Nota introduttiva
Cornelius Tacitus, qui post Augustum usque ad mortem Domitiani vitas Caesarum triginta voluminibus exaravit1, ci dice san Gerolamo dell’opera tacitiana: in questo modo stabilisce i confini dell’indagine storiografica di Tacito e il numero complessivo dei libri dell’opera stessa. Più difficile ripartire quei trenta libri tra Annales e Historiae. La tesi più accreditata nasce nell’Umanesimo e assegna 16 libri agli Annales e 14 alle Historiae. Però il sedicesimo libro degli Annales (che peraltro ci è giunto mutilo, interrompendosi al capitolo 35) arriva a raccontare il suicidio di Trasea Peto (66 d.C.): ciò ha portato a chiedersi se non si debbano computare negli Annales altri due libri per arrivare all’anno 69, che è il primo raccontato nelle Historiae.
Quanto all’epoca della composizione le Historiae (che seguono alla Germania e all’Agricola) sicuramente precedono gli Annales: Tacito, parlando negli Annales dei Ludi secolari2, dice di averne già discusso nei libri quibus res imperatoris Domitiani composui. Cioe nelle Historiae. Inoltre un riferimento a Nerva3 e alcune testimonianze di Plinio il Giovane4 consentono di porre la composizione dell’opera tra il 104 e il 109.
Per le fonti, pare non accoglibile la tesi che Tacito attingesse ad un solo autore la materia e le testimonianze della sua narrazione. Nelle Historiae cita espressamente Vipstano Messalla5, Plinio il Vecchio 6, Cornelio Sisenna 7. Per il resto Tacito usa espressioni generiche (fuere qui credidere, celeberrimi auctores, invenio apud quosdam auctores, scriptores temporum tradidere, plurimi auctores consentiunt: si possono ipotizzare i nomi di Cluvio Rufo, Antonio Giuliano, Fabio Rustico, Aruleno Rustico, Erennio Senecione); talora Tacito lamenta lo scarso interesse di fonti abitualmente consultate ed evidenzia la necessità di reperirne altre, forse meno accessibili8; almeno in un caso, facendo seguito ad un genericissimo memorant, riporta una ipotesi per la quale il lettore moderno non ha alcun altro riscontro9.
Tacito consultava anche gli Acta Senatus (la raccolta dei resoconti senatorii la cui redazione cominciò nel 59 a.C. sotto il primo consolato di Cesare) e gli Acta Diurna (una sorta di giornale del popolo romano iniziato da Cesare sempre in quell’anno 5910). Infine materiale prezioso era fornito a Tacito da opere specialistiche, repertori di discorsi, memorie private (per esempio le memorie di Vespasiano).
I quattro libri e i frammenti del quinto da noi posseduti raccontano l’anno 69 d.C. e i primi mesi dell’anno 70. Furono giorni decisivi per la res publica romana, per la sua ideologia, per il modo stesso di pensare il principato: tre imperatori, un tentativo di adozione, la rivolta batava che fu molto di più di una semplice sedizione ai confini dell’impero, la scoperta che l’imperatore poteva essere eletto lontano da Roma e fuori delle sedi istituzionali.
Per l’alto senso etico di Tacito tutto ciò acquista un colore, se possibile, ancor più fosco. Il principato si dispiega ai suoi occhi come un male necessario alla pace e alla stessa sopravvivenza della res publica. E il clima di incertezza diventa, in lui, angoscia aggravata dall’essere stato personale testimone degli eventi narrati: un principe peggiore dell’altro; ambizione e interesse, uniche molle dell’azione politica; il fato cieco e incombente che, all’interno della stessa famiglia flavia, propone due principi ottimi (Vespasiano e Tito) e uno pessimo (Domiziano); adulazione come modo di concepire l’azione politica.
Su tutto domina l’amara consapevolezza tacitiana che ormai non esista più un senato autorevole in grado di garantire una dignitosa sopravvivenza alla res publica, di essere elemento di continuità e sede di dibattito ideologico e istituzionale.
Bastano queste rapidissime annotazioni per capire come crisi morale, ideologica e politica siano un unicum inscindibile nella visione della storia tacitiana. Per lui, in fondo, il grande mistero dell’esistenza è solo parzialmente legato al volgere della fortuna: il vero mistero è nell’anima dell’uomo, nel crogiolo di sentimenti, nei dubbi e nelle esitazioni, nel clima di sospetto che inevitabilmente si genera in chi detiene il potere, in chi vi aspira, in chi vi orbita attorno.
È il magmatico generarsi dei sentimenti e degli atteggiamenti mentali che restituisce la grandezza di Tacito scrittore. Il lettore si soffermi, per fare un unico esempio, sul capitolo11 che descrive, nei momenti di trapasso di potere tra Otone e Vitellio, il crescere del clima di sospetto in Roma: il rigore dell’analista politico, la freddezza dello storico, la capacità di andare oltre i fatti per interpretarli senza mai sovrastarli si fondono in modo straordinario.
Il fatto è che Tacito, prima che ogni altra cosa, è un grandissimo raccontatore. E la qualità della sua scrittura è altissima. Non sarà qui il caso di ricordare nel dettaglio il suo stile fortemente brachilogico e spesso ellittico. Come non è possibile proporre dettagliati esempi del suo ricorrere a frequenti figure di parola e pensiero: anastrofi, litoti, ossimori (talora con funzioni di tragica e dolente ironia12), climax, personificazioni.
Piuttosto varrà la pena di soffermarsi su come Tacito costruisce la narrazione e le conferisce una improducibile tensione interna. I singoli capitoli costituiscono, quasi sempre, una sona di climax ascendente (e talora la stessa struttura si ripropone all’interno dei singoli paragrafi): si comincia con un nesso temporale (di rado causale) che collega il capitolo a quello precedente. Poi il tono sale e lo storico esplora il fatto narrato con rigore e concisione (riferendo, se serve, altre versioni dell’episodio ma mai indulgendo su fatti marginali, frivoli, di facile presa). Infine l'epilogo con straordinaria frequenza affidato ad un epifonema che riassume in una annotazione rapidissima il senso profondo dell’evento, l’evento stesso, l’angolo di visuale in cui lo storico si pone. e una sorta di fulmen in clausola in cui di volta in volta il lettore respira un’aura di ineluttabilità, di pessimismo, di tragedia, di ironia (perfino di sarcasmo, talora13), di orrore, di amarezza.
Infine una annotazione a parte merita l’uso del presente storico: Tacito mescola, per così dire senza preavviso, imperfetto, perfetto, piuccheperfetto a presente storico. Un esempio limite è il miscetur intulitque di Historiae III, 16: due verbi contigui e legati per di più dalla congiunzione enclitica che diventano intraducibili in italiano. Una semplice indagine statistica conduce peraltro a vedere che l’uso del presente storico è quasi sempre legato ad un verbo che esprime ordine (o proibizione): chiara la volontà di rendere in modo efficace la celerità stessa del iussus impartito. Oppure il presente storico scatta per aree semantiche abbastanza vicine: evoluzioni di un esercito, manovre militari. Prevalente è sempre la funzione descrittiva.
Bastano queste scarne annotazioni per dire tutta la difficoltà della resa in italiano di Tacito: la sua scrittura, proprio in virtù (ma anche in funzione) della tensione di cui si è detto, è di una densità assoluta. Eppure (ed è questa una ragione non secondaria del fascino assoluto dell’opera tacitiana) la prosa appare di una estrema leggibilità: Tacito si fa leggere, incatena il suo lettore, lo interroga su questo o quel problema di fondo, si fa rimpiangere quando l’insulto della tradizione manoscritta interrompe la narrazione. Tacito è un moderno, ha eternamente qualcosa da dire e da suggerire ad ogni generazione.
E allora è sembrato di dover combinare in qualche modo questa sua leggibilità/modernità con la necessità di una traduzione rigorosa. Siamo andati nella direzione di sciogliere (per quanto possibile) o almeno diluire la sua densa scrittura: abbiamo privilegiato la paratassi sulla ipotassi proprio per rendere l’incisiva nervosità del dettato. Abbiamo altresì lavorato su alcune parole chiave del suo repertorio lessicale (anche mediante indagine statistica) cercando di renderle in modo di volta in volta adeguato: in Tacito anche l’uso di uno stesso termine nelle sue diverse (e talora non vicinissime) accezioni contribuisce a questa sensazione di assoluta densità dello stile14.
Un’ultima annotazione: le date sono state rese con il corrispondente giorno del calendario gregoriano mentre fiumi, città e paesi sono stati resi spesso col loro nome in latino (ad esempio Lione è sempre Lugduno).
GIAN DOMENICO MAZZOCATO
TRADUZIONI DELLE HISTORIAE
Per la traduzione dell’opera tacitiana, punto di riferimento rimane sempre la splendida versione di Bernardo Davanzati (1529-1606) compiuta tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento. Assieme allo stile che tendeva a riprodurre la densa concisione del modello latino, va ricordato che si tratta di una traduzione ideologicamente molto orientata in quanto essa costituisce il più cospicuo documento dell’imperante tacitismo (che era un modo per proporre Machiavelli senza doverlo mai nominare). Va anche ricordato che la traduzione del Davanzati nasceva nel segno della polemica contro l’umanista francese Henri Etienne (Henricus Stephanus) che aveva sostenuto l’inadeguatezza della lingua italiana a rendere l’icastica concisione della lingua latina.
Tra le traduzioni moderne sono state tenute presenti la traduzione francese della Belles Lettres (Tacite, Histoires, Les Belles Lettres, Paris 1936, Texte établi et traduit par Henri Goelzer) e quella inglese della Loeb Classical Library (Tacite, The Histories, Loeb Classical Library, London-New York 1931, by Clifford H. Moore).
Le traduzioni italiane consultate:
Le Storie, Vallecchi Firenze, 1929, tradotte e illustrate da Cesare Giarratano;
Le Storie e le Opere minori, versione di Camillo Giussani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1945;
Le Storie, a cura di Francesco Mascialino, Zanichelli, Bologna 1966;
Storie, a cura di Azelia Arici, Dialogo degli Oratori, Germania, Agricola, UTET, Torino 1970;
Le Storie, intr. e commento di Luciano Lenaz, tr. di Felice Dessi, BUR, Milano 1992.
G.D.M.
1 Commentarium in Zachariam 3, 14.
2 Annales XI, 11.
3 Historiae I, 1.
4 Epistulae 6, 16 e 20; Epistulae 7, 33.
5 Historiae III, 25 e 28.
6 Historiae III, 28.
7 Historiae III, 51.
8 Come in Historiae IV, 83, a proposito del culto del dio Serapide (Origo dei nondum nostris auctoribus celebrata: Aegyptiorum antistites sic memorant...).
9 È il caso di Historiae V, 2 dove Tacito accredita origini cretesi per i Giudei (con l’improponibile derivazione del nome Iudaei da Idaei, vale a dire gli abitanti del monte Ida).
10 In epoca imperiale essi comprendevano le decisioni dell’imperatore, dei magistrati e del senato; le notizie riguardanti la famiglia imperiale; le notizie riguardanti la vita cittadina. Erano atti ufficiali ma il compito della trascrizione e della diffusione poteva essere assunto da privati. Si tratta con tutta evidenza di materiale preziosissimo anche se compito dello scrittore era quello di separare l’utile dal superfluo e soprattutto il falso e tendenzioso (basti pensare all’ipocrisia degli atteggiamenti senatorii così spesso descritta nelle Historiae) dal vero.
11 Historiae I, 85.
12 Come in Historiae I, 59 (...damnatos fidei crimine...).
13 Come in Historiae III, 45 (...regnum Venutio, bellum nobis relictum.).
14 Qualche esempio: aemulatio (gelosia, competizione ma anche volontà di emulare); ambitio (oltre il significato usuale: accondiscendenza in senso negativo); celebrare (oltre i significati usuali: riabilitare); facies (apparenza, atmosfera, visione, scena che si dispiega davanti agli occhi); gloria (oltre il significato usuale: ricompensa); inritus (oltre il significato usuale: impotente, costretto all’inerzia); invidia (è termine dei confini semantici dilatatissimi: impopolarità, odiosità, infamia, gelosia, odio, malanimo, malcontento); licentia (anarchia, indisciplina, dissolutezza, disordine); modestia (oltre il significato usuale: obbedienza); noxa (oltre il significato usuale: rimorso); obstinatio (spesso nell’accezione positiva di determinazione); pudor (oltre il significato usuale: punto d’onore, puntiglio); religio (talora anche nell’accezione primaria di lealtà); securitas (cinismo; in III, 83, nel sintagma inhumana securitas); socordia (oltre i significati usuali: ottusità, incompetenza, negligenza, leggerezza, trascuratezza).