LIBRO SESTO
Nerone

 

1. Due famiglie della gens Domizia divennero illustri: i Calvini e gli Enobarbi. Capostipite degli Enobarbi fu Lucio Domizio. Di lui si racconta che un giorno, mentre tornava dalla campagna, incontrò due gemelli che gli óidinaronoi di annunciare al Senato e al popolo una vittoria della quale ancora non si era certi e che, per dimostrargli la loro divinità, gli sfiorarono le guance, mutando il colore della sua barba e dei suoi capelli, che da neri divennero rossi come il rame. Tale caratteristica rimase anche ai suoi discendenti, quasi tutti con la barba rossa. Ricoprirono poi sette consolati, due censure e celebrarono un trionfo. Furono quindi assimilati ai patrizi e conservarono sempre quel cognome.

Non usarono neanche altri nomi, eccetto quelli di Lucio e Cneo e con questa particolarità, che continuavano con uno di questi nomi per tre generazioni e poi alternavano un nome con l’altro. Infatti sappiamo da fonti storiche che il primo, il secondo e il terzo degli Enobarbi si chiamarono Lucio, i tre successivi, Cneo, e gli altri, sempre alternativamente, Lucio e Cneo.

Ritengo necessario rendere noti molti membri di questa famiglia, perché sia più evidente che Nerone fu assolutamente degenere rispetto alle virtù dei suoi antenati e tuttavia riprodusse i vizi di ciascuno di essi, quasi trasmessi a lui geneticamente.

 

2. Per tornare dunque alquanto indietro nel tempo, il suo trisavolo, Cneo Domizio, che da tribuno era stato assai ostile ai pontefici, perché avevano designato alla successione di suo padre un altro anzi che lui, trasferì il diritto di designare i successori dei sacerdoti dai collegi al popolo. Durante il suo consolato, dopo aver vinto gli Allobrogi e gli Arvemi, attraversò la provincia a dorso di elefante, mentre una schiera di soldati gli faceva ala, come se stesse celebrando un trionfo solenne. L’oratore Licinio Crasso disse riguardo a costui che «non c’era da stupirsi che avesse una barba di rame, dal momento che aveva una faccia di ferro e un cuore di piombo».

Suo figlio, mentre ricopriva la carica di pretore, fece inquisire davanti al Senato Caio Cesare, console uscente, perché, secondo lui, aveva gestito tale carica non rispettando le leggi e gli auspici; poi, eletto console, tentò di togliergli il comando dell’esercito in Gallia. Nominato suo successore dal partito 1, all’inizio della guerra civile fu preso prigioniero a Corfinio. Dopo essere stato rilasciato, riani mò col suo arrivo i Marsigliesi oppressi dall’assedio, ma poi li abbandonò al loro destino. Morì infine nella battaglia di Farsalo. Fu d’indole volubile e feroce. In un momento di disperazione cercò di darsi la morte ma si spaventò a tal punto che, pentitosi, vomitò il veleno ingoiato e liberò dalla schiavitù il suo medico che, per precauzione e conoscendolo bene, gliene aveva preparato uno poco nocivo.

Quando Cneo Pompeo chiedeva consiglio sulla posizione da assumere nei confronti di coloro che stavano tra i due partiti in posizione neutrale, fu l’unico a dire che si dovevano considerare alla stregua dei nemici.

 

3. Lasciò un figlio che fu senza dubbio il migliore di tutta la famiglia. Costui, sebbene fosse innocente, era stato condannato insieme ai congiurati che avevano ucciso Cesare, in base alla legge Pedia 2. Per questo si era quindi recato presso Cassio e Bruto che erano suoi parenti stretti e, dopo la loro morte, conservò il comando della flotta che gli era stata affidata ed anzi la incrementò e si arrese spontaneamente ad Antonio solo quando il suo partito era stato sconfitto ovunque e per questo acquistò grande considerazione. Unico tra tutti quelli che erano stati condannati in base a quella legge, rientrò in patria e ricoprì cariche molto prestigiose.

Quando scoppiò la nuova guerra civile, mentre egli era luogotenente di Antonio, non osò assumere né rifiutare il supremo comando che gli offrivano quelli che ritenevano un’onta servire Cleopatra, anche a causa di una sua improvvisa malattia, e passò dalla parte di Augusto. Morì tuttavia pochi giorni dopo. Non fu comunque indenne da alcune dicerie disonorevoli, infatti Antonio mise in giro la voce che egli avesse disertato per amore della sua amante, Servilia Naide.

 

4. Fu suo figlio quel Domizio che in seguito fu noto a tutti per essere stato l’esecutore testamentario di Augusto e che era già famoso da adolescente tanto per la bravura nella corsa con i carri, quanto per avere poi conseguito le insegne trionfali nella guerra contro i Germani. Costui fu tuttavia arrogante, scialacquatore, violento; quando ricopriva la carica di edile, costrinse il Censore Lucio Planco a cedergli il passo per strada. Quando divenne pretore e poi console, fece calcare la scena a cavalieri e matrone romane, per la recita di un mimo. Offrì delle cacce nel Circo e in tutti i quartièri della città e diede anche uno spettacolo gladiatorio tanto crudele che Augusto, dopo averlo invano redarguito privatamente, fu costretto a impedirglielo con un editto.

 

5. Da Antonia Maggiore ebbe un figlio che fu il padre di Nerone, essere detestabile sotto ogni aspetto della sua vita, se è vero che, mentre era al seguito del giovane Caio Cesare in Oriente, fu estromesso dal gruppo degli amici, poiché aveva fatto uccidere un suo liberto che si era rifiutato di bere quanto gli aveva ordinato. Del resto, in seguito non si comportò certo con maggior moderazione. Una volta, in un villaggio lungo la via Appia, spronati i cavalli all’improvviso, calpestò di proposito un fanciullo. A Roma poi, in mezzo al Foro, cavò un occhio a un cavaliere romano che stava litigando con lui accesamente.

Era tanto disonesto che non solo frodò i banchieri sul prezzo degli oggetti acquistati all’asta, ma, quando era pretore, sottrasse agli aurighi i premi delle vittorie. Svergognato per questo anche dalle salaci battute della sorella, dovette emanare un editto, su richiesta dei capi delle squadre, col quale sancì che in avvenire i premi si dovessero pagare immediatamente.

Essendo stato accusato anche di lesa maestà, di adulterio e di incesto con la sorella Lepida, proprio poco tempo prima della morte di Tiberio, riuscì a sottrarsi alla condanna per il mutare degli eventi e morì a Pirgi di idropisia, avendo generato Nerone da Agrippina, figlia di Germanico.

 

6. Nerone nacque ad Anzio nove mesi dopo la morte di Tiberio, il 15 dicembre poco prima dell’alba, sì che quasi fu toccato dai raggi del sole prima che dalla terra stessa.

Mentre in molti traevano vari segni infausti dalla sua nascita, fu di presagio anche la frase del padre Domizio che, mentre gli amici si congratulavano con lui, aveva affermato che «da lui e da Agrippina non era potuto nascere che qualcosa di abominevole e di pernicioso per tutti».

Un segno evidente del suo sciagurato destino si ebbe nel suo giorno lustrale 3; infatti Caio Cesare, quando la sorella lo pregò di scegliere il nome da dare al bambino, indicando lo zio Claudio, dal quale poi, divenuto imperatore, Nerone venne adottato, disse «che gli dava il nome di quello». Non diceva sul serio, bensì per scherzo, e anche Agrippina non ne tenne conto, perché allora Claudio era schernito da tutta la corte.

A tre anni perse il padre ed ereditò la terza parte del patrimonio, ma non la ebbe per intero, perché Caio, suo coerede, s’era impossessato di tutti i beni.

Poiché in quel periodo era stata relegata anche sua madre, egli, indigente e bisognoso di tutto, fu allevato dalla zia paterna Lèpida, affidato a due pedagoghi, un ballerino e un barbiere.

Quando però Claudio divenne imperatore, egli non solo recuperò i beni paterni ma ereditò in aggiunta anche i beni del patrigno Crispo Passieno.

Grazie all’influenza e al potere della madre, che era stata richiamata dall’esilio e reintegrata nei suoi diritti, la sua condizione divenne così florida che si sparse la voce che Messalina, moglie di Claudio, considerandolo un rivale di Britannico, aveva mandato dei sicari affinché lo strangolassero durante il sonno pomeridiano. Si aggiunse a tale leggenda che i sicari fuggirono atterriti da un serpente che era spuntato da sotto il cuscino. Questa leggenda nacque dal fatto che, nel suo letto, accanto al cuscino, era stata scoperta una muta di serpente ed egli per un certo tempo la portò al braccio destro racchiusa per volontà della madre in un bracciale d’oro ma poi se ne liberò perché quel ricordo materno gli dava fastidio. La ricercò di nuovo invano negli ultimi tempi della sua vita.

 

7. Da piccolo, non ancora fanciullo, partecipò ai giochi circensi, cimentandosi nel Ludo troiano con grande bravura e successo.

A undici anni fu adottato da Claudio e fu affidato all’educazione di Seneca, a quei tempi già senatore. Si dice che Seneca, la notte dopo, sognò di avere come allievo Caio Cesare: Nerone ben presto rese quel sogno veritiero, rivelando, non appena potè dare prova di sé, la sua indole crudele.

Infatti, poiché il fratellastro Britannico, per abitudine, continuava a chiamarlo Enobarbo anche dopo l’adozione, egli tentò di convincere il padre che quello non fosse suo figlio. Testimoniò anche pubblicamente a carico della zia Lèpida, per far contenta sua madre che la voleva rovinare.

Condotto al foro come novizio 4, fece pubbliche elargizioni e offrì un donativo ai soldati; poi, indisse una rivista militare e marciò in testa ai pretoriani, imbracciando lo scudo; infine rese grazie al padre in Senato. Davanti a lui, allora console, tenne un’orazione in latino a favore dei Bononiensi e una in greco a favore dei Rodiensi e dei Troiani.

Inaugurò la sua attività di giudice, come prefetto dell’Urbe, durante le feste Latine, mentre avvocati assai famosi gli presentavano a gara cause non insignificanti e leggere, come di solito, ma molto importanti e numerose, sebbene Claudio ne avesse fatto divieto.

Non molto tempo dopo sposò Ottavia e offrì giochi circensi e una caccia, dedicandoli all’incolumità di Claudio.

 

8. A diciassette anni, quando si diffuse la notizia della morte di Claudio, si presentò alle guardie tra mezzogiorno e l’una, perché questa gli era sembrata l’ora più adatta a prendere gli auspici, in una giornata tanto luttuosa.

Acclamato imperatore sulla scalinata del Palazzo, fu portato in lettiga al Castro e da lì, dopo un breve discorso tenuto ai soldati, si recò alla Curia. Se ne allontanò ch’era già sera, dopo aver rifiutato, di tutti i grandissimi onori conferitigli, solo il titolo di «padre della patria», a causa della giovane età.

 

9. Quindi esordì con l’ostentazione della sua pietà filiale, elogiando e divinizzando Claudio, dopo averlo celebrato con un solenne funerale. Rese poi grandissimi onori alla memoria del padre Domizio e affidò alla madre la suprema gestione di tutti gli affari pubblici e privati. Persino, nel primo giorno del suo principato, diede come parola d’ordine al tribuno di guardia: «Ottima madre» e, in seguito, spesso andò in giro in pubblico insieme a lei, nella stessa lettiga.

Fondò ad Anzio una colonia e nella lista fece iscrivere i veterani del pretorio e vi fece aggiungere i più ricchi primipili 5 per trasferimento di domicilio. Vi fece costruire anche un porto, opera costosissima.

 

10. Per dare prova ancor più evidente della sua indole virtuosa, dichiarò che avrebbe comandato secondo gli intenti di Augusto e non trascurò alcuna occasione per dimostrare la propria liberalità, clemenza e anche disponibilità.

Abolì o diminuì le tasse più onerose. Ridusse a un quarto la ricompensa prevista per coloro che denunciavano i trasgressori della legge Papia; fece distribuire al popolo quattrocento sesterzi a testa e fece assegnare ai senatori più nobili, ma decaduti, stipendi annui, ad alcuni fino a cinquecentomila sesterzi. Stabilì poi una distribuzione mensile di frumento gratuita per le coorti pretoriane.

E invitato a firmare l’esecuzione della pena di morte di un condannato, com’era prassi, disse: «Come vorrei non sapere scrivere!».

In quella fase salutava i cittadini d’ogni rango, ricordandone il nome a memoria.

Al Senato che voleva rendergli grazie, rispose: «Quando lo avrò meritato».

Fece assistere anche la plebe alle sue esercitazioni militari e spesso declamò in pubblico; recitò anche poesie, non solo nell’ambito della sua corte, ma anche a teatro, con tale godimento di tutti che per tale recitazione si decretò una festa di ringraziamento e alcuni di quei versi furono scritti in lettere d’oro e dedicati a Giove Capitolino.

 

11. Indisse moltissimi spettacoli di svariato genere: ludi giovanili, circensi, teatrali, combattimenti gladiatori. Ammise ai ludi giovanili anche vecchi ex consoli e anziane matrone. Ai giochi circensi assegnò posti riservati anche ai cavalieri e fece gareggiare anche quadrighe trainate da cammelli.

Durante i giochi indetti per propiziare l’eternità dell’Impero, e per questo detti, per suo volere, «Massimi», recitarono le parti degli attori persone di entrambi i ranghi e di entrambi i sessi.

Un famosissimo cavaliere romano a dorso d’elefante attraversò il circo sulla fune.

Dopo la rappresentazione della commedia togata di Afranio, L’incendio, fu consentito agli attori di saccheggiare e accaparrarsi le suppellettili della casa che veniva incendiata sulla scena.

Ogni giorno venivano distribuite al popolo offerte d’ogni genere: ogni giorno uccelli, mille per ogni specie, per lo più commestibili, tessere frumentarie, vesti, oro, argento, pietre preziose, perle, quadri, schiavi, giumenti e ancora, animali domestici, da ultimo, navi, isole, poderi.

 

12. Assisteva ai giochi dall’alto del proscenio.

Nei giochi gladiatori che diede in un anfiteatro di legno costruito in un anno nel Campo Marzio, non fece morire nessuno, neanche quelli condannati.

Invece fece partecipare al combattimento in armi anche quattrocento senatori e seicento cavalieri romani, alcuni di questi godevano di fama integerrima e di una buona posizione e proprio tra questi scelse anche i domatori di bestie feroci e i vari addetti all’arena.

Offrì anche una naumachìa, in acque marine in cui nuotavano animali pericolosi e danze pirriche 6 eseguite da alcuni efebi ai quali, dopo lo spettacolo, distribuì i diplomi di cittadinanza romana. Tra gli episodi rappresentati nelle pirriche, un toro montò una Pasife celata in una statua di legno a forma di vacca 7, così credettero almeno molti spettatori e un Icaro, al primo tentativo di librarsi in volo, si era schiantato accanto al palco di Nerone, spruzzandolo del suo sangue.

Egli assai raramente presiedeva agli spettacoli, di solito vi assisteva standosene sdraiato, e soleva guardare prima da dietro una grata, poi, fatto aprire interamente il podio, da lassù.

Istituì inoltre per primo a Roma dei giochi quinquennali, composti da tre tipi di gara, come in Grecia: di musica, ginnastica ed equitazione e li chiamò I Neroniani e dopo aver inaugurato le terme e una palestra, fece distribuire gratuitamente l’olio 8 anche ai senatori e ai cavalieri.

Affidò l’incarico di presiedere a questi giochi ad ex consoli, estratti a sorte, anziché ai pretori. Poi scese nell’orchestra, tra i senatori, e ricevette la corona di eloquenza e di poesia latina, che si erano contesa i più ragguardevoli cittadini e che gli era stata assegnata col loro consenso. Fece poi atto di adorazione di fronte alla corona per l’esibizione con la cetra che gli era stata conferita dai giudici e ordinò di porla sulla statua di Augusto.

Nel corso della gara ginnica offerta nel recinto del Campo Marzio, durante l’allestimento di un’ecatombe 9, si fece radere la barba per la prima volta e la depose in una pisside d’oro, incastonata di perle rarissime e la consacrò al Campidoglio.

Invitò anche le vergini Vestali allo spettacolo di atletica, poiché ad Olimpia è concesso assistere ai giochi alle sacerdotesse di Cerere.

 

13. Tra gli spettacoli da lui indetti, citerò a buon titolo l’ingresso in Roma di Tiridate, re di Armenia, da lui invitato con grandi promesse.

Non avendo potuto presentarlo al popolo nel giorno che era stato prefissato con un editto, a causa del tempo nuvoloso, lo fece appena si presentò il momento più opportuno. Fece allora disporre coorti armate intorno ai templi del Foro e si sedette presso i Rostri, nella sedia curule, tra le insegne militari e i vessilli, con l’abito trionfale. Prima lo fece salire lungo un piano inclinato al suo palco, ove lo accolse mentre quello si genufletteva presso le sue ginocchia e lo baciò, dopo avergli porto la sua destra perché si sollevasse, poi, in risposta alle preghiere del re, gli tolse la tiara e gli pose in capo un diadema, mentre un uomo di rango pretorio traduceva alla folla le sue suppliche. Infine, lo condusse in teatro e, di nuovo accettando la sua preghiera, lo fece sedere alla sua destra. Salutato «imperatore» per questo, portò una corona d’alloro in Campidoglio e fece chiudere il tempio di Giano bifronte, a voler significare che non v’era più alcuna guerra.

 

14. Ricoprì la carica di console quattro volte: la prima durò due mesi e l’ultima sei mesi, la terza quattro mesi. Il secondo e il terzo consolato furono consecutivi, gli altri intervallati di un anno.

 

15. Nelle cause civili non diede mai alle parti in causa il responso seduta stante, ma solo il giorno seguente e per iscritto. Nei processi, abolite le lunghe arringhe, usava il sistema di trattare separatamente e in successione le parti in contesa. Ogniqualvolta poi si ritirava in consiglio, non deliberava nulla in comune o pubblicamente, ma leggendo in silenzio, isolato, i pareri espressi da ognuno per iscritto, pronunciava la sentenza che più gli piaceva, facendola passare per quella espressa dalla maggioranza.

Per molto tempo non consentì l’accesso in Senato ai figli dei liberti e negò le cariche a quelli già ammessi dai principi che lo avevano preceduto.

Affidò il comando delle legioni ai candidati soprannumerari, per consolarli dell’indugio dell’attesa.

Per lo più conferiva il consolato per sei mesi e, quando intorno al primo di gennaio morì uno dei due consoli, non lo sostituì con nessun altro, biasimando l’antico esempio di Caninio Rebilio che era stato console per un solo giorno 10.

Conferì le insegne trionfali anche a uomini di rango questorio e persino a semplici cavalieri e non sempre per meriti militari.

Faceva leggere di solito a un console, non rispettando in questo la funzione del questore, i messaggi da lui inviati al Senato per alcune questioni.

 

16. Inventò un nuovo genere di edifici per la città, di modo che gli isolati e le case avessero dei porticati nella parte anteriore, dalle cui terrazze si potessero domare gli eventuali incendi e li fece costruire a sue spese.

Aveva anche stabilito di prolungare le mura fino ad Ostia e di far penetrare un braccio di mare, attraverso un canale, nella parte vecchia della Città.

Sotto il suo principato, molte usanze furono duramente punite o represse e altrettante ne furono istituite di nuove.

Furono posti dei limiti al lusso. I banchetti pubblici furono ridotti a distribuzioni di cibo. Fu vietata la vendita di cibi cucinati nelle taverne, fatta eccezione per le verdure e i legumi, mentre prima si poteva vendere ogni specie di vivanda.

Furono condannati a morte i cristiani, gente dedita al culto di una nuova e malefica credenza religiosa.

Furono vietati gli scherzi dei quadrigarii che, per inveterata licenza, si arrogavano il diritto di compiere scorribande per le strade, truffando e rubando, come fosse un gioco.

Furono relegati i pantomimi e le loro fazioni sostenitrici.

 

17. Contro i falsari, allora per la prima volta, si trovò l’espediente di sigillare le tavolette solo dopo averle forate e aver fatto passare per tre volte un filo di lino attraverso i fori.

Si dispose, riguardo ai testamenti, che venissero presentate ai firmatari solo le prime due tavolette, vuote, contrassegnate soltanto dal nome del testatore, e che nessuno, nell’atto di scrivere il testamento per conto di un altro, vi segnasse un lascito a suo favore.

Allo stesso modo stabilì che nei processi le parti in causa dovessero corrispondere una parcella prefissata agli avvocati, mentre nulla era dovuto per il processo in sé, essendo questo a spese dell’erario pubblico. Stabilì inoltre che le cause intentate dall’erario fossero deferite al Foro e ai giudici conciliatori 11 e che tutti gli appelli fossero deferiti dai giudici al Senato.

 

18. Non fu mai stimolato dalla volontà o dalla speranza di accrescere o di estendere l’impero, anzi pensò anche di ritirare l’esercito dalla Britannia e se desistette da questo intento, fu per pudore, perché non sembrasse che volesse sminuire la gloria del padre.

Si limitò a ridurre a provincia il Ponto, col consenso di Polemone, re di quella regione, e il regno delle Alpi, in seguito alla morte di Cottio.

 

19. Intraprese due soli viaggi, ad Alessandria e nell’Acaia. Ma rinunziò al primo il giorno stesso in cui sarebbe dovuto partire, turbato da uno scrupolo religioso e da un pericolo corso. Infatti, essendosi seduto nel tempio di Vesta, dopo aver fatto un giro dei templi, mentre tentava di rialzarsi, dapprima l’orlo della toga gli si era impigliato, poi la vista gli si era ottenebrata al punto da non riuscire a vedere più nulla.

In Acaia, nell’occasione dell’inaugurazione del taglio dell’istmo di Corinto, esortò i pretoriani, riuniti in assemblea, ad intraprendere quell’opera. Poi, fece dare il segnale con la tromba e diede la prima spalata, scavando della terra che raccolse in un cesto e portò in spalla.

Aveva anche fatto allestire una spedizione alle porte del Caspio e fece arruolare in Italia una nuova legione di reclute alte sei piedi 12 che chiamava la falange di Alessandro Magno.

Ho unito insieme questi atti, alcuni privi di biasimo, altri degni persino di non poca lode, per tenerli separati dalle sue azioni infami e dai suoi crimini dei quali parlerò d’ora in poi.

 

20. Durante la sua infanzia, tra le altre discipline, apprese anche l’arte musicale. Appena salì al potere, chiamò immediatamente a corte Terpno, il più famoso citaredo di quel tempo e per svariati giorni di seguito, dopo cena, sedette accanto a lui mentre cantava, fino a notte inoltrata. A poco a poco, cominciò anche a comporre e ad esercitarsi e non tralasciò alcuna delle cure che gli artisti usano di solito per preservare o rinforzare la voce: stare sdraiato supino, con una lastra di piombo sul petto, depurarsi con clisteri ed emetici e astenersi da frutti e cibi nocivi. Finché, invogliato dai progressi fatti, nutrì il desiderio di prodursi in scena, e ripeteva spesso agli amici quel proverbio greco: «Non c’è alcuna considerazione per la musica tenuta nascosta».

Si esibì per la prima volta a Napoli e, nonostante il teatro avesse subito una scossa di terremoto, non smise di cantare prima di aver finito il pezzo che aveva incominciato. Cantò più volte, per parecchi giorni in quello stesso teatro. Una volta, anzi, poiché aveva fatto una pausa, per rinfrancare la voce, non sopportando di stare in disparte, dal bagno tornò nel teatro e qui, dopo aver banchettato in mezzo all’orchestra, in presenza della folla numerosa, promise, parlando in greco, che «avrebbe fatto sentire qualcosa di bello, dopo aver bevuto un po’».

Allettato poi dalle lodi composte in musica da alcuni alessandrini, giunti da poco in licenza a Napoli, ne fece venire altri da Alessandria e scelse da ogni parte con eguale premura ragazzi di rango equestre e oltre cinquemila giovani plebei assai robusti, che, divisi in squadre, avendo imparato vari tipi di applausi (denominati in modo vario bombi, embrici e cocci), lo sostenessero quando cantava: tutti erano riconoscibili per la folta capigliatura, per l’abbigliamento assai elegante e l’anello alla mano sinistra. I loro capi guadagnavano uno stipendio di quattrocentomila sesterzi.

 

21. Poiché ci teneva molto a cantare anche a Roma, fece ripetere, prima del tempo prestabilito, il certame neroniano e quando tutti richiesero insistentemente di sentire la sua voce divina, rispose che «avrebbe cantato, per chi voleva ascoltarlo, nei suoi giardini». Ma, poiché anche i soldati della guardia si erano uniti alle richieste della folla, promise ben volentieri di esibirsi immediatamente e, senza alcun indugio, ordinò di includere il suo nome nell’elenco dei citaredi iscritti alle gare, infilò anch’egli la sua scheda nell’urna come gli altri ed entrò a sua volta con i prefetti del pretorio che portavano la sua cetra, i tribuni militari al suo seguito e accanto gli amici più intimi.

Come prese posto, alla fine del preludio fece annunciare al consolare Cluvio Rufo che avrebbe cantato la Niobe e continuò fino alle quattro del pomeriggio circa. Rinviò la attribuzione della corona e il resto di quella gara all’anno successivo, per avere la possibilità di cantare più spesso ma poi, sembrandogli anche quella possibilità troppo lontana, non mancò di esibirsi in pubblico ogni tanto.

Fu tentato persino di prestare la propria opera nell’allestimento d’uno spettacolo privato, insieme agli attori, quando un pretore gli offrì un milione di sesterzi.

Cantò anche parti di tragedie, impersonando eroi o dei ma anche eroine o dee, indossando maschere che riproducevano, nel primo caso, le sue fattezze, nel secondo, quelle della donna di cui in quel momento fosse invaghito.

Tra le altre tragedie cantò Canace partoriente, Oreste matricida, Ercole furente. Si racconta che, proprio in quest’ultima tragedia, una giovane recluta, che faceva la guardia all’ingresso, vedendo che preparavano al sacrificio Nerone e lo incatenavano, come richiedeva la parte, accorse in suo aiuto.

 

22. Fin da piccolo fu assai appassionato di cavalli e, sebbene gli fosse proibito, il suo argomento preferito era quello dei giochi del circo. Una volta, mentre tra i suoi compagni di scuola lamentava la sorte di un auriga della squadra dei Verdi che era stato trascinato dai cavalli, rimproverato dal maestro, mentendo disse che stava parlando di Ettore. Ma, già fin dall’inizio del suo impero, quando ancora giocava ogni giorno con delle quadrighe d’avorio sopra un tavoliere, si allontanava dalle sue stanze per recarsi a tutti gli spettacoli del Circo, anche quelli di poco conto, prima di nascosto, poi palesemente, sì che nessuno poteva dubitare della sua presenza nel giorno in cui c’erano gare.

E non nascondeva il suo proposito di incrementare il numero dei premi e quindi far durare di più lo spettacolo che di conseguenza, per il moltiplicarsi delle gare, si sarebbe protratto fino a tardi. I capitani delle squadre non accettavano più di far concorrere i propri gruppi se non a patto che corressero per l’intera giornata.

In seguito, volle guidare egli stesso i carri ed esibirsi direttamente. Quindi smise di esercitarsi nei suoi giardini in presenza dei servi e della plebaglia e si esibì davanti a tutti nel Circo Massimo e dava il via un liberto, dal palco donde di solito erano i magistrati a farlo.

E non si contentò di dar prova di tali arti a Roma ma si recò anche in Grecia, come ho già detto, spinto soprattutto dal fatto che le città in cui solitamente si fanno concorsi musicali avevano decretato di inviare a lui tutte le corone vinte dai citaredi e Nerone le accettava con tale gioia, che, non soltanto riceveva coloro che gliele portavano, dando loro la precedenza, ma li invitava anche a pranzare con lui privatamente.

Alcuni di questi, dopo una di queste cene, lo pregarono di cantare e lo subissarono di applausi. Allora Nerone disse che «solo i greci sapevano ascoltare e solo loro erano degni del suo talento». A questo punto non volle differire oltre la sua partenza e, appena giunse a Cassiope, subito debuttò presso l’altare di Giove Cassio e da quel momento partecipò ad ogni gara musicale.

 

23. Ordinò infatti di riunire in un solo anno tutte le gare che di solito si svolgono in tempi diversi, facendone persino ripetere alcune e anche ad Olimpia, contro la tradizione, fece indire un concorso musicale. E, affinché nulla avesse a distoglierlo o a farlo allontanare, mentre era impegnato in queste gare, al liberto Elio, che lo richiamava a Roma, perché la sua presenza era necessaria per alcune questioni di Stato, rispose in questi termini: «Sebbene tu mi esorti a ritornare con urgenza e questo desideri, dovresti piuttosto desiderare che io torni degno di Nerone, e a questo esortarmi».

Mentre cantava non era consentito allontanarsi dal teatro neanche per gravi necessità. E si racconta che per questo motivo alcune donne partorirono durante lo spettacolo e molti, stanchi di dovere ascoltare e applaudire, essendo chiuse le porte della città, saltarono di nascosto giù dalle mura o si fecero portare fuori fingendosi morti.

D’altronde si stenta a credere con quale trepidazione e ansia gareggiasse e con quale spirito di emulazione nei confronti degli altri concorrenti, con quale timore dei giudici.

Di solito spiava gli avversari, cercava di coglierli in fallo, ne parlava male, in privato, come se fossero suoi pari, e talvolta, quando li incontrava, li copriva di insulti; quando poi li riteneva più bravi di lui, di solito cercava di corromperli.

Prima dell’inizio delle gare si rivolgeva ai giudici con la massima deferenza, dicendo che «egli aveva fatto tutto ciò che doveva ma il successo era nelle mani della Fortuna e che essi, saggi ed esperti quali erano, non avrebbero dovuto tener conto di eventuali incidenti fortuiti». Quando poi i giudici lo esortavano a non aver timore, si ritirava con animo più sereno, pur mantenendo una certa apprensione e interpretando l’eventuale silenzio o riserbo di alcuni giudici come malanimo ed ostilità nei suoi confronti e dicendo che non si fidava di loro.

 

24. Durante le gare rispettava a tal punto il regolamento che non osava mai sputare o asciugarsi il sudore della fronte col braccio.

Una volta, mentre recitava una scena in una tragedia, pur avendo riafferrato immediatamente lo scettro che gli era sfuggito di mano, temendo di essere eliminato dalla gara di recitazione per questo errore, si rinfrancò solo quando il pantomimo gli giurò che nessuno se n’era accorto in mezzo alle clamorose acclamazioni del pubblico.

Si autoproclamava vincitore e per questo aspirò dovunque all’incarico di banditore.

Ordinò di abbattere e trascinare con gli arpioni nelle latrine tutte le statue che ricordavano altri vincitori, affinché non ne rimanesse traccia o memoria.

In molte gare guidò anche il cocchio e nei giochi olimpici ne guidò anche uno a dieci cavalli, nonostante che egli stesso in un suo componimento avesse biasimato Mitridate proprio per questo. Fu sbalzato dal carro però e, sebbene fosse riuscito a rimontarvi, non essendo in grado di resistere, non portò a termine la corsa. Tuttavia ottenne egualmente la corona.

Quindi, al momento della partenza, concesse la libertà a tutta la provincia e ai suoi giudici di gara donò la cittadinanza romana e molto denaro. Proclamò tali concessioni di persona, in mezzo allo stadio, nel giorno dei Giochi Istmici.

 

25. Tornato a Napoli dalla Grecia, poiché qui si era esibito per la prima volta in quest’arte, vi entrò con i cavalli bianchi, dopo aver fatto aprire una breccia nelle mura, come si usa con i vincitori dei giochi sacri.

Analogamente fece il suo ingresso ad Anzio, ad Albano e infine a Roma. A Roma però entrò sul carro trionfale di Augusto, vestito di porpora, con una clamide trapunta di stelle d’oro, la corona olimpica in testa e quella pitica in mano, mentre sfilavano in processione davanti a lui le altre corone, contrassegnate da insegne che indicavano in quali luoghi le avesse vinte, contro quali concorrenti e per quali canti o drammi mentre il suo carro era seguito da quelli che plaudivano a lui, come si usa durante le ovazioni, proclamando a gran voce di «essere i suoi Augustiani, soldati del suo trionfo».

Quindi, avendo fatto demolire un arco del Circo Massimo, attraversò il Velabro e il Foro e giunse sul Palatino e al tempio di Apollo. Al suo incedere, venivano immolate dovunque vittime e lungo le vie la folla spargeva croco e offriva uccelli, nastri e dolciumi.

Nerone appese le corone sacre nelle sue stanze, intorno ai letti e vi pose anche delle statue che lo raffiguravano in abiti da citaredo e coniò persino una moneta con tale effigie.

In seguito, ben lontano dal cessare o dal moderare tale passione, per risparmiare la voce, non fece più proclami all’esercito se non stando lontano e facendoli pronunciare ad altri e non trattò più alcuna causa, sul serio o per gioco, se non in presenza del suo maestro di canto che gli ricordava «di risparmiare i polmoni e di mettersi un fazzoletto davanti alla bocca». A molti offrì la sua amicizia o dichiarò la sua ostilità a seconda che lo avessero lodato assai o troppo poco.

 

26. L’insolenza, la libidine, la sfrenatezza, l’avidità e la crudeltà, all’inizio, si rivelarono in lui gradatamente e quasi in sordina, come una sorta di errori di gioventù, eppure, fin d’allora, nessuno avrebbe potuto dubitare che si trattava di vizi propri della sua indole, non dell’età.

Dopo il tramonto, afferrato un cappello o un berretto, faceva il giro delle bettole e andava in giro e vagava per i rioni, divertendosi nel recare danno agli altri. Bastonava quelli che rincasavano dai banchetti e, se reagivano, di solito li feriva e li gettava nelle cloache. Talvolta scassinava e saccheggiava i negozi e aveva aperto uno spaccio in casa sua, dove si metteva all’asta il bottino e si divideva il ricavato.

Spesso in risse di tal genere rischiò di rimetterci la vista e anche la vita e una volta fu percosso quasi a morte da un senatore per avere allungato le mani sulla moglie di quello.

Per questo da allora non si azzardò più ad uscire di notte senza che i tribuni lo seguissero, non visti, da lontano.

Anche di giorno, facendosi portare in lettiga a teatro di nascosto, assisteva dall’alto del proscenio alle liti degli attori facendo da spettatore e aizzandoli e una volta, essendo quelli venuti alle mani e battendosi a colpi di sassi e di sgabelli rotti, anch’egli lanciò vari oggetti sulla folla e ferì gravemente al capo anche un pretore.

 

27. Un po’ alla volta, però, i suoi vizi si accentuarono e abbandonò tali ribalderie e sotterfugi e, non badando più a non farsi scoprire, si diede apertamente ad eccessi peggiori.

Protraeva i banchetti da mezzogiorno a mezzanotte e spesso si ristorava facendo il bagno in piscine con acqua calda oppure, d’estate, in acque in cui veniva sciolta della neve.

Soleva anche talvolta cenare in pubblico, nel recinto della Naumachia o in Campo Marzio o nel Circo Massimo, facendosi servire dalle puttane di tutta la città e dalle suonatrici ambulanti.

Ogni volta che navigava lungo il Tevere, per andare a Ostia, o costeggiava le rive di Baia, si allestivano lungo le rive o sulla spiaggia delle taverne come posto di ristoro, notoriamente luoghi di dissolutezza, e da qui le matrone, imitando nelle mosse le ostesse, lo invitavano ad approdare.

Si faceva anche invitare dagli amici e ad uno di questi una cena mitellita 13 costò quattro milioni di sesterzi, a un altro, un banchetto di rose costò ancor di più.

 

28. Non solo faceva sesso con ragazzi liberi e donne sposate, ma violentò anche Rubria, una vergine Vestale e fu quasi sul punto di sposare Atte, una liberta: aveva persino corrotto alcuni consolari perché giurassero che era di famiglia regale.

Fece recidere i testicoli al giovane Sporo, cercando anche di fargli cambiare sesso, se lo fece portare con la dote e il velo rosso, con una cerimonia fastosa, come nei riti nuziali solenni, e lo tenne presso di sé come una moglie.

E si cita ancora la battuta arguta di un tale che disse a riguardo che «sarebbe stato un bene per l’umanità se anche suo padre Domizio avesse avuto una moglie siffatta».

Questo Sporo, vestito con abbigliamento da imperatrice, se lo portava con sé in lettiga, baciandoselo di tanto in tanto, sia in Grecia, per tutte le adunate e le fiere, sia a Roma, per i Sigillari 14.

Che abbia desiderato unirsi anche con sua madre e che sia stato dissuaso dai nemici di Agrippina, i quali temevano che la donna, già così fiera e prepotente, dopo un simile trattamento di favore, avrebbe preso il sopravvento, nessuno lo mise in dubbio, soprattutto dopo che prese tra le sue concubine una prostituta nota per la sua somiglianza con Agrippina.

Dicono anche che tutte le volte che andava in giro in lettiga con la madre, si eccitava di desiderio incestuoso e questo era evidente dalle macchie della sua veste.

 

29. Prostituì a tal punto ogni forma di ritegno che, esposte ad infamia tutte le parti del suo corpo, alla fine escogitò questo nuovo tipo di gioco erotico: indossata un pelle d’animale feroce, balzava fuori da una gabbia, avventandosi sui genitali di donne e uomini legati a un palo; poi, dopo avere abbondantemente soddisfatto tale voglia insana, si faceva prendere e possedere fino allo sfinimento dal liberto Doriforo, che aveva sposato, assumendo la parte della moglie, come Sporo aveva fatto con lui. In occasione di quelle nozze aveva simulato le grida e i gemiti delle donne che vengono sverginate con violenza.

Da quel che mi hanno riferito, Nerone era assolutamente convinto che «nessuno è pudico in nessuna parte del corpo, ma che molti dissimulano i propri vizi e li nascondono astutamente». Per questo, a chi confessava le proprie perversioni oscene, condonava anche altre colpe.

 

30. Riteneva che l’unico vantaggio del denaro e della ricchezza, fosse la possibilità di dilapidarli e considerava «gretti e avari quelli che tengono i conti delle spese, generosi e magnanimi quelli che vivono al di sopra dei propri mezzi e sperperano».

Lodava e ammirava suo zio Caio soprattutto perché aveva sperperato l’immenso patrimonio di Tiberio in così poco tempo e coerentemente con tali convinzioni non pose alcun limite alla sua prodigalità e alle sue spese.

Per Tiridate, anche se si fa fatica a crederlo, erogò ottocentomila sesterzi al giorno e quando partì gliene donò più di cento milioni.

Il citaredo Menecrate e il mirmillone Spiculo ricevettero in dono somme di denaro e palazzi degni dei cittadini che avevano riportato dei trionfi.

Fece funerali da re per Cercopiteco Panerete, un usuraio che già aveva arricchito di case e poderi.

Non indossò mai due volte la stessa veste.

Giocò ai dadi anche quattrocento sesterzi a punto e andava a pesca con una rete d’oro, intrecciata con corde di porpora e cocco.

Si dice che non abbia mai intrapreso un viaggio con meno di mille veicoli al seguito, con mule ferrate d’argento, mulattieri vestiti di lana di Canosa, e intorno una turba di Mazaci 15 e di corrieri addobbati di bracciali e decorazioni.

 

31. Tuttavia gli sperperi maggiori li fece nelle opere di costruzione.

Si fece costruire una casa che si estendeva dal Palatino all’Esquilino che chiamò dapprima transitoria e poi, quando la fece ricostruire, perché era stata distrutta da un incendio, aurea. Della sua grandezza e magnificenza basterà dire questo: c’era un atrio in cui era stata eretta una statua colossale di Nerone alta centoventi piedi 16. Tale era l’ampiezza, che all’interno aveva porticati a tre ordini di colonne, lunghi un miglio; c’era anche un lago artificiale che sembrava un mare, circondato da edifici che formavano come delle città. Inoltre, all’interno c’erano campi, vigne, pascoli, boschi con svariati animali, selvatici e domestici, d’ogni genere. Nelle altre parti, ogni cosa era rivestita d’oro e ornata di gemme e madreperla.

Il soffitto delle sale da pranzo era di lastre d’avorio mobili e forate, perché vi si potessero far piovere dall’alto fiori ed essenze. La sala principale era circolare e ruotava su se stessa tutto il giorno e la notte, senza mai fermarsi, come la terra.

Nelle sale da bagno scorrevano acque marine e albule 17. Quando Nerone inaugurò questa casa, alla fine dei lavori, espresse il suo compiacimento, dicendo che «finalmente poteva cominciare ad abitare in modo degno di un uomo».

Intraprese anche la costruzione di una piscina coperta, cinta da porticati, da Miseno al lago d’Averno, dove far convogliare le acque termali di Baia, e un canale, dall’Averno a Ostia, per potervisi recare in nave, senza affrontare il mare aperto: sarebbe stato lungo centosessanta miglia e largo tanto da consentire il passaggio simultaneo di due quinqueremi che viaggiassero in direzione opposta.

Per realizzare tali opere aveva ordinato di deportare in Italia tutti i detenuti da qualsiasi luogo in cui si trovassero e di comminare a tutti i condannati, per qualsiasi crimine, i lavori forzati.

A tale frenesia di spese fu spinto, oltre che dalla fiducia nel suo potere, anche da una certa speranza, sorta all’improvviso, di poter scoprire immensi giacimenti sommersi, dietro rivelazione di un cavaliere romano, il quale sosteneva per certo che le ricchezze dell’antichissimo tesoro che Didone, fuggendo da Tiro, aveva condotto con sé, erano nascoste in Africa, in enormi caverne e si potevano estrarre con pochissima fatica.

 

32. Ma, quando questa speranza svanì, deluso e tanto impoverito e privo di mezzi a tal punto da dover differire il pagamento del salario ai soldati e delle pensioni ai veterani, si volse alle calunnie e alle estorsioni.

Innanzi tutto stabilì che a lui dovessero spettare non più la metà ma i cinque sesti dell’eredità lasciata dai liberti defunti che portassero, senza averne il diritto, il nome gentilizio di una di quelle famiglie con cui egli stesso fosse imparentato.

Poi decise che dovesse andare al fisco anche l’intera eredità di chi si fosse mostrato ingrato verso l’imperatore nel proprio testamento e che anche i legali che avessero scritto o dettato tali testamenti fossero puniti.

Poi decise che venisse applicata la legge di lesa maestà per ogni azione o discorso denunciato da un eventuale delatore.

Reclamò anche il premio annesso ad ogni corona che le città gli avevano conferito nei concorsi, negli anni precedenti.

Vietò l’uso dei colori porpora e viola, poi in un giorno di mercato, mandò egli stesso di nascosto uno a venderne alcune once e poi fece arrestare tutti gli acquirenti.

Si dice inoltre che un giorno, mentre stava cantando, avendo visto in mezzo al pubblico una matrona vestita di quel colore porpora che egli aveva vietato, la indicò ai suoi agenti e la donna, trascinata da lui all’istante, fu spogliata non solo della veste ma anche dei suoi beni.

Non mancò mai di raccomandare ad alcuno, nell’atto di affidare un incarico: «Tu sai di cosa ho bisogno». Oppure: «Facciamo in modo che nessuno possieda più nulla».

In ultimo spogliò parecchi templi dei doni votivi e fece fondere le statue d’oro e d’argento, anche quelle dei Penati, fatte poi ripristinare da Galba.

 

33. Il primo dei suoi parricidi e assassini fu quello di Claudio, di cui, pur non essendone l’autore, fu comunque complice, senza neanche dissimularlo, dal momento che prese l’abitudine di lodare, usando un detto greco, come cibo divino i funghi boleti con cui Claudio era stato avvelenato.

Sicuramente oltraggiò Claudio, dopo la morte, con ogni genere di infamia, sottolineandone ora l’idiozia, ora la crudeltà. E diceva anche, allungando la prima sillaba, in segno di irrisione, che egli aveva cessato di moorari 18 tra gli uomini e abrogò molti decreti e disposizioni fatte da Claudio, in quanto opera di uno stolto o di un folle; infine non curò neanche la protezione del suo sepolcro se non con una recinzione bassa e sottile.

Fece avvelenare Britannico più per invidia della sua voce, che era più melodiosa della propria, che per timore che lo soppiantasse nel favore popolare, grazie al ricordo del padre. Si fece dare il veleno da una certa Locusta, nota intenditrice di veleni, ma, poiché il suo effetto era più lento di quanto credesse e Britannico aveva accusato solo delle coliche adddominali, la mandò a chiamare, la fece bastonare e l’accusò di avergli dato una medicina anzi che un veleno. Quando ella si scusò dicendo che glielo aveva dato più blando per celare l’atrocità del crimine, egli esclamò: «Certo che ho proprio paura della legge Giulia, io!». E l’obbligò a prepararne uno, in sua presenza in camera sua, il più rapido e il più efficace possibile. Quindi lo sperimentò su un capretto ma, avendo questo resistito cinque ore, dopo aver fatto bollire e ribollire più volte il veleno, lo fece somministrare ad un maialino. Appena questo morì all’istante, ordinò di portare il veleno nel triclinio e di somministrarlo a Britannico che cenava da lui. E, come questi cadde fulminato appena l’ebbe assaggiato, disse ai convitati che, come al solito, era stato colpito da un attacco di epilessia e l’indomani lo fece seppellire in gran fretta, sotto una pioggia battente, con un funerale ordinario.

A Locusta, per l’opera prestata, concesse l’impunità, vaste proprietà e persino la possibilità di avere degli allievi.

 

34. Mal sopportava la madre che disapprovava e rimproverava con molta severità quanto egli facesse o dicesse, e in un primo tempo cercò di renderla impopolare, mostrando per finta l’intenzione di abdicare al comando e di ritirarsi a Rodi, poi la privò di tutti gli onori, di ogni potere, le tolse la scorta personale di soldati germanici e la fece allontanare dalla sua presenza e poi anche dalla reggia.

La importunava con ogni sistema, sobillando alcuni affinché le intentassero causa quando era a Roma o la importunassero con insulti e lazzi, quando si era ritirata in cerca di quiete, passandole accanto sia per terra che per mare.

Terrorizzato però dalla violenza delle sue minacce, decise di ucciderla. Dopo aver tentato di avvelenarla per tre volte, ritenendo che la madre si immunizzasse con degli antidoti, fece predisporre nella sua stanza un soffitto congegnato in modo tale che, azionato un meccanismo, le crollasse addosso di notte mentre dormiva.

Ma, poiché i suoi complici mal celarono il segreto, fece allestire un’imbarcazione smontabile, sì che ella morisse o per naufragio o per il crollo di una copertura. Quindi, fingendo una riconciliazione, con una lettera assai affettuosa la invitò a Baia, per celebrare insieme a lui le Quinquatrie 19.

Dopo aver ordinato ai comandanti delle triremi di distruggere l’imbarcazione che aveva trasportato Agrippina, simulando uno scontro accidentale, mandò per le lunghe il banchetto e, quando Agrippina si accinse a tornare a Bauli, egli le offrì la nave truccata, al posto di quella danneggiata; l’accompagnò quindi festosamente e, nel salutarla, le baciò persino il seno. Passò il resto della notte sveglio in preda all’agitazione, aspettando l’esito dell’impresa. Ma poiché seppe che tutto era andato per il verso contrario e che la madre si era salvata a nuoto, non sapendo che fare, quando Lucio Agermo, liberto di Agrippina, venne ad annunciargli festante che sua madre era sana e salva, lanciato di nascosto un pugnale ai piedi di quello, ordinò di prenderlo e arrestarlo, come se fosse stato un sicario venuto ad ucciderlo e ordinò di uccidere sua madre, per simulare che si fosse suicidata onde evitare la condanna per il crimine ormai scoperto.

Alcuni testimoni attendibili aggiungono particolari ancor più sconcertanti: Nerone sarebbe accorso a vedere il cadavere della madre e le avrebbe tastato varie parti del corpo, lodandone alcune, disprezzandone altre e dicono anche che nel frattempo, essendogli venuta sete, bevve.

Tuttavia, sebbene sostenuto dalle felicitazioni dell’esercito, del Senato e del popolo, non riuscì mai più, né allora né in seguito, a sopportare i sensi di colpa e spesso confidò di essere perseguitato dal fantasma della madre e dalle fruste e dalle fiaccole ardenti delle Erinni. E tentò persino di evocare i Mani di Agrippina e di placarli con un rito fatto dai Magi.

Durante un viaggio in Grecia non osò assistere ai misteri eleusini, perché, in quell’occasione, il banditore ingiunge agli empi e ai criminali di tenersi lontani da quel rito di iniziazione.

Al matricidio fece poi seguire l’uccisione della zia. Quando si era recato in visita da lei che soffriva di una grave stitichezza, ella, come usano le persone anziane, carezzandogli la lanugine sulle guance, aveva detto: «Desidero morire appena me la consegnerai», e Nerone, come per scherzo, rivolto a chi gli stava accanto, disse «che se la sarebbe tagliata subito». Ordinò quindi ai medici di darle un’eccessiva dose di purgante e si impadronì dei suoi beni prima ancora che fosse morta facendo sparire il testamento, perché non avesse a perdere nulla.

 

35. Oltre Ottavia, ebbe altre due mogli: Poppea Sabina figlia di un questore e precedentemente moglie di un cavaliere romano e poi Statilia Messalina, pronipote di Tauro che era stato console per due volte e aveva celebrato un trionfo. Per averla in moglie fece uccidere il marito, il console Vestino Attico, mentre ricopriva la carica.

Si stancò presto di Ottavia e agli amici che lo riprendevano per questo rispose «che ella si doveva accontentare degli ornamenti coniugali».

In seguito, dopo aver meditato a lungo di strangolarla senza riuscirvi, la ripudiò accusandola di sterilità ma, poiché il popolo non approvava il divorzio e non gli risparmiava le invettive, la relegò, accusandola di adulterio, accusa tanto falsa e ignominiosa che, poiché tutti i testimoni durante il processo negarono la validità di tale accusa, egli subornò come delatore il pedagogo Aniceto, affinché, dichiarando il falso, si autoaccusasse di averla sedotta con l’inganno.

Dodici giorni dopo il suo divorzio da Ottavia, sposò Poppea, che amò in modo particolare. E tuttavia uccise anche lei con un calcio perché, essendo incinta e malata, lo aveva coperto d’insulti, rimproverandolo poiché era tornato tardi da una corsa coi carri. Ebbe da lei una figlia, Claudia Augusta, che morì ancora in fasce.

Non vi fu alcun grado di parentela che egli non colpì con i suoi crimini.

Fece uccidere Antonia, la figlia di Claudio, che si era rifiutata di sposarlo, dopo la morte di Poppea, accusandola di cospirazione. Si comportò allo stesso modo con altre persone a lui legate da un qualche vincolo di parentela diretta o indiretta, e tra queste anche il giovane Aulo Plauzio, al quale, dopo averlo violentato, prima che morisse, disse: «Adesso venga pure mia madre a baciare il mio successore!». Insinuando che la madre avesse amato quell’uomo e lo avesse spinto ad aspirare al comando supremo.

Ordinò ai servi del suo figliastro Rufrio Crispino, nato da Poppea, ancora fanciullo, di affogarlo in mare mentre era a pesca, perché gli avevano riferito che giocava a fare il generale e l’imperatore.

Fece relegare Tusco, figlio della sua nutrice, perché, mentre era procuratore in Egitto, aveva fatto il bagno nelle terme costruite per il suo arrivo.

Costrinse al suicidio il suo precettore Seneca. Eppure, quando gli aveva chiesto il permesso di andarsene, offrendogli in cambio i suoi beni, lo aveva rassicurato, giurando solennemente che i suoi timori erano assolutamente infondati e che avrebbe preferito morire piuttosto che fargli del male.

Al prefetto del pretorio Burro, promise una medicina per la gola e invece gli mandò del veleno.

Col veleno, nascosto in parte nel cibo, in parte nelle bevande, uccise i suoi liberti, vecchi e ricchi, che avevano un tempo favorito la sua adozione e poi avevano sostenuto il suo regime.

 

36. Con uguale crudeltà imperversò anche al di fuori della famiglia, contro gli estranei.

Per varie notti di seguito era apparsa una cometa che comunemente si ritiene presagio di rovina per i più potenti. Angosciato per questo, quando seppe dall’astrologo Balbillo che i re usano scongiurare tali infausti presagi sacrificando una vittima illustre, e in tal modo li allontanano da sé e li fanno ricadere sul capo dei notabili, fece uccidere immediatamente i cittadini più nobili. Tanto più, invero, e quasi per giusta causa, dal momento che si erano palesate due congiure: la prima e la più importante, quella dei Pisoni a Roma, la seconda, quella di Vinicio, ordita e scoperta a Benevento.

I congiurati subirono il processo incatenati con tre giri di catene e alcuni confessarono spontaneamente la loro colpa, altri addirittura se ne vantarono, adducendo come motivo che «in nessun altro modo avrebbero potuto aiutarlo, macchiato com’era d’ogni sorta di infamia, che uccidendolo».

I figli dei condannati furono allontanati dalla città e fatti morire di fame o avvelenati. Risulta che alcuni furono avvelenati durante un pranzo, insieme con i loro maestri e i servi; ad altri furono tagliati i viveri.

 

37. Da allora non vi fu più alcun discrimine o misura nell’uccidere chiunque gli piacesse e per qualsiasi motivo. Ma, per non riferirne in gran numero, dirò di Salvidieno Orfìto, che venne accusato di aver affittato tre botteghe della propria casa vicino al Foro, come locali di raduno, ai delegati delle città; di Cassio Longino, giureconsulto cieco, che fu accusato di aver lasciato in un suo antico albero genealogico l’effigie di C. Cassio, assassino di Cesare; di Peto Trasea, che fu accusato di avere un volto troppo serio e da pedagogo.

A coloro che obbligava a suicidarsi, concedeva solo poche ore di tempo e, al fine di evitare ritardi, inviava loro dei medici che, in caso di esitazione, subito li «curassero»: così infatti definiva l’incisione delle vene al fine di ucciderli.

Si ritiene anche che abbia pensato di darne alcuni in pasto ad un Egiziano vorace, capace di mangiare carni crude e qualsiasi cosa gli si somministrasse, affinché li sbranasse e li divorasse vivi.

Tronfio e superbo per così gravi atti, come se fossero stati dei successi, disse che «nessun principe aveva mai saputo cosa gli fosse lecito fare». E spesso lanciò molte e chiare allusioni al fatto che non avrebbe risparmiato nessun senatore, tra quelli superstiti, e che un giorno avrebbe eliminato dallo Stato quell’ordine e avrebbe affidato le province e l’esercito ai cavalieri e agli eserciti.

Di certo non baciò mai né salutò alcuno di loro, entrando e uscendo dal Senato e, quando inaugurò i lavori dell'istmo, disse chiaramente, davanti a una grande folla, di augurare «a se stesso e al popolo romano che quell’impresa riuscisse», omettendo di menzionare il Senato.

 

38. Ma non risparmiò neanche il popolo né le mura della patria.

Quando un tale, durante una conversazione, citò il verso:

 

Quando sarò morto, bruci pure nel fuoco tutto il mondo!

 

Nerone esclamò: «Al contrario, mentre sono vivo!». E così appunto fece. Infatti, quasi non sopportasse la bruttezza delle case vecchie e i vicoli stretti e tortuosi, fece incendiare Roma, in modo così palese che molti uomini di rango consolare non osarono fermare i loro camerieri sorpresi nelle loro proprietà con stoppa e torce. Alcuni depositi di grano, vicini alla Domus Aurea, dei quali egli desiderava fortemente possedere l’area, furono demoliti con macchine da guerra e poi dati alle fiamme, poiché erano costruiti in pietra.

Per sei giorni e sei notti imperversò quel flagello e la plebe fu costretta a cercare asilo all’interno dei monumenti e dei sepolcreti. Allora, oltre un’enorme quantità di caseggiati, arsero nelle fiamme palazzi di antichi comandanti ancora decorati con le spoglie dei nemici e templi edificati per voto e dedicati agli dèi, fin dal tempo dei re e poi durante le guerre puniche e galliche e tutto ciò che di memorabile e insigne era rimasto dai tempi antichi.

Contemplando lo spettacolo dell’incendio dall’alto della torre di Mecenate, compiaciuto, come egli stesso diceva, «per la bellezza delle fiamme», cantò La distruzione di Troia, indossando il suo abito di scena. E, per non perdere neanche quest’occasione di arraffare bottini e prede il più possibile, promettendo di provvedere a far rimuovere a sue spese i cadaveri e le macerie, non consentì ad alcuno di avvicinarsi a quanto rimaneva dei propri beni.

Con i contributi, non solo quelli che gli offrirono spontaneamente, ma anche quelli richiesti, mandò quasi in rovina cittadini privati e province.

 

39. Ai tanti crimini e misfatti del principe, se ne aggiunsero anche di accidentali: una pestilenza, in un solo autunno, fece trentamila vittime, secondo i registri mortuari; una disfatta in Britannia causò la distruzione di due città importanti e la strage di cittadini ed alleati; eventi disonorevoli si verificarono in Oriente, dove, in

Armenia, due legioni furono costrette a subire l’onta dei giogo e la Siria fu conservata con gran difficoltà.

Durante questi eventi, il fatto incredibile e straordinario fu che nulla egli abbia sopportato più pazientemente che gli insulti e le invettive del popolo e che verso nessuno si sia mostrato tanto indulgente quanto verso chi lo provocava con parole o versi. Molti di questi furono affissi o divulgati sia in greco che in latino, per esempio:

 

Nerone, Oreste, Alemeone, matricidi.

Ultime notizie: Nerone ha ucciso la madre.

Chi nega che Nerone discenda dalla grande stirpe di Enea?

Quello portò via suo padre, questo portò via sua madre.

Tende il nostro le corde alla cetra, le tende il Parto all’arco:

Pean sarà il nostro, Ecatelebete l’altro 20.

Roma diventerà sua casa: a Veio ritiratevi, Quiriti,

purché la sua casa non occupi anche Veio.

 

Non ne cercò neanche gli autori e proibì di punire con una pena troppo severa quelli che erano stati denunciati al Senato da delatori.

Un giorno, mentre passava per strada, Isidoro il Cinico, ad alta voce, lo aveva rimproverato «perché cantava bene i mali di Nàuplio 21 e amministrava male i propri beni».

E Dato, attore di atellane, mentre recitava in un cantico

 

Sta’ bene, padre, sta’ bene, madre

 

aveva mimato il gesto di bere e di nuotare, alludendo chiaramente alla morte di Claudio e di Agrippina e, recitando il verso finale:

 

L’orco vi trascina per i piedi,

 

aveva indicato con un gesto i senatori. Nerone sì limitò soltanto ad allontanare da Roma e dall’Italia sia l’attore che il filosofo, vuoi perché non teneva in alcun conto la diffamazione, vuoi per non irritare gli animi, mostrandosi offeso.

 

40. Il mondo, dopo aver sopportato un simile principe per quasi quattordici anni, alla fine lo abbandonò e i primi furono i Galli sotto la guida di Giulio Vindice, che allora reggeva quella provincia come propretore.

Gli astrologi una volta avevano predetto a Nerone che un giorno o l’altro sarebbe stato deposto, donde quella sua famosissima battuta «L’arte mi darà da vivere», detta per giustificare a maggior ragione l’esercizio della cetra, un diletto essendo ancora principe, una necessità quando sarebbe stato solo un cittadino privato.

Alcuni tuttavia gli avevano promesso che, se fosse stato deposto, avrebbe avuto il dominio dell’Oriente e alcuni in particolare avevano parlato del regno di Gerusalemme e altri avevano predetto che sarebbe stato reintegrato nella condizione precedente. Poiché egli propendeva a sperare proprio questo, dopo che ebbe perso la Britannia e l’Armenia, e le ebbe recuperate entrambe, ritenne che quelle profezie si fossero già avverate.

Quando poi, consultato l’oracolo di Apollo a Delfi, si sentì dire che doveva guardarsi dal settantatreesimo anno, pensando che a quell’età sarebbe morto e non supponendo affatto che si potesse trattare dell’età di Galba 22, confidò a tal punto, non solo nella propria longevità, ma anche nella propria fortuna, continua ed eccezionale, che, avendo perso in un naufragio beni assai preziosi, non esitò a dire agli amici «che i pesci glieli avrebbero restituiti».

Fu informato dell’insurrezione delle Gallie, mentre si trovava a Napoli, proprio nel giorno in cui aveva ucciso la madre, e reagì con tale tranquillità e indifferenza, da far sorgere il sospetto che ne fosse quasi contento, come se gli venisse data l’occasione per poter saccheggiare, secondo il diritto bellico, quelle province assai ricche: si recò subito in palestra e assistette con grande passione alle gare atletiche. Poi, durante la cena, fu interrotto da una lettera ancor più allarmante e la sua indignazione si limitò soltanto a fargli scagliare maledizioni contro i ribelli. Infine, per otto giorni di seguito, non avendo neanche provato a rispondere ad alcuna lettera o a dare alcun ordine o prendere alcun provvedimento a riguardo, fece dimenticare l’evento, facendolo passare sotto silenzio.

 

41. Alla fine, spinto dai continui attacchi ingiuriosi di Vindice, con una lettera esortò il Senato affinché vendicasse la sua persona e lo Stato, giustificando la propria assenza col pretesto di un mal di gola.

Niente invece lo infastidiva maggiormente che sentirsi definire un cattivo suonatore di cetra e di essere chiamato Enobarbo, anzi che Nerone. E riguardo al suo nome gentilizio, proclamò che, dal momento che lo usavano contro di lui come un insulto, lo avrebbe assunto di nuovo, lasciando il nome adottivo. Riguardo agli altri insulti, usava sempre lo stesso argomento per mostrarne la falsità: che gli veniva perfino imputata l’incapacità in un’arte da lui curata e perfezionata con tanto impegno e subito dopo chiedeva ad ognuno se «conoscesse qualcuno più bravo di lui».

Poiché tuttavia continue notizie si avvicendavano, fece ritorno a Roma, assai spaventato; ciò nondimeno, durante il viaggio, si rinfrancò grazie a uno stupido presagio, poiché aveva notato che su un monumento era scolpita la scena di un Gallo sopraffatto e trascinato per i capelli da un cavaliere romano. A quella vista, fece salti di gioia e ringraziò il cielo.

Tuttavia neppure allora convocò il Senato o il popolo, ma invitò in casa sua alcuni cittadini eminenti e, fatta una rapida consultazione, passò il resto della giornata a mostrare loro degli organi idraulici di un nuovo genere inusitato, illustrandone per ciascuno il meccanismo e la complessità e affermò «che presto li avrebbe esibiti in teatro, se Vindice glielo avesse permesso».

 

42. Quando poi venne a sapere che anche Galba e le Spagne si erano ribellate, cadde in deliquio, in uno stato di prostrazione psichica, quasi tramortito, senza poter parlare e poi, quando si fu ripreso, stracciandosi le vesti e percuotendosi il capo, esclamò «che per lui era la fine». E alla sua nutrice, che cercava di consolarlo ricordandogli che anche ad altri principi erano capitate cose simili, rispose «che egli soffriva pene inaudite e tali che nessun altro aveva provato, poiché perdeva il sommo potere essendo ancora vivo».

Ma non per questo rinunciò alle sue abitudini di lusso e di ozio né le moderò, anzi, quando gli fu annunciata una buona notizia dalle province, durante un sontuoso banchetto, cantò dei versi lascivi, di scherno verso i capi della rivolta, accompagnati da gesti osceni, che presto furono anche divulgati, e poi si fece condurre di nascosto a uno spettacolo teatrale e mandò a riferire a un attore molto applaudito «che lo stava distraendo dalle sue preoccupazioni».

 

43. Si ritiene che all’inizio dell’insurrezione avesse meditato molti progetti efferati, di certo non difformi dalla sua indole: mandare contro i comandanti degli eserciti e delle province persone con l’incarico di prendere il loro posto e di ucciderli in quanto cospiratori, tutti d’accordo nell’intento; far trucidare tutti i Galli esuli, dovunque si trovassero e tutti i Galli che risiedevano a Roma, i primi, affinché non si unissero ai ribelli, gli altri come complici e sostenitori dei loro connazionali; lasciare le Gallie alle scorrerie degli eserciti; avvelenare tutti i senatori durante un banchetto; incendiare la città e lanciare contemporaneamente belve feroci contro il popolo, per rendere più difficile la possibilità di scampo. Ma abbandonò questi progetti, non tanto per scrupolo, quanto perché erano di difficile realizzazione. E quando ritenne necessario allestire una spedizione, destituì i consoli dalla loro carica, prima che scadesse il mandato, e al loro posto assunse egli stesso il consolato, adducendo come pretesto che era stato stabilito dal Fato che i Galli potevano essere sconfitti solo se fosse stato lui il console.

Pertanto, mentre usciva dal triclinio, dopo un banchetto, prese i fasci e, appoggiandosi alle spalle degli amici, disse che, «appena fosse giunto nelle province, si sarebbe presentato inerme davanti all’esercito e non avrebbe fatto altro che mettersi a piangere e quindi, dopo aver spinto i rivoltosi a pentirsi, l’indomani, lieto tra lieti, avrebbe cantato epinici 23 che anzi doveva subito provvedere a comporre».

 

44. Nell’allestire la spedizione, in primo luogo si premurò di scegliere i mezzi di locomozione per trasportare i macchinari scenici e di far tagliare i capelli in foggia maschile alle concubine che intendeva portare con sé e di armarle di scuri e scudi come le Amazzoni.

Poi chiamò alla leva militare le tribù urbane ma, non essendosi presentato alcun cittadino idoneo alle armi, impose ai padroni di mandargli un certo numero di schiavi e, fra tutti quelli che ciascuno possedeva, scelse solo i migliori, senza far eccezione per gli intendenti e gli scribi. Impose anche ad ogni rango di cittadini di versargli una parte del loro censo e ordinò agli inquilini delle case private e degli isolati di sborsare immediatamente al fisco l’affitto di un anno. Pretese anche con grande arroganza, e grave vessazione, moneta di conio recente, argento e oro purissimi, tanto che, per questo motivo, molti si rifiutarono apertamente di consegnare alcunché, tutti concordi nel richiedere che il principe dovesse farsi restituire piuttosto dai delatori tutti i premi che avevano ricevuto da lui.

 

45. Il malcontento verso di lui si accrebbe quando speculò sul prezzo del grano. Infine accadde anche che, durante un periodo di carestia, venne annunciato che stava arrivando da Alessandria una nave carica di sabbia per gli atleti di corte. Per questo, essendosi attirato l’odio di tutto il popolo, non vi fu alcun genere di insulto e di oltraggio che egli non dovesse subire: posero un ciuffo 24 sul capo di una sua statua con una scritta in greco: «Ora che finalmente comincia la lotta, almeno dovrebbe cedere!». Al collo di un’altra statua, appesero una bisaccia con la scritta: «Cos’altro avrei potuto fare io? Tu invece ti sei meritato il sacco 25». Sulle colonne scrissero anche che «quello, a furia di cantare, aveva svegliato i Galli!». E, di notte, spesso molti, fingendo di rimproverare i servi, invocavano un «Vindice».

 

46. Era anche terrorizzato dai chiari messaggi dei sogni, degli auspici e dei presagi, sia vecchi che recenti. Mentre prima non era solito sognare, dopo aver ucciso la madre, sognò che mentre guidava una nave, gli veniva sottratto il timone e che veniva trascinato da sua moglie Ottavia dentro tenebre densissime; oppure sognò di essere ricoperto da uno sciame di formiche alate, oppure di essere circondato e spintonato dalle statue che raffiguravano le Nazioni, erette presso il teatro di Pompeo; oppure sognò che il suo cavallo asturiano preferito si era trasformato in scimmia nella parte posteriore e, mantenendo solo la testa intatta, emetteva alti nitriti. Si erano spalancate da sole le porte del Mausoleo e dai penetrali s’era udita una voce che lo chiamava per nome. Il primo di Gennaio, le statuette dei Lari addobbate erano cadute proprio in mezzo all’apparato per il sacrificio. Mentre egli prendeva gli auspici, Sporo gli aveva donato un anello con un cammeo, sul quale era inciso il ratto di Proserpina 26. Quando si erano dovuti formulare i voti solenni per l’imperatore e già era presente la folla di entrambi gli ordini, non erano riusciti a trovare le chiavi del Campidoglio. Mentre veniva letto in Senato un passo della sua orazione contro Vindice in cui diceva che «quei criminali sarebbero stati puniti e che presto avrebbero scontato la giusta pena», tutti avevano gridato: «Toccherà a te, Augusto!». Si notò pure che l’ultima tragedia che aveva cantato in pubblico era stata l’Edipo esule che terminava col verso:

 

Mi chiamano a morire la mia sposa, mia madre, il padre mio!

 

 

47. Quando gli giunse notizia della defezione di tutti gli altri eserciti, stracciò la lettera che gli era stata recapitata mentre pranzava, rovesciò la tavola, scaraventò a terra due coppe che gli erano molto care, che chiamava omeriche perché cesellate con raffigurazioni di episodi tratti dai poemi omerici e si fece dare da Locusta un veleno che nascose in una pisside d’oro. Passò quindi negli Orti Serviliani e lì, mandati avanti i liberti più fidati per far allestire una flotta ad Ostia, chiese ai tribuni e ai centurioni di accompagnarlo nella fuga. Ma, mentre alcuni tergiversavano, altri rifiutavano apertamente, e uno esclamava persino: «È dunque un così grande male morire?» 27, egli prese in considerazione varie soluzioni: se presentarsi supplice dai Parti o da Galba, oppure presentarsi in pubblico vestito di nero e implorare dai Rostri il perdono per le colpe passate, cercando di suscitare la massima commiserazione, e, se non fosse riuscito a commuovere gli animi, almeno cercare di ottenere la prefettura dell’Egitto. Si trovò poi, nel suo scrigno, un discorso da lui preparato in tal senso ma si ritiene che abbia accantonato tale proposito temendo di essere fatto a pezzi prima ancora di poter giungere nel Foro. Quindi rimandò la decisione all’indomani ma, svegliatosi verso mezzanotte, quando seppe che il corpo di guardia se n’era andato via, balzò giù dal letto e mandò a chiamare i suoi amici e, poiché nessuno rispondeva, egli stesso si recò con pochi intimi a chiedere ospitalità ad ognuno di loro. Trovate però le porte sbarrate e non avendo risposta alcuna, tornò nella sua camera da letto dalla quale erano fuggite anche le sue guardie personali portandosi via le coperte e sottraendogli persino la pisside col veleno. Allora mandò a chiamare il mirmillone Spiculo o un altro qualsiasi disposto ad ucciderlo e, non essendosi trovato nessuno, disse: «Dunque io non ho più né un amico né un nemico?», e corse fuori, come se volesse gettarsi nel Tevere.

 

48. Ma, frenato questo impulso, cercò un posto nascosto per riprendere coraggio e, poiché il suo liberto Faonte gli offriva la propria villa che si trovava a quattro miglia, tra la Salaria e la Nomentana, così com’era, scalzo, con la tunica indosso, si mise addosso un mantello di colore poco appariscente e, col capo coperto e un fazzoletto sul volto, salì a cavallo, accompagnato da quattro persone soltanto, tra cui Sporo.

E, subito atterrito da una scossa di terremoto e da un lampo che gli era caduto vicino, sentì dall’accampamento vicino le grida dei soldati che auguravano buona fortuna a Galba e sciagure a lui e incontrò anche un viandante per via che diceva: «Questi stanno inseguendo Nerone». Poi incontrò un altro che chiedeva: «Che novità ci sono in città su Nerone?». Essendosi poi impennato il cavallo, disturbato dalla puzza di un cadavere gettato per strada, gli rimase scoperto il volto e un pretoriano in congedo lo riconobbe e lo salutò. Quando giunsero ad una traversa interna, lasciarono i cavalli e tra cespugli e rovi, attraverso il sentiero di un canneto, con difficoltà e camminando sulle proprie vesti, giunse al muro posteriore della villa.

Qui, allo stesso Faonte che lo esortava a restare per un po’ nascosto in una cava di sabbia, disse che non voleva andare sottoterra da vivo. Essendo rimasto ad aspettare, mentre gli preparavano un passaggio segreto per entrare nella villa, per dissetarsi, prese col cavo della mano dell’acqua di una pozzanghera vicina, dicendo: «Questa è l’acqua distillata di Nerone!». Quindi, strappandosi il mantello con i rovi, strisciò sui pruni attraversandoli e così, a quattro zampe, entrò attraverso il passaggio stretto scavato per lui nella stanzetta più vicina e si sdraiò su di un letto ricoperto da un misero materasso e da un vecchio mantello. Di nuovo assalito dalla fame e dalla sete, rifiutò il pane nero che gli offrirono ma bevve un po’ d’acqua tiepida.

 

49. Allora poiché ciascuno, uno alla volta, insisteva affinché si sottraesse al più presto alle minacce incombenti, ordinò di scavare in sua presenza una fossa della misura del suo corpo e di mettervi sopra insieme dei pezzi di marmo, se si riusciva a trovarne, e di portare acqua e legna per lavare poi il suo cadavere, e piangeva nell’impartire ciascuno di questi ordini, continuando a ripetere di quando in quando: «Quale artista muore con me!».

Mentre aspettava, quando un messo ebbe recato dei dispacci a Faonte, glieli strappò di mano e lesse che era stato dichiarato nemico pubblico dal Senato e che era ricercato per essere punito secondo le antiche usanze. Chiese quali fossero tali usanze e, avendo saputo che consistevano nell’inserire il collo del condannato denudato nella forca e nel frustarlo a morte con le verghe, atterrito, afferrò due pugnali che aveva portato con sé e ne saggiò l’affilatura, poi li ripose di nuovo nel fodero, dicendo che «non era ancora giunta l’ora fatale».

E ora esortava Sporo a dare inizio ai pianti e alle lamentazioni funebri, ora pregava che qualcuno lo incoraggiasse ad uccidersi, dandone per primo l’esempio, ora biasimava la propria codardia dicendo: «Sopravvivo in modo indegno e vergognoso, non s’addice a Nerone, proprio non s’addice. In tali frangenti bisogna essere vigili. Forza, svegliati!».

Ormai erano vicini i cavalieri che avevano l’ordine di prenderlo vivo. Quando se ne rese conto disse tremante:

 

Lo scalpitio di veloci destrieri mi frastorna le orecchie 28,

 

e con l’aiuto di Epafrodito, suo segretario particolare, affondò il ferro nella gola. Era ancora moribondo quando al centurione che

aveva fatto irruzione e fingeva di essere accorso in suo aiuto, tamponandogli con il mantello la ferita, rispose soltanto: «Tardi!» e «Questa è fedeltà!». Così dicendo spirò, con gli occhi sbarrati e fissi, che ispiravano orrore e ribrezzo negli astanti.

Più d’ogni altra cosa aveva chiesto ai suoi compagni che nessuno s’impossessasse della sua testa e che venisse cremato intero ad ogni costo. Ed Icelo, un liberto di Galba che era stato appena liberato dal carcere, nel quale era stato gettato appena era scoppiata la rivolta, lo permise.

 

50. I suoi funerali costarono duecentomila sesterzi e fu avvolto in drappi bianchi intessuti d’oro, quelli che aveva usato il primo di Gennaio. Le sue nutrici Egloge e Alessandria e la concubina Atte deposero le sue ceneri nel mausoleo funebre dei Domizì, che si vede ergersi dal Campo Marzio sul colle dei Giardini. Qui, sul sarcofago di porfido, venne eretto un altare in marmo di Luni, recintato con marmo di Taso.

 

51. Fu di statura quasi regolare ma aveva la pelle del corpo chiazzata e maleodorante; i capelli biondastri e il viso bello più che fine, la vista alquanto debole, gli occhi azzurri, il collo grosso, il ventre prominente, le gambe assai esili, la salute buona; infatti, benché fosse assai smodato negli stravizi, si ammalò solo tre volte in quattordici anni, e non tanto seriamente da astenersi dal vino o dalle altre sue abitudini. Era così trasandato nella cura di sé e dell’abbigliamento, che portava sempre i capelli ondulati e dopo il viaggio in Grecia se li lasciò crescere fin sul collo; spesso poi si mostrò in pubblico in veste da camera, con un fazzoletto al collo, discinto e scalzo.

 

52. Fin da piccolo praticò quasi tutte le arti liberali ma sua madre lo distolse dallo studio della filosofia, dicendogli che era controindicata a un futuro imperatore. Il suo precettore Seneca lo distolse invece dallo studio degli antichi oratori, per serbare più a lungo l’ammirazione di sé presso di lui.

Essendo incline alla poesia, compose versi volentieri e con facilità, senza dover ricorrere, come insinuano alcuni, a pubblicare col suo nome versi scritti da altri. Mi sono passati per le mani tavolette e libercoli con alcuni suoi versi assai noti scritti autografi ed era evidente che non erano stati copiati né scritti sotto dettatura, ma di sicuro elaborati da chi li stava pensando e creando: infatti vi erano numerose cancellature, annotazioni e inserimenti. Nutrì anche una discreta passione per la pittura e la scultura.

 

53. Ma soprattutto teneva alla popolarità ed emulava chiunque godesse del favore popolare per qualsiasi motivo.

Si diffuse l’opinione che, dopo aver ottenuto le corone per le gare teatrali, aveva programmato di scendere nell’arena tra gli atleti nei Giochi Olimpici del lustro successivo. Infatti si esercitava con impegno nella lotta e assisteva agli spettacoli ginnici in tutta la Grecia, sempre e soltanto standosene seduto per terra nello stadio, come fanno gli arbitri e riconducendo con le sue stesse mani nel mezzo le coppie in gara quando si allontanavano troppo.

Aveva anche deciso di imitare pure le imprese di Ercole, dato che già era stimato pari ad Apollo per il canto e al Sole per la guida dei carri. Dicono anche che fosse stato già preparato un leone che egli, nudo, nell’arena, in presenza del popolo, avrebbe ucciso con una clava o con la stretta delle sue braccia.

 

54. Verso la fine della sua esistenza, aveva fatto pubblicamente voto di esibirsi nei giochi celebrativi della vittoria, qualora fosse riuscito a conservare l’impero: si sarebbe presentato anche come suonatore di organo idraulico, di flauto e di zampogna e, nell’ultimo giorno, come attore e avrebbe danzato il Turno di Virgilio. E vi è chi dice anche che abbia fatto uccidere l’attore Paride, da lui considerato un temibile rivale.

 

55. Aveva una smania enorme ma inconsulta di rendere perpetua ed eterna la sua fama. Per questo aveva tolto a molti luoghi e a molte cose il nome antico originario e gliene aveva attribuito uno nuovo, derivato dal proprio: arrivò persino a chiamare Neroneo il mese di Aprile e aveva deciso di chiamare Neropoli anche Roma.

 

56. Disprezzo ogni tipo di religiose tranne quella della Dea Siria. Ma pio disprezzo anche questa, tanto da orinare addosso alla sua statua, essendo stato preso da un’altra superstizione, e solo a questa si tenne saldamente vincolato: aveva ricevuto un dono da un plebeo sconosciuto una statuetta di fanciulla come talismano contro le insidie e, poiché quasi subito dopo era stata scoperta una congiura, continuò ad adorarla come divinità suprema, tributandole ogni giorno tre sacrifici e voleva far credere di conoscere il futuro ispirato da lei.

Pochi mesi prima di morire si dedicò anche all’osservazione delle viscere delle vittime ma non ottenne mai buoni auspici.

 

57. Morì a trentadue anni, nel giorno anniversario dell’uccisione di Ottavia e fu tale la gioia di tutti che il popolo corse per le strade col pileo 29. Tuttavia non mancarono quelli che, per lungo tempo, ornarono il suo sepolcro con fiori di primavera e fiori d’estate, e che esposero sui Rostri ora suoi ritratti con la pretesta indosso, ora degli editti, in cui, come se fosse ancora vivo, dichiarava d’essere in procinto di tornare per la rovina dei suoi nemici. E per di più, Vologeso, re dei Parti, quando mandò degli ambasciatori al Senato per riconfermare l’alleanza, pregò anche intensamente di onorare la memoria di Nerone. Infine, quando vent’anni dopo (io ero un adolescente), venne fuori un tale, di ignota estrazione, che si spacciava per Nerone, il nome di per sé godeva di tale favore presso i Parti che quest’uomo fu molto aiutato e che fu da loro riconsegnato a malincuore.

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
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