poco dopo da centurioni e soldati trascinare via dal tribunale e sottoporre a tortura come uno schiavo; non confessò nulla, ma egli lo fece uccidere dopo avergli cavato gli occhi di sua mano. Veramente, egli scrive che Gallio, chiestogli un colloquio, aveva attentato alla sua vita, per cui lo aveva gettato in prigione; poi lo aveva rilasciato interdicendogli però la capitale; e quello era perito per naufragio o per un attacco di pirati. Ricevette la potestà tribunizia a vita: in essa, una prima e una seconda volta si aggregò per cinque anni un collega. Gli attribuirono anche la sovrintendenza ai costumi e alle leggi, anch’essa a vita. Con questa prerogativa, anche senza la carica di censore, fece però tre volte il censimento della popolazione, il primo e il terzo con un collega, il secondo da solo.

 

28. Due volte pensò di restaurare la repubblica: una prima volta sùbito dopo fiaccato Antonio, ricordando che da questo gli era stato ripetutamente rinfacciato che dipendeva proprio da lui il fatto che essa non fosse restaurata; poi, di nuovo, perché stanco di una lunga malattia. In questa occasione, anzi, convocate le autorità e il Senato in casa sua, consegnò loro un rendiconto finanziario dell’impero. Ma, considerando che come privato cittadino egli sarebbe stato sempre in pericolo, e che era rischioso affidare lo Stato all’arbitrio di più persone, continuò a tenerlo in pugno lui. Non si sa se con migliore risultato o con migliore intenzione. Questa intenzione egli non solo la sbandierò di tanto in tanto, ma una volta giunse a proclamarla in un comunicato ufficiale: «Vorrei proprio che mi fosse possibile rimettere al suo posto sana ed indenne la repubblica, e godere il frutto che io cerco di questa restaurazione, di essere detto cioè fondatore di un ottimo Stato, e di portare con me, morendo, la speranza che rimangano salde le fondamenta dello Stato, quali io avrò gettato». Ed egli stesso fu realizzatore del suo voto, sforzandosi in ogni modo a che nessuno avesse a dolersi della nuova situazione. La città non era adorna in proporzione della sua maestà, ed era esposta a inondazioni e ad incendi: ebbene, egli la abbellì a tal punto che giustamente si potè gloriare di lasciarla di marmo, mentre l’aveva ricevuta di mattoni. E, per quanto una mente umana poteva prevedere, la rese sicura anche per l’avvenire.

 

29. Costruì moltissimi edifici pubblici. Eccone i principali: il Foro con il tempio di Marte Vendicatore, il tempio di Apollo sul Palatino, e il tempio di Giove Tonante sul Campidoglio. Il motivo della costruzione del Foro fu il gran numero delle persone e dei processi; non bastavano due Fori: la situazione sembrava esigerne un terzo. Perciò in gran fretta, e quando ancóra non era finito il tempio di Marte, il Foro fu aperto al pubblico, e si stabilì che in esso si facessero esclusivamente i pubblici processi e i sorteggi dei giudici. Il tempio di Marte lo aveva promesso in voto durante la guerra di Filippi, intrapresa per vendicare il padre. Fissò dunque che lì il Senato deliberasse sulle guerre e sui trionfi, che di lì movessero le autorità che partissero per le province con poteri militari, e che lì deponessero le insegne del trionfo quelli che tornassero vincitori. Il tempio di Apollo fu da lui eretto in quel settore del suo palazzo sul Palatino, che, colpito da un fulmine, gli aruspici avevano detto che era rivendicato a sé dal dio. Vi aggiunse un portico con una biblioteca latina e greca: lì egli, ormai vecchio, riunì spesso il Senato e passò in rassegna le decurie dei giudici. Il tempio di Giove Tonante lo consacrò per essere scampato a un pericolo durante la spedizione contro i Càntabri: mentre egli viaggiava di notte, un fulmine sfiorò la sua lettiga e uccise uno schiavo che la precedeva facendo luce. Alcune opere compì anche sotto nome altrui, cioè dei nipoti, della moglie e della sorella; per esempio il portico e la basilica di Gaio e Lucio, così pure il portico di Livia e di Ottavia e il teatro di Marcello. Inoltre incoraggiò spesso i più eminenti cittadini ad abbellire la città, secondo le loro disponibilità, con monumenti nuovi o restaurati ed arricchiti. Così, molti ne furono allora costruiti da molti cittadini; per esempio il tempio di Ercole alle Muse da Marcio Filippo, quello di Diana da Lucio Cornificio, l’Atrio delle Libertà da Asinio Pollione, il tempio di Saturno da Munazio Planco, un teatro da Cornelio Balbo, un anfiteatro da Statilio Tauro, infine molti e notevoli edifici da Marco Agrippa 39.

 

30. Suddivise l’area della città in quartieri e rioni, e stabilì che agli uni sovrintendessero magistrati annuali estratti a sorte, agli altri dei commissari scelti tra la plebe della zona. Contro gli incendi escogitò guardie notturne e vigili; per far fronte alle inondazioni del Tevere, fece allargare e ripulire il letto del fiume, ormai intasato da detriti e ristretto dall’estensione degli edifici. Perché si potesse, poi, raggiungere più facilmente la capitale da ogni parte, assunto su di sé l’onere di riparare la via Flaminia sino a Rimini, distribuì le altre strade – da pavimentare col denaro ricavato dal bottino – tra gli uomini che avevano avuto l’onore del trionfo. Edifici sacri ormai cadenti per vetustà o distrutti dal fuoco, ricostruì, e adornò – come gli altri – di ricchissimi doni: per esempio, nella cella del tempio di Giove Capitolino fece affluire sedicimila libbre d’oro e gemme e perle, con una sola donazione del valore di cinquanta milioni di sesterzi.

 

31. Quando poi finalmente, morto Lèpido 40, assunse il pontificato massimo, che mai aveva voluto togliergli finché fu vivo, radunò tutti i libri profetici, greci e latini, che circolavano, ma senza alcuna o con scarsa autorità – erano più di duemila – e li fece bruciare. Conservò soltanto i libri Sibillini, ma anche questi operando una scelta; e li ripose in due teche dorate, sotto la base dell’Apollo Palatino 41. Riportò all’ordine primitivo il calendario, che era stato riordinato dal divino Giulio, ma che poi, per incuria, era stato scompigliato e stravolto. E, nel riordinamento, chiamò Augusto, dal suo appellativo, il mese di Sestile – piuttosto che il Settembre in cui era nato – perché in esso egli aveva ottenuto il primo consolato e notevoli vittorie. Accrebbe il numero e la dignità dei sacerdoti, ma anche le prerogative, soprattutto delle vergini Vestali. E in un momento in cui bisognava, al posto di una defunta, sceglierne un’altra, e molti brigavano per non far rientrare nel sorteggio le loro figlie, egli giurò che se una delle sue nipoti avesse avuto l’età, egli l’avrebbe offerta. Ripristinò anche alcune delle antiche cerimonie, che a poco a poco erano cadute in disuso: per esempio, l’Augurio della Salute, il sacerdozio del flamine Diale, la festività dei Lupercali, i Ludi Secolari e i Ludi Compitali42. Durante i Lupercali vietò che corressero ragazzi ancóra imberbi; analogamente, nei Secolari proibì che ragazzi di entrambi i sessi assistessero a spettacoli notturni senza qualche parente più anziano. Stabilì che i Lari Compitali due volte l’anno fossero ornati di fiori, in primavera e in estate. Tributò un onore assai vicino a quello degli dèi immortali alla memoria dei condottieri che avevano reso grandissimo, da minimo che era, il dominio del Popolo Romano. Perciò, anzitutto restaurò i loro monumenti, conservando le iscrizioni primitive, e poi consacrò statue di tutti loro, in abito trionfale, nei due portici del suo foro. Con un comunicato ufficiale dichiarò di aver ideato ciò perché i cittadini esigessero che prima lui stesso finché vivesse, e poi i prìncipi futuri, si ispirassero al modello di quegli uomini. Anche la statua di Pompeo, tolta dalla Curia in cui era stato ucciso Cesare, fu da lui collocata dinanzi alla loggia del teatro di Pompeo stesso, sopra un’arcata di marmo.

 

32. Con grave danno per la comunità si perpetuavano in conseguenza della sfrenatezza delle guerre civili, o erano sorte in tempo di pace, parecchie abitudini tutt’altro che edificanti: parecchi briganti si aggiravano apertamente armati, con la scusa di difendersi; viandanti rapiti nelle campagne, liberi o schiavi che fossero, venivano trattenuti negli ergastoli dei proprietari 43 ; si formavano parecchie bande, con l’etichetta di nuove associazioni, per commettere qualsiasi misfatto. Allora Augusto bloccò i possibili brigantaggi disponendo posti di guardia in posizioni strategiche, ispezionò gli ergastoli, e sciolse le associazioni, tranne quelle antiche e legittime. Bruciò i registri degli antichi debitori del Tesoro, la principale sorgente di accuse calunniose. Aggiudicò a chi ne aveva il possesso i luoghi pubblici della capitale di incerta attribuzione. Cancellò i nomi di uomini eternamente imputati, dalle cui disgrazie derivava soltanto gioia ai loro avversari, e fissò che, se qualcuno volesse tornare a farsene bersaglio, andasse incontro al rischio di identica pena. Ad evitare che misfatti o controversie finissero in un nulla di fatto per impunità o lungaggine, destinò più di trenta giorni, che prima venivano occupati dai Ludi Onorari44, alla trattazione delle cause. Alle tre decurie dei giudici aggiunse una quarta, tratta da cittadini meno abbienti, che fu chiamata dei ducenari45: giudicava reati di minor valore. Scelse i giudici con un minimo di trent’anni, cioè cinque anni meno di quanto si usasse prima. E poiché parecchi recalcitravano al servizio di giudici, a fatica concesse che a turno le decurie avessero un anno di vacanza, e che si sospendesse la trattazione delle cause che prima si discutevano in novembre e in dicembre.

 

33. Amministrò lui stesso la giustizia, senza sosta, talvolta anche fino a notte; se fisicamente era indisposto, si faceva sistemare in lettiga dinanzi al tribunale, o anche rimaneva a letto in casa sua. E rese giustizia non solo con il massimo scrupolo, ma anche con grandissima indulgenza: per esempio, a un reo di parricidio, perché non fosse cucito entro il sacco di cuoio, che è la pena con cui vengono puniti solo i rei confessi 46, si racconta che domandò: «Naturalmente tu non hai ucciso tuo padre, vero?». Una volta si discuteva di un falso testamento, e, in base alla legge Cornelia tutti i firmatari erano ugualmente responsabili: ma egli diede ai suoi giudici a làtere non due tavolette, una per la condanna e una per l’assoluzione, ma anche una terza, per il perdono, riservato a quelli che fosse risultato che avevano firmato per altrui frode o per proprio errore. Ogni anno delegava gli appelli dei residenti in Roma al pretore urbano, ma quelli dei provinciali ad uomini di rango consolare: aveva preposto ognuno agli affari di una singola provincia.

 

34. Rielaborò le leggi, e alcune le rifece da capo, come quelle relative alle spese, agli adulterii, all’impudicizia, al broglio elettorale, al matrimonio tra le varie classi. Aveva corretto quest’ultima assai più severamente delle altre; ma, per le proteste di quelli che non la volevano accettare, non potè farla passare se non dopo aver tolto o attenuato una parte delle sanzioni, e dopo aver concesso una dilazione di tre anni 47 e aver aumentato i premi. Ma anche così, durante un pubblico spettacolo i cavalieri ne chiesero insistentemente l’abrogazione; egli allora, fatti venire i figli di Germanico, tenendone alcuni accanto a sé e altri sulle ginocchia del padre, li mise bene in mostra, con la mano e col volto facendo capire che non dovevano trovare gravoso l’imitare l’esempio di quel giovane. Quando poi si rese conto che la severità della legge veniva elusa con fidanzamenti di ragazze giovanissime e con frequenti divorzi seguiti da nuovo matrimonio, restrinse il tempo del fidanzamento e mise un freno ai divorzi.

 

35. Il numero dei senatori era esagerato e formava una massa indecorosa ed informe – erano più di mille, e alcuni del tutto indegni, aggregati dopo la morte di Cesare grazie ad influenze e denaro: il popolino li chiamava senatori d’oltretomba –; ebbene, Augusto riportò il Senato alle dimensioni di un tempo e all’antico splendore. Ricorse a due selezioni: una affidata alla volontà dei senatori stessi, in base alla quale ognuno sceglieva un collega, l’altra alla volontà sua e di Agrippa. Pare che in quel periodo egli presiedesse il Senato con una corazza sotto la toga e con un’arma al fianco, e con attorno al suo seggio una decina di robustissimi amici dell’ordine senatorio. Cremuzio Cordo 48 scrive che allora nessun senatore era ammesso in aula, se non da solo e dopo essere stato perquisito. Indusse alcuni ad avere il pudore di dimettersi, ma anche ai dimissionari consentì l’onore del laticlavio e il diritto di assistere agli spettacoli dall’orchestra 49 e di partecipare ai banchetti ufficiali.

Allo scopo, poi, che i prescelti e approvati svolgessero il loro compito di senatori con maggiore coscienza e minore insofferenza, stabilì che ciascuno, prima di sedersi in adunanza, pregasse, bruciando incenso e libando, dinanzi all’altare di quel dio nel cui tempio ci si riuniva; stabilì pure che il Senato non si riunisse ordinariamente più di due volte al mese, cioè alle Calende e alle Idi, e che nei mesi di settembre e di ottobre non dovessero esser presenti altri che quelli sorteggiati, il cui numero consentisse di approvare i decreti. Inoltre volle che a lui stesso fossero affiancati, mediante sorteggio, dei consiglieri semestrali, con i quali discutere in anticipo le questioni da sottoporre poi al plenum del Senato. Chiedeva il parere ufficiale, sulle questioni più importanti, non secondo l’ordine fissato dalla prassi, ma a suo piacimento, perché ognuno stesse sempre attento, esattamente come se si dovesse esprimere una proposta più che un assenso.

 

36. Prese, tra gli altri, anche i seguenti provvedimenti: che non venissero pubblicati gli Atti del Senato; che i magistrati non fossero inviati sùbito nelle province appena scaduta la loro carica; che si fissasse una determinata indennità per i proconsoli, per le spese dei muli e delle tende (prima venivano forniti per appalto, a spese dello Stato); che la sovrintendenza all’erario fosse trasferita dai questori urbani agli uomini di rango pretorio o agli stessi pretori in carica; che i centùmviri, prima convocati da ex questori, fossero convocati dai decèmviri.

 

37. Perché più ampia fosse la partecipazione al governo dello Stato, escogitò nuove funzioni: la sovrintendenza ai lavori pubblici, alle vie, alle acque, al letto del Tevere, alla distribuzione del frumento al popolo; la prefettura della capitale, un triumvirato per la scelta dei senatori e un altro per passare in rassegna, ogni volta che occorresse, gli squadroni dei cavalieri. Nominò i censori, che da lungo tempo non si usava più nominare. Accrebbe il numero dei pretori. Avrebbe anche voluto – ma non l’ottenne –, ogni volta che gli fosse conferito il consolato, avere due colleghi invece di uno: tutti gli obiettarono che la sua stessa maestà era già abbastanza sminuita dal fatto di non esercitare quella carica da solo, ma con un collega.

 

38. Non fu meno generoso nell’onorare il valore mostrato in guerra: a più di trenta condottieri fece decretare regolari trionfi, e a non pochi di più le insegne trionfali. Ai figli dei senatori, perché più rapidamente si abituassero al governo dello Stato, appena assunta la toga virile permise di indossare il laticlavio e di presenziare alle adunanze del Senato. E a quelli che inauguravano la carriera militare diede non solo il tribunato nelle legioni, ma anche il comando di squadroni di cavalleria; e perché al campo nessuno fosse senza incarichi, in generale ad ogni squadrone mise a capo due togati. Passò spesso in rivista gli squadroni di cavalleria, ripristinando dopo lungo tempo l’uso della parata militare. Ma non permise che alcuno, durante la parata, fosse chiamato in causa da un accusatore, come invece si usava fare un tempo. A quelli palesemente o vecchi o malandati fisicamente, permise che, mandato avanti al loro posto il cavallo, venissero a piedi ogni volta che fossero chiamati. Più tardi concesse la possibilità di restituire il cavallo a quelli che, passati i trentacinque anni, non volessero continuare a tenerlo.

 

39. Ottenuti dal Senato dieci collaboratori, costrinse ognuno dei cavalieri a render conto della sua vita, e, nel caso di riconosciute mancanze, alcuni punì, altri bollò con note di biasimo, altri ancóra, più numerosi, con diversi gradi di ammonizione. La forma più lieve di ammonizione fu la consegna diretta del testo di essa, che quelli dovevano leggere mentalmente, lì stesso e sùbito. Bollò alcuni che, avuto del denaro a basso interesse, lo avevano a loro volta prestato ad usura.

 

40. Se alle elezioni dei tribuni della plebe mancavano candidati senatori, li nominò tra i cavalieri romani, con la clausola che, quando fossero scaduti dalla carica, restassero nell’ordine senatorio o nell’ordine equestre, come preferivano. E poiché molti cavalieri, logoratosi il loro patrimonio con le guerre civili, non si arrischiavano ad assistere agli spettacoli dalle gradinate ad essi destinate, per timore della pena teatrale 50, Augusto chiarì ufficialmente che ad essa non erano esposti quelli che, loro stessi o i loro genitori, avessero già posseduto censo equestre. Fece il censimento della popolazione quartiere per quartiere. E perché la plebe non fosse troppo spesso distolta dalle sue attività per le distribuzioni di grano, progettò di dare tre volte l’anno dei buoni per quattro mesi ciascuno; ma, poiché il popolo preferiva il vecchio sistema, concesse di nuovo che ricevesse il frumento mese per mese. Ripristinò anche le antiche regole dei Comizi, e, frenati i brogli elettorali con svariate pene, ai Fabiani e agli Scaptiensi – cioè a quelli della sua stessa tribù – nel giorno delle elezioni, ad evitare che essi si aspettassero qualche cosa dai candidati, distribuiva mille sesterzi a ciascuno, di tasca propria. Inoltre, poiché riteneva importante mantenere il popolo puro e non contaminato da alcuna mescolanza di sangue straniero e servile, fu molto parsimonioso nel concedere la cittadinanza romana e limitò il diritto di affrancare gli schiavi. A Tiberio che gli chiedeva la cittadinanza per un suo cliente greco, rispose per lettera che l’avrebbe concessa solo se di persona lo avesse convinto di avere giusti motivi per chiederla. A Livia che gliela chiedeva per un tributario Gallo, rifiutò la cittadinanza, e offrì piuttosto l’esenzione dal tributo: dichiarò che avrebbe più volentieri accettato di privare di qualcosa il tesoro imperiale piuttosto che di troppo largheggiare con l’onore della cittadinanza romana. Quanto agli schiavi, non si accontentò di averli tenuti lontani con molte difficoltà dalla semplice libertà, e con più ostacoli ancóra dalla libertà assoluta 51, ma anzitutto limitò con molta cura il numero, la condizione e le differenze di quelli che venissero affrancati; e poi aggiunse anche questo: che non potesse conseguire la cittadinanza romana, con nessun genere di libertà, chi fosse stato imprigionato o sottoposto a tortura. Cercò di ripristinare anche l’antico modo di vestire, e una volta, quando vide in un’assemblea popolare una massa di scalzacani, si indignò ed esclamò: «Ecco

 

i Romani che dominano il mondo,

il popolo togato!»;

 

e diede incarico agli edili che da allora in poi non permettessero che alcuno bighellonasse nel Foro e nelle sue vicinanze, se non in toga, senza il solito grossolano mantello.

 

41. Mostrò spesso, all’occasione, la sua generosità ad ogni categoria sociale. Quando fu portato a Roma in occasione del trionfo Alessandrino, il tesoro reale produsse tanta abbondanza di denaro che, diminuito il tasso degli interessi, crebbero assai di valore i terreni; e poi, ogni volta che ci fosse larga disponibilità di denaro, derivante dai beni di condannati, ne concesse l’uso gratuito, sino ad una determinata scadenza, a quelli che potessero dare garanzia del doppio di quello che chiedevano. Elevò il censo dei senatori e lo fissò, invece che a ottocentomila sesterzi, a un milione e duecentomila; e supplì lui stesso per quelli che non li avevano. Fece spesso elargizioni al popolo, ma di somme via via diverse, ora quattrocento sesterzi, ora trecento, talvolta duecentocinquanta, senza dimenticare nemmeno i ragazzi minori; ma non usavano ricevere sussidi se non a partire dall’undicesimo anno di età. Anche il frumento, nei momenti di maggior rincaro dei prezzi, distribuì a bassissimo prezzo, o addirittura gratuitamente. E raddoppiò il numero delle tessere monetarie 52.

 

42. Ma, perché si vedesse bene che era un principe che badava più al vantaggio generale che alla propria popolarità, una volta che il popolo lamentava la scarsezza e l’alto prezzo del vino, lo rimproverò duramente dicendo che suo genero aveva provveduto abbastanza, con le numerose condutture di acque, a che la gente non avesse sete. E quando il popolo reclamò una elargizione che gli era stata promessa, rispose di essere uomo di parola; ma quando ne reclamò una che in realtà egli non aveva promessa, rimproverò con un comunicato ufficiale quell’indegna impudenza, e dichiarò che non avrebbe dato niente, anche se aveva progettato di dare. Con non minore severità e fermezza, quando apprese che, dopo la promessa di una elargizione, molti schiavi erano stati affrancati e inseriti nell’elenco dei cittadini, dichiarò che non avrebbero ricevuto niente quelli a cui non era stato promesso, e agli altri diede meno di quanto aveva promesso, perché la somma stanziata bastasse per tutti. Una volta, durante una grave carestia, di difficile soluzione, allontanò da Roma le masse di schiavi in vendita e di gladiatori e gli stranieri – ad eccezione dei medici e dei precettori – e una parte degli schiavi in servizio; ed egli scrive che quando si ristabilì la normalità nei rifornimenti di viveri, prese la decisione di abolire per sempre le pubbliche distribuzioni di grano, perché proprio nella certezza di esse si trascurava la coltivazione dei campi; poi però non aveva insistito in questo proposito, perché era sicuro che un momento o l’altro sarebbero state ripristinate per desiderio di popolarità. Ma dopo di allora regolò la faccenda in modo tale da contemperare gli interessi dei contadini e dei commercianti con quello del popolo.

 

43. Nella frequenza e varietà e magnificenza degli spettacoli che diede, superò tutti quanti. Egli stesso dichiara di aver dato giochi pubblici a suo nome quattro volte, ma ventitré volte a nome di altre autorità assenti o inadeguate. Diede spettacoli anche nei singoli quartieri, con diverse scene e servendosi di attori di ogni lingua. *** Ne diede non solo nel Foro e nell’anfiteatro, ma anche nel Circo e nei Recinti; talvolta anche soltanto partite di caccia. Presentò anche gare atletiche – facendo costruire panchine di legno nel Campo Marzio – e anche una battaglia navale, mediante scavo del terreno intorno al Tevere, dove ora c’è il bosco dei Cesari. In quei giorni distribuì qua e là nella città pattuglie di guardie, perché la capitale non restasse in balìa dei briganti, dato lo scarso numero di quelli che rimanevano a casa. Nel Circo presentò aurighi e corridori e uomini in lotta con le belve, talvolta anche della più nobile gioventù. Ma più e più volte diede anche la gara Troiana, con ragazzi più grandi e più piccoli: era convinto che fosse conforme all’antico e glorioso costume e che così si mettesse in vista l’indole di un illustre casato. Durante uno di questi spettacoli, poiché Nonio Asprenate era rimasto storpiato da una caduta, gli donò una collana d’oro e autorizzò lui stesso e i suoi discendenti a portare il soprannome di Torquato. Poi però smise di dare questo tipo di spettacolo, quando Asinio Pollione in Senato lamentò duramente e in tono di rimprovero la caduta di suo nipote Esemino, che anch’egli si era rotto una gamba. Anche per gli spettacoli teatrali e per quelli tipici dei gladiatori si servì talvolta di cavalieri romani, finché non lo vietò un decreto del Senato. Da allora in poi, l’unico di buona famiglia che esibì fu un ragazzo licio, ma soltanto per mostrare che era alto meno di due piedi, che pesava diciassette libbre e aveva una voce potentissima. Una volta, in un giorno di spettacolo, fece scendere nell’arena e mostrarsi al pubblico gli ostaggi dei Parti, allora inviati per la prima volta; poi li fece sedere dietro di sé in seconda fila. A parte i giorni di spettacolo, se talvolta fosse stato portato a Roma qualcosa di fuori del comune e degno di essere veduto, usava, prescindendo da ogni procedura, metterlo in mostra in qualsiasi luogo pubblico: per esempio, un rinoceronte presso i Recinti 53, una tigre su un palcoscenico, un serpente di cinquanta cubiti nel Comizio 54. Una volta, in occasione di giochi votivi nel Circo, fu preso da un malore improvviso, per cui egli precedette i carri sacri semisdraiato in lettiga; un’altra volta, durante la presentazione dei giochi con cui inaugurava il Teatro di Marcello, capitò che, sfasciatasi la sedia curule su cui sedeva, cadde a terra supino. Ancora: durante lo spettacolo dato a nome dei suoi nipoti, non riusciva in nessun modo a trattenere e rassicurare il popolo, spaventato dal timore di un crollo; allora egli si alzò dal suo posto e si sedette in quel settore che era il più preoccupante.

 

44. Riformò e riordinò il sistema, del tutto confuso e arbitrario, di assistere agli spettacoli. A ciò lo spinse l’ingiuria fatta a un senatore: a Pozzuoli, durante certi giochi affollatissimi, nessuno, fra tanta gente seduta, lo aveva accolto presso di sé. Anzitutto ottenne un decreto del Senato, in base al quale, ogni volta che si desse, da qualsiasi parte, un pubblico spettacolo, la prima fila dei sedili restasse a disposizione dei senatori. Poi vietò che a Roma gli inviati dei popoli liberi e alleati sedessero nell’orchestra 55: aveva scoperto che venivano inviati anche dei liberti. Separò i militari dal popolo. Ai plebei coniugati assegnò determinate file, ai minorenni un loro settore, e quello vicino veniva assegnato ai loro precettori. Stabilì pure che nessuno sedesse nel settore centrale della càvea malvestito. Alle donne non concesse di assistere agli spettacoli di gladiatori se non nel settore più alto, e da sole, mentre prima era normale che vi assistessero promiscuamente. Alle Vergini Vestali assegnò un settore separato, di fronte alla tribuna del pretore. Escluse tutte le donne dallo spettacolo degli atleti, a tal punto che, durante i giochi pontificali, rinviò al mattino seguente una coppia di pugili, che era stata richiesta, e comunicò ufficialmente che era vietato alle donne venire in teatro prima delle undici.

 

45. Personalmente assisteva per lo più ai giochi del Circo dalle sale da pranzo degli amici e dei liberti, talvolta anche dal pulvinare, sedendo in compagnia della moglie e dei figli 56. Si assentava dallo spettacolo per molte ore, talvolta per giornate intere, chiedendo scusa e raccomandando chi dovesse presiedere in sua vece. Ma quando vi assisteva, non faceva nient’altro, sia per evitare i commenti negativi, con cui ricordava che suo padre Cesare era stato ripreso dal popolino – perché, durante lo spettacolo, si dedicava a leggere o a scrivere lettere e appunti –, sia per l’interesse e il piacere dello spettacolo stesso: ne era avvinto, e non lo nascose, anzi lo confessò spesso senza mezzi termini. Per questo, anche quando si trattava di spettacoli e giochi dati da altri, offriva di tasca sua corone e premi, frequenti e rilevanti; e non assistette a nessuna gara greca, in cui non onorasse secondo il merito ognuno dei partecipanti. Ma col maggiore interesse seguiva i pugili e soprattutto quelli latini, e non solo quelli professionisti e regolari – che soleva mettere a confronto con quelli greci –, ma anche le compagnie di dilettanti, che si battevano tra le strettoie dei vicoli, alla buona e senza alcuna regola. Insomma, fece oggetto delle sue cure ogni genere di persone che prestasse la sua opera per spettacoli pubblici. Agli atleti non solo conservò i privilegi, ma anche li accrebbe. Vietò che si facessero scendere in campo gladiatori per battersi all’ultimo sangue. Ai magistrati tolse la facoltà di repressione nei confronti degli attori – facoltà che secondo la vecchia legge era estesa ad ogni tempo e luogo –, tranne durante gli spettacoli e sulla scena. Non per questo, però, fu meno severo nel controllare sempre le gare degli atleti e le battaglie di gladiatori. Anzi, represse tanto la sfrenata libertà degli attori, che fece flagellare nei tre teatri 57, e poi relegò, l’attore di togate Stefanione: aveva appreso, infatti, che si faceva servire da una signora con i capelli tagliati alla maschietta. Per lagnanza di un pretore, fece frustare nell’atrio di casa sua, in presenza di tutti, il pantomimo Ila. Infine, allontanò da Roma e dall’Italia l’attore Pìlade, perché aveva additato e messo alla berlina uno spettatore da cui era stato fischiato.

 

46. Regolata in questo modo la capitale e le faccende della capitale, ripopolò l’Italia con ventotto colonie da lui stesso dedotte, le dotò variamente di opere e di rendite pubbliche, e in certo modo le uguagliò alla capitale, almeno in parte, per diritto e dignità. Escogitò infatti questa forma di votazione: i decurioni delle colonie, restando ciascuno nella sua colonia, davano i loro voti per i magistrati della capitale, e per il giorno delle elezioni li mandavano a Roma sigillati. Perché non venisse mai meno la disponibilità di persone per bene e la prolificità del popolo, accettava gli aspiranti al servizio come cavalieri anche dietro segnalazione ufficiale delle singole città, e a quei plebei che, nelle sue visite alle varie regioni, gli dimostrassero di avere figli o figlie, assegnava mille sesterzi per ognuno.

 

47. Si fece carico lui stesso delle province più importanti e che non era né facile né senza rischio che fossero governate da magistrati con potere annuale; le altre lasciò ai proconsoli per sorteggio. Alcune, tuttavia, mutò talvolta di categoria, e spesso visitò sia le une sia le altre. Alcune città federate, che per la loro sfrenatezza precipitavano nella rovina, privò della libertà; altre indebitate, alleggerì del loro carico, o, disastrate dal terremoto, fondò di nuovo, o, se potevano vantare meriti verso il Popolo Romano, premiò con la cittadinanza romana. Non c’è, io credo, alcuna provincia – tranne l’Africa e la Sardegna – che egli non abbia visitato. Una volta sconfitto Sesto Pompeo, mentre egli si preparava a raggiungere queste due province partendo dalla Sicilia, incessanti e pericolose tempeste glielo impedirono; poi non ci fu più occasione o motivo di recarvisi.

 

48. I regni di cui si impadronì per diritto di guerra – tranne pochi – o restituì a quelli a cui li aveva tolti, o li assegnò a personalità straniere. I re alleati egli legò anche tra loro stessi con reciproci vincoli di parentela, sempre pronto a conciliare e a favorire parentele ed amicizie. Ebbe a cuore tutti quanti, come membra e parti dell’impero, usando persino assegnare un tutore ai troppo piccoli di età o troppo deboli di mente, in attesa che crescessero o rinsavissero. Insieme con i suoi educò ed istruì i figli di moltissimi personaggi.

 

49. Quanto alle truppe di terra, legioni e reparti ausiliari distribuì nelle varie province; di flotte, ne dislocò una a Miseno e un’altra a Ravenna, a presidio dell’Adriatico e del Tirreno. I restanti effettivi assegnò in parte alla difesa di Roma, in parte alla sua difesa personale, dopo aver congedato il corpo dei Calagurritani, che aveva tenuto sino alla vittoria su Antonio, e quello dei Germani 58, che aveva tenuto accanto a sé tra gli altri armati sino alla catastrofe di Varo. Però non permise che ci fossero in Roma più di tre coorti, per di più senza una specifica caserma; le altre coorti usava far andare, sia per gli alloggiamenti invernali, sia per quelli estivi, nelle cittadine vicine. Tutti quanti i soldati, dovunque fossero, li legò ad un determinato regolamento di stipendi e di premi, fissando, secondo il grado di ciascuno, la durata del servizio militare e i benefìci del congedo definitivo, perché dopo il congedo non si sentissero sollecitati, o dall’età o dalla miseria, ad azioni sovversive. Perché bastassero sempre, e senza difficoltà, i fondi per mantenerli e per premiarli, costituì una cassa militare, alimentata da nuove imposte. Per essere poi più rapidamente e facilmente avvertito e informato di tutto ciò che avvenisse nelle singole province, dapprima dispose a brevi distanze, sulle strade militari, delle giovani staffette, poi delle vetture. Questa seconda soluzione apparve più comoda: quelli che da qualche luogo portano lettere, se non c’è cambio, possono essere anche interrogati, se le circostanze esigono qualche provvedimento.

 

50. Nel sigillare privilegi, documenti ufficiali e lettere, dapprima usò una figura di sfinge, poi un’effigie di Alessandro Magno, infine la sua, incisa da Dioscòride 59. Con questa continuarono a sigillare anche i prìncipi successivi. A tutte le lettere aggiunse anche l’ora precisa – del giorno, ma anche della notte – in cui risultasse che erano state consegnate al latore.

 

51. Molte sono le prove della sua clemenza e del suo comportamento civile. Non sto ad enumerare quanti e quali uomini di parte avversa, dopo averli perdonati e risparmiati, lasciò che occupassero posizioni politiche eminenti; basti dire che quanto a Giunio Novato e Cassio Patavino, due plebei, si accontentò di punire l’uno con una multa, e l’altro con un momentaneo esilio, sebbene il primo avesse diffuso una lettera, durissima nei suoi confronti, sotto il nome del giovane Agrippa, e l’altro avesse proclamato, in un affollato banchetto, che non gli mancava né la voglia né il coraggio di pugnalarlo. Una volta, durante un processo, poiché ad un Emilio Eliano di Cordova si imputava, tra le altre accuse, e come la colpa più grave, di sparlare abitualmente del principe, questi, rivolto all’accusatore, e con volto adirato disse: «Dimostramelo, e farò sì che Eliano si accorga che anch’io ho una lingua; rincarerò la dose contro di lui», e non indagò più oltre, né sul momento, né poi. Un’altra volta, Tiberio gli scrisse una lettera lamentando, piuttosto violentemente, un fatto analogo; e lui gli rispose: «In una faccenda di questo genere non lasciarti trascinare dalla tua età, e non prendertela troppo se qualcuno parla male di me; a noi basta avere questo, che il male nessuno possa farcelo».

 

52. Sebbene sapesse che templi si usavano decretare anche in onore di proconsoli, in nessuna provincia ne accettò, se non intitolati in comune a lui e a Roma. Anche in Roma stessa rifiutò tenacemente questo onore e perfino le statue d’argento che in passato erano state erette in suo onore, fece fondere tutte, e con il loro ricavato consacrò trìpodi d’oro in onore di Apollo Palatino.

Sebbene il popolo gli offrisse con grande insistenza la dittatura, egli, piegato in ginocchio, tiratasi giù dalle spalle la toga e denudatosi il petto, supplicò di non addossargliela.

 

53. Respinse sempre con orrore, come un insulto infamante, l’appellativo di padrone. Una volta, mentre egli assisteva allo spettacolo, poiché in un mimo era stata recitata l’espressione:

 

O giusto e buon padrone!

 

tutti quanti, come se fossero pienamente d’accordo che il verso si riferisse a lui, applaudirono esultanti; Augusto prima frenò quelle indecorose adulazioni con la mano e con il volto, poi, l’indomani, le redarguì con un durissimo comunicato. Da allora non tollerò di essere chiamato padrone nemmeno dai suoi figli o nipoti, né sul serio né per gioco, e vietò simili piaggerìe anche tra loro stessi. Quasi mai uscì da Roma o da altre città, né vi entrò, se non di sera o di notte, per non disturbare nessuno a rendergli omaggio. Durante il consolato si moveva in pubblico generalmente a piedi, al di fuori del consolato spesso in portantina chiusa. Alle udienze generali ammetteva anche la plebe, con tanta cortesia ascoltando i desideri dei partecipanti, che una volta per scherzo rimproverò un tale perché esitava a porgergli uno scritto, come se porgesse una monetina a un elefante. Nei giorni di seduta del Senato non salutava i senatori se non nella Curia, per di più seduti e senza che alcuno gli suggerisse i nomi dei singoli senatori; e quando se ne andava li salutava ugualmente seduti. Con molti intrattenne mutui rapporti di amicizia, e non cessò di recarsi a casa loro nei giorni in cui festeggiassero qualche cosa, se non quando era ormai vecchio e dopo essere stato infastidito dalla folla durante una cerimonia di fidanzamento. Restituì alla vita, consolandolo di persona, un senatore, Gallo Terrinio, che non era tra i suoi più intimi, ma che, divenuto improvvisamente cieco, aveva per questo deciso di lasciarsi morire d’inedia.

 

54. Una volta, mentre egli parlava in Senato, qualcuno gli disse «Non ho capito», e un altro «Se ne avessi la facoltà, ti contraddirei». Talvolta, per le eccessive risse di litiganti, irritato si precipitò fuori della Curia; e una volta uno gli gridò dietro che doveva pur essere lecito ai Senatori parlare di politica. Durante la cooptazione del Senato, quando ogni senatore ne designava un altro, Antistio Labeone designò Marco Lepido, già nemico di lui e allora esule; Augusto gli chiese allora se non ce ne fossero altri di più degni, e lui rispose che ognuno ha le sue opinioni. E questa libertà o sfrontatezza non comportò danno per nessuno.

 

55. Quando furono sparsi per la Curia dei manifestini infamanti contro di lui, non se ne spaventò, ma con grande cura li confutò, e, senza neppure cercare di scoprirne gli autori, si limitò a decretare che in avvenire si sarebbe proceduto contro coloro che avessero diffuso, sotto falso nome, libelli o versi diffamatorii a danno di chicchessia.

 

56. Bersagliato dai motteggi malevoli o sfrontati di alcuni, replicò con un comunicato ufficiale. Si oppose però a che si decretasse qualcosa per limitare la libertà di testamento 60. Ogni volta che era presente alle elezioni delle cariche pubbliche, girava fra le tribù con i suoi candidati, e chiedeva voti secondo la tradizione ormai radicata. Anche lui dava il suo voto nella sua tribù, come uno qualsiasi del popolo. Sopportava tranquillamente, nei processi, di essere interrogato o confutato come testimone. Fece il Foro più piccolo di quanto avrebbe voluto, non volendo espropriare i proprietari degli edifici vicini. Non raccomandò mai al popolo i suoi figli, senza aggiungere «Se lo meriteranno». Deplorò vivamente che in onore di essi, ancora minorenni, tutti in teatro si fossero alzati, e in piedi avessero applaudito. Volle sì che i suoi amici fossero grandi e potenti nello Stato, ma di pari diritto rispetto agli altri, e sottoposti anch’essi alle leggi penali. Allorché Nonio Asprenate 61, a lui strettamente legato, si dovette difendere da un’accusa di veneficio di Cassio Severo, chiese al Senato, quale ritenesse che fosse il suo dovere: personalmente, infatti, era incerto, per evitare che, se gli veniva in aiuto, si pensasse che sottraeva alla giustizia un imputato, se invece non lo soccorreva, che abbandonasse un amico e lo condannasse in anticipo. Attenendosi al parere concorde di tutti quanti, egli sedette sui banchi della difesa per alcune ore, ma silenzioso e senza dire nemmeno una parola in difesa dell’imputato. Assistette anche alcuni suoi clienti, per esempio un certo Scutario, un suo vecchio richiamato, processato per ingiurie. Uno solo, fra tanti imputati, egli salvò dalla condanna, e soltanto con preghiere, piegandone l’accusatore in presenza dei giudici: si trattava di un certo Castricio, dal quale aveva appreso della congiura di Murena 62.

 

57. Per tali benemerenze è facile giudicare quanto fosse amato. Non parlo dei decreti del Senato, che potrebbero sembrare espressi per necessità o per reverenza; ma i Cavalieri Romani, spontaneamente e tutti d’accordo, celebrarono sempre per due giorni il suo compleanno. Tutte le categorie sociali, ogni anno, come voto per la sua incolumità, gettavano delle monetine nel lago di Curzio 63. E il primo di gennaio gli depositavano strenne in Campidoglio, anche quando era assente; con la somma ricavata, egli comprava, e poi consacrava nei vari quartieri, preziosissime statue di dèi: per esempio, l’Apollo Sandaliario 64 e il Giove Tragèdo. Per la ricostruzione del suo palazzo sul Palatino, distrutto da un incendio, i veterani, le decurie, le tribù e anche isolatamente persone di tutte le categorie, portarono denaro volentieri e ciascuno secondo le sue possibilità; ma Augusto sfiorò appena quei mucchi di monete, e da nessuno prese più di un denaro. Quando ritornava da una provincia, lo ricevevano non solo con mille augùri, ma anche con versi messi in musica. Si badò pure che, quando egli entrasse in Roma, non si eseguissero condanne capitali.

 

58. Il titolo di Padre della Patria glielo conferirono tutti, con improvviso e larghissimo consenso. Per prima la plebe, inviando una delegazione ad Anzio; poi, dato che egli non lo accettava, a Roma, affollàndoglisi intorno coronata di alloro, quando egli entrava ad assistere a spettacoli. Poi, nella Curia, il Senato, e non per decreto o per acclamazione, ma attraverso Valerio Messalla 65. Questi, parlando a nome di tutti, disse: «Sia questo di lieto augurio per te e per il tuo casato, Cesare Augusto! In questo modo, infatti, noi riteniamo di invocare perpetua felicità e letizia a questa Repubblica: il Senato, in pieno accordo con il Popolo Romano, ti saluta Padre della Patria». Ed Augusto così gli rispose, con le lacrime agli occhi (riferisco proprio le sue parole, come più su quelle di Messalla): «Ora che ho realizzato i miei voti, Signori Senatori, una sola cosa – e che altro? – posso chiedere agli dèi immortali: che mi sia lecito portare questo vostro consenso sino all'ultimo giorno della mia vita».

 

59. Mediante una sottoscrizione, accanto al simulacro di Esculapio eressero una statua al medico Antonio Musa 66, grazie al quale Augusto era guarito da una pericolosa malattia. Alcuni capi di famiglia disposero per testamento che i loro eredi, preceduti da un cartello chiarificatore, portassero vittime in Campidoglio, e sciogliessero così il loro voto di aver lasciato, morendo, ancóra vivo Augusto. Alcune città d’Italia fissarono come inizio dell’anno il giorno in cui egli per la prima volta era venuto da loro. Molte province, oltre ai templi e agli altari, istituirono in suo onore, quasi in ogni città, dei ludi quinquennali.

 

60. I re amici ed alleati, anzitutto ciascuno nel suo regno fondarono città col nome di Cesarèa, e poi tutti insieme deliberarono di completare, dividendosi la spesa, il tempio di Giove Olimpio in Atene, cominciato già da tempo antico, e di dedicarlo al Genio di lui. E spesso, lasciato il loro regno, non solo a Roma, ma anche quando girava per le province, resero ad Augusto l’omaggio quotidiano indossando la toga romana e senza le insegne regali, come semplici clienti.

 

61. Ora che ho esposto quale egli fu nelle responsabilità militari e in quelle civili e nel dirigere la cosa pubblica in tutto il mondo, in pace e in guerra, passerò a descrivere la sua vita intima e privata, e con quali atteggiamenti e fortuna si comportò tra i suoi, dalla giovinezza sino all’ultimo giorno della sua vita.

Perse la madre durante il suo primo consolato, la sorella Ottavia quando aveva cinquantatré anni. All’una e all’altra, dopo aver avuto per loro particolare devozione in vita, anche dopo morte rese i più grandi onori.

 

62. Giovanissimo era stato fidanzato con la figlia di Publio Servilio Isàurico 67. Ma poi, riconciliatosi, dopo il primo contrasto, con Antonio, poiché i soldati dell’uno e dell’altro chiedevano che i due si legassero anche con un vincolo di parentela, sposò una figliastra di Antonio, Claudia, che Fulvia aveva avuto da Publio Clodio: era ancóra poco più che una bambina, e, quando scoppiò un attrito tra lui e la suocera Fulvia, la rimandò ancóra vergine e intatta. Poi sposò Scribonia, già moglie di due ex consoli, dal secondo dei quali resa anche madre. Anche da questa divorziò, «nauseato» come scrive lui stesso «della sregolatezza dei costumi di lei», e sùbito si prese Livia Drusilla, togliendola al marito Tiberio Nerone 68, per di più incinta. L’amò e l’apprezzò straordinariamente e costantemente.

 

63. Da Scribonia ebbe Giulia, da Livia, per quanto lo desiderasse, non ebbe alcun figlio. Un bimbo che era stato concepito, nacque prematuro. Diede sua figlia Giulia prima a Marcello, figlio di sua sorella Ottavia, appena uscito dalla fanciullezza, poi, quando quello morì, la diede in sposa a Marco Agrippa, ottenendo da sua sorella che glielo cedesse come genero: allora, infatti, Agrippa aveva in moglie una delle due Marcelle, e da essa anche dei figli. Morto anche lui, valutò a lungo molti partiti, anche dell’ordine equestre, e finì per scegliere Tiberio, suo figliastro, costringendolo a divorziare dalla moglie incinta, che già lo aveva reso padre 69. Marco Antonio scrive che Augusto prima aveva promesso Giulia a suo figlio Antonio, poi al re dei Geti Cotisone 70, quando anche lui aveva chiesto in moglie, a sua volta, la figlia del re.

 

64. Da Agrippa e Giulia ebbe tre nipoti maschi – Gaio, Lucio e Agrippa – e due nipoti femmine: Giulia e Agrippina. Fece sposare Giulia con Lucio Paolo, figlio del censore, e Agrippina con Germanico, nipote di sua sorella. Adottò Gaio e Lucio, comprandoli in casa del padre con rito privato 71, e, ancora bambini, li avviò alla cura dello Stato. Quando furono designati consoli, li mandò qua e là per le province e per gli eserciti. Educò la figlia e le nipoti così severamente da abituarle anche a lavorare la lana e da vietare loro di dire o fare alcuna cosa se non in piena luce e che potesse essere riportata nel diario giornaliero. Le escluse dal contatto con gli estranei, tanto che una volta scrisse a L. Vinicio, un giovane di buona famiglia e molto per bene, che si era comportato poco discretamente venendo a Baia per salutare sua figlia. Ai nipoti insegnò per lo più personalmente a leggere e scrivere e a crittografare 72, e gli altri primi elementi; più d’ogni altra cosa si impegnò a farli imitare la sua scrittura. Quando pranzava con loro, li faceva sempre accomodare alla sua sinistra; quando viaggiava con loro, li faceva sempre precedere in carrozza o cavalcare accanto a sé.

 

65. Ma, per quanto lieto e fiducioso, il destino lo deluse sia nella prole sia nella disciplina instaurata nella casa. Le due Giulie, la figlia e la nipote, completamente depravate, dovette relegarle; i due nipoti, Gaio e Lucio, li perse entrambi nel giro di diciotto mesi: Gaio morì in Licia, Lucio a Marsiglia. Adottò nel Foro, secondo la legge curiata, il terzo nipote, Agrippa 73, e contemporaneamente il figliastro Tiberio. Ma poco dopo disconobbe Agrippa, per la sua indole triviale e brutale, e lo relegò a Sorrento. Sopportò assai più coraggiosamente la morte che non il disonore dei suoi cari: dalla morte di Gaio e Lucio non fu tanto prostrato; ma, quanto alla figlia, notificò il fatto al Senato, senza presentarsi personalmente e facendo leggere l’atto da un questore; poi, per la vergogna, a lungo si astenne dall’incontrare chicchessia; pensò addirittura di ucciderla. Fatto sta che quando, in quel torno di tempo, una complice di Giulia, la liberta Febe, si uccise impiccandosi, egli disse che avrebbe preferito essere il padre di Febe. Quando l’ebbe relegata, le tolse l’uso del vino ed ogni altra raffinatezza, e non permise che alcuno, libero o schiavo, si recasse da lei, se non per sua espressa autorizzazione: voleva sapere che età avesse, che statura, che colorito, persino quali segni particolari o cicatrici. Finalmente, cinque anni dopo la trasferì dall’isola sul continente, e in condizioni di vita un po’ meno severe 74. In effetti non si lasciò indurre a richiamarla del tutto; e poiché spesso il Popolo Romano lo supplicava per lei e insisteva con tenacia, in un pubblico discorso Augusto gli augurò figlie di tal genere, e mogli di tal genere. Il bimbo nato dalla nipote Giulia dopo la condanna, vietò che fosse riconosciuto e allevato. Quanto ad Agrippa, tutt’altro che ammansito, anzi ogni giorno più insensato, lo trasferì in un’isola 75 e per giunta gli mise attorno una guardia armata, e con un decreto del Senato si garantì pure che nello stesso luogo fosse trattenuto per sempre. E quando si faceva menzione o di lui o delle due Giulie, sospirando usava proclamare:

 

Oh se non fossi sposato mai, o morto senza figli!76,

e li chiamava sempre i suoi tre ascessi e i suoi tre carcinòmi.

 

66. Non contrasse facilmente amicizie, ma le mantenne con la massima costanza. E non solo apprezzò le doti e i meriti degli amici, ma ne sopportò anche i difetti e le colpe, purché non troppo gravi. Fra tutti i suoi amici non se ne troverà facilmente di quelli che egli abbia poi colpito, tranne Salvidieno Rufo e Cornelio Gallo 77, due uomini che da infima condizione egli aveva innalzato, l’uno fino al consolato, l’altro sino alla prefettura d’Egitto. Il primo, che minacciava rivolgimenti politici, lasciò da condannare al Senato; al secondo, per la sua ingratitudine e malevolenza, vietò l’accesso in casa sua e nelle sue province. Ma quando le denunce degli accusatori e i decreti del Senato spinsero Gallo al suicidio, egli lodò sì la devozione di quelli che tanto s’indignavano per lui, ma anche pianse e lamentò la sua sorte, perché non gli era lecito adirarsi con gli amici quanto avrebbe voluto. Gli altri suoi amici rimasero in grande splendore, per potenza e ricchezza, fino al termine della loro vita, ciascuno ai primissimi posti nel suo rango, anche se in realtà ci fu qualche screzio. Per non dire di altri, qualche volta avrebbe voluto maggiore pazienza da parte di Agrippa, e maggiore riservatezza da parte di Mecenate 78: il primo, per un lieve sospetto di freddezza e perché gli veniva anteposto Marcello, piantando in asso ogni cosa si era ritirato a Mitilene, l’altro aveva rivelato alla moglie Terenzia la scoperta della congiura di Murena, che doveva restare segreta. Anch’egli pretese altrettanta benevolenza dagli amici, vivi o morti che fossero. Infatti, sebbene non aspirasse affatto alle eredità – tanto che non volle accettare nulla che gli fosse lasciato in eredità dagli ignoti – valutò con la massima pedanteria il supremo apprezzamento dei suoi amici defunti: e non dissimulò il risentimento se lo avessero ricordato con troppa parsimonia e senza l’omaggio di parole, né la sua gioia se con gratitudine e devozione. I legati o le porzioni di eredità lasciate a lui da persone che avessero famiglia, fu solito o passare immediatamente ai loro figli, o, se erano ancóra sotto tutela, restituirle ad essi, con gli interessi, nel giorno in cui indossassero la toga virile o in cui si sposassero.

 

67. Fu patrono e padrone non meno severo che indulgente e clemente: molti liberti, come Licino, Celano ed altri, tenne in onore e in grande dimestichezza. Punì facendolo soltanto mettere ai ferri lo schiavo Cosmo, che di lui aveva sparlato molto duramente. Un giorno il suo intendente Diomede, che passeggiava insieme con lui, spaventato lo gettò improvvisamente contro un feroce cinghiale che lo investiva; ma Augusto preferì accusarlo di tremarella piuttosto che di azione criminosa; e tutta la faccenda, poiché non c’era stata cattiva intenzione, buttò in scherzo, anche se il suo pericolo era stato grave. Ma costrinse al suicidio il liberto Polo, che era uno dei suoi più cari, perché riconosciuto colpevole di adulterio con matrone; a Tallo, suo segretario, che aveva accettato cinquecento denari per tradire il segreto di una lettera, fece spezzare le gambe; all’istitutore e ai servi di suo figlio Gaio, che, approfittando della malattia e della morte del giovane, avevano con superbia e avidità spadroneggiato nella provincia, fece attaccare gravi pesi al collo e li fece gettare in un fiume.

 

68. Nella prima giovinezza subì l’infamia di molte accuse ignominiose. Sesto Pompeo lo bersagliò come effeminato; Marco Antonio lo accusò di essersi guadagnata l’adozione dello zio prostituèndoglisi. Il fratello di Marco, Lucio, gli rinfacciò di aver venduto per mille sesterzi a Irzio, in Spagna, il suo pudore, già delibato da Cesare, e di bruciacchiarsi abitualmente le gambe con una noce infocata, perché il pelo vi crescesse più morbido. Del resto, anche tutto il popolo, una volta, in un giorno di spettacolo, intese come offensivo per lui, e approvò con il massimo consenso, un verso recitato in scena relativo a un Gallo che sonava il tìmpano in onore di Cibele, la madre degli dèi:

 

Vedi tu quel cinèdo come regola

l’orbe col dito? 79

 

69. Che abbia commesso adulterii non lo negano nemmeno i suoi amici; ma lo giustificano dicendo che li aveva fatti non per libidine, ma per un preciso motivo, cioè per scoprire più facilmente i piani dei suoi avversari attraverso le loro donne. Marco Antonio, oltre alle frettolose nozze con Livia, gli rinfacciò di avere una volta condotto fuori della stanza da pranzo una donna di rango consolare, in presenza del marito, e di averla poi ricondotta nella sala con le orecchie in fiamme e con i capelli in disordine; di aver divorziato da Scribonia perché con troppa libertà si era lamentata della potenza di un’amante di lui; e le relazioni procuràtesi attraverso amici, i quali denudavano ed esaminavano attentamente madri di famiglia e vergini adulte, come se le vendesse il mercante di schiavi Toranio. Gli scrisse anche queste parole, ancóra amichevolmente, quando non era ancóra vero avversario o nemico: «Che cosa ti ha fatto cambiare atteggiamento? Il fatto che vado a letto con una regina? È mia moglie! Ho cominciato adesso o già da nove anni? E tu, vai a letto con la sola Drusilla? Ti pigli un accidente, se non è vero che, quando leggerai questa lettera, sarai andato a letto con Tertulla o Terentilla o Rufilla o Salvia Titisenia... o tutte quante. Che importanza ha dove e con quale donna uno fa l’amore?».

 

70. Fu sulle bocche di tutti anche una sua cena assai segreta, del genere che comunemente si chiamava δωδεκάθεος 80. In essa i convitati avrebbero partecipato in abito di dèi e di dèe, e lui stesso abbigliato da Apollo: glielo rinfacciano non solo le lettere di Antonio, che amaramente enumera i nomi di ciascuno, ma anche questi notissimi versi anonimi:

 

Quando quella brigata conviviale

un regista assoldò,

e sei dèi vide Mallia con sei dèe;

mentre empiamente parodiava Cesare

Febo stesso, e di tresche

novelle si pasceva di celesti,

tutti allora gli dèi da questa terra

distolsero lo sguardo

e fuggì Giove stesso l’aureo trono.

 

Lo scandalo di quella cena fu accresciuto dal fatto che in quel momento c’era in città gran penuria di viveri e fame, tanto che l’indomani si gridò che gli dèi avevano divorato tutto il frumento, e che Cesare era davvero Apollo, ma Apollo Aguzzino: con questo soprannome era venerato quel dio in un settore della città. Fu criticato anche come amantissimo di preziosa suppellettile e di vasi di Corinto, ed anche incline al gioco dei dadi. Al tempo delle proscrizioni fu anche scritto sotto la sua statua:

 

Fu banchiere mio padre, io corinziere 81;

 

si riteneva che avesse fatto includere nelle liste di proscrizione alcuni per gola dei loro vasi corinzii. Anche più tardi, durante la guerra di Sicilia si diffuse questo epigramma:

 

Poiché, vinto due volte con la flotta,

perse le navi, per potere alfine

vincere gioca sempre con i dadi.

 

71. Di queste accuse – o mormorazioni che fossero – confutò molto facilmente la cattiva fama di impudicizia con la castità della vita di allora e di quella successiva; così pure allontanò l’odiosità della bramosìa di oggetti preziosi, allorché, presa Alessandria, in primo luogo, di tutta la suppellettile regale non tenne niente per sé tranne una sola tazza di mirra, e poi, fece fondere tutti i vasi d’oro di uso quotidiano. Quanto però alla libidine, vi persistette: anche più tardi fu abbastanza pronto – a quanto si racconta – a violare giovani vergini, che da ogni parte gli si procuravano, persino dalla moglie. Delle chiacchiere sulla sua passione per i dadi non si preoccupò più di tanto, e continuò tranquillamente a giocare senza nascondersi, per divertimento, anche da vecchio, e non solo nel mese di dicembre, ma anche negli altri, nei giorni festivi e non festivi. Su questo punto non ci sono dubbi. In una lettera autografa egli dice: «Ho cenato, Tiberio mio, con le solite persone. Ma c’erano in più, tra i convitati, Vinicio e Silio padre. Durante la cena abbiamo giocato, come bravi vecchietti, sia ieri sia oggi: gettati i dadi, a seconda che uno avesse fatto il cane o il sei, metteva in tavola un denaro per ogni dado: se li pigliava tutti chi avesse fatto Venere 82». E ancóra in un’altra lettera: «Da parte nostra, Tiberio mio, abbiamo passato abbastanza allegramente le Quinquatrie 83. Abbiamo giocato tutti i giorni, e così il tavoliere si è scaldato. Tuo fratello ha fatto grande strepito; alla fine, però, non ha perso molto: dopo forti perdite, un po’ alla volta si è inaspettatamente rifatto. Io, per conto mio, ho perso ventimila sesterzi, ma solo perché nel gioco ero stato assai generoso, come quasi sempre. Se da ognuno mi fossi fatto pagare tutte le mani che gli ho condonato, o avessi tenuto quello che a ciascuno ho regalato, ne avrei vinti anche cinquantamila. Ma preferisco così: la mia bontà innalzerà la mia gloria alle stelle». Alla figlia scrive così: «Ti mando duecentocinquanta denari, quanti ne do a ciascun convitato, nel caso che vogliano, durante la cena, giocare tra loro a dadi oppure a pari o dispari».

 

72. Nelle altre manifestazioni della vita risulta che fu moderatissimo e senza sospetto di alcun vizio. Abitò dapprima vicino al Foro Romano, sopra le Scale dei Gioiellieri, nella casa che era stata dell’oratore Calvo 84; poi sul Palatino, ma anche lì nella modesta casa di Ortensios 85, che non si distingueva né per vastità né per eleganza: c’erano solo brevi portici di colonne Albane; e le sale non avevano né marmi né pavimenti particolari. Per più di quarantanni rimase a dormire, estate e inverno, nella stessa camera, e, benché constatasse che d’inverno la capitale non era affatto adatta alla sua salute, passava l’inverno sempre a Roma. Se qualche volta voleva fare alcunché in segreto o senza essere disturbato, aveva al piano superiore un locale particolare, che chiamava Siracusa o laboratorio: qui appunto si recava; oppure nella villa suburbana di qualche suo liberto. Quando era malato, stava a letto in casa di Mecenate. Fra i suoi luoghi di ritiro preferiva le zone marittime, le isole della Campania o le cittadine vicine a Roma, come Preneste, Lanuvio, Tivoli: qui, anzi, sotto i portici del tempio di Ercole, amministrò assai spesso la giustizia. Le ville grandi e impegnative non gli piacevano. Fece persino radere al suolo quelle di sua nipote Giulia, fatte da lei costruire con ingenti spese; le sue, invece, per quanto modeste, dotò non tanto di statue o di quadri, quanto di colonnati e di boschetti e di oggetti antichi e rari. Per esempio, a Capri ci sono giganteschi resti di animali o belve enormi: vengono chiamati ossa dei giganti e armi degli eroi.

 

73. La modestia del suo arredamento e delle sue suppellettili si constata ancor oggi dai divani e dalle tavole che rimangono: la maggior parte di ciò arriva sì e no all’eleganza di un privato cittadino. Dicono pure che dormisse semplicemente su un letto basse} e con biancheria e coperte assai semplici. Difficilmente indossò altri abiti che quelli fatti in casa, confezionatigli dalla sorella o dalla moglie o dalla figlia o dalle nipoti. La sua toga non era né striminzita né ampia, con il fregio di porpora né troppo largo né troppo stretto; usò scarpe un po’ alte, per sembrare più alto di quanto fosse. Tenne sempre pronti nella camera da letto anche abiti e scarpe di maggior riguardo, per qualsiasi evenienza improvvisa.

 

74. Dava continuamente banchetti, ma sempre in piena regola, con attenta selezione delle persone e delle categorie. Secondo Valerio Messalla nessun liberto mai fu da lui invitato a cena, con la sola eccezione di Mena 86, ma quando già era stato assimilato ai cittadini nati liberi, dopo che aveva consegnato la flotta di Sesto Pompeo. Augusto stesso scrive di averne invitato, una volta, uno nella cui casa di campagna si trovava, e che era stato un tempo un suo informatore. Ai banchetti talvolta si presentava in ritardo e ne veniva via in anticipo; i convitati cominciavano a cenare prima che lui venisse a tavola, e restavano ancóra dopo che lui se n’era andato. Offriva cene di tre portate, o al massimo di sei, con spesa non eccessiva, ma con la massima cordialità: per esempio sollecitava a partecipare alla conversazione generale quelli che tacevano o che chiacchieravano a bassa voce; inframmezzava il pasto con declamatori e attori, o anche con volgari pantomimi da circo, e spesso con filosofastri.

 

75. Celebrava con grande magnificenza i giorni festivi e solenni; talvolta, invece, con semplici scherzi. Durante i Saturnali, e in qualunque momento gli fosse piaciuto, distribuiva regali, consistenti ora in capi di abbigliamento, oggetti d’argento e oggetti d’oro, ora in monete di ogni conio, anche antiche, risalenti ai re, o straniere, talvolta invece stoffe grossolane, spugne, forchettoni, forbici, e altri oggetti di tal genere, con iscrizioni oscure ed ambigue. Usava anche, durante il convito, mettere in vendita biglietti di lotteria di oggetti disparatissimi, e anche quadri voltati contro la parete, e quindi deludere o realizzare le speranze dei compratori con l’incertezza della sorte: le offerte si dovevano fare per ciascun divano della mensa, per cui la perdita o il guadagno venivano messi in comune.

 

76. Il suo cibo (nemmeno questo particolare vorrei omettere) era pochissimo e al limite della volgarità. Amava soprattutto il pane di seconda qualità, minuscoli pesciolini, formaggio vaccino pressato a mano, e fichi freschi di quelli che vengono due volte l’anno. Mangiava anche prima di cena, in qualunque momento e in qualunque luogo, quando aveva appetito. Sono parole sue, tratte da una lettera: «Quanto a noi, abbiamo gustato, in carrozza, pane e datteri». E ancóra: «Mentre tornavo a casa in lettiga dalla basilica, ho mangiato un’oncia di pane con qualche acino d’uva duracina». Ancora: «Nemmeno un Giudeo, Tiberio mio, osserva di sabato il digiuno con tanto scrupolo con quanto l’ho osservato oggi io, che solo in bagno, dopo la prima ora di notte, ho mangiato un boccone, prima di cominciare ad ungermi». Per questa sua mancanza di ogni regola, talvolta si faceva una cenetta da solo o prima dell’inizio o dopo la fine di un banchetto, mentre durante il convito non toccava niente.

 

77. Anche nel bere il vino egli era per natura molto sobrio: Cornelio Nepote 87 racconta che nell’accampamento davanti a Modena non usava bere più di tre bicchieri ogni pasto. Poi, quando si trattava proprio con la massima larghezza, non superava i sei sestanti 88, o, se li superava, li rigettava. Gli piaceva più d’ogni altro il vino della Rezia 89, ma difficilmente beveva durante il giorno. Per dissetarsi prendeva del pane inzuppato in acqua fresca, o una fetta di cocomero, o un cespetto di lattuga, o un frutto, fresco o seccato, dal succo vinoso.

 

78. Dopo il pasto di mezzogiorno, vestito e calzato com’era, si riposava un po’, con i piedi scoperti e con una mano sugli occhi. Dopo la cena si ritirava su un lettuccio da lavoro: lì rimaneva, anche a tarda notte, fino a sbrigare, in tutto o in gran parte, il resto del lavoro della giornata. Andato poi a letto, dormiva, al massimo, non più di sette ore, e nemmeno queste di continuo: durante quelle ore si svegliava tre o quattro volte. Se, come càpita, non riusciva a riprendere il sonno interrotto, faceva venire dei lettori o novellieri, si riaddormentava e prolungava il sonno spesso anche oltre l’alba. Al buio non vegliava mai senza qualcuno vicino. Non gli piaceva essere svegliato al mattino; e se per qualche impegno o per qualche cerimonia religiosa doveva svegliarsi più presto del solito, per non esserne troppo disturbato, passava la notte nella camera più vicina di un qualsiasi amico. Ma anche così, sentendo spesso bisogno di dormire, si faceva un sonnellino sia mentre lo portavano per strada in lettiga, sia durante qualche sosta, quando veniva deposta a terra la lettiga.

 

79. Fu di bellezza notevole, affascinante durante tutte le fasi della vita; eppure era incurante di ogni ricercatezza, e tanto trasandato nel pettinarsi, che si affidava frettolosamente e contemporaneamente a più barbieri, facendosi insieme tagliare i capelli e radere la barba; e nello stesso tempo leggeva qualcosa o persino scriveva. Aveva il volto tanto tranquillo e sereno sia nella conversazione, sia mentre taceva, che uno dei più eminenti cittadini Galli confessò ai suoi che proprio da ciò si era sentito bloccato e trattenuto dal gettarlo in un precipizio – come aveva progettato – durante l’attraversamento delle Alpi, quando era stato ammesso alla sua presenza con la scusa di un colloquio. Aveva occhi chiari e lucenti; anzi, voleva che si pensasse che ci fosse in essi un qualche vigore divino; e si compiaceva se qualcuno, quando egli lo guardava insistentemente, abbassava lo sguardo come dinanzi al fulgore del sole. In vecchiaia, però, con il sinistro ci vedeva meno. Aveva denti un po’ distanziati e piccoli e scabri, capigliatura un po’ ondulata e tendente al biondo, sopracciglia unite, orecchie non troppo grandi, naso un po’ prominente nella parte superiore e meno appariscente nell’inferiore, colorito tra il bruno e il pallido, statura non alta (per quanto, Giulio Marato, suo liberto e segretario, dice che era alto cinque piedi e tre quarti), ma tale che passava inosservata per la perfetta proporzione delle sue membra; sicché la si poteva notare solo nel paragone di uno più alto che gli stesse vicino.

 

80. Pare che avesse il corpo pieno di macchie, cioè con nèi naturali sparsi nel petto e nel ventre, della forma e nell’ordine e nel numero delle stelle dell’Orsa Maggiore. Aveva anche certe callosità formatesi qua e là, come impetìgine, in conseguenza del prurito che gli dava il corpo e del continuo e vigoroso uso dello strìgile 90. Era un po’ debole nell’anca, nella coscia e nella gamba sinistra, tanto che spesso zoppicava. Le rinforzava con l’aiuto di fasce e di stecche di canna. Anche l’indice della mano destra egli sentiva talvolta così debole, che, intorpidito e rattrappito per il freddo, a stento riusciva ad usarlo per scrivere, col supporto di un anello di corno. Ebbe a lamentarsi anche della vescica: si sollevava del dolore che essa gli dava, espellendo finalmente i calcoli con l’urina.

 

81. Durante tutta la vita soffrì di malattie serie e pericolose. Il caso più grave fu dopo che ebbe fiaccato la Cantabria, quando, ridotto in condizioni disperate da un travaso di bile, dovette sottostare a due opposti tipi di cura: poiché gli impacchi caldi non davano sollievo, il medico Antonio Musa lo costrinse a curarsi con impacchi freddi. Di certe malattie soffriva ogni anno e in epoca ben precisa: si ammalava quasi sempre intorno al suo compleanno; all’inizio della primavera era assalito da infiammazione viscerale, all’epoca dello scirocco da una certa pesantezza. Perciò, con il corpo malandato, non sopportava facilmente né il freddo né il caldo.

 

82. D’inverno si copriva con una pesante toga e quattro tuniche, con l’aggiunta di una camicia, di una maglia di lana e di fasce sulle cosce e sui polpacci; d’estate dormiva con le finestre aperte, e spesso nel colonnato, con l’acqua che zampillava e magari con qualcuno che gli faceva vento. Insofferente del sole anche d’inverno, all’aperto non si aggirava senza cappello nemmeno in casa sua. Viaggiava in lettiga, per lo più di notte, a lente e piccole tappe, tanto che impiegava due giorni per giungere a Preneste o a Tivoli 91; e se poteva raggiungere la sua destinazione per mare, preferiva navigare. Ma questa salute tanto delicata egli difendeva con gran cura, anzitutto facendo raramente il bagno: più spesso si spalmava d’olio vicino a un focolare, poi si sciacquava con acqua fredda oppure scaldata al sole cocente. Quando poi, per curare disturbi neuritici, doveva ricorrere alle acque di mare o alle acque termali Albule 92, si accontentava di sedersi su uno sgabello di legno – che, con termine spagnolo, chiamava dureta – e di immergere alternativamente ora le mani ora i piedi.

 

83. Sùbito dopo le guerre civili, smise di esercitarsi in campo aperto con i cavalli e con le armi; dapprima passò alla palla e al pallone; poi si limitò a farsi portare in vettura o a passeggiare a piedi, ma l’ultimo tratto lo percorreva saltando e correndo, avvolto in un mantello o in una copertina. Per rilassarsi, ora pescava con l’amo, ora giocava con i dadi o con le petruzze o con le noci, con qualche bambino: li cercava dappertutto, amabile in volto e nella loquacità, soprattutto Mauri e Siri. Evitava invece con orrore i nani, gli sciancati e tutti quelli di tal genere, come scherzi di natura e di cattivo augurio.

 

84. Fin dalla prima giovinezza coltivò l’eloquenza e gli studi liberali con passione e con il massimo impegno. Si racconta che durante la guerra di Modena, pur in mezzo a tanta mole di impegni, ogni giorno leggeva, scriveva e declamava. Il fatto è che più tardi né in Senato né dinanzi al popolo né dinanzi ai soldati parlò mai senza aver prima meditato e messo insieme il discorso, benché non gli mancasse la capacità di improvvisazione di fronte a eventi subitanei. E per non andare incontro al pericolo di amnesia o per non perdere tempo ad imparare a memoria, cominciò a tenere tutti i suoi discorsi leggendo. Anche le conversazioni più importanti con singole persone e persino con la sua Livia le teneva soltanto dopo averle scritte e consultando gli appunti, per non dire, improvvisando, troppo o troppo poco. Si esprimeva con un tono di voce dolce e particolare, e dedicava molto tempo ad un maestro di declamazione; talvolta, però, se aveva la gola infiammata, parlava al popolo servendosi di un banditore.

 

85. Compose in prosa molti scritti di vario genere, alcuni dei quali lesse pubblicamente in riunioni di intimi, come se si trovasse in una scuola di declamazione; così le Risposte a Bruto a proposito di Catone: questi volumi lesse in gran parte lui stesso, quando era già vecchio, ma poi, ormai stanco, li diede da leggere a Tiberio; così le Esortazioni alla filosofia, e alcuni libri Sulla sua vita; la raccontò in tredici libri, ma solo sino alla guerra cantábrica. Poco si dedicò alla poesia: ci resta di lui un libro, scritto in esametri, che ha come titolo e argomento La Sicilia; ne resta anche un altro, altrettanto breve, di Epigrammi: li meditava generalmente mentre era in bagno. Iniziò con grande entusiasmo una tragedia, ma poi la distrusse perché non lo soddisfaceva lo stile; e quando gli amici gli chiesero come andava il suo Aiace, rispose che «il suo Aiace si era gettato sulla spugna» 93.

 

86. Seguì un tipo di eloquenza elegante e semplice, evitando i concettuzzi sciocchi, la perfetta simmetria delle parti e, come dice lui stesso, il puzzo delle parole astruse. La sua preoccupazione principale era di esprimere nel modo più chiaro il proprio pensiero. E per ottenere più facilmente questo scopo e per non infastidire o lasciare perplesso il lettore o l’ascoltatore, non esitò ad aggiungere le preposizioni ai nomi di città e a ripetere più volte le congiunzioni: queste, infatti, se eliminate, portano qualche oscurità, anche se accrescono l’eleganza dello scritto. Sdegnò con uguale fastidio, in quanto viziosi di genere opposto, i leziosi e gli arcaicizzanti; e ogni tanto li bersagliava delle sue critiche, in particolare il suo Mecenate, di cui continuamente censura, come dice lui, «i riccioli profumati»; e, imitandoli scherzosamente, li prende in giro. Non risparmia nemmeno Tiberio, che andava cercando talvolta parole desuete e incomprensibili. Critica pure Marco Antonio, dandogli del pazzo perché scriveva per essere ammirato piuttosto che per essere compreso; poi deridendo il suo temperamento, inetto e incostante nello scegliere un determinato stile, aggiunge: «E tu sei incerto se imitare Annio Cimbro e Veranio Fiacco 94 – tanto che adoperi le parole che Sallustio Crispo ha cavato fuori dalle Origini di Catone 95 – oppure trasferire nella nostra lingua la vacua faciloneria parolaia degli oratori asiatici?». E in una lettera, lodando l’ingegno della nipote Agrippina, dice: «Ma bisogna che tu stia attenta a non scrivere e parlare fastidiosamente».

 

87. Le sue stesse lettere autografe mostrano chiaramente che nel linguaggio quotidiano egli usava spesso e spiccatamente determinate espressioni: per esempio, ogni tanto, quando vuole esprimere il concetto che il tale non pagherà mai, dice che pagherà alle calende greche; e quando vuole esortare a sopportare la sorte presente, quale che essa sia, dice «accontentiamoci di questo Catone»; per evidenziare la rapidità con cui si è sbrigata una faccenda, dice: «più in fretta di quanto si cuociano gli asparagi». Usa continuamente baccello per sciocco, e corvino per nero, e imbambolato per pazzo, ed essere svanito per star male, e imbietolire per languire quello che generalmente è detto vegetare ; inoltre simus invece di sumus, e domos come genitivo, anziché domus: queste ultime due, simus e domos, sempre così, perché non si pensasse ad un errore anziché ad una precisa abitudine. Anche questo ho notato nel suo modo di scrivere: non divide le parole, né dalla fine della riga riporta alla riga successiva le lettere che non entrerebbero: le aggiunge lì sotto con una linea che le avvolge.

 

88. Non osserva l’ortografia, cioè la regola e la maniera di scrivere che viene insegnata dai grammatici; sembra piuttosto che segua l’opinione di quelli che sostengono che si deve scrivere così come si parla. Per esempio, il fatto che spesso salti o scambi una lettera o anche una sillaba, è un errore che rientra nell’uso comune della gente. E non lo noterei, se non mi sembrasse sorprendente il fatto che alcuni abbiano raccontato che egli sostituì con altra persona un governatore di rango consolare, in quanto rozzo e ignorante, perché aveva notato che quello aveva scritto ixi anziché ipsi. Ogni volta, poi, che scrive in cifra, mette B al posto di A, C al posto di B, e così via per tutte le altre lettere; per X mette due A.

 

89. Con non minore impegno si dedicò alla cultura greca, e anche in questa si distinse abbondantemente: aveva avuto come maestro di eloquenza Apollodoro di Pergamo 96, che, già anziano, egli, quando era giovane, aveva condotto con sé anche da Roma ad Apollonia. Poi si era arricchito di varia erudizione vivendo a contatto con il filosofo Areo e con i suoi figli Dionisio e Nicànore 97. Non giunse però a parlare il greco speditamente o a osare di comporre qualcosa in quella lingua: se ce n’era bisogno, scriveva il testo in latino e lo dava da tradurre ad altri. Comunque, non essendo affatto digiuno anche di poesia, gli piaceva pure la commedia antica e spesso la fece rappresentare in spettacoli pubblici. Nel leggere gli autori dell’una e dell’altra lingua, andava cercando soprattutto gli insegnamenti e gli esempi che potessero risultare educativi nella vita pubblica o in quella privata: li ricopiava parola per parola e li inviava assai spesso o ai suoi familiari, o a quelli che erano alla testa di eserciti e di province, o alle autorità della capitale, secondo gli avvertimenti di cui ognuno avesse bisogno. Persino interi libri lesse al Senato e fece spesso conoscere al popolo mediante appositi comunicati; così i discorsi di Quinto Metello 98 Sull’accrescimento della prole e di Rutilio 99 Sul limite degli edifici: voleva meglio convincere che l’uno e l’altro problema non erano stati affrontati da lui per primo, ma fin da allora anche gli antichi li avevano avuti a cuore. Favorì in tutti i modi gli ingegni del suo tempo. Benevolmente e pazientemente li ascoltò lèggere, e non solo opere in versi o di carattere storico, ma anche discorsi e dialoghi. Non voleva assolutamente che si componesse qualcosa su di lui se non seriamente e da parte dei più grandi; e avvertiva i pretori di non permettere che si svilisse il suo nome abusàndone nei concorsi letterari.

 

90. Per quanto riguarda le superstizioni religiose, lo abbiamo trovato di tale atteggiamento: aveva la debolezza di paventare tuoni e fulmini, cosicché portava sempre con sé, per scaramanzia, della pelle di foca, e ad ogni sospetto di temporale piuttosto violento si rifugiava in un locale sotterraneo e a volta, dato che, come abbiamo detto, a suo tempo era stato atterrito durante un viaggio da un fulmine che gli era passato vicino.

 

91. Non trascurava né i sogni suoi, né quelli altrui che lo riguardassero. Sul campo di Filippi, sebbene avesse deciso, perché malato, di non uscire dalla tenda, ne uscì, tuttavia, avvertito dal sogno di un amico; e gli andò bene, giacché, quando il suo accampamento fu conquistato, fu trafitta e distrutta dai nemici, che giungevano a frotte, la sua lettiga come se egli vi fosse restato a giacere. Durante tutta la primavera sognava moltissimo: visioni spaventose, vane e fallaci; nelle altre stagioni sognava meno, ed erano sogni meno vani. Poiché frequentava assiduamente il tempio di Giove Tonante sul Campidoglio, una volta sognò che Giove Capitolino si lamentava che gli si togliessero i fedeli, e che lui aveva risposto che il Tonante gli era stato messo accanto solo come portinaio; perciò dotò poi di campanelli il fastigio del tempio, poiché appunto tali campanelli pendevano generalmente dalle porte delle case. Sempre in seguito a un sogno notturno, ogni anno in un determinato giorno chiedeva pubblicamente l’elemosina, porgendo il cavo della mano a chi volesse dargli delle monete.

 

92. A determinati auspici e presagi badava come infallibili: se al mattino si infilava male le scarpe, mettendo la sinistra invece della destra, era un cattivo augurio; se per caso, mentre partiva per un lungo viaggio per terra o per mare, fosse caduta la rugiada, era lieto presagio di rapido e felice ritorno. Ma anche dai prodigi era molto impressionato. Tra le commessure delle pietre davanti a casa sua era spuntata una palma: la fece trapiantare nel compluvio degli Dèi Penati e pose la massima cura che attecchisse. Fu così felice che nell’isola di Capri i rami di un vecchissimo elee, che ormai si piegavano a terra e languivano, avessero ripreso nuova vita al suo arrivo, che con la città di Napoli combinò lo scambio di quell’isola, dando in compenso l’isola d’Ischia. Stava attento anche a determinati giorni: per esempio non partiva per nessuna destinazione l’indomani dei giorni di mercato; e alle None 100 non incominciava nessun affare serio: quanto a quest’ultimo fatto, come scrive egli stesso a Tiberio, voleva evitare soltanto il malaugurio del nome 101.

 

93. Dei culti stranieri rispettava con la massima reverenza quelli antichi e ormai accettati, ma disprezzava tutti gli altri. Così, poiché ad Atene era stato iniziato ai misteri 102, quando più tardi, a Roma, dovette occuparsi in tribunale di un privilegio dei sacerdoti dell’attica Cèrere, e si dovevano tirar fuori certi segreti, egli, allontanato il collegio giudicante e il pubblico, ascoltò da solo le due parti. Invece, non solo, viaggiando per l’Egitto, rinunciò a compiere una piccola deviazione per vedere il bue Api 103, ma anche lodò il nipote Gaio che, attraversando la Giudea, non aveva fatto alcun sacrificio a Gerusalemme.

 

94. E poiché si è giunti a parlare di questo, non sarà fuori luogo aggiungere quei fatti che gli accaddero prima che nascesse e nel giorno stesso della nascita e poi più tardi, perché da essi si poteva sperare e intravvedere la sua futura grandezza e la sua perpetua fortuna. Quando a Velletri fu colpita da un fulmine una parte della muraglia, si ebbe il vaticinio che uno di quella città un giorno o l’altro avrebbe avuto il potere; confidando in questo, i Veliterni, sia sùbito allora, sia ripetutamente più tardi, si batterono in guerra contro Roma, fin quasi al loro sterminio; finalmente, ma molto più tardi, si vide chiaro dai fatti che quel prodigio aveva preannunciato la potenza di Augusto. Giulio Màrato 104 racconta che, pochi mesi prima che quello nascesse si verificò a Roma, sotto gli occhi di tutti, un prodigio, che annunciava che la natura stava partorendo un re per il Popolo Romano; il Senato, spaventato, avrebbe decretato che nessuno, che nascesse in quell’anno, fosse allevato; e quelli che avevano le mogli in attesa di un figlio, ciascuno sperando che l’oracolo si riferisse a lui, avrebbero fatto in modo che il decreto non venisse depositato. Nei Teologùmenoi di Asclepìade di Mende 105 leggo che Azia, venuta in piena notte ad una solenne cerimonia in onore di Apollo, fatta deporre nel tempio la lettiga, mentre le altre donne già se ne tornavano a casa, si addormentò e un serpente improvvisamente scivolò fino a lei, e poco dopo uscì; quella, svegliatasi, si purificò, come dopo aver fatto l’amore con suo marito; e sùbito sul suo corpo comparve una macchia, come se vi fosse stato dipinto un serpente, macchia che non si potè mai più cancellare, tanto che da allora dovette astenersi per sempre dai bagni pubblici; dopo nove mesi nacque Augusto, che per questo fu ritenuto figlio di Apollo. Sempre Azia, prima di partorire, sognò che le sue viscere venivano portate su fino alle stelle e poi si dispiegavano per tutta la distesa della terra e del cielo. Anche il padre Ottavio sognò che dal ventre di Azia era sorto lo splendore di un sole. Nel giorno in cui nacque, in Senato si discuteva della congiura di Catilina, e Ottavio, per il parto della moglie, vi era giunto in ritardo: ed è ormai noto e risaputo che Publio Nigìdio 106, appreso il motivo del ritardo, quando venne a sapere anche l’ora del parto, dichiarò che era nato un padrone per il mondo. Più tardi, Ottavio, mentre al comando dell’esercito percorreva l’interno della Tracia, nel bosco del padre Libero 107 consultò l’oracolo, secondo il cerimoniale del luogo, a proposito del figlio: ebbene, dai sacerdoti gli fu data la stessa risposta, perché, quando versarono il puro vino sull’altare, la fiamma guizzò tanto alta che, superando il frontone del tempio, giunse fino al cielo; e un simile prodigio si era presentato soltanto – garantivano – ad Alessandro Magno quando aveva sacrificato presso i medesimi altari. Anche sùbito nella notte successiva, ad Ottavio parve di vedere il figlio, in aspetto più maestoso di un semplice mortale, con un fulmine, con lo scettro e con le armi di Giove Ottimo Massimo, e con una raggiante corona, su un carro ornato di alloro tirato da sei coppie di cavalli di straordinario candore. Ancora piccino, come risulta da Gaio Druso 108, una sera, deposto dalla nutrice nella culla a pianterreno, l’indomani non lo si trovò, e dopo essere stato cercato a lungo, fu trovato finalmente su un’altissima torre, mentre ancóra dormiva rivolto al sole appena sorto. Appena cominciò a parlare, nella tenuta suburbana del nonno una volta alle rane che gracidavano fastidiosamente ordinò di tacere; e si dice che proprio da allora le rane lì non gràcidino più. Al quarto miglio della via Campana, mentre faceva colazione in un boschetto, improvvisamente un’aquila gli strappò via di mano un pezzo di pane e, dopo un altissimo volo, di nuovo, all’improvviso, scesa giù lentamente, glielo restituì. Quinto Càtulo 109, dopo la dedicazione del Campidoglio, sognò per due notti di séguito: la prima notte sognò che Giove Ottimo Massimo, fra tanti ragazzi in toga pretesta che giocavano intorno all’altare, ne scelse uno e gli pose in grembo l’insegna della Repubblica, che teneva in mano; nella notte successiva sognò di aver visto in grembo a Giove Capitolino il medesimo fanciullo, e, poiché egli aveva ordinato di toglierlo di là, ciò gli fu proibito dal mònito del dio, come a dire che il ragazzo veniva allevato per la salvaguardia dello Stato. L’indomani, quando vide capitargli incontro Augusto, che per altro non conosceva, disse non senza stupore, dopo averlo osservato, che il fanciullo era identico a quello di cui aveva sognato. Alcuni raccontano diversamente il primo dei due sogni di Càtulo: Giove, poiché parecchi ragazzi in toga pretesta gli chiedevano un protettore, avrebbe indicato uno di loro, al quale essi dovevano esporre tutti i loro desideri; poi avrebbe portato alla propria bocca la mano sfiorata dal bacio di lui. Marco Cicerone, accompagnando Gaio Cesare in Campidoglio, stava raccontando agli amici un sogno avuto la notte precedente: un fanciullo di nobile aspetto, calato dal cielo attraverso una catena d’oro, s’era fermato davanti alle porte del Campidoglio, e a lui Giove aveva consegnato una frusta. Poi, improvvisamente, veduto Augusto, che, ancóra ignoto ai più, lo zio Cesare aveva fatto venire per partecipare alla cerimonia, Cicerone affermò che era proprio il ragazzo la cui immagine gli si era presentata nel sonno. Nel giorno in cui assunse la toga virile, la tunica orlata di porpora, scucitasi da entrambe le parti, gli cadde ai piedi; e ci fu chi interpretò che il fatto significasse soltanto che quell’ordine senatorio, di cui quello era il simbolo, un giorno o l’altro gli sarebbe stato sottomesso. Nei pressi di Munda 110, mentre il Divino Giulio faceva tagliare un boschetto per piantarvi il campo, si trovò una palma, ed egli la fece risparmiare come presagio di vittoria; e un pollone nato sùbito dopo da essa, in pochi giorni crebbe tanto che non solo uguagliò la sua matrice, ma anche la coprì; e fu affollato da nidi di colombi, sebbene quella sorta di uccelli di solito eviti assolutamente quelle fronde dure e scabre. Dicono che soprattutto da quel prodigio Cesare fu spinto a non volere che gli succedesse altri che il nipote della sorella. Durante il suo ritorno ad Apollonia era salito, in compagnia di Agrippa, fino all’osservatorio dell’astrologo Teògene; e poiché ad Agrippa, che per primo aveva consultato lo studioso, veniva predetto un avvenire grande e quasi incredibile, Augusto insisteva a tacere i dati della sua nascita e non voleva rivelarli, per timore e vergogna di essere eventualmente trovato inferiore al compagno. Quando finalmente, a stento e dopo lunghi incoraggiamenti, li rivelò, Teògene balzò su e si prostrò dinanzi a lui. Da allora Augusto ebbe tanta fiducia nel proprio destino, che fece pubblicare il suo oroscopo e fece battere una moneta d’argento con il contrassegno del Capricorno, sotto il quale era nato.

 

95. Quando ritornò da Apollonia dopo l’uccisione di Cesare, nel momento in cui entrava in Roma, improvvisamente, nel cielo limpido e sereno, un cerchio simile a un arcobaleno avvolse il disco del sole, e subito appresso fu colpito dal fulmine il sepolcro di Giulia, figlia di Cesare. Poi, quando inaugurò, traendo gli auspici, il suo primo consolato, gli apparvero, come a Romolo, dodici avvoltoi; e quando compì il sacrificio, il fegato di ogni vittima risultò ripiegato in dentro fin dalle fibre più interne: non ci fu uno solo degli esperti che non dedusse che gli veniva presagito un lieto e grande avvenire.

 

96. Persino di tutte le guerre egli presentì l’esito. Quando nei pressi di Bologna si riunirono le truppe dei triumviri, un’aquila, posàtasi sulla sua tenda, sopraffece e gettò a terra due corvi che la attaccavano da una parte e dall’altra: tutto l’esercito intese che un giorno o l’altro ci sarebbe stata tra i colleghi quella discordia che poi effettivamente ci fu, e ne presagì l’esito. A Filippi un Tèssalo preannuncio la vittoria a nome del Divino Cesare, la cui immagine gli era apparsa in una strada fuori mano. Intorno a Perugia, poiché il sacrificio non dava esito favorevole, ordinò di portare altre vittime; ma con un’improvvisa sortita i nemici fecero piazza pulita di tutto l’apparato della cerimonia: allora gli aruspici furono concordi nel dire che tutto ciò che di pericoloso e di avverso era stato preannunciato durante il sacrificio, sarebbe ricaduto su quegli stessi che avevano ora le vittime. E le cose andarono appunto così. Prima di attaccare la battaglia navale nelle acque di Sicilia, mentre egli passeggiava sul lido, un pesce balzò fuori dal mare e giacque ai suoi piedi. Ad Azio, mentre egli scendeva in campo gli si fece incontro un asinelio con il suo asinaio: l’uomo si chiamava Eutìco, cioè Fortunato, la bestia Niconte, cioè Vittorioso: dopo la vittoria egli collocò un simulacro di entrambi, in bronzo, nell’area sacra in cui poi trasformò il luogo del suo accampamento.

 

97. Anche la sua morte – di cui dirò poi – con la successiva divinizzazione fu preannunciata da chiarissimi prodigi. Mentre egli concludeva il lustro in Campo Marzio in presenza di una grande folla, un’aquila gli volò intorno ripetutamente, poi, passata nel vicino tempio, si fermò sul nome di Agrippa, e precisamente sulla prima lettera di esso; constatato ciò, egli ordinò a Tiberio, suo collega, di pronunciare i voti che si usano fare per il lustro successivo: disse infatti che lui, sebbene fossero già scritte e preparate le tavolette, non intendeva fare dei voti che non avrebbe potuto mantenere. Nel medesimo periodo un fulmine cancellò la prima lettera del suo nome dall’iscrizione di una sua statua. Gli fu presagito che non sarebbe vissuto, da quel momento, più di cento giorni – giacché di quel numero era segno la lettera C – e che sarebbe stato annoverato tra gli dèi, poiché aesar, cioè la parte rimasta del nome Caesar, in etrusco significava dio. Mentre si accingeva a congedarsi da Tiberio – che partiva per l’Illirico – e ad accompagnarlo fino a Benevento, poiché molti litiganti lo trattenevano in tribunale, chi con una causa chi con un’altra, esclamò – e anche questo fu annoverato tra i presagi – che non sarebbe più rimasto a Roma nemmeno se tutto concorresse a trattenerlo. Iniziato il viaggio, puntò su Astura, e di lì, contro la sua abitudine, si imbarcò di notte per approfittare del vento favorevole; ma si prese una malattia che cominciò con una diarrea.

 

98. Poi, dopo aver girato per il litorale della Campania e per le isole vicine, per quattro giorni si ritirò anche a Capri, con l’animo del tutto rivolto alla tranquillità e ad ogni amabilità. Per combinazione, mentre passava lungo il golfo di Pozzuoli, i passeggeri e i marinai di una nave di Alessandria appena approdata, vestiti di bianco, inghirlandati e bruciando incensi, lo avevano colmato di auguri e lodi: per merito suo essi vivevano, per merito suo navigavano, per merito suo godevano della libertà e dei loro beni. Reso lietissimo da ciò, diede a ciascuno dei suoi compagni quaranta aurei, ma pretese da ciascuno l’assicurazione giurata che avrebbero speso quella somma soltanto in merci di Alessandria. Ma anche durante gli altri giorni successivi, distribuì, tra vari piccoli doni, anche toghe e pallii, ponendo come condizione che i Romani si vestissero e parlassero da Greci, e i Greci da Romani. Assistette anche con assiduità agli esercizi di efèbi, di cui, secondo un’antica tradizione, c’è ancóra a Capri una certa abbondanza; anzi, offrì loro anche un pranzo in sua presenza, lasciando, o meglio imponendo, la libertà assoluta di giocare, e di disputarsi a forza i frutti, le pietanze e i vari oggetti che venivano loro lanciati. Insomma, non rinunciò ad alcun genere di divertimento. Chiamava Apragòpoli un’isola vicina a Capri, dalla poltronerìa 111 di quelli del suo séguito che vi si ritiravano. Ma uno dei suoi prediletti, di nome Masgaba, egli soleva chiamare xtiott]v, cioè fondatore, dell’isola. Ebbene, avendo notato, dal suo triclinio, che il sepolcro di questo Masgaba, morto l’anno prima, era visitato da una gran folla con molte fiaccole, egli pronunciò con voce ben scandita e declamò questo verso, composto lì per lì:

 

Del fondatore ecco la tomba in fiamme,

 

e, rivolto a Trasillo, del séguito di Tiberio, che era accomodato davanti a lui, ignaro della faccenda, gli domandò di quale poeta

riteneva che fosse; e poiché quello esitava, soggiunse un altro verso:

 

Vedi onorato con le fiamme Màsgaba?

 

e gli domandò anche di questo. E poiché quello rispondeva soltanto che, di chiunque fossero, erano versi bellissimi, scoppiò in una risata e buttò la cosa in scherzo. Poi passò a Napoli, sebbene già sofferente d’intestino, sia pure saltuariamente; tuttavia assistette al certame ginnico quinquennale, istituito in suo onore; e con Tiberio si recò sino alla meta stabilita. Ma, sulla via del ritorno la malattia si aggravò, finché, a Nola 112, dovette mettersi a letto; fece richiamare Tiberio dal suo viaggio e lo trattenne a lungo in conversazione a quattr’occhi. Poi non pensò più a faccende importanti.

 

99. Nell’ultimo giorno di vita, domandò di tanto in tanto se fuori ci fosse già agitazione per lui; chiese uno specchio e si fece acconciare i capelli e aggiustare le guance cadenti. Fece poi entrare i suoi amici e ad essi domandò se sembrasse loro che avesse recitato bene la commedia della vita, e aggiunse la consueta conclusione:

 

Se dunque

va bene, date alla commedia il plauso

e tutti accompagnateci con gioia.

 

Poi, fatti uscire tutti, mentre chiedeva notizie, a chi veniva da Roma, della figlia di Druso, che era malata, improvvisamente finì tra i baci di Livia e con queste parole: «Livia, vivi ricordando la nostra unione. Addio!». Ebbe dunque una fine agevole, quale si era sempre augurato. Infatti, di solito quando sentiva che qualcuno era morto senza alcuna sofferenza, augurava per sé e per i suoi una simile εὐθανασίαν 113 (proprio questa parola adoperava). Prima di esalare l’ultimo respiro diede un unico segno di mente ottenebrata: improvvisamente, spaventato, si lamentò che quaranta giovani lo trascinassero via. Ma anche questo fu più un presagio che segno di alienazione mentale: in effetti quaranta pretoriani portarono fuori la sua salma per esporla al pubblico.

 

100. Morì nella stessa stanza in cui era morto suo padre Ottavio, sotto i consoli Sesto Pompeo e Sesto Appuleio, il 19 agosto 114, alle tre del pomeriggio, all’età di settantasei anni meno trentacinque giorni. Il suo corpo fu trasferito da Nola fino a Boville 115 dai decurioni dei municipi e delle colonie; il trasporto, data la stagione, avveniva di notte; di giorno la salma veniva deposta nella basilica di ogni cittadina o nel massimo dei suoi templi. Da Boville si incaricò del corpo l’ordine equestre, che lo portò nella capitale e lo collocò nel vestibolo del suo palazzo. Il Senato sia nel disporre il funerale sia nell’onorare la sua memoria gareggiò con tale impegno che, tra le molte altre proposte, alcuni avanzarono l’idea che il funerale dovesse passare attraverso la porta trionfale, preceduto dalla Vittoria che è nella Curia, al canto di nenie funebri intonate da ragazzi d’ambo i sessi, figli dei più eminenti cittadini; altri proposero che nel giorno del funerale si mettessero da parte gli anelli d’oro e portassero al dito anelli di ferro; alcuni altri, che le ossa di Augusto dovessero essere raccolte dai sacerdoti dei massimi collegi. Ci fu chi sostenne che l’appellativo di agosto si trasferisse dal mese di sestile a quello di settembre, perché in questo Augusto era nato, in quello era morto. Un altro propose che tutto il periodo che va dal giorno della sua nascita a quello della sua morte si chiamasse Secolo di Augusto e che così si registrasse nei Fasti. Méssosi però un freno alle onoranze, due volte fu pronunciato per lui l’elogio funebre: da Tiberio davanti al tempio del Divino Giulio, poi da Druso figlio di Tiberio davanti ai vecchi Rostri. Il corpo, portato a spalle dai senatori, fu cremato nel Campo Marzio. Non mancò neppure un uomo, di rango pretorio, che giurò di aver visto l’immagine del principe cremato, che saliva al cielo. Ne raccolsero i resti i più eminenti dell’ordine equestre, in tunica e senza cintura, a piedi nudi, e lo riposero nel suo mausolèo: lo aveva costruito, tra la Via Flaminia e la riva del Tevere, durante il suo sesto consolato; fin d’allora egli aveva aperto al pubblico i circostanti boschetti e viali.

 

101. Aveva redatto il testamento sotto i consoli Lucio Planco e Gaio Silio, il 3 aprile, un anno e quattro mesi prima di morire; era su due rotoli scritti in parte da lui stesso, in parte per mano dei suoi liberti Polibio e Ilarione, ed era stato deposto presso le vergini Vestali. Queste lo consegnarono, insieme con altri tre rotoli ugualmente sigillati. Tutto ciò fu aperto e letto in Senato. Istituiva eredi in primo grado, per la metà più un sesto, Tiberio; per un terzo, Livia, che egli volle che da allora portasse il suo nome 116; in secondo grado Druso figlio di Tiberio, per un terzo; per il resto, Germanico e i suoi tre figli maschi; in terzo grado, molti parenti ed amici. Al Popolo Romano lasciò quaranta milioni di sesterzi; alle tribù, tre milioni e mezzo; a ciascuno dei soldati pretoriani, mille sesterzi; alle coorti urbane, cinquecento; ai legionari, trecènto. Tutta questa somma volle che fosse pagata in contanti, giacché l’aveva custodita e tenuta pronta nel suo tesoro personale. Lasciò diversi altri legati – alcuni dei quali giungevano sino a ventimila sesterzi –, per pagare i quali fissò il limite di un anno. E giustificò la modestia del suo patrimonio, aggiungendo che ai suoi eredi non sarebbero venuti più di centocinquanta milioni di sesterzi, sebbene negli ultimi venti anni ne avesse ricevuti, per testamento degli amici, mille e quattrocento milioni: quasi tutto ciò, con l’aggiunta dei due patrimoni paterni e delle altre eredità, aveva speso a vantaggio dello Stato. Vietò che le due Giulie, la figlia e la nipote, quando dovessero morire, venissero poste nel suo sepolcro. Quanto ai tre rotoli, il primo conteneva le disposizioni per il suo funerale; il secondo l’elenco di tutto ciò che egli aveva compiuto, elenco che egli volle fosse inciso su tavole di bronzo da erigere dinanzi al suo Mausolèo; il terzo un breve rendiconto sulla situazione di tutto l’impero: quanti soldati, e dove, ci fossero in armi; quanto denaro ci fosse nelle casse dello Stato e in quelle imperiali, e quale fosse il residuo delle pubbliche entrate. Aggiunse anche i nomi dei suoi liberti e dei suoi schiavi, a cui si potevano chiedere i conti.

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
Storici Latini
cover.xhtml
frontespizio.xhtml
tit1.xhtml
intro1.xhtml
notatrad1.xhtml
debellogallicoguerra.xhtml
debellolat1.xhtml
debelloita1.xhtml
debellolat2.xhtml
debelloita2.xhtml
debellolat3.xhtml
debelloita3.xhtml
debellolat4.xhtml
debelloita4.xhtml
debellolat5.xhtml
debelloita5.xhtml
debellolat6.xhtml
debelloita6.xhtml
debellolat7.xhtml
debelloita7.xhtml
debellolat8.xhtml
debelloita8.xhtml
debelociviliguerra.xhtml
debellolat9.xhtml
debelloita9.xhtml
debellolat10.xhtml
debelloita10.xhtml
debellolat11.xhtml
debelloita11.xhtml
note1.xhtml
notabio1.xhtml
tit2.xhtml
intro2.xhtml
notatrad2.xhtml
devirisillustri.xhtml
grandicondo.xhtml
devirislat1.xhtml
devirisita1.xhtml
storicilat.xhtml
devirislat2.xhtml
devirisita2.xhtml
frammentitesti.xhtml
devirislat3.xhtml
devirisita3.xhtml
note2.xhtml
notabio2.xhtml
tit3.xhtml
intro3a.xhtml
intro3b.xhtml
intro3c.xhtml
gaiolat1.xhtml
gaioita1.xhtml
gaiolat2.xhtml
gaioita2.xhtml
gaiolat3.xhtml
gaioita3.xhtml
note3.xhtml
notabio3.xhtml
tit4.xhtml
intro4.xhtml
devitacesare.xhtml
svetlat1.xhtml
svetita1.xhtml
svetlat2.xhtml
svetita2.xhtml
svetlat3.xhtml
svetita3.xhtml
svetlat4.xhtml
svetita4.xhtml
svetlat5.xhtml
svetita5.xhtml
svetlat6.xhtml
svetita6.xhtml
svetlat7.xhtml
svetita7.xhtml
svetlat8.xhtml
svetita8.xhtml
svetlat9.xhtml
svetita9.xhtml
svetlat10.xhtml
svetita10.xhtml
svetlat11.xhtml
svetita11.xhtml
svetlat12.xhtml
svetita12.xhtml
note4.xhtml
notabio4.xhtml
tit5.xhtml
intro5a.xhtml
annalesannali.xhtml
cornlat1.xhtml
cornita1.xhtml
cornlat2.xhtml
cornita2.xhtml
cornlat3.xhtml
cornita3.xhtml
cornlat4.xhtml
cornita4.xhtml
cornlat5.xhtml
cornita5.xhtml
cornlat6.xhtml
cornita6.xhtml
cornlat7.xhtml
cornita7.xhtml
cornlat8.xhtml
cornita8.xhtml
cornlat9.xhtml
cornita9.xhtml
cornlat10.xhtml
cornita10.xhtml
cornlat11.xhtml
cornita11.xhtml
cornlat12.xhtml
cornita12.xhtml
histostoria.xhtml
intro5b.xhtml
cornlat13.xhtml
cornita13.xhtml
cornlat14.xhtml
cornita14.xhtml
cornlat15.xhtml
cornita15.xhtml
cornlat16.xhtml
cornita16.xhtml
cornlat17.xhtml
cornita17.xhtml
cornlat18.xhtml
cornita18.xhtml
intro5c.xhtml
cornlat19.xhtml
cornita19.xhtml
cornlat20.xhtml
cornita20.xhtml
cornlat21.xhtml
cornita21.xhtml
note5a.xhtml
note5b.xhtml
note5c.xhtml
notabio5.xhtml