Prefazione
1. Son certo, o Áttico1, che molti, quando leggeranno da me riferito chi ha insegnato la musica ad Epaminonda o ricordato tra le sue qualità che danzava con eleganza e suonava il flauto con perizia, giudicheranno questo genere di scrittura leggero e non adeguato alla personalità di uomini sommi. Ma si tratterà al solito di quelli che, ignari di cultura greca, riterranno conveniente solo ciò che è conforme alle loro abitudini. Se questi si renderanno conto che non tutti hanno lo stesso concetto di ciò che è onorevole e di ciò che è turpe, ma che tutto si giudica in conformità delle consuetudini degli antenati, non si meraviglieranno se noi, nel trattare delle virtù dei Greci, abbiamo tenuto conto dei loro costumi2. Per Cimone, ad esempio, uno dei più eminenti Ateniesi, non era cosa turpe aver per moglie una sorella consanguinea3, dato che i suoi concittadini seguivano la stessa usanza; invece questo secondo i nostri costumi è ritenuto un’empietà. A Creta è titolo di lode per i giovani aver avuto il maggior numero possibile di amasi. A Sparta non c’è vedova per quanto nobile che non si rechi, dietro mercede, ad un banchetto. In quasi tutta la Grecia era considerata grande lode essere proclamato vincitore ad Olimpia4; presentarsi poi sulla scena e dare spettacolo al popolo, a nessuno presso quelle genti fu ascritto a turpitudine: tutte cose che da noi si giudicano o infamanti o basse e molto sconvenienti. Al contrario sono onorevoli, secondo i nostri costumi, parecchie usanze che presso di loro vengono ritenute indecorose. Quale Romano per esempio si vergogna di portare ad un banchetto la moglie? o quale madre di famiglia non risiede nella parte anteriore della casa e non fa vita di società? Ben diversamente stanno le cose in Grecia: la donna non è ammessa a un banchetto se non di parenti e risiede solo nella parte più interna della casa chiamata ginecèo, dove nessuno ha accesso se non i parenti più stretti.
Ma vuoi la mole del volume, vuoi l’urgenza di esporre quanto ho intrapreso, mi impediscono di insistere qui con altri esempi. Verremo dunque al nostro assunto e tratteremo in questo libro della vita dei condottieri più illustri.
1. Milzíade
1. Milzíade, figlio di Cimone1, Ateniese, spiccava fra tutti per l’antichità della stirpe, per la gloria degli antenati e per la propria saggezza ed aveva un’età tale che i suoi concittadini potevano non più solo concepire buone speranze su di lui, ma anche confidare che sarebbe stato quale ebbero poi modo, alla prova, di riscontrare, quando gli Ateniesi decisero di inviare dei coloni nel Chersoneso2. Si trattava di un numero notevole e molti chiedevano di partecipare alla spedizione, per cui furono scelti alcuni di essi e inviati a Delfi3 per consultare l’oracolo di Apollo a chi avrebbe meglio affidato il comando dell’impresa. Quelle regioni infatti le occupavano allora i Traci e con loro bisognava combattere. La Pizia in risposta a chi la interrogava, ordinò espressamente che si prendessero come capo Milzíade: se lo avessero fatto, l’impresa avrebbe avuto buon esito. Grazie al responso dell’oracolo, Milzíade con truppe scelte partì con la flotta per il Chersoneso; approdato a Lemno4, voleva ridurre gli abitanti dell’isola sotto il dominio degli Ateniesi e chiese ai Lemnii di arrendersi spontaneamente: quelli, schernendolo, risposero che lo avrebbero fatto quando lui, salpato con la flotta da casa sua, avesse raggiunto Lemno con il vento di tramontana (questo vento infatti, venendo da settentrione, spira in direzione contraria a chi viene da Atene). Milzíade, non avendo tempo di trattenersi, indirizzò la rotta verso la sua meta e arrivò nel Chersoneso.
2. Là sbaragliò in breve tempo le truppe dei barbari, si impadronì di tutta la regione meta della sua spedizione, munì di fortezze le posizioni strategiche, distribuì nei campi le genti che aveva portato con sé e le arricchì con frequenti scorrerie. E in questo non fu aiutato meno dalla accortezza che dalla fortuna. Infatti dopo aver sbaragliato, grazie al valore dei suoi soldati, le truppe nemiche, ordinò la colonia con somma equità e decise di rimanere egli stesso sul posto. Aveva presso di loro l’autorità di un re, sebbene non ne avesse il nome e ottenne questo più con la giustizia che in forza del suo potere. Non per questo trascurava i suoi doveri verso gli Ateniesi, per conto dei quali era partito. In questo modo riusciva a mantenere ininterrottamente il potere non meno per volontà di quelli che lo avevano inviato che di quelli con i quali era partito. Ordinato così il Chersoneso, torna a Lemno ed in base ai patti reclama la consegna della città: quelli infatti avevano detto che gli si sarebbero arresi, quando partito da casa fosse giunto là con il vento di tramontana: ebbene egli aveva la sua casa nel Chersoneso. I Cari, che allora abitavano Lemno, sebbene la cosa si fosse svolta contro la loro aspettativa, tuttavia vinti non dalla promessa fatta ma dalla buona fortuna dei nemici, non osarono resistere e abbandonarono l’isola5. Con pari successo ridusse sotto il dominio degli Ateniesi le altre isole che hanno il nome di Cicladi6.
3. In quello stesso torno di tempo, il re dei Persiani, Dario, trasferito l’esercito dall’Asia in Europa, decise di portar guerra agli Sciti7. Per far passare le truppe, fece costruire un ponte sul Danubio. A custodia di quel ponte, per il tempo della sua assenza, lasciò dei capi che aveva portato con sé dalla Ionia e dall’Eòlide8, ad ognuno dei quali aveva affidato la signoria perpetua di quelle città. In questo modo infatti riteneva di poter conservare facilmente in suo potere le popolazioni di lingua greca che abitavano l’Asia: se avesse affidato la custodia delle città ai suoi amici, che non avrebbero avuto via di scampo una volta che lui fosse stato sconfitto. Nel numero di questi a cui doveva essere affidata tale custodia c’era anche Milzíade. Ora siccome frequenti messaggeri riferivano che Dario era in difficoltà con la sua impresa ed era incalzato dagli Sciti, Milzíade esortò i custodi del ponte a non lasciarsi sfuggire l’occasione offerta dalla fortuna di liberare la Grecia: se Dario infatti fosse perito insieme con le truppe che aveva trasportato con sé, non solo l’Europa sarebbe stata al sicuro, ma anche i popoli di stirpe greca che abitavano l’Asia, sarebbero stati liberi dalla dominazione e dalle minacce persiane. Era anche facile ottenere questo: se si fosse tagliato il ponte, il re sarebbe perito in pochi giorni o per gli attacchi nemici o per mancanza di vettovaglie. Molti condividevano il piano, ma Istièo di Mileto9 si oppose alla esecuzione dell’impresa, dicendo che gli interessi di quelli che avevano in mano il potere non coincidevano con quelli del popolo, perché la loro signoria si fondava sul regno di Dario: ucciso lui, loro sarebbero stati cacciati dalla carica ed avrebbero subito la vendetta dei propri concittadini: egli era perciò tanto contrario al piano degli altri, da ritenere che nulla fosse più conforme ai loro interessi che il rafforzamento del regno dei Persiani. Poiché moltissimi avevano abbracciato il parere di costui, Milzíade sicuro che, con tanti che ne erano a conoscenza, i suoi disegni sarebbero arrivati anche alle orecchie del re, lasciò il Chersoneso e se ne tornò ad Atene. Ma il suo piano anche se non andò ad effetto merita però la massima lode: egli dimostrò infatti di amare più la libertà di tutti che il proprio personale potere.
4. Ma Dario, tornato dall’Europa in Asia, sollecitato dai suoiamici a ridurre in suo potere la Grecia, allestì una flotta di cinquecento navi agli ordini di Dati e Artaferne ed a questi dette duecentomila fanti e diecimila cavalieri, adducendo come motivo della sua inimicizia contro gli Ateniesi, il fatto che con il loro aiuto gli Ioni avevano espugnato Sardi10 e ucciso la sua guarnigione. I due ammiragli del re, sbarcati nell’isola di Eubèa, si impadronirono in poco tempo di Eretria11, ne presero a viva forza tutti gli abitanti e li mandarono dal re in Asia. Da lì raggiunsero l’Attica e portarono le loro truppe nella pianura di Maratona, che dista da Atene circa diecimila passi. Gli Ateniesi, sconvolti da questa invasione tanto vicina e tanto imponente, non chiesero aiuto ad altri che agli Spartani e mandarono a Sparta Fidippo, un corriere di quelli che si chiamano emeròdromi, per far presente che c’era bisogno di un immediato soccorso12. In patria intanto nominano a comandare l’esercito dieci strateghi, fra cui Milzíade. Ci fu tra loro un vivo contrasto, se dovessero difendersi rimanendo entro le mura o affrontare i nemici e combattere in campo aperto. Il solo Milzíade premeva con la massima energia perché l’esercito si accampasse nel più breve tempo possibile13: se così fosse stato fatto, e i cittadini avrebbero preso coraggio nel constatare che non si disperava del loro valore e per lo stesso motivo i nemici si sarebbero fatti meno arditi, quando vedevano che si osava affrontarli con truppe tanto esigue.
5. In questo frangente nessuna città venne in aiuto agli Ateniesi tranne Platèa14, che inviò mille soldati. Così con il loro arrivo si raggiunse il numero di diecimila unità: e questi erano presi da un mirabile ardore di combattere. Ne conseguì che il piano di Milzíade ebbe la meglio su quello dei suoi colleghi. Spinti dunque dalla sua autorità, gli Ateniesi fecero uscire le loro truppe dalla città15 e le accamparono in una posizione strategica. Il giorno dopo16, schierato l’esercito alle falde del monte, in un luogo non molto aperto (c’erano difatti degli alberi in più punti), attaccarono battaglia17 pensando di essere protetti dai monti piuttosto alti e che la fila degli alberi avrebbe impedito alla cavalleria nemica l’accerchiamento in massa. Dati, sebbene capisse che il luogo non era favorevole ai suoi, tuttavia desiderava combattere confidando nel numero delle sue truppe, tanto più che riteneva opportuno scontrarsi prima dell’arrivo dei rinforzi spartani. Così schierò a battaglia centomila fanti e diecimila cavalieri e sferrò l’attacco. E in questa battaglia gli Ateniesi si dimostrarono tanto più valorosi da sconfiggere un numero di nemici dieci volte più grande; e li terrorizzarono a tal punto che i Persiani non si diressero agli accampamenti, ma alle navi18. Fino ad oggi non si è vista battaglia più gloriosa: mai una schiera tanto piccola infatti sbaragliò un esercito così poderoso.
6. Non sembra fuor di proposito riferire quale premio fu dato a Milzíade per questa vittoria, perché si possa più facilmente capirecome sia identica la natura di tutti i popoli. Come infatti un tempofurono rare e di scarso valore le onorificenze del popolo romano e per questo prestigiose (ora invece sono frequenti e svilite), lo stesso leggiamo che fosse un tempo presso gli Ateniesi: a questo Milzíade che aveva liberato Atene e tutta la Grecia, fu concesso il seguente onore: dipingendosi nel portico chiamato Pecile19, la battaglia di Maratona, fra i dieci strateghi la sua figura fu posta in primo piano, nell’atto di esortare i soldati e di attaccare battaglia. Quello stesso popolo, dopo che ebbe conseguito una maggiore potenza e si lasciò corrompere dalle largizioni dei magistrati, fece innalzare trecento statue a Demetrio Falèreo20.
7. Dopo questa battaglia gli Ateniesi misero a disposizione dello stesso Milzíade una flotta di settanta navi, perché portasse la guerra a quelle isole che avevano aiutato i barbari. Durante questa missione ne costrinse molte a tornare all’obbedienza, alcune le prese con la forza. Fra queste non riusciva a riconciliare con le trattative l’isola di Paro21, orgogliosa della sua potenza; allora fece sbarcare truppe dalle navi, cinse con opere d’assedio la città e la tagliò fuori da ogni approvvigionamento: poi piazzate vigne e testuggini22 si accostò alle mura. Quando stava per impadronirsi della città, lontano sul continente, un bosco che si vedeva dall’isola, non so per quale accidente, di notte prese fuoco. Quando le fiamme furono viste dagli assediati e dagli assalitori, ad entrambi venne il sospetto che si trattasse di un segnale mandato dai soldati della flotta del re. Ne conseguì che i Parii non vollero più saperne di arrendersi e Milzíade temendo che si avvicinasse la flotta del re, incendiate le opere d’assedio che aveva predisposto, con le stesse navi con cui era partito tornò ad Atene, con grande disappunto dei suoi concittadini. Fu quindi accusato di tradimento perché, pur potendo espugnare Paro, se ne era andato senza portare a termine l’impresa, in quanto corrotto dal re. In quel tempo era sofferente per le ferite che aveva riportato nell’assalto alla città; così, non essendo egli in grado di difendersi personalmente, parlò per lui il fratello Stesàgora23. Fatto il processo, assolto dalla pena capitale, fu condannato a una multa che fu stabilita di cinquanta talenti, esattamente la somma impiegata per allestire la flotta. Siccome non era in grado di pagare sul momento questo denaro, fu gettato nelle carceri dello Stato e lì morì24.
8. Sebbene egli fosse stato accusato della colpa di Paro, tuttavia la causa della condanna fu un’altra. Gli Ateniesi per la tirannide di Pisistrato, che c’era stata pochissimo prima, temevano il potere di tutti i loro concittadini. Milzíade era sempre vissuto tra comandi militari e magistrature, e non pareva che potesse fare il semplice cittadino, tanto più che sembrava essere spinto a desiderare il potere dalla lunga consuetudine con esso. Infatti per tutti quegli anni che aveva abitato nel Chersoneso, aveva tenuto ininterrottamente il dominio ed era stato chiamato tiranno, anche se legittimo: non l’aveva infatti ottenuto con la forza ma per libero volere dei suoi e tale carica aveva mantenuto con la sua onestà. Ma sono detti e ritenuti tiranni tutti quelli che hanno un potere continuato, in una città avvezza a vivere libera. Ma Milzíade era uomo di una straordinaria gentilezza e di mirabile affabilità, sì che non c’era nessuno di tanto bassa condizione che non avesse accesso alla sua persona; presso tutte le città godeva di grande prestigio, di un nome famoso e di una grandissima gloria militare. Il popolo, considerando tutto questo, preferì che fosse colpito lui innocente, piuttosto che continuare esso a vivere nel timore.
2. Temístocle
1. Temístocle, figlio di Nèocle, Ateniese1. I difetti della sua prima giovinezza furono riscattati dai grandi pregi, così che nessuno gli viene anteposto, pochi sono stimati a lui pari. Ma bisogna cominciare la sua vita dall’inizio. Suo padre Neocle era nobile2; egli prese in moglie una cittadina dell’Acarnania3 da cui nacque Temístocle. Ma poiché viveva troppo liberamente e trascurava il patrimonio familiare, non godette della simpatia dei genitori e fu diseredato dal padre4. Tale onta non lo abbatté, ma anzi lo spronò: resosi conto che senza una grandissima operosità essa non poteva essere cancellata, si dedicò tutto alla carriera politica, curando con molta diligenza le amicizie e la fama. Frequentava assiduamente i processi privati, spesso si faceva avanti nelle assemblee popolari; nessun affare di una certa importanza si faceva senza di lui; trovava rapidamente le soluzioni opportune e riusciva ad illustrarle con la sua efficacia oratoria. E non era meno rapido nell’esecuzione che nell’ideazione, perché, come dice Tucidide, giudicava con grande lucidità dei problemi attuali e faceva previsioni con estrema scaltrezza su quelli futuri. Così grazie a queste sue qualità raggiunse ben presto la fama.
2. Il primo passo nella sua corsa al potere politico fu al tempo della guerra di Corcira5: eletto stratego dal popolo per condurla, rese la città più ardita non solo nella guerra di allora ma anche per il futuro. Siccome il denaro pubblico che si ricavava dalle miniere6, veniva sperperato ogni anno a causa delle largizioni dei magistrati, convinse il popolo a impiegare quel denaro per costruire una flotta di cento navi7. Allestita in breve una tale flotta, dapprima debellò i Corciresi, poi dette la caccia ai predoni marittimi finché rese il mare sicuro8; con che arricchì gli Ateniesi e nel contempo li rese espertissimi nella guerra navale. Quanto questo abbia contribuito alla salvezza di tutta quanta la Grecia, si vide nella guerra contro i Persiani. Quando infatti Serse9 portò guerra per terra e per mare a tutta l’Europa, la invase con un esercito tanto grande quale nessuno né prima né dopo ebbe mai: la sua flotta si componeva di milleduecento navi da guerra, a cui tenevano dietro duemila navi da carico; le truppe terrestri ammontavano a settecentomila fanti e quattrocentomila cavalieri. Recata in Grecia la fama del suo arrivo, poiché si diceva che soprattutto gli Ateniesi erano presi di mira per via della battaglia di Maratona, essi andarono a Delfi a consultare l’oracolo sulle misure da prendere. Agli interpellanti la Pizia rispose che dovevano difendersi con mura di legno. Mentre nessuno capiva il senso dell’oracolo, Temístocle li convinse che il consiglio di Apollo era di mettere se stessi e le proprie sostanze sulle navi: questo era il muro di legno che intendeva il dio. Tale parere viene considerato giusto e così gli Ateniesi aggiungono alle precedenti altrettante navi triremi e trasferiscono tutti i loro beni mobili, parte a Salamina10, parte a Trezene11: affidano l’Acropoli e l’espletamento del culto ai sacerdoti e a pochi anziani ed abbandonano il resto della città.
3. Il suo progetto non piaceva alla maggior parte delle città, e si preferiva combattere per terra. Così furono inviati dei soldati scelti insieme con Leònida, re degli Spartani, per occupare le Termòpili12 e impedire che i barbari avanzassero ancora. Questi non contennero l’assalto dei nemici e tutti morirono sul posto. Ma la flotta confederata della Grecia composta di trecento navi, di cui duecento ateniesi, ebbe un primo scontro con la marina del re presso l’Artemisio, tra l’Eubea e il continente. Temístocle sceglieva infatti i luoghi stretti, per non essere aggirato dal gran numero di navi dei nemici. Anche se questo scontro aveva avuto un esito incerto, tuttavia i Greci non osarono rimanere nello stesso luogo perché c’era il pericolo di essere attaccati su due fronti, se una parte della flotta nemica avesse superato l’Eubea. Così si allontanarono dall’Artemisio e dislocarono le loro navi presso Salamina di fronte ad Atene.
4. Ma Serse, espugnate le Termòpili, si avvicinò immediatamente alla città e dato che non c’era nessuno a difenderla, uccisi i sacerdoti che aveva trovato sull’acropoli, la dette alle fiamme. I soldati della flotta, atterriti dall’incendio, non osavano rimanere sul posto e moltissimi erano del parere di tornare alle proprie città edifendersi dentro le mura; ma Temístocle da solo si oppose affermando che tutti uniti potevano far fronte, divisi sarebbero sicuramente periti e sosteneva questa tesi davanti ad Euribiade, re degli Spartani che allora aveva il comando supremo. Ma non riuscendo a convincerlo come voleva, di notte mandò al re persiano il suo servo più fidato, perché gli portasse a nome suo la notizia che i suoi nemici erano in fuga: ma se questi si fossero allontanati,avrebbe durato più fatica e più tempo a concludere la guerra, dovendo inseguirli singolarmente; mentre se li avesse attaccati subito, in breve li avrebbe sconfitti tutti. Con questo stratagemma voleva che tutti fossero costretti loro malgrado a combattere. A questa notizia, il re credendo che non ci fosse sotto alcun inganno, il giorno dopo, in una posizione per lui del tutto sfavorevole e invece molto vantaggiosa per i Greci, si scontrò con loro in un braccio di mare così angusto che la sua numerosa flotta non poté attuare lo spiegamento. Così fu vinto più dallo stratagemma di Temístocle che dalle armi della Grecia.
5. Nonostante lo scacco subito, rimaneva a Serse un esercito tanto potente da poter ancora schiacciare con esso i nemici. Di nuovo Temístocle seppe allontanarlo dalla sua posizione. Temendo infatti che volesse continuare la guerra, gli fece sapere che c’era un piano per distruggere il ponte che lui aveva fatto sull’Ellesponto ed impedirgli così il ritorno in Asia13; e riuscì a persuaderlo. Così il re ritornò in Asia in meno di trenta giorni per la stessa strada che aveva percorso in sei mesi e ritenne che Temístocle non lo avesse battuto ma salvato. Così la Grecia fu liberata dall’accortezza di un solo uomo e l’Asia dovette cedere all’Europa. Questa seconda vittoria può essere paragonata al trionfo di Maratona. Allo stesso modo, infatti, a Salamina la più grande flotta a memoria d’uomo fu sbaragliata da un piccolo numero di navi.
6. Temístocle in questa guerra fu grande e non fu da meno nella pace. Gli Ateniesi avevano il porto a Falèro14, non grande né sicuro; allora per suo suggerimento fu costruito il triplice porto del Pireo15 che fu circondato di mura sì da uguagliare in magnificenza la stessa città e da superarla in utilità. Sempre lui fece ricostruire le mura di Atene con grande rischio personale. Infatti gli Spartani, trovato nelle invasioni dei barbari un pretesto plausibile per sostenere che nessuna città, fuori del Peloponneso, doveva avere le mura, perché non ci fossero luoghi fortificati di cui i nemici potessero impadronirsi, tentarono di impedire agli Ateniesi i lavori di ricostruzione. Con ciò perseguivano uno scopo ben diverso da quanto volevano far credere. Gli Ateniesi infatti, con le due vittorie di Maratona e di Salamina, avevano conquistato tanta gloria presso tutti i popoli, che gli Spartani li vedevano come futuri rivali per l’egemonia della Grecia. Per questo volevano che fossero più deboli possibile. Quando vennero a sapere che gli Ateniesi stavano ricostruendo le mura, mandarono ad Atene una delegazione per impedire che questo si facesse. Finché quelli furono presenti, cessarono i lavori e dissero che avrebbero mandato loro dei legati per discutere la faccenda. Temístocle si incaricò di questa ambasceria e dapprima partì da solo; ordinò che gli altri legati partissero quando le mura apparissero alte a sufficienza; intanto tutti, schiavi e liberi, continuassero a lavorare, senza risparmiare nessun luogo sia sacro che profano, sia privato che pubblico e radunassero da tutte le parti quanto ritenessero adatto alla fortificazione. Così le mura di Atene risultarono formate di materiale preso da tempietti e da tombe.
7. Temístocle, come fu giunto a Sparta, non volle presentarsi ai magistrati16 e cercò di tirar per le lunghe il più possibile, adducendo il pretesto che aspettava i suoi colleghi. Gli Spartani si lamentavano che comunque la costruzione delle mura andava avanti e che lui tentava di ingannarli, ma intanto sopraggiunsero gli altri legati. Quando ebbe da loro la notizia che l’opera di fortificazione era a buon punto, si presentò agli èfori spartani, che erano i supremi magistrati e davanti a loro sostenne che avevano ricevuto false informazioni: perciò era giusto che essi inviassero degli uomini onesti e nobili e degni di fede ad appurare il fatto; nel frattempo tenessero lui in ostaggio. La sua proposta fu accolta e furono inviati ambasciatori ad Atene tre che avevano ricoperto le più alte cariche. Insieme a loro Temístocle volle che partissero i suoi colleghi e ad essi raccomandò che non lasciassero ripartire [da Atene] i legati spartani prima che fosse stato rilasciato lui stesso. Quando credette che essi fossero arrivati ad Atene, si presentò ai magistrati ed al senato spartani e al loro cospetto confessò con estrema franchezza che gli Ateniesi, per suo consiglio, ma avrebbero potuto farlo per il comune diritto delle genti, avevano cinto di mura, per difenderli più facilmente dai nemici, gli dèi comuni ed i loro propri ed i Penati e così facendo avevano agito anche per il bene della Grecia; la loro città era come un baluardo contro i barbari, presso il quale già due volte la flotta regia aveva fatto naufragio. E gli Spartani agivano male e contro giustizia a pensare più alla loro propria egemonia che non al bene di tutta la Grecia. Perciò se volevano rivedere i loro legati inviati ad Atene, lo dovevano lasciare andare, altrimenti quelli non sarebbero mai più tornati in patria.
8. Eppure non sfuggì all’astio dei suoi concittadini. Infatti, per il medesimo timore per cui era stato condannato Milzíade, fu bandito dalla città col suffragio dei cocci e si ritirò ad Argo17. Mentre viveva qui con grande onore grazie alle sue molte capacità, gli Spartani inviarono ambasciatori ad Atene per accusarlo, in sua assenza, di essersi alleato con il re di Persia per soggiogare la Grecia. In seguito a questa accusa fu condannato, benché assente, per tradimento. Quando lo venne a sapere, dato che non si sentiva abbastanza sicuro ad Argo si trasferì a Corcira. Ma quando qui capì che i maggiorenti della città temevano per causa sua una dichiarazione di guerra da parte degli Spartani e degli Ateniesi, si rifugiò presso Admeto, re dei Molossi18, con cui aveva rapporti di ospitalità. Là giunto, siccome al momento il re era assente, perché lo accogliesse e lo proteggesse con maggiore scrupolo, afferrò la sua figlioletta e con essa si infilò nel sacrario della casa, che era oggetto di un culto straordinario. Non uscì di lì prima che il re, stretta la sua mano, lo accogliesse sotto la sua protezione che poi gli mantenne. Infatti benché fosse reclamato ufficialmente dagli Spartani e dagli Ateniesi, non tradì il supplice e lo consigliò di provvedere alla sua incolumità; era infatti difficile per lui rimanersi al sicuro in un luogo così vicino. Così lo fece accompagnare a Pidna19 e gli diede una scorta sufficiente per la sua sicurezza. Qui si imbarcò in incognito a tutto l’equipaggio. Una violenta tempesta spingeva la nave verso Nasso20 dove era allora un esercito ateniese: Temístocle capì che, se fosse arrivato là, per lui sarebbe stata la fine. Trovandosi a mal partito, rivela la propria identità al comandante della nave, facendogli molte promesse se lo avesse salvato. Quello allora preso da pietà per un uomo così famoso, per un giorno e una notte tenne la nave ancorata in una rada lontana dall’isola e non permise che alcuno ne scendesse. Quindi giunse ad Efeso21 e là sbarcò Temístocle. E questi in seguito gli mostrò una riconoscenza adeguata al beneficio.
9. So che la maggior parte degli storici22 hanno scritto che Temístocle passò in Asia23, durante il regno di Serse. Ma io credo soprattutto a Tucidide, che fra quelli che tramandarono notizie di quei tempi, è cronologicamente a lui il più vicino e fu della stessa città. Ebbene egli dice che Temístocle andò da Artaserse24 e gli fece avere una lettera di questo tenore: «Sono venuto da te, io Temístocle, che fra tutti i Greci ho recato il maggior numero dei mali alla tua famiglia, finché mi fu necessario combattere contro tuo padre e difendere la mia patria. Però sempre io gli ho fatto molti più favori non appena cominciai ad essere io al sicuro, lui in pericolo. Infatti quando, dopo la battaglia di Salamina, lui voleva tornare in Asia, lo avvertii per lettera che c’era un piano per distruggere il ponte che aveva fatto sull’Ellesponto e per farlo accerchiare dai nemici. Questo messaggio lo salvò dal pericolo. Ora eccomi rifugiato presso di te, braccato da tutta la Grecia, a chiedere la tua amicizia: se la otterrò, mi avrai come amico non meno fedele di quanto lui mi sperimentò valoroso avversario. Questo ti chiedo: che tu mi conceda un anno di tempo per occuparmi del piano che voglio trattare con te, al termine del quale mi permetta di venire da te».
10. Il re ammirò la grandezza d’animo di Temístocle e desiderando farsi amico un uomo tanto importante, accordò il permesso. Egli per tutto quel tempo si dedicò allo studio della cultura e della lingua persiana e ne divenne tanto esperto che, a quanto si racconta, parlò al re con molta più eleganza di quanto fossero in grado quelli che erano nati in Persia. Fece al re molte promesse, la più gradita di tutte questa: che, se volesse servirsi dei suoi consigli, egli avrebbe soggiogato con le armi la Grecia. Ricevuti da Artaserse grandi doni, tornò in Asia e si stabilì a Magnesia25. Il re gli aveva infatti donato questa città dicendo che gli avrebbe fornito il pane (da quella regione si ricavavano ogni anno 50 talenti); inoltre Làmpsaco26, che gli avrebbe dato il vino; Miunte27, il companatico. Di lui sono rimasti fino ai tempi nostri due monumenti: la tomba nei pressi della città in cui fu seppellito; una statua nel Foro di Magnesia. La sua morte è stata da molti storici variamente raccontata; ma noi prestiamo fede più che ad ogni altro alla testimonianza di Tucidide, che afferma che egli morì di malattia a Magnesia, ed aggiunge che corse voce28 che si avvelenò di sua iniziativa quando capì che non poteva assolutamente mantenere le promesse fatte al re sulla conquista della Grecia. Sempre Tucidide ha tramandato che le sue ossa furono sepolte di nascosto in Attica dagli amici: le leggi infatti non lo consentivano in quanto era stato condannato per tradimento.
3. Aristíde
1. Aristíde, figlio di Lisimaco, Ateniese, fu all’incirca coetaneo di Temístocle e quindi rivaleggiò con lui per il primato nella città; si avversarono infatti a vicenda. In essi si vide quanto l’abilità oratoria prevalesse sull’integrità morale. Sebbene infatti Aristíde si distinguesse tanto nel disinteresse da essere soprannominato, l’unico a memoria d’uomo, per quel che ne sappiamo, il Giusto, tuttavia, screditato da Temístocle, fu condannato, con il famoso ostracismo1, a dieci anni di esilio. Si rendeva conto di non poter calmare il popolo sobillato contro di lui, e mentre si allontanava si accorse di uno che scriveva che venisse bandito dalla patria: si dice che gli chiedesse il motivo della sua scelta o quale misfatto avesse mai compiuto Aristíde perché fosse ritenuto degno di una pena tanto grave. E quello gli rispose che lui non conosceva Aristíde, ma non gli piaceva che si fosse dato tanto da fare per ottenere a preferenza di ogni altro l’appellativo di Giusto. Non scontò per intero la pena prevista dalla legge di dieci anni di esilio. Infatti quando Serse discese in Grecia, circa sei anni dopo che era stato cacciato, fu richiamato in patria per deliberazione del popolo.
2. Partecipò alla battaglia navale di Salamina2, che fu combattuta prima che la pena gli venisse condonata3. Fu poi stratego degli Ateniesi nella battaglia di Platèa4, dove Mardonio5 fu messo in rotta e l’esercito dei barbari annientato. Non c’è nessuna altra sua azione bellica di rilievo, oltre il ricordo di questo comando; ma molte sono le testimonianze della sua giustizia, equità ed innocenza; questa prima di tutte; si deve alla sua moderazione se il comando supremo della potenza navale passò dagli Spartani agli Ateniesi quando militava nella flotta comune della Grecia insieme a Pausania6, sotto il cui comando Mardonio era stato messo in fuga. Fino a quel momento infatti erano gli Spartani a tenere il comando per terra e per mare; ma allora per la prepotenza di Pausania e la giustizia di Aristíde accadde che tutte si può dire le città della Grecia si alleassero con Atene e che scegliessero contro i barbari comandanti ateniesi.
3. Per respingere più facilmente i barbari, nel caso in cui avesseroprovato a rinnovare la guerra, fu scelto Aristíde per stabilire la somma che ciascuna città doveva versare per la costruzione delle flotte el’allestimento degli eserciti; e per suo volere ogni anno venivano raccolti a Delo7 quattrocentosessanta talenti: vollero che tale somma costituisse l’erario comune. In un secondo tempo tutto questo denaro fu trasferito ad Atene. Della integrità di quest’uomo la prova più chiara è che, pur avendo amministrato tanto grandi ricchezze, morì così povero da lasciare appena i soldi per il funerale. Perciò le sue figlie furono mantenute a spese dello Stato e furono maritate con doti attinte dall’erario comune. Morì circa quattro anni dopo la cacciata di Temístocle da Atene8.
4. Pausania
1. Pausania, Spartano1, fu uomo grande, ma mutevole in ogni circostanza della vita: come risplendette per le virtù, così fu oscurato dai vizi. La sua impresa più gloriosa fu la battaglia di Platèa2: sotto il suo comando, Mardonio3 satrapo regio, Medo di origine, genero del re, fra i più illustri dei Persiani valoroso nell’armi e pieno di saggezza, fu messo in fuga con i duecentomila fanti che aveva scelto uno per uno e ventimila cavalieri, da una piccola schiera di Greci; nella battaglia poi cadde lo stesso condottiero.
Imbaldanzito da questa vittoria cominciò ad ordire tanti intrighi e ad aspirare a cose più grandi. Ma dapprima fu biasimato per aver fatto porre a Delfi un tripode d’oro4, ricavato dal bottino, con su inciso un epigramma di cui questo era il tenore: sotto la sua guida i barbari a Platea erano stati annientati e per questa vittoria aveva offerto il dono ad Apollo. Gli Spartani cancellarono questi versi e non vi ci scrissero altro che i nomi di quelle città, con l’aiuto delle quali i Persiani erano stati vinti.
2. Dopo questa battaglia inviarono lo stesso Pausania con la flotta degli alleati a Cipro e nell’Ellesponto, con l’incarico di cacciare da quelle regioni le guarnigioni dei barbari. Avuto un esito ugualmente felice dell’impresa5, cominciò a comportarsi con maggior orgoglio ed a prefiggersi mete più ambiziose. Ed infatti quando, espugnata Bisanzio, catturò molti nobili Persiani e tra loro alcuni parenti del re, rispedì questi ultimi di nascosto a Serse, fingendo che fossero fuggiti dalle pubbliche prigioni e insieme con questi Gòngilo di Eretria6, con l’incarico di consegnare al re una lettera, nella quale secondo ha tramandato Tucidide era scritto quanto segue: «Pausania, duce di Sparta, quelli che ha catturato a Bisanzio, dopoché ha appreso che sono tuoi parenti, te li ha mandati in dono e desidera imparentarsi con te; perciò, se ti sta bene, dàgli in isposa la tua figliola. Se farai così, egli ti promette di ridurre in tuo potere, col tuo aiuto, e Sparta e tutto il resto della Grecia. Se vorrai avviare trattative su questa proposta, fa’ di mandargli un uomo fidato col quale possa avere un abboccamento».
Il re si rallegra moltissimo della salvezza di tanti uomini a lui tanto vicini per parentela e manda immediatamente da Pausania Artabazo7 con una lettera, nella quale lo colma di lodi; chiede che nulla tralasci per realizzare quelle cose che prometteva; se le porterà a termine, nulla gli verrà da lui rifiutato. Pausania conosciute le intenzioni del re, fattosi più zelante nella esecuzione del piano, cadde in sospetto degli Spartani. Per la qual cosa richiamato in patria, viene accusato di delitto capitale ed assolto, ma è condannato ad una pena pecuniaria; e per questo non fu rimandato alla flotta.
3. Ma lui, non molto dopo, di sua iniziativa, ritornò all’esercito8 e quivi, con un comportamento non avveduto ma folle, rivelò le sue intenzioni: cambiò infatti non solo le abitudini patrie, ma anche il modo di vivere e di vestire.
Sfoggiava una magnificenza regale e vesti persiane; lo accompagnavano satelliti medi ed egiziani; banchettava alla maniera dei Persiani, con più lusso di quanto potessero tollerare quelli che erano con lui; rifiutava l’udienza a chi gliela chiedeva; rispondeva in modo altezzoso; dava ordini crudeli. Non voleva tornare a Sparta; si era trasferito a Colone, una località della Troade; là prendeva decisioni nocive sia alla patria che a sé stesso.
Quando gli Spartani vennero a conoscenza di ciò, gli inviarono dei messi con la scitala9, in cui secondo il loro costume era scritto che se non fosse tornato in patria, lo avrebbero condannato a morte. Sconvolto da questo messaggio, sperando ancora di essere in grado, con il denaro ed il potere, di scongiurare il pericolo incombente, tornò in patria. Appena arrivato, fu dagli èfori messo nelle pubbliche prigioni: secondo le loro leggi infatti qualsivoglia èforo può fare questo ad un re. Da qui tuttavia uscì, ma non per questo venne meno il sospetto: rimaneva infatti la convinzione che se la intendesse col re.
Vi è una classe di uomini chiamati Iloti, una grande moltitudine dei quali coltiva i campi degli Spartani con un trattamento da schiavi. Si riteneva che egli sobillasse anche questi con la speranza della libertà.
Ma poiché di queste trame non esisteva alcuna prova manifesta per la quale potesse essere accusato, non ritenevano che si dovesse giudicare di un uomo tale e tanto illustre sulla base di sospetti, ma che si dovesse aspettare finché la cosa si svelasse da sé.
4. Nel frattempo un certo giovinetto di Argilo10, che Pausania aveva amato da fanciullo di amore venereo, aveva ricevuto da lui unalettera per Artabazo, ma siccome gli era venuto il sospetto che inessa fosse scritto qualcosa che lo riguardava, perché nessuno di quelli che erano stati mandati là con simile incarico aveva fatto ritorno,egli sciolse le cordicelle della lettera e, tolto il sigillo, venne a sapereche, se l’avesse portata a destinazione, lui sarebbe dovuto morire. Nella stessa lettera vi erano riferimenti ad accordi intercorsi tra il re e Pausania. Il ragazzo consegnò la lettera agli èfori. Va sottolineata la prudenza degli Spartani in questo frangente. Infatti neppure da questa denuncia si lasciarono indurre ad arrestare Pausania e giudicarono che non si doveva far ricorso alla forza prima che egli si fosse tradito da sé stesso. Così a questo delatore ordinarono quello che si voleva che si facesse.
C’è a Tènaro11 un tempio di Nettuno che per i Greci è sacrilegio violare. Il delatore si rifugiò là e si sedette sull’ara. Accanto a questa scavarono un luogo sotto terra, da cui si potesse ascoltare quello che uno dicesse all’Argilese. Qui dentro discesero alcuni èfori. Pausania, come seppe che Argilese si era rifugiato presso l’ara, si recò là sconvolto. E vedendo il ragazzo seder sull’ara e supplicare la divinità, gli chiede quale sia il motivo di una così repentina decisione. Quello gli manifesta quanto era venuto a sapere dalla lettera. Allora Pausania, ancor più sconvolto, cominciò a pregarlo di non rivelare nulla e di non tradire chi lo aveva tanto beneficato: se gli avesse fatto questo favore e lo avesse aiutato ora che era invischiato in così gravi fatti, ne avrebbe ricevuto una grande ricompensa.
5. Conosciute queste cose, gli èfori credettero più opportuno che quello venisse arrestato nella città. Partirono verso di essa e anche Pausania, dopo aver rassicurato, come credeva, l’Argilese se ne tornava a Sparta: durante il viaggio12, mentre stava sul punto di essere preso, dall’espressione del viso di uno degli èfori che desiderava avvertirlo, capì che gli si tendeva un agguato. Allora, precedendo di alcuni passi quelli che lo accompagnavano, si rifugiò nel tempio di Minerva detta Calcièca13. Perché da qui non potesse uscire, immediatamente gli èfori chiusero con un muro le porte del tempio ed abbatterono il tetto, perché a cielo scoperto morisse più rapidamente. Si dice che in quel tempo fosse ancora in vita la madre di Pausania, la quale già avanzata in età, non appena venne a sapere del misfatto del figlio, fu tra i primi a recare la pietra all’ingresso del tempio per chiudervi il figlio14.
Così Pausania macchiò la grande gloria militare con una morte ignominiosa: portato fuori del tempio più morto che vivo15, esalò quasi subito l’ultimo respiro.
Il suo cadavere alcuni dicevano che bisognava portarlo nello stesso luogo riservato a quelli che venivano giustiziati, la maggioranza però fu di parere contrario e lo seppellirono lontano dal luogo dove era morto; successivamente, in seguito al responso del dio di Delfi, fu da lì dissotterrato e sepolto nello stesso luogo dove aveva lasciato la vita.
5. Cimone
1. Cimone, figlio di Milzíade1, Ateniese, ebbe una prima giovinezza molto dura: siccome il padre non aveva potuto pagare allo Stato la multa fissata e per questo motivo era morto in ceppi, Cimone era tenuto parimenti in prigione e in base alle leggi ateniesi non poteva essere liberato, se non avesse pagato la multa inflitta al padre2. Aveva però sposato la sorella consanguinea, di nome Elpinice, più per usanza che per amore; di fatti ad Atene è lecito sposare la sorella nata dallo stesso padre. Un certo Callia, uomo non tanto nobile, quanto ricco, che aveva fatto molti soldi con le miniere, desideroso di sposare costei, trattò con Cimone per averla in moglie: se l’avesse ottenuta, avrebbe pagato lui la multa al suo posto. Cimone non ne voleva sapere di un tale patteggiamento, ma Elpinice disse che non avrebbe permesso che la stirpe di Milzíade si estinguesse in un carcere dello Stato, dato che poteva impedirlo e che avrebbe sposato Callia se avesse dato quello che prometteva.
2. Liberato in tal modo dalla prigione, Cimone arrivò al potere rapidamente3. Possedeva, infatti, buona eloquenza, grandissima generosità, notevole perizia sia del diritto civile che dell’arte militare, perché fin da piccolo aveva vissuto col padre in mezzo agli eserciti. Così tenne in suo potere il popolo della città e godette di grandissimo prestigio presso l’esercito. Dapprima come comandantesupremo mise in fuga presso il fiume Strimone4 un grande esercito di Traci, fondò la piazzaforte di Anfipoli5 e inviò colà, per costituirvi una colonia, diecimila Ateniesi. Ancora presso Micale6 vinse e catturò una flotta di duecento navi di Ciprioti e Fenici e nella stessa giornata conseguì un pari successo sulla terraferma. Infatti, catturate le navi dei nemici, fece subito sbarcare dalla flotta le sue truppe e in un solo assalto annientò una grandissima moltitudine di barbari. Con questa vittoria si impadronì di un enorme bottino e mentre tornava in patria, dato che alcune isole si erano ribellate per la durezza del dominio ateniese, riaffermò il potere su quelle ben disposte, costrinse a tornare all’obbedienza le ribelli7. Spopolò Sciro8, che allora era abitata dai Dòlopi, perché si erano comportati in modo arrogante, cacciò dalla città e dall’isola i vecchi abitanti, divise i campi tra i cittadini ateniesi. Appena arrivato, sconfisse duramente gli abitanti di Taso9, che fidavano nella loro potenza. Con questo bottino fu abbellita la rocca di Atene, nella parte che guarda a mezzogiorno.
3. Siccome, grazie a queste imprese, aveva una posizione di assoluto spicco nella città, incappò nella stessa malevolenza di suo padre e degli altri cittadini di rango ateniesi; e così fu condannato con il suffragio dei cocci [che loro chiamano ostracismo10] all’esilio di dieci anni. Del fatto però si rammaricarono prima gli Ateniesi che lui stesso. Infatti egli affrontò con animo forte l’invidia dei concittadini ingrati, e quando gli Spartani dichiararono guerra agli Ateniesi, subito fu rimpianto il suo ben noto valore. Così cinque anni dopo che era stato bandito, fu richiamato in patria. Siccome aveva rapporti di ospitalità con gli Spartani, ritenendo preferibile <venire a patti> piuttosto che affrontarsi con le armi, di sua iniziativa partì per Sparta e combinò la pace tra le due potentissime città. Non molto dopo, mandato a Cipro come comandante con duecento navi, conquistò la maggior parte dell’isola, ma poi cadde ammalato e morì nella città di Cizio11.
4. Gli Ateniesi rimpiansero a lungo quest’uomo, non solo in guerra ma anche in pace. Fu infatti così generoso che, possedendo inparecchi luoghi orti e poderi, non vi pose mai un custode a protezione dei prodotti, perché tutti potessero goderne liberamente. Sempre lo seguivano dei servi con monete, perché, se qualcuno avesse bisogno del suo aiuto, avesse di che dargli subito, pernon dare l’impressione, rimandando ad altro tempo, di un rifiuto. Spesso, vedendo qualcuno colpito dalla fortuna, male in arnese, gli dette il suo mantello. Ogni giorno si faceva preparare un pranzo tale da poter invitare a casa sua tutti quelli che avesse incontrato nell’agorà privi di invito e non c’era giorno che tralasciasse di farlo. A nessuno venne meno la sua lealtà, il suo aiuto, il suo patrimonio; molti arricchì; a parecchi morti poveri che non avevano lasciato di che esser seppelliti, fece il funerale a sue spese. Comportandosi così, non c’è da stupirsi affatto se la sua vita fu tranquilla e la sua morte causò grande dolore.
6. Lisandro
1. Lisandro, Spartano, lasciò una grande fama di sé, procacciata più dalla fortuna che col proprio valore: è noto infatti che sconfisse gli Ateniesi nel ventiseesimo anno della loro guerra con i Peloponnesiaci1. Come abbia ottenuto questa vittoria non è un mistero. Fu conseguita infatti non per il valore del suo esercito, ma per l’insubordinazione degli avversari, i quali trasgredendo gli ordini dei loro comandanti, abbandonate le navi, si erano sparpagliati per i campi, e caddero così nelle mani dei nemici. In seguito a questo evento gli Ateniesi si arresero agli Spartani2. Inorgoglito per questa vittoria, Lisandro, che già prima era stato sempre sedizioso e spregiudicato, si abbandonò talmente al suo istinto che per causa sua gli Spartani si guadagnarono l’odio implacabile della Grecia. Infatti mentre gli Spartani erano andati dicendo che facevano la guerra solo per rintuzzare il potere dispotico degli Ateniesi, Lisandro dopo che ad Egospòtami si fu impadronito della flotta dei nemici3, concentrò i suoi sforzi per tenere sotto il suo potere tutte le città, fingendo di fare questo nell’interesse degli Spartani. Infatti, cacciati da tutte le città coloro che avevano sostenuto gli Ateniesi, aveva scelto per ognuna di queste dieci uomini ni a cui affidare il supremo potere militare e civile. Nel numero di questi non veniva ammesso se non chi o fosse a lui legato da vincoli di ospitalità o assicurasse con giuramento che gli sarebbe stato fedele.
2. Così, stabilita una magistratura decemvirale in tutte le città4, tutto si svolgeva secondo il suo cenno. Della sua crudeltà e slealtà, basta citare a titolo di esempio, un solo fatto, per non tediare i lettori con la enumerazione di più casi relativi alla stessa persona. Tornando vincitore dall’Asia, dirottò a Taso5 e perché quella popolazione era stata di singolare lealtà nei confronti degli Ateniesi, – come se quelli che fossero stati risoluti nemici non potessero essere poi saldissimi amici, – fu preso dal desiderio di rovinarla. Ma capì che, se non avesse nascosto le sue intenzioni al riguardo, i Tasi si sarebbero dileguati e avrebbero provveduto alle loro cose6...
3. Così gli Spartani abrogarono quel potere decemvirale che era stato da lui imposto. Per la qual cosa adirato progettò di togliere di mezzo i re spartani. Ma si rendeva conto di non poter fare questo senza l’aiuto degli dèi, poiché gli Spartani erano soliti rimettere tutto agli oracoli. Dapprima tentò di corrompere quello di Delfi. Non essendo in ciò riuscito, tentò di espugnare Dodona7. Respinto anche da qui, disse di aver fatto dei voti che doveva sciogliere a Giove Ammone8, ritenendo di poter corrompere con più facilità gli Africani. Partito con questa speranza alla volta dell’Africa, ebbe un bruciante disinganno dai sacerdoti di Giove. Infatti non solo non si lasciarono corrompere, ma addirittura inviarono messi a Sparta, ad accusare Lisandro, di aver tentato di corrompere i sacerdoti del tempio. Accusato di questo crimine ed assolto dal verdetto dei giudici, fu mandato in aiuto degli abitanti di Orcòmeno9 e fu ucciso dai Tebani presso Aliarto10. Quanto fosse stata giusta la sentenza, lo mostrò un discorso che dopo la morte fu trovato nella sua casa: in esso cercava di convincere gli Spartani, una volta eliminato il potere regio, a sceglierlo come unico capitano per condurre la guerra; ma era scritto in modo tale da sembrare conforme alla volontà degli dèi, che lui non dubitava di poter acquistare grazie al denaro. Si dice che questo discorso glielo avesse scritto Cleone di Alicarnasso11.
4. E a questo punto non va passata sotto silenzio la beffa di Farnabazo12, satrapo del re. Infatti Lisandro, ammiraglio della flotta, durante la guerra si era macchiato di molti atti di crudeltà e di cupidigia e sospettando che di queste cose fosse arrivata notizia ai suoi concittadini, chiese a Farnabazo che gli testimoniasse presso gli èfori, con quanta integrità avesse condotto la guerra ed avesse trattato gli alleati e che di ciò facesse accurata relazione scritta: in una simile faccenda sarebbe stata grande la sua autorità. Quello glielopromette con molta liberalità; compilò un grosso libro stracolmo di parole, con le quali lo innalzava con somme lodi. Dopo che egli lo ebbe letto ed approvato, mentre veniva sigillato, gliene sostituì un altro già sigillato di uguale grandezza e tanto simile che non si poteva distinguere, nel quale aveva stigmatizzato minuziosamente la sua avidità e perfidia. Lisandro, tornato in patria dopo aver detto davanti al sommo magistrato quello che gli era parso delle sue imprese, consegnò a testimonianza il libro datogli da Farnabazo. Gli èfori, quando, allontanato Lisandro, ne ebbero conosciuto il contenuto, lo dettero a leggere a lui stesso. Così egli incauto fu l’accusatore di sé stesso.
7. Alcibíade
1. Alcibíade, figlio di Clinia, Ateniese. In lui la natura sembra aver sperimentato le sue possibilità. Tutti quelli che hanno scritto di lui, sanno bene che non ci fu nessuno più straordinario e nelle virtù e nei vizi. Nato in una grande metropoli, di nobilissima stirpe, di gran lunga il più bello di tutti quelli della sua età, abile in ogni attività e pieno di senno (fu infatti valentissimo comandante per terra e per mare); facondo tanto da essere tra i primi nel parlare, perché tale era il fascino della sua dizione e delle sue parole, che nessuno poteva resistergli; ricco, quando lo richiedesse la situazione laborioso, resistente, generoso, splendido non meno nella vita pubblica che nella vita privata, affabile, mite, capace di adattarsi alle circostanze; ma non appena allentava la sua tensione e non aveva motivo per impegnarsi, si rivelava sfarzoso, dissoluto, lussurioso, sregolato, sì che tutti si meravigliavano che in una stessa persona ci fosse una così stridente contraddizione e una così varia natura.
2. Fu allevato nella casa di Pèricle1 (infatti si dice che fosse suo figliastro), istruito da Sòcrate. Ebbe per suocero Ipponico, di gran lunga il più ricco di tutti i Greci, sì che se anche avesse voluto inventarsele, non avrebbe potuto immaginare più ricchezze né ottenerne di maggiori, rispetto a quelle che o la natura o la fortuna gli aveva concesso. Nella sua prima giovinezza, come è costume dei Greci, fu amato da molti, fra cui Socrate e di questo fa cenno Platone nel Simposio2. Infatti lo introduce che ricorda di aver dormito con Socrate e di essersi alzato dal suo letto non altrimenti che un figlio si sarebbe alzato dal letto del padre. Dopo che divenne più maturo, ne amò a sua volta altrettanti e nel corso di questi amori commise, finché gli fu lecito, atti biasimevoli, ma anche molti raffinati e spiritosi. Li riferiremmo, se non avessimo da parlare di cose più serie e più importanti.
3. Durante la guerra del Peloponneso gli Ateniesi, seguendo il suo autorevole parere, dichiararono guerra ai Siracusani3; ed a condurla fu scelto come comandante lui stesso; gli furono inoltre assegnati due colleghi, Nicia e Làmaco. Mentre si facevano i preparativi, prima che la flotta uscisse dal porto, accadde che in una stessa notte tutte le erme4 della città venissero abbattute tranne una, che si trovava davanti alla casa di Andòcide: così quella fu in seguito chiamata il Mercurio di Andòcide. Siccome era evidente che l’azione era stata compiuta con la complicità di molti, che non avevano di mira faccende private, ma dello Stato, la gente fu presa da una grande paura che all’improvviso scaturisse nella città un colpo di mano per sopprimere la libertà. Sembrava che tutto questo si addicesse a pennello ad Alcibíade, dato che era ritenuto abbastanza potente e più che un privato cittadino: infatti molti aveva legato a sé con la sua generosità, più ancora aveva fatto suoi sostenitori con la sua attività forense. Per questo motivo, ogni volta che si presentava in pubblico, attirava su di sé gli occhi di tutti e nessuno nella città era considerato pari a lui. Così riponevano in lui non solo grandissima speranza ma anche timore, perché poteva fare del bene o del male in sommo grado. Godeva inoltre di cattiva fama perché si vociferava che in casa sua praticasse i misteri, cosa empia per gli Ateniesi e si riteneva che ciò avesse a che fare non tanto con la religione quanto con una congiura.
4. Nell’assemblea popolare era accusato di questo crimine dai suoi nemici. Ma incalzava il tempo di partire per la guerra. Pensando egli a questo e ben conoscendo le abitudini dei suoi concittadini, chiedeva che se volessero intraprendere un’azione penale contro di lui, si facesse subito l’indagine giudiziaria piuttosto che essere citato assente per un’accusa dei malevoli. I suoi nemici però capivano che per il momento bisognava star calmi, perché non si poteva nuocergli e decisero di aspettare quando fosse partito, per attaccarlo durante la sua assenza. E così fecero. Infatti, quando ritennero che fosse giunto in Sicilia, lo accusarono, assente, di aver profanato i misteri. Per questo gli fu spedito in Sicilia un messo dal magistrato, con l’ordine di ritornare per difendersi ed egli, che pur nutriva molte speranze di poter adempiere bene alla sua missione, non volle disubbidire e si imbarcò su una trireme mandata apposta per riportarlo. Arrivato con questa a Turii5 in Italia, riflettendo molto tra sé e sé sulla licenza senza freno dei suoi concittadini e sulla loro crudeltà contro i nobili, ritenne la soluzione migliore di evitare l’imminente tempesta, e quindi si sottrasse di nascosto ai suoi guardiani e da lì andò prima ad Elide, poi a Tebe. Quando poi venne a sapere di essere stato condannato a morte, alla confisca dei beni e, cosa che accadeva spesso, che i sacerdoti Eumòlpidi erano stati costretti dal popolo a scomunicarlo e che copia della scomunica, incisa su una colonnetta di pietra, perché l’atto fosse meglio attestato, era stata esposta in pubblico, se ne andò a Sparta. Là, come soleva ripetere, condusse una guerra non contro la patria, ma contro i suoi avversari, perché questi erano anche i nemici della città; essi infatti, benché capissero che lui poteva essere di grande aiuto allo Stato, lo avevano cacciato e avevano ubbidito più al proprio risentimento che all’interesse comune. Così dietro suo suggerimento gli Spartani strinsero amicizia con il re di Persia; quindi fortificarono Decelèa6 nell’Attica e, posto ivi un presidio permanente, strinsero d’assedio Atene. Sem pre per opera sua allontanarono la Ionia dall’alleanza con gli Ateniesi. Da quel momento cominciò la netta supremazia degli Spartani nella guerra.
5. Ma pur con questi successi, gli Spartani più che diventare amici di Alcibíade, gli si fecero invece nemici per paura. Infatti conoscendo di quell’uomo tanto energico la superiore intelligenza in tutte le cose, temettero che spinto dall’amor di patria, una volta o l’altra si staccasse da loro e si riconciliasse con i suoi concittadini. Così cominciarono a cercar l’occasione di ucciderlo. La cosa non poté rimanere a lungo celata ad Alcibíade; aveva infatti un fiuto infallibile, soprattutto quando avesse predisposto la mente a star all’erta. Così si rifugiò da Tissaferne7, sàtrapo del re Dario8. Ne divenne intimo amico e poiché vedeva che la potenza degli Ateniesi, per l’infelice impresa di Sicilia, declinava, mentre aumentava quella degli Spartani, in un primo momento per mezzo di intermediari entra in trattativa con lo stratego Pisandro che aveva l’esercito presso Samo e accenna ad un suo ritorno: questi infatti era delle stesse idee politiche di Alcibíade, ostile al potere del popolo e fautore degli ottimati. Abbandonato da costui, prima grazie a Trasibulo9, figlio di Lico, viene riammesso nell’esercito e ottiene un comando presso Samo10, poi, coll’appoggio di Teràmene, per decreto del popolo viene riabilitato e benché assente ottiene il comando militare insieme con Trasibulo e Teràmene. Durante il loro comando, ci fu un così grande cambiamento della situazione, che gli Spartani, che poco prima erano vittoriosi e potenti, atterriti chiesero la pace. Erano stati vinti infatti in cinque battaglie terrestri, tre navali11, in cui avevano perso duecento triremi catturate e venute in potere dei nemici. Alcibíade insieme con i colleghi aveva riconquistato la Ionia, l’Ellesponto, inoltre molte città greche delle coste dell’Asia, parecchie delle quali avevano espugnate, tra queste Bisanzio, e altrettante se le erano fatte alleate, con una politica lungimirante, perché avevano usato clemenza con i prigionieri. Così carichi di preda, avendo arricchito l’esercito e compiuto imprese grandiose, tornarono ad Atene.
6. Tutta la città era scesa al Pireo per farsi loro incontro e tantaera l’attesa di tutti di vedere Alcibíade, che il popolo si accalcò intorno alla sua trireme, come se fosse arrivato lui soltanto12. Il popolo infatti aveva la convinzione che si dovevano a lui e le disfatte precedenti e le attuali vittorie. Così e la perdita della Sicilia e le vittorie degli Spartani le attribuivano a colpa loro, che avevano cacciato dalla città un tale uomo. Sembrava loro di avere buone ragioni per pensare così. Infatti da quando l’esercito era stato affidato al suo comando, i nemici non avevano resistito né per terra né per mare. Non appena Alcibíade fu sbarcato, sebbene Teràmene e Trasibulo avessero avuto il comando delle stesse imprese e fossero giunti al Pireo insieme con lui, tuttavia tutti seguivano in corteo lui soltanto e, cosa mai prima capitata se non ai vincitori di Olimpia, gli donavano da ogni parte corone di alloro e nastri. Lui accoglieva tra le lacrime tali manifestazioni d’affetto da parte dei suoi concittadini, ricordando l’astio dei tempi precedenti. Giunto che fu in città, fu convocata un’assemblea ed egli parlò in modo tale che nessuno fu tanto duro di cuore, che non si mettesse a piangere sulla sua disavventura e non si mostrasse ostile a coloro per colpa dei quali egli era stato cacciato dalla patria, come se un altro popolo e non quello stesso che allora piangeva, lo avesse condannato per sacrilegio. Gli furono quindi restituiti a spese dello stato i suoi beni e quegli stessi sacerdoti Eumòlpidi che lo avevano scomunicato, furono di nuovo costretti a ribenedirlo e quelle colonne dove era stata scritta la scomunica, furono precipitate in mare.
7. Questa letizia di Alcibíade non durò troppo a lungo. Infatti gli erano state decretate tutte le cariche e affidati tutti i poteri dello Stato in pace e in guerra, sì che esso veniva governato dall’arbitrio di lui solo; dopo aver chiesto ed ottenuto che gli fossero dati come colleghi Trasibulo e Adimanto, fece una spedizione navale in Asia; ma presso Cime13 le cose non andarono secondo le attese e quindi ricadde in disgrazia: ritenevano infatti che non ci fosse nulla che non potesse riuscirgli. Ne conseguiva che gli imputassero a colpa tutti gli insuccessi, dicendo che aveva agito o con negligenza o per tradimento. E così accadde anche allora: infatti lo accusavano di non aver voluto conquistare Cime, perché corrotto dal re. Per cui riteniamo che gli nuocesse soprattutto l’eccessiva considerazione del suo ingegno e del suo valore. Era infatti temuto non meno che amato: c’era il rischio che imbaldanzito dalla buona sorte e dalla grande potenza potesse aspirare alla tirannide. Avvenne così che gli revocarono, mentre era assente, l’incarico e gli sostituirono un altro14. Come lo venne a sapere, non volle tornare in patria e si trasferì a Pattia15 e lì fece fortificare tre borghi, Orno, Bizante, Neontico e, messa insieme una schiera armata, primo di tutti i Greci penetrò nella Tracia, ritenendo più glorioso arricchirsi con le prede dei barbari che dei Greci. Perciò si era arricchito sia di fama che di mezzi e si era legato di stretta amicizia con alcuni re della Tracia.
8. Ma non poté rinunciare all’amore di patria. Difatti quando Filocle, comandante degli Ateniesi, ancorò la flotta presso Egospòtami e vicino c’era Lisandro, comandante degli Spartani, che si dava da fare per protrarre quanto più poteva la guerra, perché a loro forniva il denaro necessario il re di Persia, mentre agli Ateniesi esausti non rimanevano che le armi e le navi, Alcibíade si recò presso l’esercito ateniese e lì alla presenza della truppa cominciò a parlare così: se volevano, egli avrebbe costretto Lisandro a combattere o a chiedere la pace; gli Spartani non volevano combattere in mare, perché erano più forti nell’esercito di terra che nella flotta; ma per lui era comunque facile convincere Sèute, il re dei Traci, a cacciare Lisandro dal continente: per cui sarebbe stato costretto o a combattere per mare o a far la pace. Filocle si rendeva conto che le cose che egli diceva erano giuste, tuttavia non volle fare quanto richiesto, perché capiva che se avesse accolto Alcibíade, lui nell’esercito non avrebbe più contato nulla e nel caso di qualche successo, non gliene sarebbe stato riconosciuto alcun merito; nel caso invece di una sconfitta, sarebbe stato ritenuto l’unico responsabile dell’errore. Andandosene, Alcibíade gli disse: «Poiché ti opponi alla vittoria della patria, ti avverto di una cosa: non tenere vicino al nemico gli schieramenti navali: c’è infatti il pericolo che per l’indisciplina dei vostri soldati si dia a Lisandro l’occasione di annientare il vostro esercito». E non si ingannò a tale proposito. Infatti Lisandro, come venne a sapere dai suoi osservatori che il grosso dell’esercito ateniese era sbarcato per depredare e che le navi erano rimaste quasi vuote, non si lasciò sfuggire l’occasione di attaccare e con quel solo assalto pose fine a tutta la guerra16.
9. Ma Alcibíade, dopo la sconfitta degli Ateniesi, ritenendo che quei luoghi non fossero sufficientemente sicuri per lui, si nascose all’interno della Tracia, oltre la Propòntide, sperando che lì molto facilmente avrebbe potuto tener nascosti i suoi averi. Si sbagliava. Infatti i Traci quando si accorsero che era arrivato con una grande quantità di denaro, gli tesero un agguato: gli portarono via quello che aveva recato con sé, ma non riuscirono a prenderlo. Alcibíade, rendendosi conto che nessun luogo nella Grecia era per lui sicuro per lo strapotere degli Spartani, passò in Asia da Farnabazo17 e lo legò talmente a sé con i suoi modi affabili, da divenire il suo più intimo amico. E così gli concesse Grinio, un castello in Frigia, da cui ricavava un tributo di cinquanta talenti. Ma Alcibíade non si sentiva pago di questa fortuna e non riusciva a darsi pace che Atene vinta fosse sotto il giogo degli Spartani. E così tutti i suoi pensieri erano rivolti a liberare la patria. Ma capiva che ciò non poteva realizzarsi senza il re di Persia e perciò desiderava farselo amico ed era certo che ci sarebbe riuscito se solo avesse avuto la possibiltà di incontrarlo. Sapeva infatti che il fratello Ciro18 gli preparava in segreto una guerra con l’aiuto degli Spartani; se glielo avesse rivelato, capiva che avrebbe conquistato pienamente il suo favore.
10. Si dava dunque da fare per questo piano e chiedeva a Farnabazo di essere inviato dal re; nel medesimo tempo però Crizia e gli altri tiranni degli Ateniesi avevano mandato uomini fidati in Asia da Lisandro per avvertirlo che se non avesse tolto di mezzo Alcibíade, nessuno dei provvedimenti da lui presi per Atene sarebbe stato duraturo; per cui se voleva che la sua opera rimanesse, doveva dargli la caccia. Lo Spartano, impressionato da questa notizia, stabilì di trattare in modo più stretto con Farnabazo. Dunque gli fa sapere che le relazioni tra gli Spartani ed il re sarebbero state annullate19 se non gli avesse consegnato vivo o morto Alcibíade. Il satrapo non seppe tener testa a costui e preferì violare lo spirito di umanità che vedere diminuita la potenza del re. Così mandò Susamitre e Bagèo20 ad uccidere Alcibíade, mentre questi è in Frigia e si apprestava ad andare dal re. Gli inviati incaricano segretamente alcuni che abitavano vicino ad Alcibíade, di ucciderlo. Siccome quelli non osavano attaccarlo con le armi, di notte accatastarono della legna intorno alla capanna in cui dormiva e le dettero fuoco in modo da uccidere con le fiamme quello che non erano sicuri di poter vincere con la spada. Ma lui come fu svegliato dal crepitio delle fiamme, sebbene gli fosse stata portata via la spada, afferrò da un amico lo stiletto che portava sotto l’ascella: c’era infatti con lui un ospite dell’Arcadia che non aveva voluto mai separarsi da lui. Gli ordina di seguirlo e arraffa tutte le vesti che in quel momento poté trovare; gettatele sul fuoco, poté sfuggire alla violenza delle fiamme. Quando i barbari videro che era sfuggito all’incendio, scagliarono da lontano dei dardi e lo uccisero e portarono la sua testa a Farnabazo. Ma la donna che viveva abitualmente con lui, lo coperse con la sua veste muliebre e lo cremò, morto, nell’incendio dell’edificio, suscitato per annientarlo da vivo. Così morì Alcibíade all’età di circa quaranta anni21.
11. Denigrato da molti, tre autorevolissimi storici lo esaltarono in sommo grado: Tucidide che fu suo contemporaneo; Teopompo, che visse qualche tempo dopo, e Timeo: questi due benché molto maldicenti, non so come mai, si trovano d’accordo nell’esaltare lui soltanto. Infatti hanno celebrato le virtù di cui prima abbiamo parlato ed hanno aggiunto questo: benché nato nella splendidissima città di Atene, tutti superò in splendore e prestigio. Quando, bandito dalla patria, andò a Tebe, si adattò tanto alle loro abitudini, che nessuno poteva uguagliarlo nella capacità di resistenza fisica (tutti i Beoti infatti tengono più alla robustezza del corpo che all’acume dell’intelletto); parimenti a Sparta dove la più alta virtù era riposta nella capacità di sopportazione, si dedicò ad una vita austera tanto da superare gli Spartani nella frugalità del mangiare e del vestire; visse in mezzo ai Traci, ubriaconi e lussuriosi: superò anche loro in queste abitudini; si recò tra i Persiani, per i quali era somma gloria essere abili cacciatori e vivere sontuosamente: imitò così bene i loro costumi, da suscitare in questo la loro ammirazione. Insomma con queste sue doti ottenne che, dovunque si trovasse, fosse considerato il primo e fosse molto amato. Ma basta di lui: passiamo ad altri.
8. Trasibulo
1. Trasibulo, figlio di Lieo, Ateniese1. Se il valore va considerato di per sé stesso indipendentemente dalla fortuna, credo che dovrei mettere costui al primo posto assoluto. Su una cosa non ho dubbi: nessuno antepongo a lui per lealtà, coerenza, magnanimità, amore per la patria. Infatti quello che molti vollero ma pochi poterono: liberare la patria da un solo tiranno, a lui riuscì in modo tale che riscattò dalla schiavitù alla libertà una patria oppressa da trenta tiranni. Ma, non so come, mentre nessuno lo superava nelle suddette qualità, molti lo sopravanzarono nella fama. Dapprima, durante la guerra del Peloponneso, egli compì molte imprese senza Alcibíade, questi nessuna senza di lui: ma tutte quante le sfruttò quello per non so quale innata abilità. Ma successi come quelli, i capi li condividono con i soldati e la fortuna, perché nello scontro vero e proprio l’esito passa dal piano strategico del generale alle forze e al valore dei combattenti. Così a buon diritto i soldati reclamano per sé dal comandante alcuni meriti, moltissimi poi la fortuna e qui essa potrebbe giustamente vantarsi di aver contato più dell’accortezza del comandante. Quell’impresa splendida invece appartiene esclusivamente a Trasibulo. Quando infatti, i trenta tiranni, imposti dagli Spartani2, tenevano schiava Atene e dei moltissimi concittadini che la fortuna aveva risparmiato nella guerra, parte avevano cacciato dalla patria, parte avevano ucciso, di moltissimi avevano confiscati i beni e se li erano divisi tra loro, lui non solo fu il primo, ma all’inizio anche l’unico, a dichiarare loro la guerra.
2. Quando infatti si rifugiò a File, che è una fortezza dell’Attica molto ben difesa, aveva con sé non più di trenta sostenitori. Questo fu l’inizio del riscatto degli Attèi3, questo il nerbo della libertà di una città tanto famosa. E sulle prime lui ed il suo scarso seguito non furono presi in considerazione dai tiranni. Ma questo atteggiamento segnò la rovina di quei presuntuosi e la fortuna del disprezzato: esso infatti rese quelli lenti a contrastarlo, questi altri più forti grazie al tempo concesso per i preparativi. A maggior ragione perciò deve essere presente alla mente di tutti questo precetto: in guerra nulla va sottovalutato e non senza ragione si dice che la madre del soldato prudente di solito non piange. Ma le forze di Trasibulo non crebbero come si aspettava: già a quei tempi là i bravi cittadini parlavano in difesa della libertà con più forza di quanto poi combattessero per essa. Da File si recò al Pireo e fortificò Munichia4. I tiranni sferrarono due attacchi contro di essa ma, respinti da là ignominiosamente, si rifugiarono rapidamente in Atene, abbandonati armi e bagagli. Trasibulo seppe essere non meno accorto che valoroso: proibì che si facesse del male a coloro che si arrendevano (riteneva giusto che i cittadini risparmiassero i cittadini) e nessuno fu ferito, tranne chi volle aggredire per primo. Non spogliò nessun caduto, non toccò nulla, se non le armi, di cui aveva bisogno, e quanto era necessario per il sostentamento. Nel secondo attacco cadde Crizia, capo dei tiranni, combattendo però con grande valore contro Trasibulo5.
3. Abbattuto Crizia, venne in aiuto agli Attici Pausania, re degli Spartani6. Costui mise pace tra Trasibulo e quelli che avevano in mano la città a queste condizioni: che nessuno, a parte i trenta tiranni e i dieci che creati magistrati in un secondo momento si erano mostrati crudeli come i predecessori, fosse punito con l’esilio o con la confisca dei beni; il governo dello Stato fosse restituito al popolo. Anche questa fu mossa eccellente di Trasibulo: ristabilita la pace, mentre aveva un sommo potere nella città, propose la legge che nessuno fosse accusato né condannato per i fatti accaduti in precedenza: la chiamarono la legge dell’oblio7. E non solo si preoccupò di farla approvare, ma anche si adoperò perché fosse applicata. Infatti quando alcuni di quelli che erano stati suoi compagni d’esilio, volevano uccidere quelli con i quali per legge dello Stato si era tornati in pace, si oppose e mantenne quanto promesso.
4. Per i suoi grandi meriti, gli fu conferita come onorificenza dal popolo una corona, fatta di due ramoscelli di olivo. Poiché essa era espressione dell’amore dei cittadini e non di imposizione, non gli suscitò alcuna invidia, anzi fu per lui fonte di grande gloria. Bene disse dunque quel famoso Píttaco che fu annoverato tra i sette sapienti, quando gli abitanti di Mitilene volevano dargli in dono molte migliaia di iugeri di terreno: «Non mi date, vi prego, ciò che molti potrebbero invidiare, parecchi persino desiderare. Perciò di cotesti iugeri io non ne voglio più di cento, che stiano ad indicare la mia equità e il vostro affetto». Infatti i doni piccoli sono di solito duraturi, quelli ricchi instabili. Pago dunque di quella corona, Trasibulo né ricercò di più né ritenne che nessuno fosse stato più onorato di lui. Egli, in seguito, in qualità di stratego fece uno sbarco in Cilicia, ma siccome i turni di guardia nel suo accampamento erano fatti con scarsa diligenza, i barbari fecero nottetempo irruzione dalla loro roccaforte e lo uccisero nella sua tenda8.
9. Conone
1. Conone Ateniese entrò nella vita politica al tempo della guerra del Peloponneso1 e in essa la sua opera fu di notevole importanza. Infatti e in qualità di stratego fu a capo di eserciti terrestri e come ammiraglio della flotta compì grandi imprese sul mare. Per le quali cose gli fu tributato un singolare onore. Infatti ebbe lui solo il comando di tutte le isole; e durante questa carica prese Fere, colonia degli Spartani2. Fu anche stratego nella parte finale della guerra del Peloponneso, quando presso Egospòtami le truppe ateniesi furono annientate da Lisandro. Ma allora era assente e per ciò l’impresa fu tanto mal condotta: egli era infatti un generale esperto dell’arte militare e molto scrupoloso. Così nessuno dubitava allora che se fosse stato presente, gli Ateniesi non avrebbero subito quella disfatta.
2. In questa situazione disperata, come venne a sapere che la patria era assediata, non cercò dove egli stesso potesse vivere in sicurezza, ma come potesse essere di aiuto ai suoi concittadini. Così si recò presso Farnabazo, sàtrapo della Ionia e della Lidia ma anche genero e parente del re; e per acquistarsi buon credito presso di lui, affrontò molti disagi e molti pericoli. Gli Spartani, una volta debellati gli Ateniesi, non rimanevano più nell’alleanza che avevano stipulato con Artaserse3 e avevano spedito Agesilao4 a combattere in Asia, sollecitati soprattutto da Tissaferne, il quale, uno degli intimi del re, aveva abbandonato la sua amicizia e aveva stretto una alleanza con gli Spartani: contro di lui comandante ufficiale fu nominato Farnabazo, ma di fatto capo dell’esercito fu Conone e tutte le operazioni si svolsero secondo le sue direttive. Egli creò molte difficoltà al generale Agesilao e spesso vanificò le sue strategie e fu chiaro che, se non ci fosse stato lui, Agesilao avrebbe strappato al re l’Asia fino al Tauro. E quando quello fu richiamato in patria dai suoi concittadini, poiché i Beoti e gli Ateniesi avevano dichiarato guerra agli Spartani, Conone continuava nondimeno la sua attività presso i satrapi del re ed a tutti loro prestava i suoi preziosi servigi.
3. Tissaferne si era ribellato al re e ciò non era tanto noto ad Artaserse quanto agli altri: egli infatti godeva di grande considerazione presso il re per le sue molte e grandi benemerenze, pur non adempiendo più i suoi doveri. E non c’era da meravigliarsi, se il re era restio a credere, ricordando che grazie al suo aiuto egli aveva avuto ragione del fratello Ciro. Conone fu mandato da Farnabazo al re per accusare costui, ed appena giunto, dapprima secondo il costume dei Persiani si recò dal chiliarca5 Titráuste, il quale occupava il secondo posto nell’impero e manifestò di voler parlare con il re: nessuno infatti viene ammesso senza di lui. Quello gli disse: «Non c’è alcun ostacolo: ma decidi, se preferisci avere il colloquio oppure trattare per lettera quello che hai in mente. È necessario infatti, se andrai al suo cospetto, che tu faccia atto di adorazione al re (quelli chiamano ciò proschinèsi). Se questo ti è gravoso, esponi la tua ambasciata attraverso me ed otterrai quello che desideri». Allora Conone: «A me in verità non è gravoso rendere al re qualsivoglia onore, ma temo che tornerebbe a disonore della mia patria, se io, che vengo da una città abituata a comandare alle altre genti, adottassi, piuttosto che il suo, il costume dei barbari». Così consegnò per iscritto quello che voleva dire al re.
4. Quando venne a conoscenza di queste cose, il re rimase tanto convinto dalla autorevolezza di costui, che giudicò Tissaferne un nemico, comandò di far guerra agli Spartani e lo autorizzò a scegliere chi volesse per l’amministrazione del denaro. Conone disse che tale facoltà non era di sua competenza, bensì del re stesso che doveva conoscere molto bene i suoi; lui comunque lo consigliava di dare tale incarico a Farnabazo. Ricevuti grandi doni, fu mandato al mare per ordinare ai Ciprioti ed ai Fenici ed alle altre città marittime navi da guerra e per allestire una flotta con la quale potesse l’estate successiva rendere sicuro il mare; per collaboratore ebbe Farnabazo, come lui stesso aveva chiesto. Quando fu riferito ciò agli Spartani, condussero i preparativi con grande sollecitudine, poiché ritenevano che fosse imminente una guerra più difficile che se dovessero combattere solamente col barbaro. Infatti vedevano che sarebbe stato a capo dell’esercito regio e che avrebbe combattuto contro di loro, un capitano forte ed esperto, che non potevano battere né con l’accortezza né con la forza. Con questo pensiero mettono insieme una flotta poderosa e partono sotto il comando di Pisandro. Conone li assale presso Cnido e in una grande battaglia li mette in fuga, cattura molte navi, molte ne affonda. Con questa vittoria fu liberata non solo Atene, ma anche tutta la Grecia, che era stata sotto la egemonia degli Spartani. Conone arriva in patria con una parte delle navi, fa ricostruire entrambe le mura, del Pirèo e di Atene, abbattute da Lisandro, e dona ai suoi concittadini i cinquecento talenti che aveva ricevuto da Farnabazo.
5. Capitò a costui quello che suole accadere agli altri mortali: fu meno prudente nella prospera che nella avversa fortuna. Infatti, sbaragliata la flotta dei Peloponnesiaci, ritenendo di aver vendicato le ingiurie della patria, desiderò più di quanto potesse realizzare. Non si trattava comunque di azioni empie o biasimevoli, perché anzi preferì aumentare la potenza della patria che non quella del re. Infatti, avendo conseguito un grande prestigio personale con la battaglia navale che aveva combattuto presso Cnido, non solo tra i barbari ma anche presso tutte le città della Grecia, cominciò ad adoperarsi segretamente per recuperare agli Ateniesi la Ionia e la Eolia. Poiché il piano non rimase nascosto abbastanza, Tiribazo6, governatore di Sardi, fece venire Conone con la scusa di volerlo mandare dal re per un affare di grande momento. Egli andò, obbedendo al suo messaggio, ma fu messo in prigione; dove rimase per qualche tempo. Alcuni hanno lasciato scritto che da lì fu condotto dal re e là morì. Lo storico Dinone7, invece, a cui noi diamo molto credito per quanto riguarda le cose persiane, scrisse che riuscì a fuggire; è incerto, però, se ciò avvenne con il consenso di Tiribazo o a sua insaputa.
10. Dione
1. Dione, figlio di Ipparino1, di Siracusa, di nobile stirpe, si trovò coinvolto nella tirannide dell’uno e dell’altro Dionigi. Infatti il primo2 ebbe per moglie Aristòmache, sorella di Dione, da cui generò due figlioli, Ipparino e Nisèo ed altrettante figliole, Sofròsine e Arete, delle quali la prima dette in sposa al figlio Dionigi, lo stesso a cui lasciò il regno; l’altra, Arete, a Dione. Questo Dione, a parte l’illustre parentela e la fama di nobili antenati, ebbe dalla natura molte altre qualità: tra queste, indole versatile, cordiale, incline alle arti più nobili, grande prestanza fisica, cosa che è di per sé una discreta credenziale; inoltre grandi ricchezze lasciategli dal padre, che egli per conto suo aveva aumentato grazie ai donativi del tiranno. Era intimo amico di Dionigi padre, e non meno per le abitudini che per la parentela. Infatti, quantunque non gli andasse a genio la crudeltà di Dionigi, teneva tuttavia alla sua incolumità e per la parentela e ancor più nell’interesse dei suoi. Lo assisteva negli affari importanti ed il tiranno si lasciava molto influenzare dai suoi consigli, eccetto in quelle cose in cui interveniva la sua troppo grande cupidigia. Tutte le ambascerie più illustri venivano dirette da Dione; ed egli, nell’assumerle con zelo e nel condurle con lealtà, cercava di attenuare, con la sua umanità, la fama del tiranno tanto crudele. Quando fu mandato da Dionigi presso i Cartaginesi3, questi ne rimasero così colpiti, che mai ammirarono di più uno che parlasse greco.
2. E queste cose invero non sfuggivano a Dionigi: infatti si rendeva conto di quanto quello contribuisse al suo prestigio. Ne conseguiva che con lui solo usasse la massima condiscendenza e che lo amasse proprio come un figliolo. Quando si sparse la voce inSicilia che Platone era venuto a Taranto4, egli non poté negare al giovane di farlo venire, dal momento che Dione ardeva dal desiderio di ascoltarlo. Gli dette dunque l’autorizzazione e lo fece portare a Siracusa con grande pompa. E Dione ne rimase così affascinato e fu preso da tanto affetto per lui, che gli si affidò completamente. E non meno Platone si compiacque di Dione, tanto che pur essendo stato crudelmente oltraggiato dal tiranno (questi aveva ordinato che venisse venduto), tuttavia ritornò là5, vinto dalle preghiere dello stesso Dione. Nel frattempo Dionigi cadde ammalato e mentre era gravemente travagliato dal male, Dione chiese ai medici come stesse e nello stesso tempo li pregò, nel caso si trovasse in più grave pericolo, che glielo dicessero: voleva infatti parlare con lui sulla ripartizione del regno, perché riteneva che i figlioli di sua sorella, nati da lui, dovessero avere una parte del regno. I medici non tennero segreta la cosa e riferirono il discorso a Dionigi figlio. Quello, allarmatosi, per togliere a Dione qualsiasi possibilità di agire, costrinse i medici a dare una pozione soporifera al padre. Dopo averla presa, il malato si assopì e andò all’altro mondo.
3. Questo costituì l’inizio dell’astio tra Dione e Dionigi, che fu accresciuto da molti fattori. Ma tuttavia all’inizio rimase per un po’ tra loro una simulata amicizia. Poiché Dione non cessava dal pregare Dionigi che facesse venire da Atene Platone, e si avvalesse dei suoi consigli, quello, che voleva in qualche cosa imitare il padre, lo accontentò ma nello stesso tempo fece tornare a Siracusa lo storico Filisto6, un amico non tanto del tiranno quanto della tirannide. Ma di costui ho parlato più diffusamente nel libro che ho composto sugli storici greci. Ora Platone godette di tanta autorità presso Dionigi e tanto poté con la sua eloquenza, che lo persuase a porre fine alla tirannide ed a restituire la libertà ai Siracusani; ma il tiranno fu distolto da questa risoluzione dal consiglio di Filisto e cominciò ad essere alquanto più crudele.
4. Questi, in verità si rendeva conto che Dione lo superava in ingegno, prestigio e simpatia popolare e temendo che, se lo tenesse presso di sé, gli avrebbe offerto una qualche occasione per toglierlo di mezzo, gli dette una trireme, purché se ne andasse a Corinto, dicendogli chiaramente che faceva ciò per il bene di tutti e due, perché l’uno dei due, dato il reciproco timore, non sopraffacesse l’altro. Poiché molti erano indignati per questo fatto e c’era un grande risentimento contro il tiranno, Dionigi fece imbarcare su delle navi tutti i beni mobili di Dione e glieli spedì. Voleva infatti che si ritenesse che lui aveva agito così non tanto per odio della persona, ma per la propria incolumità. Ma quando venne a sapere che quello apparecchiava nel Peloponneso un esercito e si apprestava a muovergli guerra, dette Areta moglie di Dione in sposa ad un altro e ordinò che il figlio venisse educato in modo tale che, con l’assecondarlo in tutto, venisse fatto crescere tra i più turpi piaceri. Infatti al ragazzo, prima della pubertà, si portavano prostitute, lo rimpinzavano di vino e di cibi e non lo lasciavano sobrio neanche un momento. Costui, quando il padre fu tornato in patria e gli assegnò due custodi col compito di distoglierlo dal precedente modo di vita, a tal punto non poté sopportare la sua nuova condizione, che si gettò dalla parte più alta della casa e così perì. Ma ripigliamo il filo del racconto.
5. Dopo che Dione fu giunto a Corinto e che si fu rifugiato colà,parimenti cacciato da Dionigi, anche Eràclide, che era stato prefetto della cavalleria, cominciarono a preparare la guerra con tutti i mezzi. Ma non facevano molti progressi, perché una tirannide di molti anni veniva ritenuta molto potente; per cui pochi si lasciavano convincere ad una alleanza pericolosa. Ma Dione, fidando non tanto nelle sue truppe quanto nell’odio contro il tiranno, con grande ardimento partì con due navi da carico all’attacco di un potere che durava da cinquant’anni, forte di cinquecento navi da guerra, diecimila cavalieri e centomila fanti e, impresa che a tutti i popoli parve strabiliante, lo abbatté con tanta facilità, che entrò in Siracusa appena tre giorni dopo che aveva toccato la Sicilia7. Dal che si può capire che non vi può essere potere sicuro se non protetto dalla benevolenza. In quel tempo Dionigi era assente ed attendeva in Italia la flotta degli avversari, ritenendo che nessuno sarebbe andato contro di lui senza un grande esercito: nel che si sbagliò. Dione infatti, per mezzo di quegli stessi che erano stati sotto il potere dell’avversario, represse la baldanza del re e si impadronì di tutta quella parte della Sicilia, che era stata sotto il potere di Dionigi e allo stesso modo della città di Siracusa, eccetto la rocca e l’isola congiunta alla città e condusse tanto avanti l’impresa che il tiranno accettò la pace a queste condizioni: che Dione si tenesse la Sicilia, Dionigi l’Italia, Apollòcrate8, il solo in cui Dionigi riponeva la massima fiducia, Siracusa.
6. A questi avvenimenti tanto prosperi e tanto inaspettati seguì un improvviso mutamento, perché la fortuna con la sua mutevolezza si accinse ad abbattere chi aveva poco prima innalzato. Prima esercitò il suo potere dispotico sul figlio, di cui ho parlato sopra. Infatti, dopo aver ripreso la moglie che era stata assegnata ad un altro, volendo richiamare il figlio alla virtù dalla sfrenata lussuria, ebbe come padre dalla morte del figlio una ferita gravissima. Poi scoppiò il dissenso tra lui ed Eràclide, il quale, perché non voleva riconoscere il primato a Dione, costituì un suo partito. Questi del resto godeva di un discreto prestigio presso gli ottimati, con l’appoggio dei quali aveva il comando della flotta, mentre Dione aveva ai suoi ordini l’esercito di terra. Non accolse di buon animo Dione questo atteggiamento e citò quel verso di Omero del secondo canto9 in cui si afferma che non può essere ben governato uno Stato quando è sotto il potere di molti. La citazione provocò un grande risentimento; aveva infatti indicato chiaramente di volere tutto il potere nelle sue mani. Egli non cercò di attenuare tale sentimento con le buone maniere ma di reprimerlo con l’asprezza; e una volta che Eràclide si recò a Siracusa, lo fece uccidere.
7. Questo fatto infuse su tutti un grandissimo timore; dopo quell’assassinio infatti nessuno si sentiva più sicuro. Lui invece, eliminato l’avversario, senza alcun ritegno distribuì ai soldati i beni di coloro che sapeva essere stati a sé ostili. Dopo quella spartizione, poiché si facevano tutti i giorni grandi spese, ben presto cominciòa mancare il denaro e non c’era più dove poter allungare le mani se non nelle proprietà degli amici. Ma questo modo di procedere, se gli aveva conquistato l’animo dei soldati, gli alienò gli ottimati. Lo angustiava la preoccupazione per questi fatti e, non abituato alle critiche, mal sopportava di goder cattiva fama presso coloro i quali poco prima, con le loro lodi, lo avevano innalzato fino al cielo. La plebe poi, dato l’atteggiamento ostile dei soldati nei suoi confronti, parlava con più libertà e andava dicendo che non si poteva sopportare il tiranno.
8. Egli vedeva questo malcontento, ma non sapeva come porvi rimedio e aveva timore della piega che potevano prendere le cose. Si presenta allora a Dione, un certo Callicrate10, cittadino di Atene, che era venuto in Sicilia insieme con lui dal Peloponneso, uomo astuto e pronto alla frode, senza scrupoli e senza fede e gli dice che lui era in grande pericolo e per il malcontento del popolo e per il risentimento contro i soldati e non poteva in alcun modo evitarlo se non dando a qualcuno dei suoi l’incarico di fingersi suo nemico personale; se avesse trovato la persona adatta, avrebbe facilmente conosciuto gli animi di tutti ed avrebbe tolto di mezzo gli avversari, dato che i suoi nemici si sarebbero confidati con un oppositore. Accolto un tale consiglio, assume questo incarico lo stesso Callicrate e si fa forte della stoltezza di Dione; raccoglie alleati per ucciderlo, si abbocca con i suoi avversari e li vincola a sé con un giuramento. La trama, una volta scoperta, dato che si tesseva con molti complici, viene riferita ad Aristòmache, sorella di Dione, ed alla moglie Arete. Quelle terrorizzate si recano da lui, timorose del pericolo che correva. Ma quello nega che si preparino insidie contro di sé da Callicrate: quanto si stava tramando era fatto per suo ordine. Le donne, ciononostante, trascinano Callicrate nel tempio di Proserpina e gli fanno giurare che Dione non avrebbe corso alcun pericolo da parte sua. Quello non solo non si lasciò spaventare dal giuramento, ma si sentì spinto ad accelerare la cosa, temendo che il suo disegno venisse scoperto prima che avesse portato a termine l’operazione.
9. Con questo piano, nel successivo giorno di festa, mentre Dionesi teneva in casa lontano dalla folla ed era andato a dormire nella camera alta, quello affida ai congiurati i punti meglio difesi della città, circonda la casa di guardie, vi mette a capo persone fidate che non si allontanino dalle porte, arma una trireme di soldati e la affida al fratello Filòstrato e ordina che faccia manovre nel porto, come se volesse esercitare i rematori, pensando, nel caso che la fortuna avesse ostacolato i suoi disegni, di che avere con cui cercare scampo. Dal numero dei suoi sceglie poi alcuni ragazzi di Zacinto, audacissimi e fortissimi e dà loro l’incarico di andare disarmati da Dione, in modo da sembrare che si recassero da lui per un abboccamento. Questi erano conosciuti e furono fatti entrare. Ma non appena ebbero varcato la soglia, sbarrate le porte, lo assalgono mentre dorme sul letto; lo legano; si fa uno schiamazzo così forte che si poteva sentire da fuori. Qui, come si è detto spesso prima, ognuno poté facilmente capire quanto sia malvisto il potere di uno solo e quanto degna di compassione la vita di quelli che preferiscono essere temuti piuttosto che amati. Quelle stesse guardie, se avessero voluto davvero, forzando le porte avrebbero potuto salvarlo, poiché quelli che lo reggevano vivo erano disarmati e chiedevano insistentemente un’arma da fuori. Ma poiché nessuno gli veniva in soccorso, un certo Licone Siracusano fece passare attraverso la finestra una spada con la quale Dione fu ucciso.
10. Compiuta l’uccisione, la folla entrò per vedere ed alcuni vennero uccisi, da chi era all’oscuro della congiura, come colpevoli. Infatti, sparsasi rapidamente la notizia dell’attentato a Dione, erano accorsi molti ai quali tale delitto dispiaceva, e questi, spinti da falsi sospetti, uccidono degli innocenti come autori del misfatto. Quando fu resa pubblica la sua morte, mirabilmente cambiò all’improvviso l’atteggiamento del volgo: quegli stessi che vivo l’avevano chiamato tiranno, ora lo celebravano come colui che aveva liberato la patria e cacciato il tiranno. Così repentinamente all’odio subentrò la compassione che, se avessero potuto, lo avrebbero riscattato col loro sangue dall’Acheronte. E così, gli fu celebrato un funerale a spese dello Stato ed ebbe un monumento sepolcrale nel punto più frequentato della città. Morì a circa cinquantacinque anni di età, tre anni dopo che dal Peloponneso aveva fatto ritorno in Sicilia11.
11. Ifícrate
1. Ifícrate, Ateniese, si acquistò fama più che per le grandi imprese, per la perizia nell’arte della guerra. Fu infatti condottiero degno non solo di reggere il confronto con i primi del suo tempo, ma anche di non esser considerato inferiore a nessuno dei suoi predecessori. Profuse invero molte delle sue energie in attività belliche, fu spesso a capo di eserciti, in nessuna impresa subì rovesci per sua colpa; riuscì sempre vincitore grazie alle doti tattiche ed in esse mostrò tanta capacità che nell’arte militare molte cose in parte innovò del tutto, in parte migliorò. Per esempio cambiò le armi della fanteria.
Prima del suo comando, si usavano clipei grandissimi, aste corte, spade piccole: egli invece alla parma sostituì la pelta (per cui i fanti furono poi chiamati peltasti), di modo che i soldati fossero più leggeri per i movimenti e gli assalti, raddoppiò la misura dell’asta, allungò le spade. Parimenti cambiò il tipo delle corazze: ed al posto di quelle intrecciate ed a squame di bronzo, le fece di lino. In questo modo rese i soldati più spediti: infatti, pur avendo tolto il peso, procurò qualcosa che parimenti proteggesse il corpo e fosse leggero.
2. Guerreggiò con i Traci; rimise sul trono Sèute1, alleato degli Ateniesi. Presso Corinto2 resse l’esercito con tanto rigore che mai in Grecia si ebbero truppe né meglio esercitate né più docili agli ordini del capitano e le portò a tal punto di addestramento che, una volta dato dal comandante il segnale della battaglia, potevano senza l’intervento del capitano mantenere le file tanto bene da sembrare che ognuno fosse stato messo al suo posto da un comandante espertissimo. Con un esercito siffatto annientò una mora3 degliSpartani e l’impresa ebbe enorme risonanza in tutta la Grecia. Unaseconda volta, durante la stessa guerra, mise in fuga tutte le loro milizie: con che si conquistò una grande gloria. Quando Artaserse4 volle recare guerra al re dell’Egitto5, chiese agli Ateniesi come condottiero Ifícrate, per metterlo a capo dell’esercito dei mercenari, che era di dodicimila soldati; ed egli lo istruì in tutti gli aspetti dell’arte militare così bene che, a quel modo che un tempo i soldati romani furono chiamati Fabiani, così presso i Greci godettero di grandissima fama gli Ifícratesi.
Lo stesso, mossosi in aiuto degli Spartani, trattenne gli attacchi di Epaminonda. Infatti se non fosse stato imminente il suo arrivo, i Tebani non si sarebbero ritirati da Sparta prima di averla presa e data alle fiamme.
3. Fu grande di animo e di corporatura e di aspetto maestoso, tanto da ispirare ammirazione a chiunque al solo vederlo; ma nella fatiche troppo fiacco e poco resistente, come ci ha tramandato Teopompo; ma fu bravo cittadino e di grande lealtà. Manifestò questa qualità anche in altre circostanze, ma soprattutto quando si trattò di proteggere i figli del macedone Aminta: Euridice, madre di Perdicca e di Filippo, dopo la morte di Aminta, si rifugiò con questi due figli presso Ificrate e trovò in lui sostegno e difesa.
Visse fino alla vecchiaia, godendo dell’affetto sereno dei suoi concittadini. Una volta soltanto si difese in un processo capitale, al tempo della guerra sociale, insieme con Timòteo e venne assolto6.
Lasciò un figlio, Menesteo, natogli da una donna di Tracia, figlia del re Coti. Una volta a questo venne chiesto se tenesse in maggior conto il padre o la madre: «la madre», rispose. E perché a tutti pareva strana la risposta aggiunse: «Ma ho un motivo per far così: il padre infatti, per quanto dipese da lui, mi ha generato Trace, la madre invece Ateniese».
12. Cabria
1. Cabria, Ateniese. Anche costui fu ritenuto tra i sommi condottieri e compì molte imprese degne di memoria. Ma tra queste risplende soprattutto lo stratagemma che escogitò nella battaglia presso Tebe, quando si recò in soccorso dei Beoti. Infatti, in essa bloccò il comandante supremo Agesilao1 che confidava nella vittoria, perché già aveva messo in fuga gli squadroni dei mercenari: al resto della falange egli impedì di abbandonare il posto di combattimento e ordinò di attendere l’assalto dei nemici con lo scudo puntato contro il ginocchio, l’asta tutta protesa in avanti. Agesilao, accortosi di questa novità, non osò avanzare e con la tromba richiamò indietro i suoi già lanciati all’attacco. Questo stratagemma fu celebrato per tutta la Grecia, tanto che Cabria volle che gli si facesse una statua in quella posizione; e questa gli fu innalzata dagli Ateniesi nell’agorà a spese dello Stato. Da ciò venne in seguito l’usanza che atleti e altri grandi quando si innalzavano loro statue, fossero ritratti in quelle posizioni con le quali avevano ottenuto la vittoria.
2. Cabria condusse molte guerre in Europa, come condottiero degli Ateniesi; nell’Egitto, le fece di sua iniziativa; infatti partito per soccorrere Nectenebi, gli procurò un regno. Lo stesso fece a Cipro, ma come soccorritore ufficiale mandato dagli Ateniesi ad Evàgora, e non ripartì da lì finché non ebbe domato con la guerra tutta l’isola: impresa da cui gli Ateniesi si conquistarono grande gloria. Nel frattempo scoppiò la guerra tra gli Egiziani ed i Persiani. Gli Ateniesi avevano un’alleanza con Artaserse, gli Spartani con gli Egiziani, dai quali il re loro Agesilao traeva enormi vantaggi. Cabria vedendo ciò, non volendo in nulla essere da meno di Agesilao, partì di sua iniziativa in loro soccorso e fu a capo della flotta egiziana; Agesilao comandava le truppe di terra.
3. Allora i satrapi del re persiano inviarono ambasciatori ad Atene a protestare del fatto che Cabria conducesse la guerra insieme agli Egiziani contro il re. Gli Ateniesi fissarono a Cabria un giorno, entro il quale se non fosse tornato in patria, gli notificarono che lo avrebbero condannato alla pena capitale2.
A questo messaggio egli ritornò ad Atene, ma non rimase là più a lungo di quanto fu necessario. I suoi concittadini infatti non lo vedevano di buon occhio: viveva sfarzosamente e si dava troppo alla bella vita perché potesse sfuggire al mal volere della gente. È questo vizio comune a tutti gli Stati grandi e liberi, che l’invidia sia compagna della gloria e che volentieri screditino coloro che vedono levarsi troppo in alto e che i poveri non guardino con animo sereno l’altrui fortuna. E così Cabria, finché le circostanze glielo permettevano, se ne stava assente il più a lungo possibile. E non era lui solo a stare volentieri lontano da Atene: fecero lo stesso pressoché tutti i capi, perché ritenevano che sarebbero stati lontani dalla invidia nella misura in cui fossero stati alla larga dai loro concittadini.
Così Conone visse per lo più a Cipro, Ifícrate in Tracia, Timòteo a Lesbo, Carete3 al Sigèo; molto diverso Carete da questi e per vicende e per costumi, ma tuttavia in Atene onorato e potente.
4. Cabria perì al tempo della guerra sociale4 in questo modo. Gli Ateniesi combattevano all’assedio di Chio. Cabria era nella flotta come privato cittadino, ma per prestigio superava tutti coloro che avevano incarico ufficiale ed i soldati guardavano più a lui che ai loro comandanti. Questa circostanza gli affrettò la morte. Infatti, mentre cercava di entrare per primo nel porto e dava ordine al timoniere di dirigervi la nave, fu causa egli stesso della sua rovina, perché una volta entrato nel porto, le altre navi non lo seguirono. Così, circondato dai nemici accorsi, mentre combatteva con grande coraggio, la sua nave colpita da un rostro cominciò ad andare a fondo.
Quantunque potesse salvarsi se si fosse gettato in mare, poiché c’era nelle vicinanze la flotta ateniese pronta a raccogliere i naufraghi, preferì perire piuttosto che gettare le armi e abbandonare la nave sulla quale era venuto. Gli altri non vollero fare la stessa cosa e arrivarono in salvo a nuoto. Lui invece, ritenendo essere preferibile una morte gloriosa ad una vita disonorata, combattendo corpo a corpo fu ucciso dalle armi dei nemici.
13. Timòteo
1. Timòteo, figlio di Conone, Ateniese. La gloria ereditata dal padre egli seppe accrescere grazie ai suoi molti pregi: fu eloquente, energico, operoso, esperto di arte militare e non meno dell’arte di governo. Molte sono le sue imprese famose, ma le più illustri sono le seguenti. Sottomise con le armi Olinto e Bisanzio1. Prese Samo2: nella guerra precedente gli Ateniesi avevano speso per espugnare l’isola mille e duecento talenti, lui la restituì al popolo senza alcuna spesa per lo Stato. Fece guerra contro Coto e da là riportò all’erario mille e duecento talenti di bottino. Liberò Cizico dall’assedio. Andò in aiuto di Ariobarzane insieme con Agesilao e mentre lo Spartano ricevette da lui denaro contante, egli preferì arricchire i suoi concittadini di territori e di città, piuttosto che prendere qualcosa, di cui avrebbe potuto portare a casa sua una parte. Così ricevette Critote e Sesto3.
2. Comandante della flotta, circumnavigando il Peloponneso, devastò la Laconia, mise in fuga la flotta spartana, ridusse in potere degli Ateniesi Corcira e aggiunse all’alleanza gli Epiroti, gli Atamani, i Càoni e tutti i popoli rivieraschi di quella zona. In seguito a ciò gli Spartani rinunciarono alla lunga contesa e spontaneamente cedettero la supremazia del mare agli Ateniesi e fecero la pace a queste condizioni: che fossero gli Ateniesi i signori del mare. Gli Attici furono così contenti di questa vittoria, che allora per la prima volta furono eretti a spese pubbliche altari alla Pace e fu istituito in onore della dea il cuscino sacro. E perché rimanesse il ricordo di questo fatto memorabile, eressero a Timòteo a spese pubbliche una statua nell’agorà: onore fino a questo momento toccato solo a lui, che il popolo, dopo aver innalzato una statua al padre, la concedesse anche al figlio. Così messa accanto a quella, la recente statua del figlio rinnovò l’antico ricordo del padre.
3. Quando era ormai in età avanzata ed aveva smesso di esercitare le magistrature, gli Ateniesi cominciarono ad essere incalzati da ogni parte dalla guerra. Si era ribellata Samo, si era staccato dall’alleanza l’Ellesponto, Filippo di Macedonia, già allora potente, tesseva molte trame; gli era stato mandato contro Carete, ma si riteneva che non fosse presidio adeguato. Si fa stratego Menèsteo, figlio di Ificrate, genero di Timòteo e si decreta che comandi la spedizione. Gli si affiancano due consiglieri eccellenti per esperienza e intelligenza, il padre e il suocero: questi godevano di tanto prestigio che era grande la speranza di poter recuperare, grazie a loro, quanto era stato perduto. Partirono per Samo e appena fu a conoscenza del loro arrivo, là si diresse con le sue truppe anche Carete, perché non sembrasse che si facesse qualche operazione senza di lui. Ma accadde che mentre si avvicinavano all’isola si scatenò una violenta tempesta ed i due vecchi comandanti, ritenendo utile evitarla, fecero fermare la flotta. Ma quello, seguendo un piano temerario, non cedette all’autorità dei più anziani e, come se avesse lui in mano la fortuna, giunse là dove si era diretto e mandò a Timòteo e ad Ifícrate una intimazione a seguirlo nel medesimo luogo. Da qui, poiché l’impresa4 era finita male ed erano state perdute numerose navi, si riportò al luogo di partenza e mandò ad Atene il rapporto ufficiale: gli sarebbe stato facile prendere Samo, se non fosse stato abbandonato da Timòteo ed Ifícrate. Il popolo eccitabile, sospettoso e perciò incostante, avverso e ostile (anche la potenza era considerata una colpa) li richiama in patria: sono accusati di tradimento. Al processo Timòteo viene condannato e gli viene comminata una ammenda di cento talenti). Egli, costretto dalla malevolenza della città ingrata, si ritirò a Càlcide5.
4. Dopo la sua morte il popolo, pentito del proprio giudizio, condonò i nove decimi della multa e ordinò al figlio Conone di pagare dieci talenti per rifare un certo tratto delle mura. In questo fatto si poté notare la instabilità della fortuna: il nipote fu costretto a rifare attingendo al patrimonio familiare con sommo disonore della famiglia quelle mura che il nonno Conone aveva rialzato alla patria con la preda dei nemici. Della vita saggia e misurata di Timòteo potremmo produrre moltissime testimonianze, ci appagheremo di una soltanto, perché da essa facilmente si potrà arguire, quanto caro fosse ai propri concittadini. Quando ancora molto giovane sostenne ad Atene un processo, accorsero a difenderlo non solo amici ed ospiti privati, ma anche Giasone tiranno della Tessaglia, che allora era il più potente di tutti. Questi, che pur in patria non si riteneva sicuro senza guardie del corpo, venne ad Atene senza alcuna scorta dimostrando tanta stima per il suo ospite, che preferì affrontare il pericolo di morire piuttosto che far mancare il suo aiuto a Timòteo che combatteva per il proprio onore. In seguito tuttavia Timòteo per ordine del popolo gli mosse guerra; ritenne più sacri i diritti della patria che quelli dell’ospitalità. Questa fu l’ultima epoca dei grandi generali ateniesi, Ifícrate, Cabria, Timòteo: dopo la loro morte, nessun comandante in quella città fu degno di memoria.
Vengo ora all’uomo più forte e saggio di tutti i barbari, se si eccettuino i due Cartaginesi, Amilcare e Annibale. Di questo parlerò più a lungo, perché molte delle sue imprese sono poco note e quelle nelle quali ebbe un esito felice furono dovute non al numero dei soldati, ma alla sua grande sagacia, nella quale allora superava tutti: se esse non saranno spiegate ordinatamente, i fatti non potranno risultare chiari.
14. Dátame
1. Dátame, figlio di Camísare di stirpe caria, e di Scitissa, dapprima fu dei soldati che erano a guardia della reggia di Artaserse1. Suo padre Camísare, che si era rivelato e forte e valoroso e fedele al re in molte occasioni, ottenne il governo di quella parte della Cilicia vicina alla Cappadocia, abitata dai Leucòsiri2. Dátame rivelò le sue qualità mentre faceva il suo primo servizio militare, nella guerra, che il re condusse contro i Cadusi3: qui furono uccise molte migliaia di soldati del re, ma la sua opera fu preziosa; cosicché, essendo caduto in quella guerra Camísare, gli fu affidata la provincia del padre.
2. Si dimostrò in seguito di pari valore, quando Autofrodate4 per ordine del re fece guerra a quelli che avevano tradito: grazie al suo intervento i nemici che già erano entrati nell’accampamento furono sconfitti e il resto dell’esercito del re fu salvato; così cominciò ad avere comandi di maggiore importanza. Era in quel tempo principe della Paflagonia Tuine, di antico lignaggio, discendente da quel Pilèmene che Omero dice ucciso da Pátroclo durante la guerra di Troia. Costui rifiutava obbedienza al re, per cui il re decise di muovergli guerra e mise a capo dell’impresa Dátame, parente del Paflágone: erano nati infatti da un fratello e da una sorella. Per questo motivo Dátame dapprima volle tentare di riportare all’obbedienza il parente senza ricorrere alle armi, ma andato da lui senza scorta, perché non temeva alcun inganno da un amico, poco mancò che morisse: infatti Tuine progettò di ucciderlo di nascosto. Con Dátame c’era la madre, zia paterna del Paflágone; venne a sapere quello che si macchinava e informò il figlio. Questi evitò il pericolo dandosi alla fuga e dichiarò guerra a Tuine. E quantunque nel corso di essa fosse stato abbandonato da Ariobarzane, satrapo della Lidia e della Ionia e di tutta la Frigia, nondimeno continuò a combattere e prese vivo Tuine con la moglie ed i figli.
3. Fece in modo che la notizia di quest’impresa non arrivasse al re prima di lui. Così all’insaputa di tutti andò dove era il re e il giorno successivo rivestì Tuine, uomo di enorme corporatura e di aspetto terribile, perché era moro e aveva i capelli lunghi e la barba fluente, di una veste bellissima che di solito indossavano isatrapi del re, lo adornò inoltre di una collana e di braccialetti d’oro e di tutti gli altri ornamenti regali: egli stesso avvolto in un rozzo e spesso mantello con una tunica ruvida ed in capo un elmo da cacciatore, nella destra una clava e nella sinistra un guinzaglio, spingeva legato davanti a sé Tuine, come se recasse una fiera catturata. Mentre tutti lo guardavano per la stranezza dell’abbigliamento e l’aspetto mai visto prima e per questo c’era un grande accorrere di gente, ci fu qualcuno che riconobbe Tuine e lo riferì al re. Dapprima non prestò fede alla notizia: così mandò a vedere Farnabazo. Quando venne a sapere l’accaduto, subito li fece venire al suo cospetto, molto divertito sia del fatto che dell’abbigliamento, soprattutto che un nobile re fosse venuto in suo potere quando meno se lo aspettava. Così fece ricchi doni a Dátame e lo inviò all’esercito, che si stava allora raccogliendo agli ordini di Farnabazo e Titrauste, per la guerra contro l’Egitto e comandò che avesse la loro stessa autorità. Quando poi il re richiamò a sé Farnabazo, fu affidato a lui il comando supremo.
4. Mentre Dátame allestiva con sommo zelo l’esercito e si accingeva a partire per l’Egitto, all’improvviso gli fu inviata una lettera dal re, con l’ordine di attaccare Aspi, che aveva in suo potere la Cataonia: questa regione sta sopra la Cilicia e confina con la Cappadocia. Infatti Aspi, abitando una regione montuosa e munita di fortificazioni, non solo rifiutava l’obbedienza al re, ma opprimeva anche le regioni confinanti e rapinava i tributi che venivano inviati al re. Dátame, sebbene si trovasse lontano da quelle regioni e venisse distolto da una impresa più importante, tuttavia ritenne di dover secondare la volontà del re. Così si imbarcò su una nave con pochi uomini, ma valorosi, ritenendo, come poi accadde, che avrebbe più facilmente vinto un nemico colto di sorpresa con un piccolo esercito, che un nemico preparato con un esercito grande quanto si voglia. Arrivato con questa in Cilicia, quindi sbarcato, marciando notte e giorno, attraversò il Tauro e giunse alla meta prefissa. Indaga dove si trovi Aspi, apprende che non è lontano e che è andato a caccia. Mentre conduce questa indagine, si viene a conoscere il motivo del suo arrivo. Aspi organizza alla resistenza i Písidi con quelli che aveva con sé. Quando Dátame ne viene informato, prende le armi e comanda ai suoi di seguirlo: lui stesso a spron battuto si slancia verso il nemico. Aspi allora, vedendoselo venir contro da lontano, è preso da grande paura e rinunciando al tentativo di opporre resistenza, si arrende. Dátame, lo mette in ceppi e lo consegna a Mitridate perché lo conduca al re.
5. Mentre si svolgevano questi fatti, Artaserse riflettendo di aver distolto il migliore dei comandanti da una guerra tanto impegnativa per un fatto di così poco conto, si rimproverò e spedì ad Ace5 all’esercito un messaggero, perché pensava che Dátame non fosse ancora partito, a dirgli di non allontanarsi dall’esercito. Prima che questo arrivasse alla meta, durante il viaggio si imbatté in quelli che conducevano prigioniero Aspi. Per questa rapidità Dátame ottenne il grande favore del re, ma altrettanta malevolenza dei cortigiani, perché vedevano che lui da solo era considerato più di tutti loro. Perciò tutti quanti si trovarono d’accordo per farlo fuori. Pandante, tesoriere del re, amico di Dátame, lo ragguaglia accuratamente per iscritto della trama e lo informa che avrebbe corso un grave pericolo se durante il suo comando in Egitto, gli fosse capitato qualche rovescio; era infatti consuetudine di quella monarchia di attribuire i rovesci agli uomini, i successi alla propria fortuna; ne derivava che facilmente si lasciava indurre alla rovina di quelli sotto il cui comando si riferiva esserci state sconfitte. Lui poi si sarebbe trovato in maggior pericolo, perché aveva assai ostili i consiglieri più ascoltati del re. Conobbe questa lettera quando già era tornato ad Ace presso l’esercito e poiché sapeva bene che c’erano scritte cose vere, decise di staccarsi dal re. Tuttavia non compì nessuna azione sleale. Infatti mise a capo dell’esercito Mandrocle di Magnesia: lui con i suoi parte per la Cappadocia e occupa la Paflagonia con essa confinante, nascondendo le sue intenzioni nei riguardi del re. Di nascosto stringe alleanza con Ariobarzane, raccoglie una schiera di uomini, affida ai suoi la difesa delle città fortificate.
6. Ma queste operazioni non procedevano bene per la stagione invernale. Viene a sapere che i Písidi6 preparano truppe contro di lui. Manda là suo figlio Arsidèo con l’esercito; il giovane cade in combattimento. Parte per quel luogo il padre con una schiera non molto numerosa, nascondendo la grave ferita ricevuta, perché desiderava arrivare dal nemico prima che giungesse ai suoi la fama dell’insuccesso, perché una volta saputa la morte del figlio, non si abbattessero gli animi dei soldati. Arrivò al luogo prefisso e pose l’accampamento in una posizione dove non potesse essere circondato dai nemici che erano in gran numero e non fosse impedito alle sue truppe di avere libertà di manovra per il combattimento. Si trovava con lui Mitrobarzane, suo suocero, che comandava la cavalleria. Questi, disperando della sorte del genero, passò al nemico. Quando Dátame lo venne a sapere, capì che, se fosse trapelato nella truppa che era stato abbandonato da un così stretto parente, gli altri avrebbero seguito quel partito. Fa sapere in giro che per suo ordine Mitrobarzane se ne era andato come disertore, perché, una volta accolto dai nemici, potesse più facilmente ucciderli. Perciò non era giusto che fosse lasciato solo e tutti dovevano subito seguirlo; se avessero agito con valore, i nemici non avrebbero potuto resistere, sarebbero stati uccisi dentro le loro difese e fuori. Approvato il piano, porta l’esercito fuori dell’accampamento, si limita a seguire Mitrobarzane; non appena quello fu arrivato dai nemici, Dátame dette l’ordine di attaccare. I Písidi, turbati dalla stranezza della cosa, si convincono che i disertori hanno agito in malafede e con l’intento, una volta accolti, di infliggere maggiori danni. Prima di tutto rivolgono l’assalto contro di loro. Quelli, ignorando cosa avvenisse o perché, furono costretti a combattere contro quelli dalla cui parte erano passati e a stare dalla parte di quelli che avevano lasciato: siccome né gli uni né gli altri li risparmiavano, furono ben presto sterminati. Dátame attacca gli altri Pisidi che oppongono resistenza: li respinge al primo assalto, li insegue nella fuga, molti ne uccide, si impadronisce dell’accampamento nemico. Con tale stratagemma, nello stesso tempo annientò i traditori e sbaragliò i nemici e il piano che era stato escogitato per la sua rovina lo ritorse a sua salvezza. In nessun luogo e di nessun generale abbiamo letto di uno stratagemma escogitato con più astuzia e più rapidamente messo in opera.
7. Tuttavia Sisina, il figlio maggiore, si staccò da lui e passò dalla parte del re e denunciò la defezione del padre. Artaserse turbato da questa rivelazione, perché sapeva di aver a che fare con un uomo forte e valoroso, che, una volta elaborato un piano, osava metterlo in pratica ed era solito pensare prima di tentare, mandò Autofrodate in Cappadocia. Per impedirgli l’ingresso nella regione, Dátame pensò di occupare in anticipo il passo che dà l’accesso alla Cilicia. Ma non poté raccogliere tanto presto le truppe. Non essendogli stato possibile fare questa operazione, con la schiera raccolta sceglie una posizione dove non potesse essere circondato dai nemici e che il nemico non potesse attraversare senza essere stretto da due parti e, nel caso volesse venir là a combattimento, la moltitudine dei nemici non potesse recare troppo danno al suo scarso numero.
8. Sebbene Autofrodate si rendesse conto di questo, tuttavia decise di scontrarsi piuttosto che ritirarsi con un esercito così poderoso o rimanere tanto a lungo inoperoso in uno stesso luogo. Aveva ventimila cavalieri barbari, centomila fanti di quelli che loro chiamano Cárdaci, tremila frombolieri della stessa nazionalità, inoltre ottomila Cappádoci, diecimila Armeni, cinquemila Paflagoni, diecimila Frigi, cinquemila Lidi, circa tremila tra Aspendii e Písidi, duemila Cilici, altrettanti Capziani, tremila mercenari greci, un grandissimo numero di armati alla leggera. Contro un esercito siffatto tutte le speranze di Dátame erano riposte in sé stesso e nella natura del luogo: infatti non aveva la ventesima parte delle truppe di Autofrodate. Confidando in queste risorse, combatté e uccise molte migliaia di nemici, mentre del suo esercito non caddero più di mille uomini. Perciò il giorno dopo innalzò un trofeo sul luogo in cui il giorno innanzi si era combattuto. Spostò di lì l’accampamento e pur inferiore quanto a numero di soldati, riuscì sempre vincitore in tutte le battaglie, perché mai si scontrava se non dopo aver chiuso i nemici in luoghi angusti, il che gli riusciva spesso, perché conosceva bene quelle regioni ed era assai astuto stratega. Autofrodate allora, rendendosi conto che la guerra si conduceva con perdite più gravose per il re che per gli avversari, gli consigliò la pace e l’amicizia, e di riconciliarsi quindi col re. Anche se non considerava sicura la proposta, tuttavia egli l’accettò e disse che avrebbe mandato messi ad Artaserse. Così si pose fine alla guerra che il re aveva intrapreso contro Dátame. Autofrodate si ritirò nella Frigia7.
9. Ma il re, che aveva concepito un odio implacabile contro Dátame, quando si accorse che questi non poteva essere eliminato con la guerra, cercò di ucciderlo con le insidie; ma lui il più delle volte riuscì ad sventarle. Per esempio, una volta che fu avvertito che tramavano contro di lui certuni che erano nel giro dei suoi amici, (poiché a denunciarli erano stati dei nemici, egli non ritenne né di credere la cosa, né di trascurarla), volle verificare se gli era stato riferito il vero o il falso. Così partì per dove gli avevano detto che gli avrebbero teso l’agguato. Ma scelse uno di corporatura e di altezza del tutto simile a sé e gli dette i suoi abiti e gli ordinò di tenere il posto che era solito tenere lui; egli stesso in divisa ed equipaggiamento da soldato si incamminò tra le guardie del corpo. Ma gli insidiatori, quando la colonna in marcia fu giunta al luogo dell’agguato, ingannati dalla posizione e dalle vesti, fanno irruzione contro quello che aveva preso il suo posto. Dátame aveva avvertito quelli che lo accompagnavano di essere pronti a fare quello che avessero visto fare a lui. Ed appena egli vide gli insidiatori all’attacco, scagliò dardi contro di loro. Siccome tutti fecero altrettanto, gli aggressori, prima che arrivassero a quello che volevano assalire, caddero trafitti.
10. Eppure quest’uomo tanto astuto, alla fine cadde vittima dell’inganno di Mitridate, figlio di Ariobarzane. Infatti questi promise al re che avrebbe ucciso Dátame, se il re gli concedesse di poter fare impunemente tutto ciò che volesse e gliene avesse data la garanzia, secondo il costume dei Persiani, con la stretta di mano. Come ebbe tale promessa inviatagli dal re, prepara le truppe e da lontano stringe amicizia con Dátame: devasta le province del re, espugna fortezze, fa grandi prede, di cui una parte distribuisce ai suoi uomini, una parte invia a Dátame; allo stesso modo gli consegna parecchie fortezze. Agendo per molto tempo così, convinse il nostro che egli aveva intrapreso una guerra ad oltranza contro il re; senza però, per non destare in lui sospetti, che per questo gli chiedesse un colloquio o cercasse di venire al suo cospetto. Gestiva l’amicizia da lontano e in modo tale che sembrassero legati non da scambievoli favori, ma dall’odio comune che avevano concepito contro il re.
11. Quando ritenne di aver sufficientemente dimostrato quest’odio, informò Dátame che era tempo di preparare eserciti più grossi e di intraprendere una guerra contro lo stesso re; su questa faccenda, se lo riteneva opportuno, egli sarebbe venuto a parlare con lui, dovunque volesse. Accettata la proposta, si stabilì il tempo del colloquio e il luogo dell’incontro. Qua Mitridate viene alcuni giorni prima con uno in cui aveva fiducia assoluta, e in diversi punti qua e là nasconde delle spade e segna accuratamente quei punti. Il giorno del colloquio, entrambi inviarono alcuni a perlustrare il luogo ed a perquisire le loro stesse persone: quindi si incontrarono loro stessi. Dopo che si furono qui intrattenuti a colloquio per un certo tempo e si furono separati in opposte direzioni, e Dátame era già lontano, Mitridate, prima di raggiungere i suoi, per non destare alcun sospetto, ritornò nel luogo di prima e si pose a sedere, dove era stata sotterrata l’arma, come se desiderasse riposarsi e richiamò Dátame, fingendo di aver dimenticato qualcosa durante il colloquio. Frattanto tirò fuori l’arma che era nascosta e sguainata la coprì con la sua veste, ed a Dátame che si avvicinava disse che mentre se ne andava, aveva notato un luogo, che era di fronte a loro, adatto per un accampamento. Mentre glielo indicava col dito e lui si voltava a guardarlo, lo trafisse con l’arma alle spalle e lo uccise prima che qualcuno potesse venirgli in aiuto. Così quell’uomo che aveva preso molti con l’astuzia, nessuno con l’inganno, cadde vittima di una falsa amicizia8.
15. Epaminonda
1. Epaminonda, figlio di Polimmio, Tebano. Prima che scriviamo di costui, pare opportuno avvertire i lettori a non giudicare i costumi degli altri alla stregua dei propri e a non credere che certe cose che per loro sono di minor pregio, siano valutate alla stessa maniera presso gli altri1.
Sappiamo infatti che, per i nostri costumi, la musica è estranea alla figura di un principe; il ballare poi è addirittura bollato come un vizio: cose tutte che presso i Greci sono ritenute ben accette e degne di lode. E dovendo fare un ritratto delle abitudini e della vita di Epaminonda, mi sembra di non dover tralasciare nulla che serva ad illustrarla meglio.
Perciò parleremo prima di tutto della sua stirpe, poi in quali discipline e da quali maestri sia stato istruito; successivamente dei costumi e delle doti dell’ingegno e delle altre cose che saranno degne di essere ricordate; infine delle sue imprese che da molti vengono anteposte alle sue doti morali2.
2. Nato dunque da un padre, abbiamo detto, di nobile stirpe, fu però lasciato tanto povero già dai suoi antenati come nessun altro Tebano. Infatti gli insegnò a suonare la cetra e cantare al suono della lira Dionisio, che nella musica non fu meno illustre di Damone3 o di Lampro4, i cui nomi sono assai noti; a suonare il flauto, Olimpiodoro e a danzare, Callifrone. Come maestro di filosofia ebbe il tarentino Liside5, un pitagorico; ed a questo fu così affezionato, che quantunque ragazzo antepose nella confidenza questo vecchio malinconico ed austero a tutti i suoi coetanei; e non si licenziò da lui prima di aver di tanto superato nelle dottrine filosofiche i suoi condiscepoli, che si poteva facilmente capire che avrebbe ugualmente superato tutti nelle altre arti. Queste attitudini secondo le nostre consuetudini sono di poco conto e piuttosto da biasimare; ma in Grecia, almeno un tempo, davano un grande lustro. Quando giunse alla pubertà e cominciò a frequentare la palestra, non ebbe di mira tanto la robustezza quanto l’agilità: quella infatti riteneva che servisse all’attività degli atleti, questa alle esigenze della guerra. Pertanto si esercitava moltissimo nella corsa e nella lotta, fino a tanto che gli riuscisse di avvinghiarsi e misurarsi con l’avversario stando in piedi.
Nelle armi invero profondeva il massimo impegno.
3. A questa robustezza fisica andavano congiunte anche molte doti spirituali. Era infatti moderato, prudente, autorevole, tempestivo nel cogliere le occasioni, esperto di guerra, forte di braccio, magnanimo e tanto rispettoso della verità da non mentire neppure per scherzo. Inoltre padrone di sé, straordinariamente clemente e paziente, capace di sopportare le offese non solo della gente, ma anche degli amici; bravissimo nel mantenere i segreti affidatigli, il che talvolta non è meno utile che parlare con facondia, desideroso di ascoltare; riteneva infatti che questo fosse il modo più semplice per imparare. Così quando capitava in una riunione nella quale o si disputava di politica o si parlava di filosofia, non se ne partiva mai prima che il discorso fosse portato a termine. Sopportò tanto agevolmente la povertà che dalla sua attività politica non prese nulla se non la gloria. Non fece ricorso ai beni degli amici per la sua difesa personale; si valse spesso del proprio credito per venire in aiuto degli altri in modo tale che si può ritenere che egli tutto avesse in comune con gli amici. Infatti quando o qualcuno dei suoi concittadini fosse stato preso dal nemico o la figlia di un amico fosse da marito ma per la povertà non potesse accasarsi, radunava i suoi amici e stabiliva, secondo le loro facoltà, quanto ciascuno dovesse dare. E quando aveva messo insieme la somma stabilita, piuttosto che ricevere lui il denaro, faceva incontrare il postulante con i donatori e voleva che fossero loro stessi a versarglielo in modo che quello che riceveva la somma sapesse quanto dovesse a ciascuno.
4. La sua incorruttibilità fu messa alla prova da Diomedonte di Cizico6: questi infatti su richiesta del re Artaserse7 si era assunto l’impegno di corrompere Epaminonda col denaro. Giunse a Tebe con grande quantità di oro e con cinque talenti conquistò al suo piano il giovinetto Mícito che allora era grandemente amato da Epaminonda. Mícito andò a trovare Epaminonda e gli manifestò il motivo della venuta di Diomedonte. Ma egli a Diomedonte quando gli fu davanti: «Non c’è affatto bisogno di denaro», disse; «se il re vuole cose utili per i Tebani, sono pronto a farle senza ricompensa; se invece cose dannose, non gli basta tutto l’oro e l’argento che ha. Non voglio ricevere le ricchezze di tutto il mondo in cambio dell’amore di patria. Che tu, non conoscendomi, mi abbia tentato e mi abbia ritenuto simile a te, non mi meraviglio e te ne scuso; ma esci immediatamente, perché non corrompa altri, non avendo potuto corrompere me. E tu, o Mícito, rendi a costui l’argento, altrimenti, se non lo fai immediatamente, io ti consegnerò al magistrato». E pregandolo Diomedonte di potersene andare con sicurezza e che gli fosse permesso di portare via quello che aveva recato con sé: «Codesto certo che lo farò», disse, «e non per te ma per me, perché, nel caso ti venga rubato il denaro, non si dica che abbia strappato con la violenza quello che offertomi non avevo voluto accettare». Gli chiese dove volesse essere accompagnato e avendo quello detto Atene, gli dette una scorta, perché vi giungesse senza rischi. E non si accontentò di questo, ma prese provvedimenti perché salisse incolume sulla nave, grazie ai buoni uffici dell’Ateniese Cabria8, di cui abbiamo sopra parlato. Basterà questo come esempio di incorruttibilità. Potremmo citare tantissime testimonianze, ma bisogna adottare una misura, perché abbiamo stabilito di racchiudere in questo unico libro le vite di molti uomini eccellenti, che molti scrittori prima di noi illustrarono singolarmente in molte migliaia di righe.
5. Fu inoltre facondo, sì che nessun Tebano gli fu pari nella eloquenza, né meno icastico nei suoi interventi brevi che elegante in un discorso continuato. Ebbe come detrattore un certo Meneclide, di Tebe anche lui e suo avversario nel governo dello Stato, abbastanza abile parlatore, per essere un Tebano: quella infatti è gente che ha più forza fisica che ingegno.
Poiché vedeva che Epaminonda primeggiava nell’arte militare, costui soleva esortare i Tebani a preferire la pace alla guerra, perché non ci fosse bisogno della sua opera di condottiero. Ma Epaminonda gli disse: «Con i tuoi discorsi tu inganni i tuoi concittadini, cercando di stornarli dalla guerra: infatti col pretesto della pace, prepari loro la schiavitù. La pace è figlia dalla guerra. Pertanto quelli che vogliono godere di una pace duratura, devono essere esercitati alla guerra. Se volete dunque essere i primi della Grecia, dovete praticare il campo, non la palestra».
E una volta che quello stesso Meneclide gli rinfacciava di non aver figlioli e di non aver preso moglie, e soprattutto la superbia di credere di aver raggiunto la gloria bellica di Agamennone, egli gli disse: «Ma smetti, Meneclide, di rimproverarmi della moglie; in questa faccenda da nessuno voglio un consiglio meno che da te (infatti su Meneclide gravava il sospetto di adulterio). Se tu ritieni poi che io voglia emulare Agamennone, ti sbagli: quello con tutta la Grecia a stento prese una sola città in dieci anni, io invece, con la sola nostra città ed in un sol giorno, ho cacciato gli Spartani e liberato la Grecia intera».
6. Lo stesso si era recato ad un’assemblea degli Arcadi per chieder loro che facessero alleanza con i Tebani e gli Argivi. Callistrato invece, il delegato degli Ateniesi, che in quel tempo era superiore a tutti in abilità oratoria, sosteneva che ricercassero piuttosto l’amicizia degli Attici, e nel suo discorso si era scagliato con molte ingiurie contro i Tebani e gli Argivi; e fra le altre cose aveva tirato fuori l’argomento che gli Arcadi dovevano por mente a che razza di cittadini avesse generato l’una e l’altra città, e così potessero giudicare del resto: Argivi infatti erano stati Oreste9 ed Alcmeone10, matricidi, a Tebe era nato Edipo, il quale dopo aver ucciso il padre aveva generato figli dalla madre. Allora Epaminonda, nellasua risposta, dopo aver trattato degli altri argomenti, quando fu giunto alle due accuse infamanti, disse che si meravigliava della scempiaggine del retore attico, che non aveva fatto caso che quelli, nati innocenti in patria, una volta commesso il delitto, furono cacciati dalla città ed accolti dagli Ateniesi.
Ma la sua eloquenza rifulse in modo straordinario quando fu ambasciatore a Sparta, prima della battaglia di Lèuttra11. Là erano convenuti gli inviati di tutti gli alleati e dinanzi alla affollatissima assemblea delle legazioni seppe stigmatizzare così bene la tirannide degli Spartani, che scosse la loro potenza non meno con quel discorso che con la battaglia di Leuttra. In quella occasione infatti, riuscì ad ottenere, come si vide poi, che gli Spartani rimanessero senza l’aiuto degli alleati.
7. Fu paziente e tollerò le offese dei suoi concittadini, perché riteneva un sacrilegio l’adirarsi con la patria: eccone qui alcune prove.
I suoi concittadini per malevolenza non avevano voluto metterlo a capo dell’esercito e fu scelto come comandante uno inesperto di guerra, per la cui incapacità il grosso dell’esercito era stato portato ad un punto tale da dover temere tutti della propria salvezza, perché il nemico li aveva cacciati in un luogo angusto, e li teneva assediati; allora si cominciò a rimpiangere la perizia di Epaminonda: si trovava egli infatti là tra i soldati come privato cittadino. Gli chiesero aiuto, ed egli dimentico affatto dell’affronto subito, liberò l’esercito dall’assedio e lo ricondusse incolume in patria. E questo fece non solo allora, ma più volte.
Ma il caso più illustre fu quando portò l’esercito nel Peloponneso12 contro gli Spartani, ed aveva due colleghi di cui uno era Pelòpida, uomo forte e valoroso. Poiché questi erano tutti caduti in disgrazia per le accuse degli avversari e per questo era stato tolto loro il comando ed erano subentrati al loro posto altri comandanti, Epaminonda non ubbidì al decreto del popolo e persuase i colleghi a fare altrettanto e portò a termine la guerra che aveva intrapreso. Capiva infatti che se non avesse agito così, tutto l’esercito sarebbe perito per l’avventatezza e l’imperizia bellica dei comandanti. Vigeva a Tebe una legge che comminava la morte a chi avesse mantenuto il comando militare più a lungo di quanto fosse stabilito per legge. Epaminonda, pur riconoscendo che questa era stata emanata per la difesa dello Stato, non volle usarla per la rovina della patria e tenne il comando quattro mesi più a lungo di quanto il popolo lo aveva autorizzato.
8. Dopo il ritorno in patria, i suoi colleghi vennero accusaticon questo capo di incriminazione. Egli li autorizzò a trasferiresu di sé tutta la colpa ed a sostenere che fu per il suo intervento se essi non ubbidirono alle leggi. Assolti quelli grazie a questa difesa, nessuno riteneva che Epaminonda si sarebbe presentato, non avendo nulla da dire a propria difesa. Ma lui andò al processo, non negò alcuno dei fatti di cui lo accusavano i suoi avversari e confermò tutte quelle cose che avevano detto i suoi colleghi e non rifiutò di affrontare la punizione prevista dalla legge; ma una cosa chiese loro, che nella sua sentenza di condanna scrivessero: «Epaminonda fu condannato a morte dai Tebani, perché li costrinse presso Lèuttra a vincere gli Spartani, che prima del suo comando nessuno dei Beoti aveva osato affrontare in campo e perché con una sola battaglia, non solo salvò Tebe dalla rovina, ma restituì anche la libertà a tutta la Grecia, e condusse a tal punto le vicende di entrambi i popoli, che i Tebani assalirono Sparta e gli Spartani si contentarono di potersi salvare; e non cessò di combattere prima che, ricostruita Messene, ebbe stretto d’assedio la loro città». Avendo dette queste cose, ci fu uno scoppio di risa e ilarità generale né alcun giudice osò votare contro di lui. Così dal processo capitale uscì fuori ricolmo di grandissima gloria.
9. Negli ultimi tempi, comandante presso Mantinèa13 mentre, con l’esercito schierato, incalzava con troppa audacia i nemici, fu riconosciuto dagli Spartani, e poiché solo nella rovina di lui ritenevano posta la salvezza della patria, fecero tutti quanti impeto contro lui soltanto né si ritirarono finché, dopo grande strage e molti uccisi, non videro crollare, colpito da un giavellotto scagliato da lontano, lo stesso Epaminonda che combatteva da valoroso. La sua caduta rallentò per un po’ l’attacco dei Beoti, tuttavia non desistettero dal combattimento finché non ebbero travolto la resistenza dei nemici. Ed Epaminonda accorgendosi di aver ricevuto una ferita mortale ed anche che sarebbe morto all’istante se avesse estratto il ferro dell’asta che era rimasto nel corpo, lo mantenne fino a che gli fu annunziata la vittoria dei Beoti. Dopo che ebbe udito ciò, «ho vissuto abbastanza», disse; «muoio senza una sola sconfitta». Poi estratto il ferro, esalò immediatamente l’anima.
10. Egli non prese mai moglie. E venendo per questo biasimato, perché non lasciava figli, da Pelòpida, il quale aveva un figliolo di cattiva fama e diceva che lui così male provvedeva alla patria: «Guarda», gli rispose, «che non vi provveda peggio tu, che ti appresti a lasciare un figlio di tal fatta. D’altra parte a me non può mancare la discendenza: io lascio nata da me, la battaglia di Leuttra, che fatalmente non solo mi sopravviverà, ma sarà addirittura immortale». Al tempo in cui, sotto la guida di Pelòpida, gli esuli occuparono Tebe e cacciarono dall’acropoli il presidio spartano, Epaminonda finché durò la strage dei cittadini, si tenne in casa, perché non voleva difendere i malvagi né assalirli per non insozzare le mani del sangue dei suoi: riteneva funesta ogni vittoria riportata sopra i propri cittadini. Ma non appena che, presso la Cadmea14, si cominciò a combattere con gli Spartani, fu tra i primi.
Delle sue virtù e della sua vita si sarà detto abbastanza quando avrò aggiunto questa cosa soltanto, che nessuno contesterà: Tebe e prima della nascita di Epaminonda e dopo la sua morte fu sempre sotto il giogo straniero; invece per tutto il tempo che resse lui lo Stato, fu la capitale di tutta la Grecia.
Da questo si può capire come un uomo solo valse più di una città.
16. Pelopida
1. Pelòpida, Tebano, è noto più agli storici che alla gente comune.
Delle sue virtù sono incerto come io debba trattare, perché temo, se incomincio ad illustrarne imprese, di dare l’impressione non di narrare la sua vita bensì di scrivere la storia; se toccherò solamente i sommi capi, temo che, a chi è ignaro di cultura greca, appaia con minor chiarezza quanto grande sia stato quest’uomo. Pertanto ovvierò, per quanto mi sarà possibile all’uno ed all’altro pericolo e cercherò di evitare sia la noia che l’ignoranza dei lettori.
Lo Spartano Fèbida mentre conduceva l’esercito ad Olinto1 e passava per Tebe, occupò l’acropoli tebana, che si chiama Cadmèa, per istigazione di alcuni Tebani, i quali favorivano gli Spartani per contrastare più facilmente la fazione avversa2, e compì questa azione per iniziativa sua personale non ufficiale. Per il fatto gli Spartani lo rimossero dall’esercito e gli comminarono una multa; ma non per questo restituirono la rocca ai Tebani: perché, una volta iniziate le inimicizie, ritenevano più utile che quelli subissero l’occupazione piuttosto che fossero liberati. Infatti dopo la guerra del Peloponneso e la disfatta di Atene, ritenevano di dover fare i conti con i Tebani e questi erano i soli che osassero opporre resistenza. Con questa convinzione avevano dato le più alte cariche agli amici, e gli esponenti del partito avverso parte ne avevano uccisi, altri cacciati in esilio; tra essi il nostro Pelopida, di cui abbiamo cominciato a parlare, si trovava senza patria perché bandito.
2. Costoro si erano rifugiati, quasi tutti, in Atene, non per farvi vita oziosa, ma per tentare di riconquistare la patria dal posto più vicino non appena la sorte gliene avessa offerta l’occasione. Pertanto quando parve loro che fosse tempo di agire, in combutta con quelli che in Tebe avevano gli stessi sentimenti, stabilirono come giorno, per sopprimere i nemici e liberare la città, quello in cui i massimi magistrati erano soliti banchettare insieme. Spesso le grandi imprese sono compiute con milizie non altrettanto grandi, ma certo mai potenza tanto formidabile fu messa in rotta da una iniziativa così modesta. Infatti fra quelli che erano stati condannati all’esilio, si misero insieme dodici ragazzi, mentre in tutto non erano più di cento quelli che si esponevano ad azione così rischiosa. Un numero tanto esiguo bastò a rovesciare la potenza degli Spartani. Essi infatti in quel frangente più che al partito avverso fecero guerra agli Spartani, che erano i signori di tutta la Grecia: la maestà della loro supremazia, non molto dopo, crollò nella battaglia di Lèuttra, ma colpita da questa azione iniziale. Quei dodici dunque, il cui duce era Pelòpida, uscirono di giorno da Atene, per poter giungere a Tebe sul far della sera, con cani da caccia, con reti e con vestiti campagnoli, per destare meno sospetti durante il tragitto. E arrivati proprio nel momento che avevano prefissato, si diressero verso casa di Carone dal quale erano stati fissati e il giorno e l’ora.
3. A questo punto mi piace introdurre una riflessione, anche se estranea all’argomento trattato e cioè quanta calamità possa arrecare l’eccessiva fiducia. Infatti agli orecchi dei magistrati tebani arrivò subito la notizia che gli esuli erano entrati in città; ma quelli, in preda al vino ed alla gozzoviglia, la ebbero in non cale, a tal segno che non si dettero neppure il pensiero di fare indagini su una cosa tanto importante. Si aggiunse un fatto a mettere maggiormente in luce la loro scempiaggine. Giunse da Atene, da parte di Archino, una lettera indirizzata ad uno di questi, Archia, che ricopriva allora a Tebe la più alta magistratura, nella quale venivano esposti tutti i particolari della partenza dei congiurati. Siccome questa gli fu recapitata quando era già sdraiato per il banchetto, ficcandola, sigillata com’era, sotto il cuscino, disse: «Rimando a domani le cose serie». Ma quelli, a notte già inoltrata, in preda al vino, vennero tutti uccisi dagli esuli, comandati da Pelòpida. Portata a termine l’operazione, chiamato il popolo alle armi ed alla libertà, accorsero non solo quelli che erano in città, ma anche da tutte le parti della campagna, cacciarono dalla rocca la guarnigione spartana, liberarono la patria dall’occupazione, e i fautori del presidio della Cadmèa, parte ne uccisero, parte ne cacciarono in esilio.
4. In un momento di così grave confusione, Epaminonda, come abbiamo detto sopra, finché si combattè tra i cittadini, se ne rimase inattivo a casa. Così la liberazione di Tebe è merito personale di Pelòpida: gli altri per lo più li divide con Epaminonda. Infatti nella battaglia di Lèuttra3, in cui era generale Epaminonda, egli guidò la schiera scelta, che fu la prima a fiaccare la falange spartana. Inoltre prese parte a tutte le imprese rischiose (per esempio, quando ci fu l’assalto a Sparta4, guidò una delle ali) e perché Messene fosse più celermente ricostruita, partì con una missione in Persia. Insomma costui fu il secondo personaggio di Tebe, ma così secondo da essere molto vicino ad Epaminonda.
5. Dovette lottare contro l’avversa fortuna. Infatti, dapprima, come abbiamo detto, fu un esule senza patria; e quando voleva ridurre la Tessaglia sotto il dominio dei Tebani e si riteneva abbastanza protetto dal diritto di legazione, che suol essere considerato sacro presso tutte le genti, fu catturato insieme a Ismenia, dal ti ranno Alessandro di Fere e gettato in carcere. Lo trasse fuori Epaminonda, movendo guerra ad Alessandro. Dopo questo fatto il suo animo non poté mai più placarsi contro quello, da cui aveva subito la violenza. Così convinse i Tebani a marciare in aiuto della Tessaglia ed a cacciarne i tiranni. Ed essendo stato affidato a lui il supremo comando di questa guerra ed avendo marciato con l’esercito fin là, non appena ebbe scorto il nemico non esitò a dare battaglia. Ed ivi, come scorse Alessandro, infiammato d’ira, spronò il cavallo contro di lui ed allontanatosi molto dai suoi, cadde trafitto da una gragnuola di dardi. E questo accadde quando già gli arrideva la vittoria: infatti le truppe dei tiranni erano già in ritirata. Per questa impresa tutte le città della Tessaglia onorarono l’ucciso Pelòpida con corone d’oro e statue di bronzo ed i suoi figlioli con molti terreni.
17. Agesilao
1. Agesilao, spartano, ebbe grandi lodi da tutti gli storici, ma in modo speciale da Senofonte, il discepolo di Socrate, al quale fu legato da intima amicizia. Egli dapprima ebbe una contesa per il regno con Leotichide, figlio del fratello. Era infatti costume tramandato agli Spartani dagli antenati, che avessero sempre due re, di nome più che di potere effettivo, vdalle due famiglie di Procle ed Euristene, che, della stirpe di Ercole, furono i primi re a Sparta.
Non era permesso diventare re da una di queste due famiglie, al posto dell’altra: così ognuna delle due seguiva la propria successione. Prima di tutto valeva il diritto del maggiore di età dei figli di quello che fosse morto durante il regno; se poi questi non avesse lasciato eredi maschi, allora veniva scelto il più vicino nella linea di parentela. Era morto il re Agide, fratello di Agesilao ed aveva lasciato il figlio Leotichide: non lo aveva riconosciuto alla nascita, ma morendo lo aveva dichiarato suo figlio. Questi contese ad Agesilao, suo zio paterno, la carica del regno, ma non riuscì ad ottenere quello che reclamava. Infatti con il sostegno di Lisandro, uomo, come abbiamo detto sopra, fazioso ed a quel tempo potente, fu preferito Agesilao1.
2. Questi, non appena si fu impadronito del potere, convinse gli Spartani ad inviare l’esercito in Asia ed a far guerra al re2, spiegando che era meglio combattere in Asia che in Europa. Si era infatti sparsa la notizia che Artaserse stesse allestendo flotte ed eserciti di terra, da inviare in Grecia. Ottenuta l’autorizzazione3, agì con tanta rapidità che giunse con le truppe in Asia prima che i sàtrapi del re sapessero che era partito; così colse tutti impreparati e di sorpresa. Come venne a sapere ciò Tissaferne, che allora tra tutti i prefetti del re aveva il supremo comando, chiese una tregua allo Spartano, fingendo di adoperarsi, perché si arrivasse ad un accordo tra gli Spartani e il re, ma in realtà per ammassare truppe, e la ottenne di tre mesi. L’uno e l’altro giurarono che avrebbero osservato la tregua senza inganno. Il patto fu rispettato da Agesilao con assoluta lealtà; al contrario Tissaferne non fece altro che preparare la guerra. E quantunque il Lacone si accorgesse di ciò, tuttavia teneva fede al giuramento ed affermava che da questo egli ritraeva grande vantaggio, perché Tissaferne con il suo spergiuro e alienava gli uomini dalle sue imprese e provocava l’ira degli dèi contro di sé; lui invece, mantenendo la parola data, rinsaldava la fiducia dell’esercito, quando questo vedeva che la maestà degli dèi era con loro e si faceva gli uomini più amici, poiché questi stanno di solito dalla parte di quelli nei quali vedono la fedeltà alla parola data.
3. Scaduto il termine della tregua, il barbaro non dubitando, dato che egli aveva moltissimi castelli nella Caria4 e la regione a quel tempo era ritenuta di gran lunga la più ricca, che là soprattuto i nemici avrebbero sferrato l’attacco, aveva radunato là tutte le sue truppe. Agesilao invece marciò alla volta della Frigia5 e fece in tempo a saccheggiarla prima che Tissaferne6 si muovesse affatto. Arricchiti i soldati col molto bottino, riportò l’esercito a svernare ad Efeso ed ivi, organizzate fabbriche di armi, si diede con grande energia a preparare la guerra. E perché si armassero con più zelo e si equipaggiassero con maggior decoro, propose dei premi da elargire a quelli che si fossero dimostrati particolarmente alacri in questa attività. Fece lo stesso nei vari tipi di esercitazioni, sì da premiare con ricchi doni chi si fosse distinto sugli altri. Con questi mezzi poté avere un esercito molto ben equipaggiato ed allenato. E quando gli parve giunto il momento di tirar fuori le truppe dai quartieri di inverno, capì che se avesse indicato apertamente la direzione della sua marcia, i nemici non ci avrebbero creduto ed avrebbero presidiato altre regioni e non avrebbero dubitato che egli avrebbe fatto diversamente da quanto avesse dato ad intendere. E così avendo egli detto che sarebbe andato a Sardi, Tissaferne credette di dover fortificare ancora la Caria. Ma in questa sua previsione si ingannò e quando si vide gabbato dallo stratagemma, partì troppo tardi in soccorso dei suoi. Quando giunse là infatti, Agesilao aveva già conquistate con la forza molte località e si era impadronito di una grande preda. Lo Spartano poi vedendo che i nemici erano più forti nella cavalleria, non accettò mai battaglia campale e venne a combattimento in quei luoghi dove avesse miglior gioco la fanteria. Mise in fuga, ogni volta che si scontrò, le milizie degli avversari di gran lunga superiori e si condusse in Asia in modo da essere considerato, secondo l’opinione generale, il vincitore.
4. Mentre progettava di fare una spedizione contro i Persiani ed attaccare il re stesso, gli giunse dalla patria7, da parte degli èfori,il messaggio, che gli Ateniesi ed i Beoti avevano dichiarato guerra agli Spartani, perciò non indugiasse a tornare. In questo frangente va ammirato il suo amor patrio non meno del suo valore militare: egli comandava un esercito vittorioso ed aveva la massima fiducia di conquistare il regno persiano, tuttavia con tanto ossequio obbedì agli ordini dei magistrati lontani come se fosse stato privato cittadino nell’assemblea di Sparta. E magari i nostri generali avessero voluto imitare il suo esempio! Ma torniamo all’argomento. Agesilao ad un regno ricchissimo antepose la buona reputazione e stimò molto più glorioso, se avesse obbedito alle istituzioni della patria, che se avesse conquistato in guerra l’Asia. Con questi sentimenti dunque trasportò le truppe oltre l’Ellesponto e fu di tanta rapidità che il tragitto che Serse aveva compiuto nel corso di un anno, egli lo compì in trenta giorni. Mentre già si trovava non molto lontano dal Peloponneso, gli Ateniesi ed i Beoti e gli altri alleati tentarono di sbarrargli la strada presso Coronea8: ma egli li vinse tutti in un’aspra battaglia. La gloria di questa vittoria raggiunse il culmine quando, rifugiatisi moltissimi fuggiaschi nel tempio di Minerva e chiedendoglisi che cosa voleva che si facesse di loro, egli nonostante che avesse ricevuto in quel combattimento alquante ferite e sembrasse adirato verso tutti coloro che avevano preso le armi contro di lui, tuttavia antepose all’ira il sentimento religioso e vietò che fossero violati. E questo, di ritenere inviolabili i templi degli dèi, non lo fece solo in Grecia, ma anche presso i barbari conservò, con grandissimo rispetto, tutte le statue e le are. Pertanto soleva dire di meravigliarsi che non fossero ritenuti dei sacrileghi coloro che avessero recato del male ai supplici degli dèi o che coloro che offendevano la religione non fossero puniti con pene più severe di coloro che spogliavano i templi.
5. Dopo questa battaglia, tutta la guerra si concentrò intorno a Corinto9 e per questo fu chiamata corinzia. Qui, mentre era Agesilao comandante, caddero in un unico combattimento diecimila nemici, e per questo fatto sembrava fiaccata la potenza degli avversari; ma egli, ben lungi da ogni insolenza di gloria, commiserò la fortuna della Grecia dato che tanti da lui vinti erano caduti per colpa degli avversari; con tutti quegli uomini infatti, se le menti fossero state sane, la Grecia avrebbe potuto far pagare il fio ai Persiani. Egli poi quando ebbe ricacciato i nemici dentro le mura, ai molti che lo esortavano a sferrare l’attacco contro Corinto, disse che questo non si addiceva alla sua moralità: lui era uno che voleva costringere a tornare al dovere chi sgarrava, non espugnare le più nobili città della Grecia. «Se vorremo», disse, «annientare coloro che furono nostri alleati contro i barbari, noi con le nostre mani espugneremo noi stessi, mentre quelli se ne stanno quieti. Una volta fatto questo, essi, quando vorranno, ci schiacceranno senza alcuna fatica.»
6. Nel frattempo gli Spartani subirono la disfatta di Leuttra10. Per non andare colà, quantunque fosse da molti sollecitato ad uscire, quasi ne presagisse l’esito, non volle lasciare la città. Ma poi, quando Epaminonda dette l’assalto a Sparta11 e la città era senza mura, si dimostrò comandante tale che in quella circostanza fu chiaro a tutti che, se non ci fosse stato lui, Sparta non ci sarebbestata più: senza dubbio in tale frangente la rapidità della sua decisione fu di salvezza per tutti. Infatti alcuni ragazzotti, spaventati per l’arrivo dei nemici, volendo passare ai Tebani avevano occupato un’altura fuori della città: Agesilao intuendo che sarebbe stato esiziale se si fosse notato il tentativo di diserzione al nemico, andò là con i suoi e come se quelli avessero agito con retta intenzione, lodò la loro decisione di occupare quella posizione, anche lui del resto aveva capito che bisognava fare questo. Così fingendo di lodarli, recuperò quei ragazzi e aggregati loro alcuni suoi compagni, lasciò la postazione ben difesa. Infatti quelli, cui si erano aggiunti uomini ignari della loro decisione, non osarono muoversi, e tanto più volentieri, perché credevano che fossero rimasti nascosti i loro divisamenti12.
7. Senza dubbio dopo la battaglia di Leuttra gli Spartani non si riebbero più e non riacquistarono l’egemonia di prima; ma nel frattempo Agesilao giammai desistè dal recare aiuto alla patria con tutti i mezzi che potesse. Gli Spartani, per esempio, avevano assoluto bisogno di denaro; egli allora andò in soccorso di tutti quelli che si erano ribellati al re; ne ebbe in compenso molto denaro e recò sollievo alla patria. Ed a questo proposito, fu soprattutto degno di ammirazione il fatto che quantunque fossero recati a lui ricchissimi doni dai re e dai dinasti e dalle città, egli mai nulla si portò a casa sua, nulla mutò del tenore di vita, nulla del modo di vestire degli Spartani.
Visse contento in quella stessa casa nella quale era vissuto Euristene, il capostipite dei suoi antenati13; chi vi entrava non poteva scorgerci alcun segno di mollezza, né di lusso, moltissimi invece di austerità e di frugalità. Era infatti così messa che non differiva in nulla da quella di qualsiasi povero e privato cittadino.
8. E quest’uomo tanto grande, come aveva avuto generosa la natura nella elargizione delle virtù morali, così la sperimentò maligna nella complessione del corpo: fu di bassa statura ed esile di corpo e zoppo. Questo difetto gli dava anche una certa deformità e quelli che non lo conoscevano, quando guardavano le sue fattezze, lo disprezzavano; ma quelli che conoscevano le sue virtù, non sapevano ammirarlo abbastanza. Fu quello che gli capitò quando all’età di ottant’anni si recò in Egitto in aiuto a Tacho: si era sdraiato con isuoi sulla spiaggia senza alcuna tenda e avendo per giaciglio della paglia stesa sulla nuda terra con sopra nient’altro che una pelle;sullo stesso giaciglio s’erano sdraiati anche tutti i suoi compagni con un vestito rozzo e vecchio, tanto che il loro abbigliamento non solo non indicava tra loro nessun re ma lasciava intendere che si trattasse di uomini tutt’altro che ricchi. Giunta la notizia del suo arrivo ai messi del re, prontamente furono recati là doni di ogni genere.
Questi cercavano Agesilao ma a stento riuscirono a convincerli che era uno di quelli che allora riposavano distesi.
Essi consegnarono a nome del re i doni che avevano portato, ma lui, a parte la carne di vitello e cibi di tal genere, di cui aveva bisogno nelle presenti circostanze, non accettò nulla; gli unguenti, le corone e le seconde portate le distribuì agli schiavi, tutto il resto lo fece riportare indietro. Per questo comportamento, i barbari lo disprezzarono ancora di più, perché ritenevano che egli avesse preferito quei cibi, perché non conosceva i cibi raffinati. Aveva ricevuto in compenso dal re Nectanàbide14 duecentoventi talenti per farne dono al suo popolo, ma nel suo viaggio di ritorno dall’Egitto, arrivato al porto che è detto di Menelao, situato tra Cirene e l’Egitto, cadde malato e morì. Là gli amici, perché lo potessero trasportare più facilmente a Sparta, dato che non avevano il miele, lo spalmarono tutto di cera e così lo riportarono in patria.
18. Èumene
1. Èumene, di Cardia1. Se costui avesse avuto una fortuna pari al valore, certo non sarebbe stato più grande, perché misuriamo la grandezza degli uomini in base al valore e non alla fortuna, ma molto più illustre ed anche più onorato. Gli capitò infatti di vivere in un periodo di grande potenza dei Macedoni e trovandosi a vivere in quell’ambiente, molto gli nocque il fatto di essere straniero, né altro gli mancò se non una nobile stirpe. Sebbene egli fosse in patria di famiglia assai ragguardevole, tuttavia i Macèdoni non si rassegnavano che talvolta fosse anteposto a loro, però lo tolleravano: infatti era superiore a tutti per zelo, attenzione, resistenza, scaltrezza e prontezza di ingegno. Ancora giovanissimo divenne amico di Filippo, figlio di Aminta, e in breve tempo entrò in vera e propria intimità con lui: fin da allora brillava nel giovane il suo carattere valoroso. Così lo tenne accanto a sé con la qualifica di segretario, incarico che presso i Greci è assai più onorifico che presso i Romani. Da noi, in verità, i segretari vengono considerati, come in effetti sono, degli impiegati; ma presso quelli al contrario, nessuno è ammesso a tale incarico se non di famiglia nobile e di sperimentata lealtà e zelo, perché per forza di cose egli vien messo a parte di tutte le decisioni. Ebbe questo incarico di amicizia presso Filippo per sette anni. Quando quello fu ucciso2, rimase nello stesso grado presso Alessandro per tredici anni. Infine comandò anche un’ala di cavalleria, quella chiamata eterica3. Assisté sempre l’uno e l’altro re nelle loro decisioni e fu tenuto a parte di tutti gli affari.
2. Dopo la morte di Alessandro a Babilonia, le province del re furono spartite tra i suoi intimi e il supremo potere fu affidato a Perdicca, cui Alessandro morendo aveva dato il suo anello; dal che tutti avevano dedotto che avesse affidato a lui il regno, finché i suoi figli fossero usciti di tutela; Cràtero e Antipatro infatti, chesembravano venir prima di quello, erano assenti; Efestione, che Alessandro (come si poteva facilmente capire) aveva stimato più di tutti, era morto; in quella circostanza fu consegnata ad Èumene la Cappadocia, o meglio assegnata: infatti era allora in potere dei nemici. Perdicca aveva messo tutto il suo impegno per trarlo dalla sua parte, perché vedeva la grande lealtà ed energia di quell’uomo e non dubitava che se avesse conquistato la sua amicizia, gli sarebbe stato di grande aiuto nei progetti che stava elaborando. Pensava infatti, quello, che, come si dice, tutti nei grandi imperi desiderano, arraffare e riunire sotto di sé le parti di tutti. Ed invero non tentò di far così solo lui, bensì anche tutti gli altri che erano stati amici di Alessandro. Per primo Leonnato4 progettò di mettere le mani sulla Macedonia. Egli con molte e grandi promesse cercò di persuadere Èumene a lasciare Perdicca ed a fare alleanza con lui. Non potendolo portare dalla sua parte, tentò di ucciderlo e l’avrebbe fatto se quello di nascosto, nottetempo, non fosse fuggito dai suoi presìdi.
3. Frattanto scoppiarono quelle ben note guerre che furono combattute fino all’ultimo sangue dopo la morte di Alessandro5, e tutti si coalizzarono per uccidere Perdicca. Sebbene lo vedesse debole, perché da solo era costretto a far fronte a tutti, tuttavia non abbandonò l’amico, preoccupato più della parola data che della propria salvezza. Perdicca lo aveva messo a capo di quella parte dell’Asia che si trova tra il monte Tauro e l’Ellesponto e lui solo aveva opposto ai nemici europei; egli per conto suo s’era mosso alla volta dell’Egitto per combattere contro Tolomeo. Èumene aveva truppe scarse e non molto valide, perché non allenate ed arruolate di recente, e si diceva che si avvicinavano e avevano già passato l’Ellesponto con un grande esercito di Macèdoni, Antipatro e Cràtero, uomini insigni e per gloria e per esperienza militare (i soldati Macèdoni invero avevano allora la fama che hanno adesso i Romani: quelli che conquistano il supremo potere sono sempre stati ritenuti i più forti). Èumene si rendeva conto che se i propri soldati avessero saputo contro chi erano condotti, non solo non non si sarebbero mossi, ma si sarebbero subito sbandati alla prima notizia. Così gli sembrò il partito più saggio di condurre i soldati per vie traverse, in cui non potessero venire a sapere la verità e di far loro credere che erano in marcia contro certi barbari. E mantenne tale piano e schierò l’esercito in campo e attaccò battaglia prima che i suoi soldati sapessero con chi dovevano scontrarsi. Occupando in anticipo le posizioni, ottenne anche il vantaggio di combattere piuttosto con la cavalleria, in cui era più forte, che con la fanteria, in cui era inferiore.
4. Nel terribile scontro6 si combattè per buona parte del giorno e caddero il duce Cràtero e Neottòlemo, che comandava in seconda. Contro costui si avventò lo stesso Èumene. Avvinghiatisi tra loro e caduti da cavallo, sì che si poté facilmente capire come avessero lottato con odio feroce e ancor più con l’anima che con il corpo, non si separarono prima che l’uno dei due fosse morto. Èumene fu ferito da lui in più punti, ma non per questo uscì dalla battaglia, bensì incalzò i nemici con più accanimento. A questo punto, messa in fuga la cavalleria, ucciso il comandante Cràtero, presi inoltre molti prigionieri e soprattutto nobili, la fanteria, che erastata condotta in luoghi tali che non poteva più uscire se non voleva Èumene, chiese a lui la pace. La ottenne, ma non mantenne la parola data e, non appena poté, si rifugiò da Antipatro. Èumene cercò di far rianimare Cràtero estratto semivivo dal campo di battaglia; non gli fu possibile, ed allora per riguardo alla carica dell’uomo e all’antica amicizia (avevano avuto cordiali rapporti quando era vivo Alessandro), lo fece seppellire con tutti gli onori e rimandò le ossa in Macedonia alla moglie ed ai figli.
5. Mentre sull’Ellesponto si svolgono questi fatti, Perdicca viene ucciso presso il fiume Nilo da Selèuco ed Antigene ed il potere supremo viene trasferito ad Antipatro. A questo punto si fece una votazione tra l’esercito7 e quelli che si erano staccati da Antipatro furono condannati a morte in contumacia, tra essi Èumene. Egli sebbene scosso da questo colpo, non si arrese né tantomeno rinunziò a condurre la guerra. Ma la scarsità dei mezzi anche se non spezzava il suo forte animo, tuttavia lo indeboliva. Antigono gli dava la caccia, ma pur disponendo in abbondanza di ogni sorta di milizie spesso era da lui molestato nelle sue marce e non gli era mai possibile di venire alle mani, se non in quei luoghi in cui pochi potessero tener testa a molti. Ma alla fine, non potendo essere preso con l’arte, fu accerchiato dalla moltitudine dei soldati. Pur con molte perdite riuscì tuttavia a liberarsi, e si rifugiò in una fortezza della Frigia, chiamata Nora8. In questa era assediato e temeva, rimanendo in un medesimo luogo, di rovinare i cavalli da guerra perché non c’era spazio per esercitarli. Escogitò allora un sistema ingegnoso per cui pur in piedi ed al suo posto il cavallo potesse scaldarsi ed esercitarsi, nonché mangiare più volentieri senza che fosse impedito nei suoi movimenti. Ne legava la testa con una cinghia più in alto di quanto occorresse per poter poggiare pienamente a terra con le zampe anteriori, poi con frustate sul groppone lo costringeva a saltare e tirar calci; questo movimento provocava non meno sudore che se corresse all’aperto. E così avvenne che, e la cosa meravigliò tutti, pur rimasto assediato per parecchi mesi, portò fuori dalla fortezza dei cavalli splendidi, come se li avesse tenuti in aperta campagna. Durante l’assedio, ogni volta che lo volle, ora incendiò le macchine belliche e le fortificazioni di Antigono, ora le abbatté. Si mantenne tuttavia per tutta la durata dell’inverno nello stesso luogo, perché non poteva tenere l’accampamento a cielo aperto. Si avvicinava la primavera: fingendo di arrendersi, mentre ne trattava le condizioni, ingannò gli ufficiali di Antigono e trasse fuori incolumi sé e tutti i suoi9.
6. Olimpia, la madre di Alessandro, gli aveva mandato in Asia lettere e messi per chiedergli consiglio se dovesse andare in Macedonia a riprendere il regno (infatti allora dimorava in Epiro) e ad occupare quei territori. Dapprima lui le consigliò di non muoversi e di aspettare finché il figlio di Alessandro fosse in grado di prendersi il regno; se poi si sentiva trascinare in Macedonia da un qualche forte desiderio, doveva dimenticare tutte le offese e non esercitare contro alcuno un potere troppo duro. Lei non fece nulla di tutto questo; infatti partì per la Macedonia e là si comportò in modo assai crudele. Chiese poi a Èumene assente di non tollerare che nemici mortali della casa e della famiglia di Filippo ne sopprimessero anche la stirpe e di venire in aiuto dei figli di Alessandro. Se le concedeva questo favore, preparasse quanto prima delle truppe, e le venisse con esse in aiuto. Per facilitargli il compito, aveva mandato delle lettere a tutti i governatori che le rimanevano fedeli, perché obbedissero a lui e seguissero le sue direttive. Èumene vinto da queste preghiere, ritenne miglior partito, se così avesse voluto la fortuna, di morire mostrando la sua gratitudine ai suoi benefattori, che vivere da ingrato.
7. Così mise insieme un esercito e preparò la guerra contro Antigono. Perché si trovavano insieme con lui parecchi nobili Macedoni, fra questi Peuceste10, che era stato guardia del corpo di Alessandro, ma che allora governava la Pèrside11, e Antigene, sotto il cui comando si trovava la falange macedone, temendo il risentimento, a cui tuttavia non poté sfuggire, se avesse avuto lui che era straniero, il comando supremo piuttosto che altri Macedoni, che erano lì un gran numero, pose nel quartier generale una tenda col nome di Alessandro, e in essa fece mettere il trono d’oro con lo scettro e il diadema e volle che lì si riunissero ogni giorno tutti, per prendere decisioni sulle cose più importanti, ritenendo che sarebbe stato meno esposto al risentimento se sembrava che la guerra veniva condotta sotto la parvenza del comando di Alessandro e sotto la finzione del suo nome. E raggiunse Fintento. Infatti poiché ci si riuniva non nel quartier generale di Èumene ma in quello del re e lì si pigliavano le decisioni, in certo qual modo rimaneva in ombra, mentre invece tutto passava per le sue mani soltanto.
8. Èumene si scontrò con Antigono nel territorio dei Parètaci12, non in campo aperto, ma durante la marcia e lo costrinse mal ridotto a tornare a svernare in Media. Quanto a lui, per svernare divise le truppe nella regione confinante della Persia, non comeavrebbe voluto, ma come imponeva la volontà dei soldati. Infatti la famosa falange di Alessandro Magno, che aveva attraversato l’Asia e aveva sbaragliato i Persiani, abituata alla gloria ma anche alla licenza, pretendeva non di ubbidire ai capi, ma di comandare, come fanno adesso i nostri veterani. Così c’è il pericolo che facciano quello che fecero loro: con la propria indisciplina e sfrenata licenza, di mandare tutto in malora, non meno i propri compagni di ribellione che quelli contro cui sono insorti. Se qualcuno volesse leggere la storia di quei veterani, la troverebbe identica a quella dei nostri e non troverebbe altra differenza che quella del tempo. Ma torniamo a quelli. Si erano collocati nei quartieri invernali non secondo le esigenze della guerra, ma secondo le proprie comodità e si erano disposti lontani gli uni dagli altri. Quando Antigono lo venne a sapere, perché capiva di non poter competere con nemici ben preparati, stabilì che doveva ricorrere a qualche nuovo stratagemma. Erano due le strade, per poter arrivare dalla Media, dove lui svernava, agli accampamenti invernali dei nemici: la più breve era per luoghi deserti, disabitati per la mancanza di acqua, si poteva però percorrere in circa dieci giorni; quella per cui passavano tutti, comportava un giro più lungo del doppio, ma era largamente provvista di tutto. Se passava per questa capiva che i nemici avrebbero saputo del suo arrivo, prima che avesse compiuto un terzo del percorso; se invece prendeva la via del deserto, sperava di poter cogliere il nemico di sorpresa. Per realizzare tale progetto, fece approntare quanti più otri e sacchi di cuoio poté, inoltre foraggio e cibi cotti per dieci giorni, per far fuoco il meno possibile negli accampamenti. Non rivela a nessuno la destinazione della sua marcia. Così provvisto, parte per la via stabilita.
9. Aveva fatto circa la metà del percorso, quando a causa del fumo del suo accampamento, fu recato ad Èumene il sospetto che il nemico si stesse avvicinando. Si riuniscono i comandanti; si chiede che cosa sia opportuno fare. Era chiaro a tutti che non era possibile radunare le loro truppe con la stessa rapidità con cui sembrava che sarebbe arrivato Antigono. A questo punto, mentre tutti esitavano e disperavano della salvezza, Èumene dice che se erano disposti a procedere con rapidità ed obbedire agli ordini, cosa che prima non avevano fatto, lui avrebbe risolto la situazione: il nemico sarebbe sì potuto arrivare in cinque giorni, ma lui avrebbe fatto in modo da ritardarlo di altrettanto tempo: si dessero perciò da fare ed ognuno radunasse le proprie truppe. E per ritardare la marcia forzata di Antigono, usò il seguente espediente. Invia uomini fidati alle pendici dei monti, che si trovavano di fronte ai nemici, con l’ordine di accendere, sul far della notte, grandissimi fuochi per il più ampio spazio possibile, di smorzarli al secondo turno di guardia, di ridurli al minimo al terzo e, simulando l’usanza degli accampamenti, di infondere così nei nemici il sospetto che in quei luoghi ce ne siano, e che la notizia del loro arrivo li abbia preceduti; lo stesso facciano la notte successiva. Quelli eseguono scrupolosamente gli ordini ricevuti. Antigono, sopraggiunta la notte, osserva i fuochi, crede che si sia venuti a conoscenza del suo arrivo e che i nemici abbiano radunato là le loro truppe. Cambia il suo piano e poiché non poteva assalirli di sorpresa, piega la sua marcia e prende quella via tortuosa più lunga ma ricca di provviste e attende là un giorno, per far riposare i soldati stanchi e ristorare i cavalli, onde affrontare la battaglia con truppe più fresche.
10. Così Èumene vinse in accortezza quel comandante astuto e frenò la sua rapida marcia, ma tuttavia non ne trasse un grande vantaggio. Infatti per l’ostilità dei comandanti che erano con lui e per il tradimento dei veterani macedoni, pur essendo uscito vincitore dalla battaglia, fu consegnato ad Antigono, sebbene l’esercito in precedenza per ben tre volte in circostanze diverse gli avesse giurato che lo avrebbe difeso e non lo avrebbe mai abbandonato. Ma tanto grande fu l’invidia di alcuni per il suo valore, che preferirono venir meno al giuramento pur di mandarlo in rovina. Ed Antigono, che pur gli era stato acerrimo nemico, gli avrebbe salvato la vita, se gli fosse stato permesso dai suoi, perché capiva che nessuno poteva essergli di maggior aiuto in quelle vicende che già, come era chiaro a tutti, sovrastavano: incombevano infatti minacciosi Selèuco, Lisimaco, Tolomèo, già potenti, coi quali doveva scontrarsi per la supremazia. Ma non lo permisero quelli che stavano intorno a lui, perché vedevano che, una volta accolto Èumene, di fronte a lui tutti avrebbero contato ben poco. D’altronde lo stesso Antigono era così adirato, da non potersi placare, se non con una grande speranza di enormi vantaggi.
11. Così Antigono lo imprigionò e al capo delle guardie che gli aveva chiesto come voleva che fosse trattato, rispose: «Come un ferocissimo leone o un elefante dei più selvaggi»; non aveva infatti ancora stabilito se salvargli la vita o no. Si recavano da Èumene persone di tutte e due le categorie: quelli che per l’odio volevano godere della vista della sua disgrazia e quelli che per l’antica amicizia desideravano parlargli e consolarlo; molti ancora che desideravano conoscere il suo aspetto, come cioè fosse colui che tanto a lungo e tanto fortemente avevano temuto e sulla cui rovina avevano riposto la speranza della vittoria. Ma Èumene, protraendosi la sua prigionia, disse ad Onomarco che aveva la soprintendenza della sua custodia, di meravigliarsi di essere tenuto da tre giorni in quelle condizioni: non si addiceva alla saggezza di Antigono, di maltrattare così un vinto; ordinasse piuttosto che fosse ucciso o liberato. Ad Onomarco sembrò che costui parlasse con troppa franchezza, per cui gli rispose: «Che dici mai? se avevi questo coraggio, perché non sei caduto in battaglia piuttosto che cadere in mano al nemico?». Èumene a lui: «Magari fosse stato così! Ma così non è stato per il fatto che mai mi sono scontrato con uno più forte: non ho mai affrontato alcuno con le armi, senza che fosse da me vinto. Io non sono caduto per il valore dei nemici, ma per il tradimento degli amici». E questo era vero. [Infatti e fu di nobile portamento e abbastanza forte per resistere alla fatica e non tanto grande di corporatura, quanto di bella presenza.]
12. Poiché Antigono non osava decidere da solo sulla sua sorte, ne riferì al consiglio di guerra. Qui dapprima tutti, sconvolti, si meravigliarono che non fosse stato già giustiziato uno che li aveva vessati per tanti anni a tal punto da indurli spesso alla disperazione e che aveva ucciso valentissimi comandanti, uno insomma che da solo era tale che finché era in vita lui, non potevano essere sicuri loro, mentre se ucciso, non avrebbero avuto più motivo di temere; da ultimo, gli chiedevano, se lo avesse lasciato in vita, su quali amici avrebbe potuto contare: essi infatti non sarebbero rimasti al suo fianco insieme con Èumene. Antigono, conosciuta la volontà del consiglio, tuttavia si prese sette giorni di tempo per decidere. Ma poi quando già temeva che l’esercito si ribellasse, vietò che alcuno gli facesse visita e comandò che gli fosse sospeso il cibo quotidiano: infatti diceva che non avrebbe usato violenza contro chi un tempo gli era stato amico. Tuttavia Èumene soffrì la fame per non più di tre giorni: mentre si levava il campo, all’insaputa di Antigono, fu sgozzato dai suoi custodi.
13. Così a quarantacinque anni13, terminò in questo modo la sua vita Èumene, dopo che dall’età di venti, come abbiamo detto sopra, per sette anni era stato al servizio di Filippo, per tredici aveva rivestito la stessa funzione sotto Alessandro, un anno era stato a capo di un’ala della cavalleria e dopo la morte di Alessandro aveva comandato in qualità di generale eserciti, e valentissimi comandanti, parte ne aveva respinti, parte ne aveva uccisi; preso non per il valore di Antigono, ma per lo spergiuro dei Macedoni. Di quanta considerazione godesse da parte di tutti coloro che dopo Alessandro Magno furono chiamati re, si può valutare assai facilmente da questo fatto, che nessuno, mentre Èumene era vivo, si fece chiamare re, ma governatore; dopo la sua morte invece, quei medesimi assunsero subito il nome e gli attributi regali e non vollero mantenere la promessa che avevano sbandierato all’inizio di serbare il regno per i figli di Alessandro e, una volta tolto di mezzo l’unico sostenitore, mostrarono apertamente i propri sentimenti. Responsabili principali di questo delitto furono Antigono, Tolomeo, Selèuco, Lisimaco, Cassandro. Antigono restituì agli intimi il cadavere di Èumene perché lo seppellissero. Questi gli fecero un solenne funerale con gli onori militari e la partecipazione di tutto l’esercito e provvidero che le sue ossa fossero riportate in Cappadocia alla madre, alla moglie ed ai figli.
19. Focione
1. Focione Ateniese fu spesso a capo di eserciti e ricoprì le più alte cariche, tuttavia è molto più noto per l’integrità della vita che non per l’attività militare. Così di questa nullo è il ricordo, di quella invece grande la fama per cui fu soprannominato il Buono. Fu infatti povero per tutta la vita, sebbene potesse essere ricchissimo e per le cariche spesso rivestite e per i più alti poteri che gli venivano conferiti dal popolo. Rifiutò dal re Filippo1 doni di grande valore ed agli ambasciatori che lo esortavano ad accettarli e insieme gli ricordavano che, se lui poteva benissimo farne a meno, pensasse tuttavia ai suoi figlioli, ai quali sarebbe stato difficile salvaguardare nella più assoluta povertà la tanto grande gloria del padre, rispose: «Se saranno simili a me, basterà a nutrirli questo stesso campicello che ha portato me a questa carica; se dovranno essere diversi, non voglio che il loro lusso sia alimentato ed accresciuto a mie spese».
2. Costui giunto con prospera fortuna quasi agli ottant’anni, nell’estremo della vita incappò nell’odio implacabile dei suoi concittadini; dapprima, perché d’accordo con Dèmade2 aveva consentitoche si consegnasse la città ad Antípatro3 e su istigazione di quello erano stati cacciati in esilio con decreto popolare Demòstene e quegli altri che si riteneva avessero ben meritato della patria4. E aveva mancato non solo perché aveva reso un cattivo servizio alla patria, ma anche perché non aveva tenuto fede all’amicizia. Infatti aveva raggiunto quel grado che occupava, grazie al deciso appoggio di Demostene, quando lo sosteneva segretamente contro Carète; dallo stesso era stato difeso più di una volta in processi che comportavano la pena capitale, ed era uscito libero. Egli non solo non difese costui nelle sue vicende giudiziarie, ma addirittura lo tradì. Rovinò però soprattutto per una sola accusa: mentre aveva nelle sue mani il supremo potere dello stato, fu avvertito da Dèrcilo5 che Nicànore, il prefetto di Cassandro, preparava un attacco al Pireo degli Ateniesi e lo stesso gli chiedeva che pigliasse provvedimenti, perché la città non rimanesse priva di vettovaglie; a costui Focione, in presenza del popolo, rispose che non c’era questo pericolo e di questo offrì sé stesso come garante. Non molto tempo dopo, Nicànore si impadronì del Pireo, senza del quale Atene non può sopravvivere. Il popolo accorse allora in armi per riconquistarlo, ma lui non solo non chiamò alle armi nessuno, ma non volle neppure mettersi a capo degli armati.
3. In quel tempo c’erano in Atene due partiti: uno sosteneva la causa del popolo, l’altro quella degli ottimati. A questo appartevano Focione e Demetrio Falèreo: l’uno e l’altro dei due partiti godeva di protezioni presso i Macedoni: i democratici erano favorevoli a Poliperconte, gli ottimati seguivano Cassandro. Nel frattempo Cassandro fu cacciato dalla Macedonia da Poliperconte. Per il che, il popolo, avuto il sopravvento, scacciò dalla patria quelli del partito avverso, dopo averli condannati a morte, fra questi Focione e Demetrio Falèreo e di ciò mandò messi a Poliperconte a chiedergli che ratificasse le proprie deliberazioni. Là si recò anche Focione. Quando vi giunse, gli fu ordinato a parole di difendersi presso il re Filippo6, ma di fatto presso Poliperconte: era lui infatti che sovrintendeva allora agli affari della monarchia. Qui accusato da Agnone7 di aver consegnato il Pireo a Nicànore, messo in carcere su parere del consiglio, fu condotto ad Atene, perché là gli si facesse il processo secondo le leggi.
4. Quando si giunse in città, e Focione era portato su un carro perché a causa dell’età non poteva più reggersi sulle gambe, vi fu un grande accorrere di popolo: alcuni, memori dell’antica fama, avevano pietà dell’età, ma la stragrande maggioranza erano accesi d’ira per il sospettato tradimento del Pireo e soprattutto perché nella vecchiaia si era schierato contro gli interessi del popolo. Perciò non gli fu neppure concessa la facoltà di portare a termine il suo discorso di difesa. Condannato, fatte salve certe formalità giuridiche, dal tribunale, fu consegnato agli Undici, a cui secondo il costume degli Ateniesi si consegnano di solito, per essere giustiziati, i condannati pubblici. E mentre costui veniva condotto a morte, gli si fece incontro il suo vecchio amico Eufileto. Avendogli quello detto piangendo: «Quale sorte indegna subisci, o Focione!», questi: «Ma non inaspettata», gli rispose. «Una fine come questa infatti l’hanno avuta la maggior parte degli uomini illustri di Atene». Tale fu l’odio della folla nei suoi confronti, che nessun uomo libero osò portarlo alla sepoltura. Perciò fu seppellito da schiavi8.
20. Timoleonte
1. Timoleonte, di Corinto. Quest’uomo fu davvero grande per giudizio unanime. Egli appunto, e non so se alcun altro, ebbe la ventura e di liberare la patria natia dall’oppressione del tiranno e di scrollare dai Siracusani, cui era stato mandato in aiuto, una schiavitù ormai antica1 e di riportare con il suo arrivo tutta la Sicilia, tormentata per molti anni dalle guerre e oppressa dai barbari, alla condizione di un tempo. Ma nel compiere queste imprese ebbe a lottare con varia fortuna e, cosa certamente più difficile, seppe affrontare con molto maggior saggezza la sorte favorevole che l’avversa. Infatti quando suo fratello Timòfane, scelto dai Corinzi come comandante, divenne tiranno con l’aiuto di soldati mercenari2, pur potendo esser partecipe del regno, aborrì tanto la complicità del crimine, che antepose la libertà dei suoi concittadini alla vita del fratello e preferì obbedire alle leggi che farsi signore della patria. Con questo spirito servendosi di un aruspice e di un parente comune, che aveva sposato una sorella nata dai medesimi genitori, fece uccidere il fratello tiranno. Lui non solo non partecipò direttamente al fatto, ma non volle nemmeno vedere il sangue fraterno. Infatti nell’attesa che l’azione si compisse, rimase lontano presso il corpo di guardia, perché nessun gregario potesse accorrere in aiuto. Questa sua tanto illustre azione non fu giudicata alla stessa maniera da tutti: alcuni infatti ritenevano che avesse violato l’amore fraterno e per malanimo sminuivano il merito della virtù. La madre poi, dopo quel fatto né accolse più il figlio a casa sua né lo guardò senza che gli gridasse in faccia, maledicendolo, fratricida ed empio. Egli fu tanto turbato da questi fatti che più di una volta tentò di togliersi la vita e di sottrarsi con la morte alla vista di uomini ingrati.
2. Frattanto, ucciso a Siracusa Dione3, Dionigi si impadronì di nuovo della città. I suoi avversari si rivolsero per aiuto ai Corinzi e chiesero un comandante per sostenere la guerra. Fu mandato là Timoleonte che con un successo sorprendente cacciò Dionisio da tutta la Sicilia. Sebbene potesse ucciderlo non volle farlo e lo fece riparare incolume a Corinto4, perché spesso i Corinzi erano statiaiutati dai mezzi dei due Dionigi e lui voleva che rimanesse il ricordo dei benefici ricevuti; riteneva inoltre gloriosa quella vittoria in cui la clemenza prevalesse sulla crudeltà; infine voleva che nonsolo si sapesse per sentito dire, ma si vedesse anche con gli occhi chi e da quale regno avesse ridotto in quello stato. Dopo la partenza di Dionigi, combattè con Iceta5, che aveva osteggiato Dionigi: ma che quello gli fosse stato avversario non per odio della tirannide, ma per brama della stessa, lo dimostrò il fatto che, una volta cacciato Dionigi, non volle a sua volta rinunciare al potere. Dopo aver vinto costui, Timoleonte mise in fuga un poderoso esercito dei Cartaginesi presso il fiume Crinisso6 e li costrinse ad accontentarsi dell’Africa, mentre erano già parecchi anni che possedevano la Sicilia. Catturò anche Mamerco, comandante italico, uomo bellicoso e potente, che era andato in Sicilia per aiutare i tiranni.
3. Portate a termine queste imprese, vedendo che per il protrarsi della guerra non solo le campagne, ma anche le città erano spopolate, raccolse dapprima quanti più Siciliani potè; poi fece venire dei coloni da Corinto, perchè Siracusa nei tempi antichi era stata fondata da loro. Restituì le proprietà ai vecchi abitanti, distribuì tra i nuovi i poderi rimasti vuoti per la guerra, fece ricostruire le mura abbattute della città ed i templi abbandonati, rese alle comunità cittadine la libertà e le leggi; dopo una guerra senza quartiere riportò tanta pace a tutta l’isola, che sembrava lui il fondatore di quelle città, non coloro che le avevano colonizzate al tempo antico. Abbattè dalle fondamenta la rocca di Siracusa, che Dionigi aveva fortificato per tenere soggiogata la città; demolì gli altri baluardi della tirannide e si adoperò perchè sparissero del tutto i segni della servitù. Pur possedendo tanta potenza, da poter comandare anche a chi non voleva e pur godendo d’altra parte di tanto amore di tutti i Siciliani da poter diventare re senza alcuna opposizione, preferì essere amato che temuto. Così alla prima occasione depose il potere e visse a Siracusa da privato il resto dei suoi giorni7. E non fu una decisione avventata la sua; infatti quello che gli altri ottennero come re con il potere, egli lo ottenne con l’affetto. Nessun onore gli venne meno, nè in seguito a Siracusa ci fu alcun affare pubblico di cui si decidesse prima di conoscere il parere di Timoleonte. Mai il parere di nessuno fu non solo preferito, ma neppure messo sullo stesso piano del suo. E questo avvenne non meno per la sua saggezza che per l’affetto di cui godeva.
4. Essendo ormai avanti con l’età, pur senza alcuna malattia, perse la vista. Sopportò tale sventura con tanta rassegnazione che nessuno lo sentì mai lamentarsi, nè cessò di partecipare agli affari privati e pubblici. E per la sua infermità, si recava al teatro, quando lì si teneva l’assemblea popolare, su un carro tirato da due cavalli e da lì diceva i suoi pareri; nessuno attribuiva questo a superbia: infatti dalla sua bocca non uscì mai alcuna parola arrogante o boriosa. Quando poi sentiva esaltare le sue virtù, non disse mai altro se non che rendeva somme grazie ed era molto riconoscente agli dèi, perchè avendo deciso di ridar vita alla Sicilia, vollero che fosse proprio lui il comandante; riteneva infatti che tutte le cose umane sono regolate dal volere degli dèi. Così in casa sua aveva fatto innalzare un tempietto alla Automatia8 e lo venerava con grande devozione.
5. A questa sua straordinaria bontà si erano aggiunte coincidenze mirabili. Infatti le battaglie più importanti le fece tutte il giorno del suo compleanno: per cui tutta la Sicilia celebrò come festivo il giorno del suo compleanno. Un certo Lafistio, uomo petulante e ingrato, voleva costringerlo a comparire in giudizio, perché sosteneva di avere una pendenza legale con lui ed erano accorsi in molti che cercavano di rintuzzare con la forza l’arroganza di quell’uomo; ma Timoleonte pregò tutti di non farlo: egli aveva affrontato le più grandi fatiche e i più gravi pericoli perché a Lafistio e a chiunque altro fosse lecito fare ciò. Questo infatti era il bello della libertà: la possibilità per tutti di affrontare per le vie legali qualunque questione. Parimenti quando un tale della stessa genia di Lafistio, di nome Demèneto, in un’assemblea popolare cominciò a sminuire le sue gesta e a lanciare invettive contro di lui, Timoleonte disse di aver visto finalmente esauditi i suoi voti: infatti aveva sempre chiesto questo agli dèi immortali e cioè di restituire ai Siracusani una libertà tale per cui fosse lecito a chiunque di parlare francamente di ciò che volesse. Quando finì i suoi giorni, fu sepolto dai Siracusani a spese dello Stato nel ginnasio che ora si chiama Timoleonteo con la partecipazione di tutta la Sicilia.
21. Dei Re
1. Questi ad un dipresso sono i condottieri del popolo greco, che sembrano degni di essere ricordati, a parte i re: di questi non abbiamo voluto far cenno perché le gesta di tutti loro sono state raccontate in un’opera a parte.
Del resto non sono molto numerosi. Lo spartano Agesilao1 fu re per il nome, non per il potere effettivo, come tutti gli altri Spartani. Tra quelli poi che ebbero regno e potere, i più illustri furono a nostro giudizio, dei Persiani, Ciro2 e Dario, figlio di Istaspe: ognuno di loro conquistò il regno da privato cittadino, col proprio valore. Il primo cadde in combattimento presso i Massàgeti. Dario3 finì i suoi giorni di vecchiaia. Ce ne sono altri tre dello stesso popolo: Serse4 e i due Artarserse, soprannominati Macrochir e Mnèmone. Di Serse l’impresa più famosa è di avere portato la guerra in Grecia per terra e per mare con gli eserciti più poderosi a memoria d’uomo. La gloria più grande di Macrochir5 consiste nell’aspetto imponente e bellissimo, che adornò con uno straordinario valore militare; infatti nessun Persiano fu più valoroso di lui. Mnèmone6 invece si segnalò per la fama della sua giustizia. Infatti, avendo perduto la moglie per il delitto della propria madre, dette sfogo al dolore in modo però che la pietà filiale avesse il sopravvento.
Di essi, i due dello stesso nome pagarono il loro debito alla natura in seguito a malattia: il terzo fu ucciso con la spada dal sàtrapo Artabano.
2. Del popolo macedone due re superarono di molto gli altrinella gloria delle imprese: Filippo7, figlio di Aminta e Alessandro Magno8. Il secondo di questi fu divorato dalla malattia a Babilonia; Filippo fu ucciso da Pausania ad Egèa, nei pressi del teatro,mentre si recava a vedere gli spettacoli. Degli Epiroti uno solo, Pirro9, che guerreggiò col popolo Romano. Costui mentre dava l’assalto alla città di Argo nel Peloponneso, fu colpito da una pietra e morì. Parimenti uno solo fra i Siculi, Dionigi il Vecchio10.
Infatti fu valoroso ed esperto di arte militare e, dote che è difficile trovare in un tiranno, per nulla affatto libidinoso, non amante del lusso, non avido, di nessuna cosa smanioso se non di un potere personale e perpetuo e perciò crudele: infatti mentre cercò di consolidare tale potere, non risparmiò la vita di nessuno che asuo parere glielo insidiasse.
Si era procacciato la tirannide col valore e seppe conservarla con grande fortuna: morì infatti oltre i sessant’anni di età lasciando il regno in uno stato florido, ed in tanti anni non vide il funerale di alcuno della sua stirpe, pur avendo generato figli da tre mogli e gli fossero nati molti nipoti.
3. Vi furono inoltre grandi re tra gli amici di Alessandro Magno, che presero il potere dopo la sua morte: tra essi Antigono e suo figlio Demètrio, Lisimaco, Selèuco, Tolomèo.
Di questi, Antigono11 fu ucciso in battaglia mentre combatteva contro Selèuco e Lisimaco. Morte simile ebbe Lisimaco12 da Seleuco: infatti rotta l’alleanza, si fecero guerra tra loro.
Demètrio13 invece, che pur aveva dato la sua figlia in matrimonio a Selèuco, ma non per questo era potuta rimanere tra loro più leale l’amicizia, fu catturato in guerra e morì per malattia: il suocero nella prigione del genero.
E non molto tempo dopo, Selèuco fu proditoriamente ucciso14 da Tolomèo Ceráuno, che, cacciato da Alessandria dal padre e bisognoso dell’aiuto straniero, egli aveva accolto presso di sé. Anche Tolomèo poi, che pure aveva consegnato ancor vivo il regno al figlio, si dice che fosse da quello stesso soppresso15.
Poiché di tutti questi riteniamo che sia stato parlato abbastanza, mi pare opportuno non passare sotto silenzio Amilcare ed Anníbale, che, come è noto, per indomito coraggio ed astuzia superarono tutti i figli dell’Africa.
22. Amilcare
1. Amilcare , figlio di Anníbale, soprannominato Barca, Cartaginese, cominciò giovanissimo in Sicilia a comandare un esercito, al tempo della prima guerra punica, anche se negli ultimi anni1. Mentre prima del suo arrivo andavano male le cose dei Cartaginesi e per terra e per mare, egli, non appena comparve sulla scena bellica, non cedette mai al nemico né gli dette la possibilità di recare offesa e spesso, al contrario, offertasi l’occasione, lo provocò e sempre uscì vittorioso. Sicché quando i Cartaginesi avevano perduto quasi tutta la Sicilia, egli seppe difendere Èrice così bene da non sembrare che là si fosse combattuta una guerra. Nel frattempo i Cartaginesi, sconfitti nella battaglia navale presso le isole Egadi2 dal console romano Caio Lutazio, decisero di porre fine alla guerra e tale decisione rimisero all’arbitrio di Amilcare . Egli, benché ardesse dal desiderio di combattere, tuttavia ritenne di dover adoperarsi per la pace, perché si rendeva conto che la patria, esausta per le spese, non poteva sopportare più a lungo le calamità della guerra; ma nello stesso tempo rivolgeva nella sua mente il pensiero, non appena la situazione si fosse migliorata anche di poco, di ripigliare la guerra e di incalzare i Romani finché o avessero vinto col loro valore o, vinti, si fossero arresi. Con questa riserva mentale patrocinò la pace; ma nelle trattative mostrò tanta fierezza che, mentre Càtulo dichiarava che non avrebbe messo fine alla guerra se lui con i suoi che avevano occupato Èrice, abbandonate le armi, non si ritirassero dalla Sicilia, rispose che avrebbe preferito perire con la rovina della patria, piuttosto che ritornare in patria con tanta infamia: non era infatti consono al suo valore consegnare agli avversari quelle armi che aveva ricevuto dalla patria contro i nemici. Di fronte alla sua intransigenza, Càtulo cedette.
2. Ma quando giunse a Cartàgine3, Amilcare trovò lo Stato in condizioni molto diverse da quanto aveva sperato. Infatti a causa della durata della guerra esterna, scoppiò una guerra civile tanto grande che Cartagine mai venne a trovarsi in un pericolo simile,se non quando fu distrutta. In un primo momento, si ribellarono i soldati mercenari, di cui si erano serviti contro i Romani e il cui numero, ammontava a ventimila. Questi chiamarono alla ribellione tutta l’Africa e dettero l’assalto alla stessa Cartagine. I Cartaginesi furono talmente atterriti da questi rovesci, che chiesero addirittura rinforzi ai Romani e li ottennero. Ma da ultimo, quando erano quasi ormai giunti alla disperazione, fecero Amilcare comandante supremo.
Questi non solo respinse i nemici dalle mura di Cartagine, sebbene i soldati fossero saliti a più di centomila, ma addirittura li ridusse al punto che, chiusi in luoghi molto angusti, morirono più per fame che per spada. Riconquistò alla patria tutte le città ribelli, tra queste Utica ed Ippona, le più potenti di tutta l’Africa. E non si fermò qui, ma ampliò addirittura i confini dell’impero; in tutta l’Africa ristabilì tanta pace da sembrare che in essa non ci fosse stata alcuna guerra da tanti anni.
3. Portate a termine queste azioni secondo il suo piano, con animo fiducioso e ostile ai Romani, per trovare più facilmente una causa di guerra, si fece mandare come comandante in Spagna con l’esercito e là condusse seco il figlio Anníbale di nove anni. Era inoltre con lui un giovane nobile, bello, Asdrubale, che alcuni dicevano essere amato da Amilcare più turpemente di quanto fosse lecito. Ad un uomo tanto potente non potevano mancare i maldicenti. Ne venne di conseguenza che ad Asdrubale fu vietato dal censore di stare insieme con lui. Quello gli dette in sposa la propria figlia, dato che per le loro consuetudini non si poteva vietare al genero di stare col suocero. Di lui abbiamo fatto menzione per il fatto che, ucciso Amilcare 4, fu poi lui a capo dell’esercito5 e compì grandi imprese, e per primo con le donazioni stravolse gli antichi costumi dei Cartaginesi; dopo la sua morte ricevette il comando dalle mani dell’esercito Anníbale.
4. Ora Amilcare dopo che ebbe oltrepassato il mare e fu giunto in Spagna compì con il favore della fortuna grandi imprese; sottomise potentissime e bellicosissime popolazioni: arricchì tutta l’Africa di cavalli, armi, uomini, denaro. Costui, mentre meditava di portare la guerra in Italia, otto anni dopo esser giunto in Spagna fu ucciso in battaglia, mentre combatteva contro i Vettóni6.
Sembra che sia stato soprattutto il suo inestinguibile odio contro i Romani a scatenare la seconda guerra punica. Infatti suo figlio Anníbale, dalle continue preghiere del padre, fu portato a tal punto da preferire di morire piuttosto di non misurarsi con i Romani.
23. Anníbale
1. Anníbale, figlio di Amilcare , Cartaginese. Se è vero, cosa che nessuno mette in dubbio, che il popolo romano superò in valore tutte le genti, non si può negare che Anníbale di tanto fu superiore in accortezza a tutti gli altri condottieri, di quanto il popolo romano supera in potenza tutte le nazioni. Infatti ogni volta che si scontrò con questo in Italia, ne uscì sempre vittorioso. E se non fosse stato indebolito in patria dalla malevolenza dei suoi concittadini, forse avrebbe potuto sconfiggere i Romani. Ma la denigrazione di molti ebbe la meglio sul valore di uno solo.
Questi seppe conservare a tal punto l’odio verso i Romani lasciatogli come in eredità dal padre, che rinunciò prima alla vita che a quello: pur cacciato dalla patria e bisognoso dell’altrui aiuto, non smise mai in cuor suo di combattere i Romani.
2. Infatti, per non parlare di Filippo1, che egli, seppur lontano, seppe far diventare nemico dei Romani, a quei tempi il re più potente di tutti era Antíoco2: lo accese di tanto ardore di combattere, che costui fin dal Mar Rosso3 tentò di portare le armi contro l’Italia. Ora erano andati da lui ambasciatori romani per spiare le sue intenzioni e per cercare con segreti intrighi di far cadere sul re il sospetto che Anníbale, come se da loro stessi corrotto, avesse ormai altri sentimenti che un tempo ed erano riusciti nel loro intento. Anníbale, quando venne a conoscenza di ciò e si accorse che veniva tenuto lontano dalle più segrete decisioni, offertasi l’occasione, si presentò al re e dopo avergli ricordato molte prove e della sua lealtà e dell’odio contro i Romani, aggiunse queste parole: «Mio padre Amilcare , quando io ero fanciullo, non avevo più di nove anni, partendo da Cartagine come comandante per la Spagna, sacrificò vittime a Giove Ottimo Màssimo4; e mentre si svolgeva il sacro rito, chiese a me se volevo partire con lui per la guerra. Io accettai volentieri la sua proposta e cominciai a chiedergli che non esitasse a portarmi con sé; allora lui: “sì”, disse, “se mi farai la promessa che ti chiedo”. Così dicendo mi condusse all’ara sulla quale aveva cominciato il sacrificio e, allontanati tutti gli altri, mi fece giurare con la mano su di essa, che mai sarei stato amico del popolo romano. Io, questo giuramento fatto al padre, l’ho mantenuto fino ad oggi in modo tale che non può esservi dubbio per nessuno, che io non rimanga dello stesso avviso per tutto il resto della vita. Perciò se avrai sentimenti di amicizia nei confronti dei Romani, sarai stato prudente a tenermene all’oscuro; ma se preparerai la guerra, ingannerai te stesso, se non darai a me il supremo comando».
3. A questa età che abbiamo detto, partì dunque col padre per la Spagna; dopo la morte di questo, mentre Asdrubale prese il suo posto di generale, egli fu a capo di tutta la cavalleria. Ucciso anche costui, l’esercito trasferì a lui il comando supremo. Questa nomina, riferita a Cartagine, ebbe la ratifica ufficiale. Così Anníbale diventato generale non ancora venticinquenne, nei tre anni che seguirono sottomise con le armi tutte le genti della Spagna; espugnò con la forza Sagunto5, città alleata; allestì tre poderosi eserciti. Di questi uno ne mandò in Africa; un altro lo lasciò in Spagna col fratello Asdrubale; il terzo lo condusse con sé in Italia. Attraversò il valico dei Pirenei6. Dovunque passò, venne a conflitto con tutti gli abitanti; nessuno lasciò alle spalle se non sconfitto. Dopo che fu giunto alle Alpi, che dividono l’Italia dalla Gallia, che nessuno mai prima di lui, aveva attraversato con un esercito eccetto il Graio7, Ercole (e in seguito a quell’impresa quel valico è oggi chiamato Graio), sterminò gli alpigiani che cercavano di impedirgli il passaggio, rese accessibili i luoghi, fortificò i percorsi, fece sì che potesse passare un elefante equipaggiato, per dove prima a mala pena poteva arrampicarsi un uomo senza armi. Per questa via fece passare le truppe e giunse in Italia.
4. Si era scontrato presso il Ròdano col console P. Cornelio Scipione e lo aveva respinto. Con questo stesso combatte a Casteggio8 presso il Po e lo lascia ferito e in fuga. Per la terza volta lo stesso Scipione gli andò incontro col collega Tiberio Longo presso la Trebbia. Venne a battaglia con loro; li sbaragliò entrambi. Da lì attraverso la Liguria superò l’Appennino, diretto in Etruria. Durante questa marcia viene colpito da una malattia degli occhi tanto grave che poi dall’occhio destro non vide più bene. Mentre ancora era affetto da questo malanno e veniva trasportato in lettiga, trasse in un agguato presso il Trasimeno il console C. Flaminio con l’esercito e lo uccise e poco dopo il pretore C. Centenio9 che con truppe scelte presidiava i passi. Da qui arrivò in Puglia. Là lo affrontarono due consoli, C. Terenzio e L. Emilio. In una sola battaglia sbaragliò gli eserciti dell’uno e dell’altro, uccise il console Paolo ed inoltre un certo numero di ex consoli, tra i quali Gn. Servilio Gèmino, che era stato console l’anno precedente10.
5. Combattuta questa battaglia11, mosse alla volta di Roma, senza incontrare resistenza. Si trattenne sui monti in prossimità della città. Dopo aver tenuto là l’accampamento per alcuni giorni, mentre ritornava verso Capua, gli si fece incontro nell’agro Falerno12 il dittatore romano Q. Fabio Massimo. Qui, chiuso nell’angustia dei luoghi, nottetempo riuscì a liberarsi senza alcuna perdita del suo esercito, e dette la baia a Fabio, pur abilissimo comandante. Infatti, calata la notte, legò dei rami secchi sulle corna dei vitelli, dette loro fuoco e sparpagliò una grande moltitudine di questi animali. La vista improvvisa di questi fuochi incusse nell’esercito dei Romani tanto spavento, che nessuno osò uscir fuori dal vallo. Non molti giorni dopo questa azione, trasse a battaglia con un inganno M. Minucio Rufo capitano della cavalleria, di potere pari a quello del dittatore, e lo mise in fuga. Pur assente attirò in un agguato in Lucania e uccise Tiberio Sempronio Gracco, console per la seconda volta; allo stesso modo uccise presso Venosa M. Claudio Marcello, console per la quinta volta. Sarebbe lungo enumerare tutti i combattimenti; perciò basterà dire questo soltanto, da cui si potrà capire tutta la sua grandezza: per tutto il tempo che fu in Italia, nessuno gli resistè sul campo di battaglia; dopo Canne nessuno pose l’accampamento in campo aperto di fronte al suo.
6. Richiamato da qui invitto per difendere la patria13, condusse le operazioni belliche contro P. Scipione, figlio di quello Scipione che egli aveva messo in fuga prima presso il Rodano, una seconda volta presso il Po, una terza volta presso la Trebbia. Con questo, essendo ormai esaurite le risorse della patria, desiderò per il momento por fine alla guerra, per riprendere la lotta in seguito, con maggiori forze. Ebbe con lui un colloquio, ma non si misero d’accordo sulle condizioni di pace. Pochi giorni dopo questo incontro, presso Zama, venne a combattimento con lui14; battuto, in due giorni e due notti, incredibile a dirsi, giunse ad Adrumeto, che dista da Zama circa trecento miglia. Durante la fuga i Numidi, che erano fuggiti insieme con lui dal campo di battaglia, gli tesero insidie; ma egli non solo seppe sfuggir loro, ma addirittura li fece fuori. Ad Adrumeto raccolse i fuggiaschi; con nuove leve nel giro di pochi giorni mise insieme molti soldati.
7. Mentre attendeva febbrilmente ai preparativi, i Cartaginesifecero pace con i Romani15. Nondimeno egli rimase anchedopo a capo dell’esercito e guerreggiò in Africa [così il fratello Magone] fino al consolato di P. Sulpicio e C. Aurelio. Ora durante la loro magistratura, vennero a Roma ambasciatori cartaginesi per ringraziare il senato ed il popolo romano per aver fatto lapace con loro e per donare quindi loro una corona d’oro e perchiedere nello stesso tempo che i loro ostaggi stessero a Fregellee fossero restituiti i prigionieri. A questi dopo delibera del senato fu risposto: il loro dono era gradito ed accetto; gli ostaggi sarebbero stati nel luogo che chiedevano; i prigionieri non li avrebbero restituiti, perchè tenevano ancora nell’esercito con i pieni poteri Anníbale, il promotore della guerra, nemico mortale del popolo romano e insieme con lui il fratello Magone. Conosciuta questa risposta, i Cartaginesi richiamarono in patria Anníbale e Magone. Come vi fu tornato, fu fatto re, ventidue anni dopo che era stato fatto generale dell’esercito; infatti come a Roma i consoli, così a Cartagine ogni anno venivano eletti due re con durata annuale. In questa magistratura Anníbale mostrò lo stesso zelo che aveva mostrato nella guerra. Infatti con nuove imposte riuscì ad ottenere non solo che ci fosse il denaro da pagare ai Romani secondo i patti, ma anche che ne avanzasse da versare nell’erario. Poi un anno dopo, sotto il consolato di M. Claudio e di Lucio Furio, vennero da Roma ambasciatori a Cartagine. Anníbale, pensando che questi fossero stati mandati per reclamare la sua persona, prima della loro audizione in senato si imbarcò di nascosto e fuggì in Siria presso Antíoco. Risaputo il fatto, i Cartaginesi spedirono due navi per acciuffarlo, se potessero raggiungerlo; confiscarono i suoi beni, abbatterono la casa dalle fondamenta, lo misero al bando.
8. Ma Anníbale tre anni dopo che era fuggito dalla patria, essendo consoli L. Cornelio e Q. Minucio16, approdò con cinque navi in Africa nel territorio dei Cirenei, per tentare di indurre alla guerra i Cartaginesi facendo saldo affidamento su Antíoco, che aveva già convinto a muovere con un esercito alla volta dell’Italia. Là fece venire il fratello Magone. Quando i Cartaginesi vennero a sapere ciò, inflissero a Magone assente, la stessa pena del fratello. Fallita l’operazione, levarono le ancore e ripresero la navigazione: Anníbale raggiunse Antíoco. Sulla morte di Magone, è stata tramandata una duplice versione: alcuni lasciarono scritto che morì in un naufragio, altri che fu ucciso dai suoi stessi schiavi. Ma Antíoco, se nel condurre la guerra avesse voluto seguire i suoi consigli, così come s’era proposto nell’intraprenderla, avrebbe dovuto combattere per la supremazia più vicino al Tèvere che alle Termòpili17. Egli vedeva che il re seguiva una strategia stolta, tuttavia rimase sempre al suo fianco. Ebbe il comando di poche navi, che doveva condurre, secondo gli ordini, dalla Siria in Asia e con esse venne a battaglia contro la flotta dei Rodiesi nel mare di Panfilia18. In essa i suoi furono superati dalla moltitudine degli avversari, ma nell’ala dove lui combattè, riuscì vincitore.
9. Messo in fuga Antíoco19, temendo di venir consegnato, cosa che sarebbe senz’altro avvenuta, se si fosse lasciato prendere, si recò a Creta presso Gortina, per riflettere là, dove si potesse rifugiare. Ma quest’uomo astutissimo si accorse che, per l’avidità dei Cretesi, avrebbe corso un grave pericolo, se non avesse in qualche modo provveduto: portava infatti con sè una grande quantità di denaro, di cui sapeva che si era sparsa la fama. Allora escogita questo stratagemma. Riempie di piombo molte anfore e copre le sommità con oro ed argento: alla presenza dei più autorevoli cittadini le depone nel tempio di Diana, fingendo di affidare le proprie fortune alla loro lealtà. Dopo averli tratti in inganno, riempie di tutto il suo denaro delle statue di bronzo che portava con sè e le lascia abbandonate nel cortile della casa. I Gortini fanno la guardia al tem pio con molto zelo, non tanto contro gli estranei, quanto contro Anníbale, nel timore che non pigliasse le anfore a loro insaputa e le portasse con sé.
10. Salvate così le sue sostanze e beffati i Cretesi, il Cartaginese giunse da Prusia20 nel Ponto. Presso costui ebbe nei confronti dell’Italia gli stessi sentimenti e non fece altro che armare il re ed addestrarlo contro i Romani. E poiché vedeva che quello con le sole sue risorse era piuttosto debole, gli procurava l’amicizia degli altri re, e l’alleanza di popoli bellicosi. Era in contrasto con lui il re di Pèrgamo21 Èumene, fedele amico dei Romani e si guerreggiavano tra loro per terra e per mare; a maggior ragione Anníbale desiderava toglierlo di mezzo: ma nell’un campo e nell’altro era più forte Èumene, grazie all’alleanza con i Romani; se lo avesse eliminato riteneva che tutto il resto sarebbe stato per lui più facile. Per ucciderlo, escogitò tale stratagemma. Di lì a pochi giorni si doveva venire a battaglia navale. Era inferiore per numero di navi; bisognava quindi combattere con l’astuzia, non essendo pari nelle armi. Dette ordine di raccogliere vivi il maggior numero possibile di serpenti velenosi e li fece chiudere in vasi di coccio. Dopo che ne ebbe procurata una grande quantità, il giorno stesso in cui doveva avvenire la battaglia navale, convoca i marinai e ordina loro di dirigersi tutti contro la sola nave del re Èumene, dalle altre dovevano limitarsi solo a difendersi. Avrebbero facilmente raggiunto l’obiettivo grazie al gran numero di serpenti. Egli avrebbe provveduto a far sapere in quale nave si trovasse il re: e, se lo avessero catturato o ucciso, promette che ci sarebbe stato per loro un grosso premio.
11. Fatta una simile esortazione ai soldati, da ambedue le parti si fa avanzare la flotta a battaglia. Già disposti in ordine di combattimento, prima che venisse dato il segnale della battaglia, Anníbale per far conoscere ai suoi dove fosse Èumene, manda su una scialuppa un corriere con il caduceo. Quando questi giunse alle navi dei nemici e, mostrando una lettera, dichiarò che cercava il re, subito fu accompagnato da Èumene, perché nessuno dubitava che ci fosse scritta qualche proposta di pace. Il corriere, una volta indicata la nave del capitano, ritornò allo stesso luogo da cui era partito. Ma Èumene, aperta la lettera, non trovò null’altro che parole di scherno. E quantunque si chiedesse meravigliato il motivo di ciò e non lo trovasse, tuttavia non esitò ad attaccare subito battaglia. Nella zuffa i Bitini, secondo le istruzioni di Anníbale, assaltano tutti quanti la nave di Èumene. Non potendo il re sostenere un tale urto, cercò scampo nella fuga e non lo avrebbe trovato se non si fosse rifugiato nella sua base che si trovava sul lido poco lontano. Mentre le altre navi dei Pergameni incalzavano con maggior impeto le nemiche, d’un tratto si cominciò a scagliare contro di loro quei vasi di terracotta dei quali abbiamo fatto sopra menzione. All’inizio il lancio suscitò il riso dei combattenti e non si riusciva a capire il perché di questa operazione. Ma dopo che videro le proprie navi piene di serpenti, spaventati dalla novità del fatto, non sapendo che cosa dovessero evitare di più voltarono le navi e si rifugiarono verso le proprie stazioni marittime. Così Anníbale con uno stratagemma ebbe la meglio sulle navi dei Pergameni e non solo allora, ma spesso in altre occasioni con truppe di terra respinse con ugual accortezza gli avversari.
12. Mentre in Asia si svolgevano questi avvenimenti, il caso volle che gli ambasciatori di Prusia a Roma pranzassero presso l’ex console T. Quinzio Flaminino e che lì, caduto il discorso su Anníbale, uno di loro dicesse che si trovava nel regno di Prusia. Il giorno dopo Flaminino riferì la cosa al senato. I senatori, i quali credevano che finché fosse stato vivo Anníbale, non sarebbero mai stati senza insidie, mandarono ambasciatori in Bitima, fra questi Flaminino, per chiedere al re che non tenesse presso di sé il loro mortale nemico e che lo consegnasse loro. A questi Prusia non seppe dire di no; ma un rifiuto lo oppose: non chiedessero che fosse fatta da lui un’azione che era contro il diritto d’ospitalità: loro stessi lo pigliassero se potevano: facilmente avrebbero trovato il luogo dove egli era. Anníbale infatti in un sol luogo aveva dimora, in un castello che gli era stato dato in dono dal re e che aveva edificato in modo tale che in tutte le parti avesse delle uscite, temendo naturalmente che accadesse quello che in realtà avvenne. Qua giunsero gli inviati dei Romani e circondarono con gran moltitudine d’uomini la sua casa; un servo che osservava da una porta disse ad Anníbale che si vedeva più gente del solito ed armata. Egli allora gli ordinò di fare il giro di tutte le porte dell’edificio e di riferirgli prontamente se fosse assediato alla stessa maniera da tutte le parti. Avendogli il servo prontamente riferito che cosa avveniva e mostrato che tutte le uscite erano bloccate, capì che questo non era avvenuto per caso ma che si cercava proprio lui e che per lui era giunta ormai l’ora di morire. E per non lasciare la sua vita all’arbitrio di altri, memore delle antiche virtù, prese il veleno che era solito portare sempre con sé.
13. Così quell’uomo fortissimo, che aveva affrontato tante e tanto varie peripezie, nel suo settantesimo anno, trovò riposo. Sull’anno preciso della sua morte non c’è accordo. Attico ha lasciato scritto nel suo Annale che morì sotto il consolato di M. Marcello e di Q. Fabio Labeone22; Polibio invece sotto i consoli L. Emilio Paolo e Gn. Bebio Tànfilo23; Sulpicio Blitone24 sotto P. Cornelio Cetego e M. Bebio Tànfilo25. E quest’uomo tanto grande e impegnato in guerre tanto grandi, dedicò una parte del suo tempo alle lettere. Rimangono infatti alcuni suoi libri scritti in greco, fra questi quello indirizzato ai Rodiesi, sulle imprese in Asia di Gn. Manlio Vulsone. Le imprese belliche del Nostro molti le hanno affidate alla memoria, e fra questi, due che furono con lui negli accampamenti e fecero vita comune, finché lo permise la fortuna e cioè Sileno e Sòsilo Spartano. E proprio questo Sòsilo Anníbale ebbe come maestro di lingua greca.
Ma è tempo che mettiamo fine a questo libro e passiamo ad illustrare i generali romani, affinché più facilmente, una volta messe a confronto le imprese degli uni e degli altri, si possa giudicare quali uomini siano da preferire.