LIBRO OTTAVO
3. Domiziano
1. Domiziano nacque il 24 ottobre 1, mentre il padre era console designato e doveva assumere rincarico il mese successivo, nel sesto distretto di Roma, presso il Melo Cartaginese 2, in una casa che successivamente egli trasformò in tempio della gens Flavia 3.
Dicono che abbia trascorso il periodo della pubertà e della prima giovinezza in tante ristrettezze e in tanto bassa reputazione da non possedere, per proprio uso, neppure una tazza d’argento 4.
E si sa che Claudio Pollione 5, personaggio di rango pretorio, su cui ci rimane un poema di Nerone intitolato Luscione, conservava, e talvolta faceva vedere, uno scritto proprio di suo pugno, con cui Domiziano gli si offriva per una notte; e non mancò chi affermasse che Domiziano fu disonorato anche da Nerva 6, che in seguito divenne suo successore.
Durante la guerra contro Vitellio 7, si rifugiò sul Campidoglio con lo* zio paterno Sabino e con una parte delle truppe presenti, ma, quando gli avversari fecero irruzione e il tempio andò in fiamme, egli si nascose e passò la notte in casa di un custode. La mattina seguente, travestito da sacerdote di Iside e intrufolato tra gli addetti ai riti di varie religioni, con un solo compagno si rifugiò al di là del Tevere presso la madre di un condiscepolo; e lì si tenne così ben nascosto che non potè essere scovato da coloro che lo cercavano seguendo le sue tracce. Uscì allo scoperto soltanto dopo la vittoria e, acclamato Cesare 8, assunse la carica di pretore urbano con potestà consolare 9, ma solo nominalmente: perché lasciò il potere effettivo al primo dei suoi colleghi.
Per il resto, egli esercitò tutta la violenza del dispotismo con tale brutalità da dimostrare, fin da allora, quale sarebbe stato in futuro.
Per non soffermarmi sui particolari, dirò solo che, dopo aver avuto rapporti con le mogli di molti, portò via Domizia Longina 10 al marito Elio Lamia e la sposò; e, in una sola giornata, distribuì più di venti incarichi in città o fuori, tanto che Vespasiano andava dicendo di meravigliarsi «che non mandasse un successore pure a lui».
2. Intraprese anche una spedizione in Gallia e nelle Germanie 11, benché non fosse necessaria e benché gli amici del padre lo dissuadessero, soltanto allo scopo di uguagliare il fratello in potenza e fama. Rimproverato per questo, a ricordarsi meglio della sua età e della sua condizione, restò ad abitare col padre e, tutte le volte che questi e il fratello uscivano, seguiva la loro portantina in lettiga. Nel giorno del loro trionfo sui Giudei 12 li scortò su un cavallo bianco.
Per di più, su sei consolati, ne esercitò uno solo regolare 13 e anche quello perché il fratello si ritirò e lo appoggiò.
Da parte sua, poi, simulò perfettamente la moderazione e soprattutto un’inclinazione per la poesia, tanto insolita in lui prima di allora quanto, in seguito, ripudiata con disprezzo; e recitò versi anche in pubblico.
Cionondimeno, quando Vologese, re dei Parti 14, chiese aiuto contro gli Alani e volle uno dei figli di Vespasiano come comandante, con ogni mezzo cercò di farsi mandare proprio lui; e, poiché la cosa andò a vuoto, cercò di sollecitare con doni e promesse altri regnanti dell’Oriente, affinché avanzassero la medesima richiesta 15.
Alla morte del padre, a lungo rimase in dubbio se offrire ai soldati un donativo doppio e non esitò mai ad affermare che «era stato lasciato compartecipe dell’impero, ma che il testamento era stato modificato con la frode» 16. Da allora non cessò di tramare contro il fratello, sia di nascosto sia apertamente 17, fino a quando, essendo stato questi colpito da una malattia grave, ordinò, prima ancora che esalasse l’ultimo respiro, di abbandonarlo come se fosse già morto; e, dopo morto, non gli tributò alcun onore, eccetto quello dell’apoteosi e spesso anche lo criticò con discorsi allusivi e negli editti.
3. Agli inizi del principato era solito prendersi ogni giorno un ritiro di qualche ora e non fare nulla di più che acchiappare delle mosche e infilzarle con uno stilo ben appuntito, tanto che Vibio Crispo 18, ad un tale che domandava se ci fosse qualcuno dentro, in compagnia di Cesare, rispose non a sproposito: «Neppure una mosca».
In seguito, nel secondo anno dell’Impero, diede il titolo di Augusta alla moglie Domizia, dalla quale aveva avuto un figlio durante il suo secondo consolato 19. *** Poi la ripudiò, perché si era perdutamente innamorata dell’attore Paride 20; ma, dopo breve tempo, non sopportando il distacco, la richiamò, con la scusa che il popolo reclamava il suo ritorno.
In merito poi all’amministrazione dell’Impero, per parecchio tempo si mostrò discontinuo, in una mescolanza perfino equilibrata di vizi e di virtù, finché volse in difetti anche le virtù. Per quanto si può arguire, a parte l’inclinazione naturale, era rapace per bisogno, feroce per paura.
4. Indiceva continuamente spettacoli splendidi e costosi, non solo nell’anfiteatro, ma anche nel circo, dove, oltre alle tradizionali corse di bighe e quadrighe, organizzò anche un doppio combattimento, di cavalieri e di fanti. Nell’anfiteatro diede un combattimento navale, e cacce e lotte di gladiatori anche di notte, alla luce delle fiaccole, e non solo combattimenti fra uomini, ma anche fra donne. Inoltre presenziava sempre agli spettacoli offerti dai questori che, dopo un periodo di sospensione, aveva ripristinati 21; anzi dava al pubblico la possibilità di chiedergli due coppie di gladiatori della sua scuderia 22 e le faceva entrare in alta tenuta alla fine dello spettacolo. Durante ogni spettacolo di gladiatori, sedeva ai suoi piedi un fanciullo vestito di scarlatto con una testa estremamente piccola 23, col quale parlava fitto fitto, talvolta anche di cose importanti. Certo è che fu udito mentre gli poneva questa domanda: «se mai sapesse perché, nelle recenti nomine, gli era sembrato opportuno affidare a Mezzio Rufo il governo dell’Egitto» 24.
Allestì battaglie navali di flotte, si può dire, regolari, in un bacino d’acqua che aveva fatto scavare presso il Tevere 25 e circondare di gradini, e vi assistette sino alla fine, anche sotto piogge torrenziali.
Celebrò anche i Ludi Secolari 26, rapportandosi, per il conteggio, non all’anno in cui li aveva recentemente indetti Claudio, ma a quello in cui un tempo li aveva tenuti Augusto. In questa circostanza, nel giorno dei giochi circensi, affinché si potessero effettuare più facilmente le cento corse 27, ridusse ognuna da sette giri di pista a cinque.
Istituì anche una triplice gara quinquennale, musicale, equestre e ginnica, in onore di Giove Capitolino 28, con un numero di premiati superiore a quello odierno. Gareggiavano infatti con prose oratorie in greco e latino e, oltre ai citaredi, anche i citaristi dell’orchestra e i citaristi puri 29. Nello stadio, poi, anche le fanciulle prendevano parte alle corse.
Presiedette alla gara calzato di sandali, avvolto in una toga purpurea di foggia greca, portando in capo una corona d’alloro con l’effigie di Giove, Giunone e Minerva 30, mentre gli sedevano accanto il sacerdote di Giove e il collegio dei sacerdoti Flaviali 31, in abbigliamento uguale al suo, con la differenza che sulle loro corone era raffigurata anche la sua immagine.
Celebrava anche ogni anno, ad Albano, le Quinquatrie di Minerva, in onore della quale aveva fondato un collegio 32; di qui per sorteggio venivano designati coloro cui spettava l’obbligo di curare l’organizzazione delle feste e bandire fantastiche cacce e spettacoli teatrali, oltre a gare di oratori e di poeti.
Per tre volte diede al popolo un donativo di trecento sesterzi a testa e, durante le feste Settimonziali 33, nell’intervallo degli spettacoli, offrì un sontuoso banchetto: e, dopo aver fatto distribuire panieri ai senatori e ai cavalieri, e canestrini con cibarie alla plebe, diede per primo il segnale del pranzo.
Il giorno dopo, fece lanciare agli spettatori doni di ogni genere e, poiché per la maggioranza erano caduti tra i posti riservati al popolo, promise allora cinquanta tessere per ogni settore dell’ordine equestre e senatoriale.
5. Ricostruì numerosissimi e importantissimi monumenti distrutti dalle fiamme, tra i quali anche il Campidoglio, che si era incendiato di nuovo 34; ma li intitolò tutti soltanto col suo nome, senza alcuna menzione dell’antico costruttore.
Fece poi erigere un nuovo tempio in Campidoglio a Giove Custode 35 e il foro che ora si chiama di Nerva 36; inoltre il tempio della gens Flavia, uno stadio, un auditorio musicale e una naumachia, con le cui pietre in seguito fu restaurato il Circo Massimo quando entrambi i lati furono distrutti dal fuoco 37.
6. Intraprese spedizioni militari sia di sua iniziativa sia per necessità: spontaneamente contro i Catti 38, per necessità una contro i Sarmati, quando una legione fu massacrata insieme col suo comandante 39; due contro i Daci, la prima in seguito alla sconfitta dell’ex console Oppio Sabino, la seconda dopo quella di Cornelio Fusco, prefetto delle coorti pretoriane, al quale aveva affidato il sommo comando militare 40. Sui Catti e sui Daci, dopo combattimenti alterni, celebrò un duplice trionfo; per la vittoria sui Sarmati si limitò ad offrire una corona d’alloro a Giove Capitolino.
Con una fortuna straordinaria, senza neppure essere presente, pose termine alla guerra civile mossagli contro da L. Antonio, governatore della Germania superiore 41, giacché, proprio nel momento del combattimento, il fiume Reno, improvvisamente straripando, aveva bloccato le truppe dei barbari che stavano per passare dalla parte di Antonio.
Questa vittoria egli apprese da portenti prima che da messaggi; se è vero che, nel giorno stesso della battaglia, a Roma, un’enorme aquila, avvolgendo con le ali la statua di Domiziano, emise strida di gioia; e poco dopo si sparse la voce che Antonio era stato ucciso, al punto che molti pretendevano persino di aver visto la sua testa trasportata a Roma.
7. Molte innovazioni introdusse anche nelle comuni abitudini di vita: abolì le distribuzioni pubbliche di viveri, ristabilendo la consuetudine di pasti regolari 42; nei giochi del circo, alle quattro precedenti squadre ne aggiunse due dal drappo dorato e purpureo 43; vietò agli istrioni la scena, concedendo loro però di esercitare l’arte nelle case private 44; proibì di castrare i maschi 45 e mise il calmiere sul prezzo degli eunuchi che ancora restavano presso i mercanti di schiavi.
In un’annata in cui si era avuta una ricca produzione di vino e invece scarsità di frumento, ritenendo che i terreni coltivati potessero essere trascurati per troppa cura dei vigneti, ordinò che nessuno in Italia piantasse viti e che nelle province i vigneti venissero tagliati alla radice, lasciandone, al massimo, la metà; ma poi non insistette perché l’editto fosse applicato.
Distribuì fra liberti e cavalieri romani alcune delle più importanti cariche.
Vietò che due legioni fossero unite nello stesso accampamento 46 e che da parte di ogni soldato fossero deposti presso le insegne più di mille sesterzi, e ciò perché L. Antonio, mentre preparava la rivolta nell’accampamento invernale di due legioni, sembrava aver preso fiducia anche dalla consistenza dei depositi. Aggiunse anche un quarto versamento di tre aurei ciascuno per i soldati 47.
8. Amministrò la giustizia con diligenza e con zelo, spesso anche, in via straordinaria, nel foro 48, dalla sua tribuna; annullò le sentenze dei centumviri 49 viziate da interesse; raccomandò ripetutamente ai recuperatori 50 di non conformarsi a rivendicazioni mal documentate; bollò d’infamia i giudici corrotti con i rispettivi consiglieri. Sollecitò anche i tribuni della plebe ad accusare di concussione un edile disonesto e a chiedere al Senato un giudizio contro di lui 51.
Pose tanta cura nel controllare anche i magistrati cittadini e i governatori delle province, che mai essi risultarono più moderati e più giusti, mentre dopo di lui ne abbiamo visti moltissimi colpevoli di ogni genere di reato.
Impegnandosi nella riforma dei costumi, ostacolò l’andazzo di assistere agli spettacoli teatrali alla rinfusa, la plebe mescolata ai cavalieri. Fece distruggere, con ignominia degli autori, gli scritti diffamatori diffusi tra il popolo, che colpivano gli uomini e le donne più in vista. Rimosse dal Senato un personaggio del rango questorio, perché era preso dalla passione per la pantomima e la danza. Tolse alle donne di facili costumi il diritto di usare la lettiga e di ricevere lasciti ed eredità; radiò dall’albo dei giudici un cavaliere romano per aver ripreso in moglie la stessa donna che aveva in precedenza ripudiato sotto accusa di adulterio 52; in base alla legge Scantinia 53, condannò personaggi appartenenti ai due ordini. Punì con varie pene e molto rigore i rapporti sessuali sacrileghi delle vergini Vestali, sui quali, pure, suo padre e suo fratello avevano sorvolato: inizialmente con la pena di morte, in seguito secondo la vecchia tradizione 54. Infatti, mentre alle sorelle Occellate e similmente a Varronilla aveva consentito di scegliere liberamente come morire e aveva condannato all’esilio i loro seduttori, più tardi invece fece seppellire viva Cornelia, la grande Vestale che, assolta una prima volta, era stata, dopo lungo tempo, nuovamente accusata e riconosciuta colpevole; e fece flagellare a morte, nel luogo delle assemblee, i suoi stupratori, ad eccezione di una persona di rango pretorio, cui concesse l’esilio, in quanto aveva confessato ciò che lo riguardava, quando erano ancora indecisi gli esiti del processo e degli interrogatori mediante tortura.
Affinché non fosse impunemente violato alcun sentimento di devozione agli dei, fece distruggere dai soldati il monumento funebre che un suo liberto aveva fatto costruire, in memoria del figlio, con pietre destinate al tempio di Giove Capitolino, e ordinò che fossero gettate in mare le ossa e i resti ch’esso conteneva.
9. All’inizio aborriva a tal punto da ogni spargimento di sangue che, quando il padre era ancora lontano da Roma, ricordandosi il verso di Virgilio:
Prima che l’empia gente si nutrisse di giovenchi uccisi, 55
decise di promulgare un editto per vietare il sacrificio di buoi.
Mai, finché fu semplice cittadino né, per lungo tempo, da imperatore, suscitò alcun sospetto di cupidigia o di avarizia; anzi, al contrario, diede spesso grandi prove non solo di disinteresse ma anche di generosità.
Trattando con grande liberalità tutti quelli che gli stavano intorno, raccomandava loro soprattutto, con grande fermezza, di non agire mai in modo meschino.
Non volle accettare eredità lasciategli da persone che avessero figli. Invalidò anche una clausola del testamento di Rustio Cepione 56, che aveva disposto che ogni anno il suo erede versasse una determinata somma ad ogni senatore che faceva il suo ingresso nella Curia.
Liberò da ogni addebito tutti gli accusati i cui nomi fossero esposti presso l’erario da più di cinque anni e non permise 57 che fossero citati di nuovo se non entro un anno e a condizione che l’accusatore che non riuscisse a vincere la causa fosse punito con l’esilio.
Concesse l’amnistia per il passato ai segretari dei questori che avessero esercitato il commercio secondo la consuetudine, anche se contro la legge Clodia 58.
Lasciò ai vecchi proprietari, per diritto di usucapione, quegli appezzamenti che erano rimasti liberi qua e là dopo la distribuzione delle terre ai veterani.
Represse le denunce di frodi fiscali con gravi punizioni per gli accusatori, e veniva citata una sua battuta: «Un principe che non castiga i delatori li incoraggia».
10. Ma non perseverò a lungo nella clemenza e nel disinteresse. Ad ogni modo passò molto più rapidamente alla crudeltà che alla cupidigia.
Fece uccidere un allievo del pantomimo Paride 59, benché ancora fanciullo e gravemente malato, perché nella bravura e nell’aspetto gli sembrava non dissimile dal maestro; e parimenti fece con Ermogene di Tarso 60 per certe allusioni contenute nella sua opera storica, facendo perfino crocifiggere gli scrivani che l’avevano copiata.
E, poiché un padre di famiglia durante uno spettacolo aveva osato dire che un gladiatore trace valeva quanto un mirmillone, ma non poteva farcela contro l’organizzatore dei giochi, lo fece trascinare giù dalle gradinate nell’arena e gettare ai cani con un cartello: «Parmulario, ha empiamente parlato» 61.
Fece uccidere parecchi senatori, di cui non pochi ex consoli: tra questi Civica Cereale addirittura mentre era proconsole in Asia, Salvidieno Orfito, Acilio Glabrione, che si trovavano in esilio, col pretesto che macchinavano una rivolta, altri per motivi vari e inconsistenti: Elio Lamia 62 per delle battute in verità sospette, ma anche piuttosto fruste e innocue. Infatti, dopo che Domiziano gli aveva soffiato la moglie, a uno che lodava la sua voce aveva detto: «Vivo in castità!»; e a Tito che lo esortava a risposarsi, aveva risposto: «Non è che anche tu vuoi ammogliarti?» 63. Lo stesso era avvenuto per Salvio Cocceiano, perché aveva festeggiato il compleanno dell’imperatore Otone, suo zio paterno; Mezzio Pompusiano 64, di cui si diceva in giro che avesse un oroscopo che gli annunciava l’Impero e perché faceva circolare una pergamena con la rappresentazione geografica del mondo e i discorsi di re e condottieri ripresi da Tito Livio e perché aveva dato a due schiavi il nome di Magone e di Annibaie; Sallustio Lucullo, governatore della Britannia, perché aveva consentito che venissero chiamate lucullee alcune lance di nuovo tipo 65; Giunio Rustico perché aveva pubblicato le lodi di Peto Trasea e di Elvidio Prisco, chiamandoli «uomini santissimi»: e, in occasione di questa incriminazione, egli cacciò da Roma e dall’Italia tutti i filosofi 66. Fece uccidere anche Elvidio figlio 67 col pretesto che, in una farsa di fine spettacolo, sotto la maschera di Paride e di Enone, aveva criticato il suo divorzio da Domizia; Flavio Sabino 68, uno dei suoi cugini patemi, perché, nel giorno dei comizi consolari, il banditore lo aveva presentato al popolo, per sbaglio, non come console designato, ma come imperatore.
E, divenuto ancor più crudele dopo la vittoria nella guerra civile 69, mentre cercava di stanare i complici, anche i più nascosti, sottopose a un nuovo genere di tortura molti dei suoi avversari, facendo appiccare fuoco ai loro genitali; ad altri fece poi mozzare le mani. È risaputo che a due soli dei notabili fu concessa la grazia, un tribuno laticlavio e un centurione che, per dimostrarsi più facilmente innocenti, avevano fornito la prova di essere invertiti e di non avere perciò potuto godere di alcun credito né presso il generale né presso i soldati.
11. La sua crudeltà poi non solo era grande, ma anche subdola e imprevedibile. Il giorno prima di far crocifiggere il suo tesoriere, lo chiamò nella sua camera, lo costrinse a sedergli vicino sul letto, lo accomiatò rassicurato e contento, gli offrì perfino una parte della sua cena.
In procinto di condannare l’ex console Arrecino Clemente 70, uno dei suoi più intimi amici ed emissari, lo trattò con uguale e anzi maggiore considerazione, finché, mentre si trovava con lui in lettiga, scorgendo quello che lo aveva denunciato, gli disse: «Vuoi che domani ascoltiamo questo servo briccone?». E per abusare più insolentemente della pazienza generale, non pronunciò mai una sentenza particolarmente dura senza farla precedere da parole clementi, così che non c’era segnale più certo di atroce fine che la mitezza delle premesse.
Aveva fatto introdurre nella curia alcune persone accusate di lesa maestà e, dopo aver premesso che «quel giorno avrebbe toccato con mano quanto egli fosse caro al senato», facilmente aveva ottenuto che fossero condannati secondo la consuetudine degli antenati 71; poi, turbato dall’atrocità della pena, per attenuarne l’odiosità, intercedette con queste parole (che vai la pena di conoscere testualmente): «Permettete, o senatori, che io ottenga dalla vostra pietà – e so che difficilmente potrò ottenerlo – che concediate ai condannati di scegliere liberamente come morire; infatti voi risparmierete i vostri occhi e tutti capiranno che io ero presente in Senato».
12. Depauperato dalle spese sostenute per l’edilizia, per gli spettacoli e per l’aumento delle paghe, cercò, sì, di abbassare il numero dei soldati per alleviare le spese militari, ma, quando si avvide che, con questo provvedimento, da un lato rimaneva indifeso di fronte ai barbari, dall’altro si trovava non meno invischiato nell’affrontare le difficoltà finanziarie, allora non ebbe più nessuno scrupolo a rapinare in tutti i modi possibili e immaginabili.
Dovunque, con qualsiasi accusatore e qualsiasi accusa, venivano sequestrati i beni dei vivi e dei morti. Bastava che fosse denunciato un gesto o una qualunque parola contro la maestà del principe. Venivano confiscate anche le eredità più impensabili, purché qualcuno comparisse a dire di aver udito dal defunto, quando era in vita, che suo erede era Cesare.
Senza contare il resto, venne riscossa con particolare rigore l’imposta sui Giudei 72: ad essa venivano sottoposti sia coloro che, pur senza averne fatto esplicita dichiarazione, vivevano alla maniera giudaica sia coloro che, nascondendo la loro origine, non avevano pagato i tributi imposti alla loro gente. E anch’io posso ricordare che, da giovanetto, mi trovai presente quando un procuratore del fisco, circondato da numerosi consiglieri, esaminò un vecchio di novant’anni per constatare se era circonciso.
Fin dalla giovinezza, si mostrò d’animo tutt’altro che gentile, anzi insolente e senza misura sia nelle parole sia negli atti. A Cenide 73, concubina di suo padre, che, di ritorno dall’Istria, gli offriva, come era sua consuetudine, un bacio, porse solo la mano; e, mal tollerando che il genero del fratello 74 avesse lui pure servitori vestiti di bianco, esclamò:
Non è un bene il comando di molti 75.
13. Dopo aver ottenuto il principato, non esitò a vantarsi in Senato di aver «dato lui l’impero al padre e al fratello e che essi glielo avevano restituito»; e a dichiarare, nel riprendere sua moglie dopo il divorzio, «che era stata richiamata nel suo sacro letto». E fu contento quando nell’anfiteatro, il giorno del banchetto, si sentì così acclamare: Evviva il Signore e la Signora! 76
Invece, quando, durante il Certame Capitolino 77, tutti lo pregavano unanimemente di riabilitare Palfurio Sura 78 che un tempo era stato espulso dal Senato e che allora era stato premiato tra gli oratori, egli non li degnò di alcuna risposta e semplicemente, per bocca del banditore, ordinò il silenzio.
Con pari arroganza, nel dettare una lettera circolare a nome dei suoi procuratori, così la iniziò: «Il nostro signore e dio comanda che ciò sia fatto». Per cui, in seguito, fu stabilito che non fosse chiamato altrimenti neppure negli scritti e nei discorsi di una qualsiasi persona.
Non acconsentì che gli venissero erette statue in Campidoglio, se non d’oro e d’argento e di un determinato peso.
Fece costruire nei vari quartieri della città tante e tali volte ed archi sormontati da quadrighe e insegne trionfali, che su uno di essi si trovò scritto in greco: Basta! 79.
Ottenne diciassette consolati, quanti nessuno prima di lui; di essi tenne tutti di seguito i sette intermedi, ma li resse però quasi solo nominalmente e nessuno oltre le calende di maggio, la maggior parte soltanto fino al 13 gennaio 80.
Assunto, dopo due trionfi 81, il soprannome di Germanico, chiamò il mese di Settembre e di Ottobre, in base ai suoi appellativi, Germanico e Domiziano, perché nel primo aveva assunto l’impero, nel secondo era nato.
14. Divenuto, per questi motivi, oggetto di terrore e di odio per tutti, rimase alla fine vittima di una congiura *** ordita dai suoi più intimi amici e liberti e dalla sua stessa moglie.
Già da tempo egli sospettava quali sarebbero stati l’ultimo anno e l’ultimo giorno della sua vita, e prevedeva anche l’ora e il modo della sua morte. I Caldei gli avevano predetto tutto fin da quando era un ragazzo. E anche il padre lo aveva apertamente canzonato, come ignaro della sua sorte, una volta che, a cena, si asteneva dai funghi: perché non aveva piuttosto paura del ferro?
Perciò era sempre timoroso e ansioso, turbato oltremodo anche dai minimi sospetti.
Si pensa che, a revocare l’editto già pubblicato sul taglio delle vigne 82, non l’abbia spinto altra ragione se non il fatto che erano stati diffusi dei libelli con questi versi:
Se pur fino alla radice mi divori, ugualmente ancora darò frutti, da libare sopra te, o caprone, quando sarai sacrificato 83.
Per la medesima paura, sebbene fosse molto amante di tutti quegli omaggi, rifiutò un nuovo ed eccezionale onore offertogli dal Senato: per esso era stabilito che, a ogni suo consolato, lo dovessero precedere, tra i littori e i battistrada, alcuni cavalieri romani, tratti a sorte, col mantello bianco e con le lance di guerra.
Ma, avvicinandosi il momento del temuto pericolo, di giorno in giorno sempre più agitato* fece rivestire di lastre di fengite 84 le pareti dei poetici sotto cui aveva l’abitudine di passeggiare, in modo da vedere davanti a sé, riflesso nella loro superficie brillante, tutto ciò che accadeva alle sue spalle. Di solito non interrogava i prigionieri se non in segreto e da solo, reggendo lui stesso le loro catene. E, per persuadere i domestici che non si doveva osare uccidere il padrone neppure in circostanze plausibili, condannò alla pena di morte Epafrodito, il suo segretario per le petizioni, perché si credeva che avesse aiutato Nerone, ormai destituito, a darsi la morte 85.
15. Infine, all’improvviso, in seguito ad un lievissimo sospetto, fece uccidere Flavio Clemente 86, suo cugino paterno, che aveva appena lasciato il consolato. Era costui assai disprezzato per l’inettitudine, ma Domiziano ne aveva adottato i figli, ancora piccoli, designandoli ad essere suoi successori e a mutare i loro nomi precedenti, per chiamarsi l’uno Vespasiano e l’altro Domiziano. Fu soprattutto con questa azione che affrettò la propria fine.
Per otto mesi di seguito scoppiarono e furono segnalate tante folgori che egli esclamò: «Colpisca una buona volta chi vorrà». Furono colpiti dal fulmine il Campidoglio e il tempio della gens Flavia, e anche la sua casa sul Palatino e la sua stessa camera; inoltre dalla base di una statua trionfale si staccò l’iscrizione strappata dalla violenza della tempesta e cadde sopra un sepolcro vicino.
Un albero che, quando Vespasiano era ancora privato cittadino, dopo essere stato abbattuto, si era risollevato da terra, si schiantò di nuovo improvvisamente.
L’oracolo della Fortuna di Preneste, che era solito dargli, per tutta la durata dell’impero, quando gli raccomandava l’anno nuovo, un responso sempre ugualmente favorevole, alla fine ne diede uno del tutto funesto, non senza fare allusione al sangue.
Egli sognò che Minerva, per la quale aveva un culto superstizioso, usciva dal suo santuario *** e diceva di non poter proteggerlo più a lungo, poiché era stata disarmata da Giove.
Da nessun fatto tuttavia fu turbato quanto dal responso e dalla sorte del matematico Ascletarione 87. Costui era stato accusato (né egli aveva negato) di aver raccontato in giro le previsioni tratte dalla sua arte. Domiziano allora gli domandò quale fine fosse riservata proprio a lui, Ascletarione; e, poiché quello affermava che in breve sarebbe stato sbranato dai cani, comandò che fosse ucciso immediatamente e che fosse anche sepolto con grande cura per dimostrare l’infondatezza della sua arte. Ma, mentre veniva eseguito questo ordine, accadde che il rogo fu rovesciato da un improvviso temporale e il cadavere già mezzo bruciato fu sbranato dai cani. Ciò venne comunicato a Domiziano, fra le altre notizie della giornata, mentre sedeva a pranzo, dal mimo Latino 88, che, passando di là, per caso aveva assistito alla scena.
16. Il giorno prima di morire, dopo aver ordinato che gli fossero conservati per l’indomani dei tartufi che gli avevano offerto, aggiunse: «Sempre che mi sia possibile mangiarli!» e, volgendosi a quelli che gli stavano vicini, affermò che, il giorno seguente, «la luna si sarebbe bagnata di sangue nell’Acquario e sarebbe accaduto un fatto di cui avrebbero parlato gli uomini di tutto il mondo».
Intorno alla mezzanotte, fu preso da un tale spavento che balzò dal letto. La mattina seguente, ascoltò e condannò un aruspice, inviato dalla Germania, il quale, consultato sul significato di una folgore, aveva predetto un rivolgimento politico.
Mentre si grattava troppo energicamente una verruca che gli si era infiammata sulla fronte e gli usciva sangue: «Volesse il cielo», disse, «fosse questo soltanto!». Quando chiese l’ora, gli fu detto volutamente che era mezzogiorno, l’ora sesta invece che la quinta, che lui temeva.
Lieto per tutto ciò, come se ormai il pericolo fosse passato, stava affrettandosi verso la sua toilette privata, quando Partenio, il suo cameriere personale, lo fece tornare indietro, annunciandogli una persona che voleva riferirgli qualcosa d’importante, che non si poteva rimandare. Così, fatti allontanare tutti, si ritirò nella sua camera. Fu lì che avvenne l’uccisione.
17. Sulle modalità della congiura e della morte queste sono, più o meno, le notizie divulgate. Giacché i cospiratori erano incerti sul quando e sul come dovessero aggredirlo, se mentre si lavava o mentre pranzava, Stefano, amministratore di Domitilla 89, accusato in quel periodo di appropriazione indebita, offrì il proprio consiglio e il proprio aiuto.
Per alcuni giorni, allo scopo di allontanare ogni sospetto, tenne fasciato il braccio sinistro, come se fosse infermo, con bende di lana, poi, quando si avvicinò l’ora convenuta, vi nascose un pugnale. Quindi, avendo annunciato di voler svelare un complotto, fu introdotto per questo motivo alla presenza dell’imperatore. Mentre questi leggeva un libello che lui stesso gli aveva consegnato, lo trafisse all’inguine. Domiziano era rimasto attonito. Benché ferito, tentava ancora di difendersi; ma il corniculario 90 Clodiano, Massimo, liberto di Partenio 91, Saturo, capo dei camerieri, e alcuni gladiatori gli balzarono addosso e lo trucidarono con sette pugnalate.
Un ragazzo, che per consuetudine si prendeva cura dei Lari della camera da letto e aveva assistito all’uccisione, raccontava che Domiziano, al primo colpo, sùbito, gli aveva ordinato di porgergli un pugnale nascosto sotto il cuscino e di chiamare i servi, ma che al capezzale egli non aveva trovato altro che l’impugnatura e che inoltre tutte le porte erano chiuse; e Domiziano intanto aveva afferrato e trascinato a terra Stefano e aveva lottato a lungo, cercando di strappargli il pugnale e di cavargli gli occhi con le dita, benché le avesse tutte lacerate.
Fu ucciso il 18 settembre 92, a quarant’anni, nel quindicesimo anno del suo impero.
Al suo cadavere, trasportato fuori città dai becchini in una bara comune, la nutrice Fillide tributò le estreme onoranze nella sua casa di periferia sulla via Latina, ma segretamente trasferì i suoi resti nel tempio della gens Flavia e li unì alle ceneri di Giulia, figlia di Tito, essa pure da lei allevata.
18. Aveva alta statura, un volto mite e spesso soffuso di rossore, occhi grandi, ma vista piuttosto debole; per il resto, bello e ben proporzionato, soprattutto in gioventù, e in tutta la persona, tranne che nei piedi, perché aveva le dita troppo corte. Col passare del tempo, apparve imbruttito anche dalla calvizie, dall’obesità del ventre e dalla gracilità delle gambe, che gli erano diventate ancor più magre in conseguenza di una lunga malattia.
Si rendeva a tal punto conto di essere favorito dall’espressione vereconda del suo volto da vantarsi così un giorno davanti al Senato: «Finora, certamente, avete approvato il mio animo quanto il mio viso».
Era così contrariato per la sua calvizie che considerava un’offesa personale se a qualcun altro veniva rinfacciato per scherzo o spregio tale difetto, tuttavia in un opuscolo «sulla cura dei capelli» dedicato a un amico, a consolazione propria e di lui, inserì queste parole:
«Non vedi come sono bello e grande anch’io? 93
Sarà la stessa la sorte dei miei capelli, eppure sopporto con coraggio che la mia capigliatura cominci a invecchiare mentre sono ancor giovane. Sappi che nulla è più caro della bellezza, ma nulla è più breve».
19. Intollerante di qualsiasi fatica, non camminava facilmente a piedi per la città; di rado, durante le spedizioni o in marcia, andava a cavallo, ma generalmente si faceva trasportare in lettiga.
Non nutriva alcun interesse per le altre armi, ma una vera passione per il tiro con l’arco. Spesso nel suo rifugio di Albano molti lo videro ammazzare a centinaia animali di ogni specie e anche, di proposito, trafiggerne a volte le teste con due frecce, in modo da creare come delle specie di coma.
Talora scagliava frecce contro il palmo della mano destra ben aperta di un giovane schiavo, che, stando ritto a una certa distanza, la offriva come bersaglio; e lo faceva con tanta maestria che tutte le frecce passavano tra dito e dito senza danno.
20. Dall’inizio dell’impero trascurò gli studi liberali 94, sebbene si fosse impegnato a restaurare, con grandi spese, le biblioteche distrutte dal fuoco, cercando esemplari da ogni parte ed inviando ad Alessandria persone capaci di copiare e di emendare i testi.
Tuttavia non si applicò mai allo studio della storia e della poesia o allo scrivere, neppure per necessità. Non era solito leggere altro se non i commentari e gli atti dell’imperatore Tiberio 95; componeva le lettere, i discorsi e gli editti con l’aiuto altrui. Aveva peraltro una conversazione non priva di eleganza e talora anche uscì in detti memorabili: «Vorrei», disse una volta, «essere tanto bello quanto pensa di esserlo Mezio» 96; e della testa di un tale, tra il rossiccio e il canuto per i capelli brizzolati, disse che «era neve cosparsa di vino mielato».
21. Diceva che la condizione dei prìncipi è la più misera perché «sulla scoperta di una congiura ad essi non si crede se non quando restano uccisi».
Tutte le volte che aveva del tempo libero, giocava ai dadi, anche nei giorni feriali e nelle ore del mattino; faceva il bagno in pieno giorno e pranzava a sazietà, al punto che a cena difficilmente prendeva altro che una mela maziana 97 e una modesta quantità di bevanda contenuta in un’ampolla. Offriva banchetti frequenti e abbondanti, ma quasi di corsa; certamente non oltre il tramonto né in modo tale da finire in orgia. Infatti, fino all’ora in cui prendeva sonno, non faceva altro che passeggiare da solo in un luogo appartato.
22. Libidinoso all’eccesso, chiamava ginnastica da letto, come se fosse una specie di esercitazione, la frequenza degli accoppiamenti; e correva voce che depilasse personalmente le concubine e sguazzasse tra le più notorie prostitute.
Legato al vincolo coniugale con Domizia, aveva rifiutato la figlia del fratello 98, ancor vergine, che gli era stata offerta in matrimonio; ma, non molto dopo, la sedusse, quando era sposata con un altro e per di più mentre Tito era ancora vivo; poi, quando perse il padre e il marito, con aperta passione l’amò fino a divenire causa della sua morte, avendola costretta, incinta di lui, ad abortire.
23. Il popolo accolse con indifferenza la notizia della sua uccisione, i soldati invece con grande sdegno, e cercarono subito di divinizzarlo, pronti anche a vendicarlo, se non fossero venuti meno i comandanti; cosa che invero fecero poco dopo 99, chiedendo con insistenza la punizione dei responsabili del delitto.
Il Senato, al contrario, si rallegrò tanto che, dopo aver affollato la Curia, non potè trattenersi dal vilipendere a gara il defunto con le invettive più ingiuriose e violente, e anche dall’ordinare che fossero portate delle scale per staccare, seduta stante, gli scudi e i ritratti di Domiziano e abbatterli al suolo, e infine dal decretare che si eliminassero dovunque le iscrizioni e si cancellasse ogni sua memoria. Pochi mesi prima che fosse ucciso, una cornacchia, in Campidoglio, così aveva gracchiato: «Andrà tutto bene!» e non mancò chi credette di interpretare in questo modo il presagio:
La cornacchia che poco fa si è posata sulla cima della rupe Tarpea,
non potendo dire: «Va bene», ha detto «Andrà!» 100.
Dicono che lo stesso Domiziano avesse sognato che gli era cresciuta una gobba d’oro dietro la nuca e che perciò fosse convinto che si presagiva per lo Stato una situazione più favorevole e serena, come in effetti presto si verificò, grazie alla integrità e alla moderazione degli imperatori che vennero dopo di lui.