LIBRO TERZO
Tiberio
1. La gens Claudia patrizia (perché ce ne fu anche un’altra, plebea, non inferiore a quella né per potenza né per dignità) è originaria di Regillo, una cittadina della Sabina 1. Di là si trasferì a Roma, poco dopo la sua fondazione, con una gran massa di clienti, per volere di Tito Tazio, collega di Romolo, o come è più attestato, per iniziativa di Atta Claudio, il capo della gens, circa cinque anni dopo la cacciata dei re 2. Accolta tra le gentes patrizie, ricevette inoltre dallo Stato, per i suoi clienti, del terreno al di là dell’Aniene, e un luogo per i suoi sepolcri ai piedi del Campidoglio. Poi, nel corso del tempo, conseguì ventotto consolati, cinque dittature, sette censure, sei trionfi e due ovazioni. Si distingueva, entro il proprio ambito, con diversi prenomi e cognomi, ma di comune accordo ripudiò il prenome di Lucio, dopo che, di due di quella gens che portavano quel prenome, uno fu riconosciuto colpevole di brigantaggio, l’altro di assassinio. Tra i cognomi assunse anche quello di Nerone, che in lingua sabina significa forte e valoroso.
2. Di molti Claudii si annoverano molte e straordinarie benemerenze, ma anche molte colpe commesse contro lo Stato. Per ricordare le principali: Appio Cieco dissuase il Senato dallo stringere alleanza con Pirro 3, in quanto essa era tutt’altro che vantaggiosa. Claudio Càudice, per primo, varcato con una flotta lo stretto di Messina, cacciò i Cartaginesi dalla Sicilia 4. Tiberio Nerone schiacciò Asdrubale, che giungeva dalla Spagna con un grosso esercito, prima che si congiungesse con il fratello Annibale 5. Viceversa, Claudio di Regillo, decemviro per la redazione delle leggi, spinto dalla libidine tentò di dichiarare sua schiava una giovane libera 6; e con ciò fu causa della seconda secessione della plebe dai patrizi. Claudio Druso si fece erigere una statua con diadema a Foro d’Appio, poi, servendosi delle sue clientele, tentò di occupare l’Italia 7. Claudio Pulcro, in Sicilia, poiché i sacri polli, con cui si traevano gli auspici, non volevano mangiare, con dispregio della religione li fece gettare in mare, perché bevessero, visto che non volevano mangiare; poi affrontò la battaglia navale e fu sconfitto 8; il Senato gli ordinò allora di nominare un dittatore, e lui, per la seconda volta prendendosi giuoco della drammatica situazione della patria, fece il nome del suo corriere Glicia. Ci sono pure, e ugualmente contrastanti, esempi di donne. Appartenevano alla medesima gens l’una e l’altra Claudia, sia quella che disincagliò dal fondo del Tevere la nave che portava il simulacro della Madre degli dèi proveniente dall’Ida, pregando pubblicamente che finalmente la nave la seguisse, se era vero ch’ella era pudica 9, sia quella che, per la prima volta trattandosi di una donna, affrontò dinanzi al popolo un processo di lesa maestà, perché, dato che la sua carrozza procedeva lentamente tra la folla troppo densa, apertamente espresse l’augurio che suo fratello Pulcro rivivesse e perdesse di nuovo una flotta, così che a Roma ci fosse meno gente 10. E stato inoltre ben notato che tutti i Claudii – tranne quel Publio Clodio, che, per far espellere da Roma Cicerone, si fece adottare da un plebeo, per giunta più giovane di lui 11 – furono sempre tra gli ottimati e impareggiabili assertori della dignità e della potenza del patriziato; e contro la plebe furono tanto violenti ed arroganti, che nessuno di loro, neppure se imputato di delitto capitale, volle mutare abito davanti alla plebe o supplicarla 12; alcuni, addirittura, fra alterchi ed insulti, colpirono i tribuni della plebe. Anche una vergine Vestale, salita sul carro del fratello che celebrava un trionfo non autorizzato dal popolo, lo accompagnò fino in Campidoglio, perché nessun tribuno potesse impedirlo od opporre il suo veto 13.
3. Da questo ceppo trae origine Tiberio Cesare, per di più da entrambi i lati: per parte di padre discende da Tiberio Nerone, per parte di madre da Appio Pulcro, che furono entrambi figli di Appio Cieco. Si inserì anche nella famiglia dei Livii, nella quale entrò per adozione il nonno materno. E questa famiglia, per quanto plebea, fu anch’essa molto fiorente, insignita di otto consolati, due censure, tre trionfi, e anche di una dittatura e un comando della cavalleria 14; fu illustre anche per uomini eccezionali, e soprattutto per Salinatore e per i Drusi. Salinatore 15, durante la sua censura, bollò di leggerezza tutte quante le tribù, poiché, mentre, dopo il primo consolato, lo avevano condannato irrogandogli una multa, poi lo avevano eletto console di nuovo e censore. Druso, per aver ucciso, scontrandosi con lui in battaglia, Drauso, il capo dei nemici, guadagnò il suo cognome per sé e per i suoi discendenti 16. Si racconta anche che, quando era propretore, riportò dalla Gallia, ormai provincia romana, l’oro consegnato a suo tempo, durante l’assedio del Campidoglio, ai Galli Senoni, e ad essi non ritolto – come invece ne è tradizione – da Camillo. Il suo pronipote, proclamato patrono del Senato per il suo notevole impegno contro i Gracchi, lasciò un figlio che, in un analogo conflitto, mentre preparava molti e svariati provvedimenti, fu ucciso a tradimento dalla fazione opposta 17.
4. Nerone 18, il padre di Tiberio, da questore fu al comando della flotta di Cesare durante la guerra Alessandrina 19, e contribuì moltissimo alla vittoria. Perciò fu fatto pontefice in sostituzione di Publio Scipione e fu inviato in Gallia per dedurre colonie, tra cui Narbona e Arelate 20. Tuttavia, dopo l’uccisione di Cesare, quando tutti, per timore di disordini, proponevano l’impunità per il fatto, egli sostenne persino che si dovessero mettere all’ordine del giorno dei premi per i tirannicidi. Poi, allo scadere della sua pretura, allorché alla fine dell’anno sorse un contrasto fra i triumviri, egli, conservando le sue insegne al di là del tempo legittimo, seguì a Perugia il console Lucio Antonio, fratello del triumviro, e quando gli altri si arresero, lui solo rimase fedele al suo partito, e scampò prima a Preneste, poi a Napoli; lì inutilmente tentò di sollevare gli schiavi col miraggio della libertà; allora si rifugiò in Sicilia. Ma considerando un’indegnità il fatto di non essere sùbito ammesso alla presenza di Sesto Pompeo 21 e di sentirsi vietare l’uso dei fasci, passò in Acaia per unirsi a Marco Antonio. Ritornata presto la pace fra tutti, tornò con lui a Roma. E quando Augusto gli chiese per sé la moglie Livia Drusilla, allora incinta e dalla quale aveva avuto anche un figlio, gliela concesse. Non molto tempo dopo morì: gli sopravvivevano entrambi i figli, Tiberio Nerone e Druso Nerone 22.
5. Tiberio, alcuni ritennero che fosse nato a Fondi, basandosi sul lieve indizio che la sua nonna materna era appunto di Fondi, e che poi lì era stata eretta in luogo pubblico, per decreto del Senato, una statua della Felicità. Ma, secondo la tradizione più diffusa e più sicura, Tiberio nacque a Roma, sul Palatino, il 16 di novembre, mentre erano consoli Marco Emilio Lèpido – per la seconda volta – e Lucio Munazio Planco, durante la guerra di Filippi 23. Così è riportato nei Fasti e negli Atti Pubblici. Ma non manca chi afferma che egli sia nato, o nell’anno precedente – sotto i consoli Irzio e Pansa – o nel successivo – sotto i consoli Servilio Isaurico e Lucio Antonio.
6. Ebbe un’infanzia e una puerizia travagliata, sempre compagno di fuga dei genitori. A Napoli, mentre essi, all'arrivo dei nemici, cercavano di raggiungere di nascosto un’imbarcazione, egli due volte quasi li tradì con i suoi vagiti: una prima volta quando fu strappato frettolosamente dal seno della nutrice, e una seconda volta quando fu tolto dalle braccia della madre da chi tentava di alleggerire di ogni peso quelle povere donne, dato che il tempo stringeva. Portato in giro anche per la Sicilia e per l’Acaia 24, fu affidato alla comunità degli Spartani, che erano sotto la tutela dei Claudii; partendo di là, durante il viaggio affrontato di notte, corse pericolo di vita, perché improvvisamente dal bosco si levarono da ogni parte le fiamme, che avvolsero tutto il gruppo, a tal punto che parte degli abiti e dei capelli di Livia andarono bruciati. Esistono, e si mostrano ancóra a Baia, i doni che egli ricevette in Sicilia da Pompea, sorella di Sesto Pompeo, un mantelluccio, una fibbia, e anche delle bulle d’oro 25. Dopo il suo ritorno a Roma, fu adottato per testamento dal senatore Marco Gallio: ne accettò l’eredità, ma non ne assunse il nome, perché Gallio era stato del partito avverso ad Augusto. A nove anni tenne dai Rostri l’elogio funebre del padre, che appunto gli era morto. Più tardi, entrando nell’adolescenza, durante il trionfo per la vittoria d’Azio, accompagnò il carro di Augusto, sul cavallo esterno di sinistra, mentre Marcello, figlio di Ottavia, montava quello di destra. Presiedette anche ai Ludi Urbani e prese parte ai Giochi Troiani, a capo del gruppo dei ragazzi più grandicelli.
7. Assunta la toga virile, ecco in quali vicende egli trascorse l’adolescenza e tutto il resto della sua vita fino all’inizio del principato. Diede uno spettacolo di gladiatori in memoria del padre, e un altro in memoria del nonno Druso, in tempi e luoghi diversi, il primo nel foro, il secondo nell’anfiteatro, richiamando anche alcuni gladiatori a riposo e compensandoli con centomila sesterzi. Diede anche altri giuochi, ma in sua assenza: il tutto con magnificenza, a spese della madre e del patrigno. Sposò Agrippina, nata da Marco Agrippa, nipote del cavaliere romano Cecilio Attico 26, quello a cui sono dirette le lettere di Cicerone che tuttora rimangono. Dopo aver avuto da lei il figlio Druso, sebbene ne fosse pienamente soddisfatto ed essa fosse ancóra incinta, fu costretto a ripudiarla e a sposare sùbito Giulia, figlia di Augusto, non senza suo grande dolore: era affettuosamente legato ad Agrippina e disapprovava la condotta di Giulia, poiché si era accorto che essa aveva voglia anche di lui mentre era ancóra sotto il precedente marito, ed effettivamente così pensava anche l’opinione pubblica. Quanto ad Agrippina, egli soffrì di averla dovuta allontanare dopo il divorzio, e la sola volta che la rivide casualmente, la seguì con occhio così felice e commosso, che poi si ebbe cura che non gli capitasse più davanti. Con Giulia dapprima visse in concordia e con amore reciproco, poi entrò in contrasto, e in forma piuttosto grave – tanto che poi dormirono sempre separati –, allorché scomparve il pegno d’amore del loro comune figlio, che, nato ad Aquileia, morì ancóra piccino. Perse in Germania il fratello Druso, la cui salma egli portò fino a Roma precedendola a piedi per tutto il viaggio.
8. Agli inizi della sua attività pubblica difese, dinanzi ad Augusto, separatamente in processi diversi, il re Archelào, gli abitanti di Tralles e i Tèssali 27; intercesse per gli abitanti di Laodicèa, di Tiarita e di Chio, disastrati da un terremoto, che imploravano l’aiuto del Senato 28; portò dinanzi ai giudici accusandolo di lesa maestà, e fece condannare, Fannio Cepione, che con Varrone Murena aveva cospirato contro Augusto. Frattanto esercitò il duplice incarico di provvedere ai rifornimenti di viveri, che si erano rivelati insufficienti, e di rimettere ordine in tutta Italia agli ergastoli per schiavi 29, i cui proprietari erano divenuti odiosi, perché sembrava che vi nascondessero non solo i viandanti catturati, ma anche quelli che la paura del servizio militare aveva spinto a cercare rifugio in quei nascondigli.
9. Prestò il primo servizio nella spedizione contro i Càntabri 30, come tribuno militare; poi, condotto un esercito in Oriente, restituì a Tigrane il regno d’Armenia 31 e gli pose in capo il diadèma regale dinanzi al suo tribunale. Recuperò anche le insegne che i Parti avevano tolto a Marco Crasso 32. Poi per quasi un anno resse la Gallia Cisalpina, in agitazione sia per incursioni di barbari, sia per i contrasti fra i capi locali. Successivamente condusse la guerra contro i Reti e i Vindelici, poi quella contro i Pannoni, poi quella contro i Germani 33. Con la guerra Retica e Vindelica soggiogò le popolazioni alpine, con la Pannonica i Breuci e i Dàlmati, con la Germanica trasferì in Gallia e stanziò, assegnando loro delle sedi lungo la riva del Reno, quarantamila uomini che si erano arresi. Per queste imprese potè rientrare in Roma con l’ovazione e su un carro, dopo essere stato in precedenza onorato – come ritengono alcuni – con le insegne trionfali: un tipo di onore nuovo, mai prima attribuito a nessuno. Iniziò la carriera politica prima del normale e ricoprì le cariche quasi una dopo l’altra, la questura, la pretura, il consolato; dopo qualche tempo, console per la seconda volta, ebbe anche la potestà tribunizia per un quinquennio.
10. Mentre tante fortune confluivano su di lui, nel pieno vigore dell’età e della salute, decise improvvisamente di appartarsi e togliersi di mezzo, più lontano possibile. E non si sa se ciò fu per disgusto della moglie – ch’egli non osava né incriminare né ripudiare, ma che neppure poteva sopportare – oppure per conservare, ed anche accrescere, restando lontano, la propria autorità – evitando di infastidire con la continua presenza – per quando un giorno lo Stato avesse bisogno di lui. Alcuni pensano che, poiché erano ormai adulti i figli di Augusto, spontaneamente egli cedette loro la posizione e, in certo modo, il possesso del secondo grado da lui a lungo tenuto. E lo avrebbe fatto sull’esempio di Marco Agrippa, il quale, una volta che Marco Marcello 34 era stato avviato alla carriera politica, se n’era andato a Mitilene, perché non sembrasse che egli, con la sua presenza, lo impacciasse o gli si mettesse contro. E proprio questa motivazione, sia pure più tardi, diede egli stesso. Ma, in quel momento, egli chiese la dispensa dal servizio adducendo la sazietà dei tanti onori che aveva, e la voglia di riposarsi dalle fatiche; e non cedette né alle suppliche della madre, né al patrigno che anche in Senato lamentò di essere abbandonato. Anzi, poiché con troppa insistenza volevano trattenerlo, per quattro giorni si astenne da ogni cibo. Ottenuto finalmente il permesso di andarsene, lasciati a Roma la moglie e il figlio, sùbito scese ad Ostia, senza rispondere nemmeno una parola a quelli che lo accompagnavano, e, all’atto della separazione, scambiando baci solo con pochissimi.
11. Partito da Ostia, mentre costeggiava la Campania, gli giunse la notizia di una malattia di Augusto, e per un po’ si fermò. Ma, poiché si andava diffondendo la voce ch’egli stesse attendendo per cogliere l’occasione di una ben maggiore prospettiva, nonostante il tempo poco meno che avverso, fece rotta verso Rodi: dalla bellezza e dalla salubrità di quell’isola era stato conquistato già da quando vi era approdato mentre tornava dall’Armenia. Lì, accontentandosi di un’abitazione modesta e di una villetta poco più grande in periferia, iniziò un tipo di vita del tutto simile a quella di un cittadino privato, recandosi ogni tanto al ginnasio senza littore o battistrada, e intrattenendo cordiali rapporti quasi da pari a pari con alcuni semplici Greci. Per caso, una mattina, nell’organizzare la sua giornata, aveva preannunciato che intendeva visitare tutti i malati che ci fossero in città. Ciò fu frainteso dai suoi dipendenti, i quali disposero che tutti i malati fossero portati in un pubblico porticato e suddivisi per generi di malattia. Sconcertato da questa situazione inattesa, e dopo essere a lungo rimasto incerto sul da fare, finalmente si soffermò presso ciascuno di essi, scusandosi del fatto anche con tutti i più umili e sconosciuti. Ci fu un solo caso – e non se ne ricordano altri –, in cui sembrò ch’egli facesse valere la sua autorità tribunizia. Poiché frequentava assiduamente le scuole e le conferenze degli esponenti della cultura, una volta che sorse un’aspra lite tra sostenitori di idee opposte, ci fu uno che, quando egli intervenne nella discussione, lo investì con male parole, come troppo incomodo sostenitore della tesi opposta alla sua. Allora Tiberio, tornato tranquillamente a casa, improvvisamente si presentò fuori con i littori, e, citato dinanzi al suo tribunale, per voce del banditore, quello che lo aveva insultato, lo fece gettare in carcere. Più tardi seppe che sua moglie Giulia era stata condannata per la sua scostumatezza e per i suoi adulterii, e che da Augusto le era stato notificato il ripudio a nome suo; Tiberio, benché lieto della notizia, ritenne però suo dovere, per quanto stava in lui, pregare con frequenti lettere il padre in favore della figlia e, per quanto essa meritasse la sua sorte, di lasciarle tutto ciò che lui, Tiberio, le aveva donato. Poi, trascorso il tempo della sua potestà tribunizia, riconoscendo finalmente che con il suo ritiro aveva solo voluto evitare il sospetto di rivalità nel confronti di Gaio e Lucio, chiese che, ormai tranquillo da questa parte – poiché i due giovani erano cresciuti e, data la loro posizione, si potevano facilmente salvaguardare – gli fosse consentito di rivedere i suoi cari, di cui sentiva la mancanza. Ma non l’ottenne; anzi, fu per giunta ammonito a mettere da parte ogni interesse per i suoi, che tanto aveva desiderato di lasciare.
12. A malincuore rimase dunque a Rodi, ottenendo a stento, per intercessione della madre, che, per mascherare la vergogna, egli risultasse assente da Roma come legato di Augusto. In realtà, in quel periodo egli visse non solo da privato, ma anche come se avesse la coscienza sporca e pieno di timore, rintanato in campagne dell’interno ed evitando gli omaggi di quelli che facevano scalo nell’isola, i quali lo visitavano continuamente: non c’era nessuno, che avesse un’autorità militare o civile, che, dovunque fosse diretto non facesse una puntata a Rodi. Si aggiunsero anche altri motivi di maggiore preoccupazione: passato a Samo per andare a trovare il figliastro Gaio, che aveva autorità su tutto l’Oriente, ne percepì l’ostilità, dovuta alle insinuazioni di Marco Lollio, suo compagno e consigliere. Venne anche in sospetto che, servendosi di alcuni centurioni nominati da lui – i quali tornavano ai loro quartieri da una licenza – egli avesse inviato a parecchie persone istruzioni equivoche, che poteva sembrare che sondassero l’atteggiamento di ciascuno in vista di un rivolgimento politico. Informato di questo sospetto da Augusto stesso, insistette nel chiedere qualcuno, di qualsiasi categoria sociale, che controllasse i suoi atti e le sue parole.
13. Mise da parte anche i consueti allenamenti a cavallo e con le armi, e, rinunciando agli abiti romani, si ridusse al pallio e ai sandali greci. In tale stato continuò per quasi due anni, ogni giorno più disprezzato e più malvisto. Gli abitanti di Nemauso 35 giunsero ad abbattere i suoi ritratti e le sue statue, e una volta, capitato durante un pranzo privato un accenno a lui, saltò fuori uno che promise a Gaio che, se glielo ordinava, si sarebbe recato a Rodi e gli avrebbe riportato la testa dell’esule – così infatti lo si chiamava. Soprattutto da questo, che non era più un suo timore, ma un reale pericolo, fu indotto a chiedere il ritorno con insistenti preghiere non solo sue ma anche della madre; e lo ottenne, favorito un poco anche dal caso. Augusto aveva stabilito di non decidere nulla a questo proposito se non affidandosi alla volontà del suo figlio maggiore; in quel momento, per combinazione, Gaio era piuttosto irritato contro Marco Lollio, per cui fu compiacente e arrendevole verso il patrigno. Dunque, con il consenso di Gaio egli fu richiamato, ma a patto che non si immischiasse o si interessasse del governo dello Stato.
14. Ritornò dopo sette anni di ritiro, con grandi e sicure speranze per il futuro, concepite fin da giovanissimo grazie a prodigi e predizioni. Livia, quando era incinta di lui, cercando di cogliere da vari presagi se avrebbe dato alla luce un maschio, tolse un uovo ad una gallina che lo covava, e lo scaldò ora di sua mano, ora per mano delle sue cameriere, finché ne venne fuori un pulcino con una magnifica cresta. Quando egli era bambino, l’astrologo Scribonio 36 gli predisse grandi cose, e addirittura che un giorno o l’altro sarebbe stato re, sia pure senza le insegne reali; e allora, naturalmente, era ancóra ignota la futura potenza dei Cesari. Allorché affrontò la sua prima spedizione militare, e conduceva l’esercito in Siria attraverso la Macedonia, accadde che a Filippi gli altari consacrati a suo tempo alle legioni vittoriose, spontaneamente si illuminarono di fiamme improvvise. Qualche tempo dopo, mentre era diretto in Illìrico, recatosi all’oracolo di Gerione, nei pressi di Pàdova 37, quando fu invitato, dalla sorte da lui estratta, a gettare dei dadi d’oro nella fonte di Apono 38, accadde che i dadi da lui gettati diedero la somma più alta: ancor oggi si vedono in fondo all’acqua quei dadi. Pochi giorni prima che egli fosse richiamato, un’aquila, mai prima vedùtasi a Rodi, si posò sul tetto della sua casa; e il giorno prima di essere informato del suo richiamo, mentre si cambiava d’abito, sembrò che la tunica prendesse fuoco. Anche l’astrologo Trasillo 39, che egli aveva accolto nella sua intimità come maestro di sapienza, proprio allora gli diede prova di sé, affermando che una nave, che era stata avvistata, gli portava una grande gioia: ed era proprio il momento in cui, mentre passeggiava insieme con lui, Tiberio aveva deciso di precipitare in mare l’astrologo come impostore e a torto reso partecipe di tanti segreti, dato che le cose andavano sempre peggio e contro le sue predizioni.
15. Ritornato a Roma, dopo aver presentato nel foro suo figlio Druso, sùbito dalle Carine e dalla casa di Pompeo si trasferì sull’Esquilino nei giardini di Mecenate, e si abbandonò tutto al riposo, compiendo solo i suoi doveri privati e tenendosi al di fuori di ogni funzione pubblica. Ma quando, nel giro di tre anni, morirono Gaio e Lucio, Tiberio fu adottato da Augusto – insieme con il loro fratello Marco Agrippa 40 – dopo essere stato costretto a sua volta ad adottare Germanico, figlio di suo fratello. Da allora non potè fare più nulla come padre di famiglia 41, né conservò affatto il suo diritto, che ormai aveva perduto: non potè fare donazioni né affrancare schiavi, e nemmeno accettare eredità o làsciti, se non a titolo di peculio. Da quel momento non si tralasciò nulla per accrescere il suo prestigio, e ancor più quando – revocata l’adozione di Agrippa e segregato lui stesso – era ormai certo che al solo Tiberio arrideva la prospettiva della successione.
16. Gli fu data di nuovo per un quinquennio la potestà tribunizia; gli fu affidato l’incarico di pacificare la Germania; gli ambasciatori dei Parti, dopo aver esposto ad Augusto, in Roma, ciò di cui erano stati incaricati, furono invitati a recarsi anche da lui, nella sua provincia. Ma, quando giunse notizia della defezione dell'illirico, si dedicò nei tre anni successivi alla cura di questa nuova guerra, che fu la più impegnativa fra tutte le guerre esterne dopo le guerre Puniche; egli la condusse avendo a disposizione quindici legioni e un pari numero di truppe ausiliarie, e si trovò in gravi difficoltà di ogni genere e in estrema scarsezza di viveri. E benché venisse richiamato indietro piuttosto spesso, tuttavia continuò a fare il suo dovere, temendo che il nemico, vicino e fortissimo, incalzasse le sue truppe ove si ritirassero. E la sua perseveranza fu largamente compensata, giacché egli domò e ridusse in suo potere l’intero Illìrico, che si estende fra l’Italia, il regno del Nòrico, la Tracia, la Macedonia, il Danubio e l’insenatura dell’Adriatico.
17. Ma incremento ancóra maggiore diede alla sua gloria la stessa opportunità dell’evento: press’a poco in quell’epoca Quintilio Varo perì in Germania con le sue tre legioni 42; e nessuno dubitava che, se prima non fosse stato fiaccato rillìrico, i Germani vincitori si sarebbero congiunti con i Pannoni. Per questi motivi a Tiberio fu decretato il trionfo e molti altri grandi onori. Alcuni proposero che gli fosse attribuito il soprannome di Pannònico, altri di Invitto, altri di Pio. Ma, quanto al soprannome, si oppose Augusto, assicurandogli però che sarebbe stato pago di quello che avrebbe assunto quando lui stesso fosse morto. Quanto al trionfo, lo rimandò Tiberio stesso poiché la città era costernata per la catastrofe di Varo. Entrò però in Roma rivestito della pretesta e incoronato d’alloro, e salì su una tribuna appositamente eretta nel recinto delle elezioni, mentre i senatori assistevano in piedi; sedette poi insieme con Augusto, tra l’uno e l’altro console; di lì, salutato il popolo, fu accompagnato in giro per i templi.
18. Nell’anno successivo, ritornato in Germania, rendendosi conto che la catastrofe di Varo era dovuta all’avventatezza e alla negligenza del condottiero, non fece alcuna azione senza aver sentito prima anche il parere dei suoi consiglieri: mentre in passato agiva di suo arbitrio e decidendo da sé solo, allora invece, contro la sua abitudine, si consultò sempre con parecchi sulla condotta della guerra. Di ogni cosa ebbe cura anche più attenta del solito. Accingendosi ad attraversare il Reno, non fece passare le salmerie — che aveva ridotto allo stretto necessario – prima di aver controllato, fermandosi sulla riva, il carico dei carri, perché non fosse portato nulla se non ciò che era autorizzato o necessario. Al di là del Reno, poi, adottò questa linea di condotta: prendeva il cibo sedendo sulla nuda terra, spesso passava la notte senza farsi erigere la tenda, dava per iscritto tutte le disposizioni per il giorno successivo e qualunque ordine improvviso si dovesse impartire; e aggiunse questo avvertimento, che se qualcuno aveva qualche dubbio su qualche cosa, ricorresse soltanto a lui, per chiarimenti, a qualunque ora del giorno o della notte.
19. Mantenne la disciplina con il massimo rigore, rifacendosi all’antichità per diversi tipi di punizione e di nota di biasimo, arrivando a bollare con una nota d’infamia un luogotenente di una sua legione, perché aveva mandato a caccia al di là del fiume pochi soldati, accompagnati da un suo liberto. Anche se lasciava ben poco alla fortuna e al caso, affrontava le battaglie con maggiore sicurezza ogni volta che, mentre lui vegliava nella notte, il lume cadeva improvvisamente e si spegneva senza che alcuno lo urtasse: confidava infatti – come affermava lui stesso – in questo presagio, sperimentato più volte da lui stesso e dai suoi antenati in ogni campagna di guerra. Ma una volta, dopo un successo, poco mancò che fosse ucciso da un Bructero: questi si aggirava tra i suoi intimi, e, quando fu scoperto grazie alla sua agitazione, con la tortura gli si estorse la confessione del progettato delitto.
20. Dalla Germania ritornato a Roma dopo due anni, celebrò quel trionfo che prima aveva rinviato; e lo accompagnarono anche i suoi luogotenenti, per i quali aveva ottenuto le insegne trionfali. Prima di piegare verso il Campidoglio, scese dal carro e si inginocchiò dinanzi al padre che presiedeva la cerimonia. Fece trasferire a Ravenna, dopo averlo colmato di grandi doni, il condottiero dei Pannoni Batone 43, in riconoscenza del fatto che una volta, mentre lui era chiuso con il suo esercito in luogo avverso, quello gli aveva consentito di venirne fuori. Poi offrì al popolo un pranzo di mille mense e una elargizione di trecento sesterzi a testa. Con il ricavato del bottino consacrò anche, a nome proprio e di suo fratello, un tempio alla Concordia ed uno a Castore e Polluce.
21. Non molto tempo dopo fu presentata dai consoli una legge che fissava che egli governasse le province insieme ad Augusto e insieme con lui provvedesse al censimento; celebrato dunque il lustro 44, partì per l’Illìrico. Ma sùbito, durante il viaggio, fu richiamato, e trovò Augusto già ammalato ma ancóra vivo, e con lui stette da solo a solo per l’intera giornata. So che si è generalmente convinti che, quando Tiberio uscì dopo il colloquio segreto, dai camerieri sarebbero state colte queste parole di Augusto: «Povero Popolo Romano, che si troverà sotto mascelle così lente!». So pure che alcuni hanno raccontato che Augusto riprovava apertamente, senza fame mistero, la durezza del suo carattere, tanto che talvolta, al sopraggiungere di lui, troncava le conversazioni un po’ frivole e allegre; eppure, vinto dalle preghiere della moglie, avrebbe accettato di adottarlo, magari anche spinto dall’ambizione, per essere lui stesso, un giorno o l’altro, con un tale successore, maggiormente rimpianto. Ma io non so indurmi a credere che un principe tanto circospetto e prudente, soprattutto in una faccenda tanto delicata ed importante, abbia agito avventatamente; penso piuttosto che Augusto, soppesati i difetti e le doti di Tiberio, abbia ritenuto prevalenti le doti, soprattutto perché giurò in pubblica adunanza che lo adottava nell’interesse dello Stato, e anche perché in alcune lettere lo complimenta come valentissimo condottiero e unico presidio del Popolo Romano. Di queste lettere ho stralciato qua e là, a titolo di esempio, alcuni passaggi: «Salve, carissimo Tiberio: e conduci felicemente l’impresa, ἐμοὶ καὶ ταῖς Μούσαις, ἄριστε στρατηγῶν 45, carissimo»; e «Così possa essere fortunato io! Salve, o uomo valorosissimo e νομιμώτατε condottiero». «Che ordine nei tuoi quartieri estivi! Io credo, Tiberio mio, che fra tante difficoltà καὶ τοσαύτην ἀποθυμίαν τῶν στρατευομένων 46 nessuno avrebbe potuto comportarsi più saggiamente di te. Anche tutti quelli che erano con te proclamano che si potrebbe applicare a te quel famoso verso:
«Un solo uomo, vigilando attento,
ci ha salvato la Patria 47».
«O che mi capiti qualcosa su cui io debba meditare attentamente, o ch’io sia disgustato di qualche altra, sento sempre, per Giove, la mancanza del mio Tiberio, e mi viene in mente quel verso di Omero:
Insieme a lui, anche dal fuoco ardente
noi scamperemmo, tanto egli è geniale 48.
Quando leggo o sento che sei estenuato dalle continue fatiche, mi dànnino gli dèi se non è vero che rabbrividisco in tutto il corpo; ti prego, rispàrmiati: se dovessimo sentire che sei malato, tua madre e io ne moriremmo, e il Popolo Romano vedrebbe in pericolo il suo impero». «Non ha alcuna importanza che io stia bene o non bene, se non starai bene tu». «Prego gli dèi che a noi ti conservino, e ora e sempre ti làscino star bene, se non han preso in odio il popolo Romano».
22. Non rese nota la morte di Augusto prima di aver eliminato il giovane Agrippa. Lo uccise un tribuno militare dopo aver letto lo scritto con cui gli si ordinava di farlo; non si seppe mai se questo scritto lo avesse lasciato Augusto in punto di morte – per non lasciare dietro di sé motivi di disordini – o, a nome di Augusto, lo avesse dettato Livia, e, in questo caso, se lo fece con la complicità di Tiberio o a sua insaputa. Tiberio, quando il tribuno gli riferì che l’ordine era stato eseguito, rispose che lui non aveva ordinato nulla, e che esso ne avrebbe reso conto in Senato. Evidentemente voleva in quel momento evitare l’odiosità. In realtà, della faccenda poi non si parlò più.
23. Convocato il Senato, in base al diritto datogli dalla potestà tribunizia, e incominciato il suo discorso, improvvisamente, come sopraffatto dal dolore, cominciò a piangere; si augurò allora che non solo la voce ma anche la vita gli mancasse, e diede al figlio Druso il testo da finire di leggere. Fu poi portato il testamento di Augusto, e ne furono ammessi solo i firmatari dell’ordine senatorio, mentre gli altri riconobbero i loro sigilli fuori della Curia. Lo fece leggere da un liberto. Il testamento cominciava così: «Poiché la sorte crudele ha rapito i miei figli Gaio e Lucio, sia mio erede Tiberio Cesare, per la metà più un sesto». Anche da ciò fu accresciuto il sospetto di quelli che erano convinti che egli era stato assunto a successore per necessità più che per deliberato proposito, visto che non aveva rinunciato a fare quella premessa.
24. Sebbene non avesse esitato ad assumere immediatamente e ad esercitare il principato – prendendosi anche una scorta di soldati, cioè la forza e l’aspetto esteriore del potere – a lungo però lo rifiutò: con impudente commedia ora rimproverava gli amici che lo incoraggiavano, perché non sapevano che grossa bestia fosse il potere, ora teneva in sospeso, con ambigue risposte e con astuto temporeggiare, il Senato che lo pregava e che si gettava ai suoi piedi.
Cosicché alcuni persero la pazienza, e uno, in mezzo alla confusione, gridò: «Che accetti o che rinunci!», e un altro, senza infingimenti, gli fece notare che gli altri mantenevano tardi ciò che promettevano, mentre lui prometteva tardi ciò che manteneva. Finalmente, quasi costretto, e lamentando che gli veniva imposta una misera e pesante schiavitù, accettò il potere, non senza lasciar balenare la prospettiva che un giorno o l’altro lo avrebbe deposto. Le sue parole furono esattamente queste: «... finché io giunga a quel momento in cui possa sembrarvi giusto concedere un qualche riposo alla mia vecchiaia».
25. Il motivo di quel suo temporeggiare era la paura dei pericoli che gravavano su di lui da ogni parte, tanto che spesso diceva di aver preso il lupo per le orecchie. In effetti, anzitutto uno schiavo di Agrippa 49, di nome Clemente, aveva messo insieme una banda niente affatto disprezzabile per vendicare il suo padrone; poi il nobile Lucio Scribonio Libone 50 macchinava clandestinamente un rivolgimento politico; infine, due rivolte militari erano scoppiate, una in Illìrico e un’altra in Germania. Entrambi gli eserciti reclamavano molte concessioni straordinarie, e prima di tutto di essere equiparati economicamente ai pretoriani. Le truppe stanziate in Germania, per di più, non volevano saperne di un principe non designato da loro, e con la massima energia premevano su Germanico 51 – che a quell’epoca era al loro comando – perché prendesse le redini dello Stato, sebbene egli si opponesse recisamente. Soprattutto temendo proprio questo, Tiberio chiese di assumere il controllo di quei settori dello Stato che al Senato piacesse concedergli: nessuno era in grado addossarselo lui solo per intero, ma semmai condividendolo con un altro o con più d’uno. Fingeva anche una salute malferma, perché Germanico aspettasse più tranquillamente la vicina successione o anche soltanto l’associazione al potere. Domate le sedizioni, riuscì anche a catturare Clemente, adescato con un inganno. Quanto a Libone, per non agire troppo duramente agli inizi del principato, lo accusò in Senato soltanto più di un anno dopo, accontentandosi, nel frattempo, di stare in guardia. Per esempio, quando quello, tra gli altri pontefici, celebrò un sacrificio insieme con lui, gli fece consegnare un coltello di piombo anziché quello rituale; e quando esso gli chiese un’udienza privata, gliela concesse, ma fece venire anche suo figlio Druso, e, finché durò il colloquio, tenne stretto a Libone il braccio destro, mentre passeggiava, come se vi si appoggiasse.
26. Una volta liberato dal timore, agli inizi si comportò assai moderatamente, poco meno che un cittadino privato. Gli venivano offerti moltissimi e grandissimi onori, ma egli ne accettò solo pochi e modesti. Il suo compleanno, che coincideva con i Ludi Plebei nel circo, lasciò sì che venisse onorato, ma con l’aggiunta di una sola biga. Si oppose a che gli venissero decretati templi e flàmini e sacerdoti, e persino che gli venissero erette statue e ritratti senza sua espressa autorizzazione; e il permesso lo diede alla sola condizione che non si collocassero fra le statue degli dèi, ma tra gli ornamenti degli edifici. Pose il veto a che si giurasse sui suoi atti e a che il mese di Settembre si denominasse Tiberio e quello di Ottobre Livio. Rifiutò pure il prenome di Imperatore, l’appellativo di Padre della Patria e la corona civica nel vestibolo del suo palazzo. Neppure si aggiunse il nome di Augusto (sebbene ereditario), se non nelle lettere destinate ai re e ai principi stranieri. Dal principato in poi non esercitò più di tre consolati, uno per pochi giorni, il secondo per tre mesi, e il terzo fino a metà maggio, mentre era assente da Roma.
27. A tal punto aborriva le adulazioni, che nessun senatore egli volle che si avvicinasse alla sua lettiga per rendergli omaggio o per parlare di affari; e una volta, ad un uomo di rango consolare, che per fargli accettare le proprie scuse cercava di abbracciargli le ginocchia, si sottrasse così bruscamente che cadde a terra supino. E poi, se in una conversazione o in un discorso si parlava di lui in tono troppo adulatorio, non esitava a interrompere chi parlava, e a rimproverarlo e a fargli cambiare sùbito tono. Una volta che un tale lo chiamò padrone, gli intimò di smetterla di parlargli offensivamente. A un altro che definiva sacre le sue occupazioni, e a un altro ancóra che diceva di essersi recato in Senato per ordine suo, fece cambiare le parole e, anziché ordine, dire consiglio, e anziché sacre, dire laboriose.
28. Ma anche nei confronti delle ingiurie, delle malignità e dei versi infamanti, scritti su di lui e sui suoi cari, tetràgono e paziente ripeteva spesso che in una città libera la parola e il pensiero dovevano essere liberi. Una volta che il Senato chiedeva che si procedesse contro simili delitti e simili criminali, egli disse: «Non abbiamo tempo da perdere per invischiarci in altre questioni: se darete la stura a queste faccende, non avrete più tempo per occuparvi d’altro: con questa scusa si deferiranno a voi tutti i rancori personali». Ci resta una sua frase, assai moderata, ch’egli pronunciò in Senato: «Se parlerà diversamente, cercherò di rendergli conto dei miei atti e delle mie parole; se però insisterà, lo odierò a mia volta».
29. E tutto ciò è tanto più notevole, perché Tiberio stesso, nel rivolgersi rispettosamente sia a ciascuno singolarmente, sia a tutti quanti insieme, era di una cortesia quasi eccessiva. Una volta, essendo in disaccordo con Quinto Aterio, gli disse: «Ti prego di scusarmi se, come senatore, parlerò contro di te con troppa libertà». Poi, rivolgendosi a tutti: «Ho detto ora, e spesso anche in altre occasioni, Signori Senatori, che un principe buono e sollecito del bene di tutti, quel principe a cui voi avete attribuito tanto e così discrezionale potere, deve sentirsi al servizio del Senato e di tutti i cittadini, spesso, anzi, per lo più, al servizio di ciascuno di essi. E non mi pento di aver detto ciò: io ho avuto in voi, ed ho tuttora, dei padroni buoni, giusti e benevoli».
30. Arrivò anzi a introdurre una certa parvenza di libertà, conservando al Senato e alle cariche dello Stato l’antico prestigio e potere. Non ci fu questione né tanto piccola né tanto grande, di ambito pubblico o privato, di cui non si riferisse al Senato: imposte e monopòli, costruzione e restauro di edifici, leva e congedo di soldati, ripartizione delle legioni e delle truppe ausiliarie, proroghe di potere da concedere, guerre straordinarie da affidare, contenuto e forma di lettere da inviare in risposta a sovrani stranieri. Al comandante di uno squadrone di cavalleria, che era imputato di violenza e di rapina, ordinò di sostenere la sua causa in Senato. Nella Curia entrò sempre da solo; una volta, portatovi dentro in lettiga, perché malato, allontanò poi la sua scorta.
31. Neppure si lamentò che certe decisioni venissero prese contro il suo parere. Per esempio, mentre egli sosteneva che le autorità costituite non dovessero assentarsi da Roma, per dedicarsi di persona alla loro carica, uno, che era stato eletto pretore, ottenne una libera legazione. Un’altra volta, mentre egli era del parere che agli abitanti di Trevi fosse concesso di destinare a costruire una strada una somma da essi ereditata per la costruzione di un nuovo teatro, non riuscì ad averla vinta, e fu ratificata la volontà del testatore. Una volta che per un decreto senatorio si votava per separazione 52, egli passò dalla parte della minoranza, e nessuno lo seguì. Anche tutte le altre questioni venivano trattate dalle diverse autorità e secondo il diritto ordinario; e tanto fu il prestigio dei consoli, che certi ambasciatori provenienti dall’Africa si rivolsero ad essi lamentando di essere tenuti sulla corda da Cesare, a cui erano stati inviati. E non c’è da stupirsene, visto che era ben noto che Tiberio stesso si alzava in piedi dinanzi ad essi e cedeva loro il passo.
32. Rimproverò anche uomini di rango consolare, preposti agli eserciti, perché non riferivano al Senato sulle loro azioni di guerra, e perché, per l’assegnazione di certi premi militari, ricorrevano a lui, come se non avessero l’autorità di attribuirli tutti essi stessi. Lodò invece un pretore, perché, entrato in carica, aveva ripreso l’antica tradizione di ricordare i suoi antenati dinanzi all’assemblea. Accompagnò sino al rogo i funerali di certi personaggi illustri. La stessa modestia egli mostrò nel caso di persone o cose di minore importanza. Convocate a Roma alcune autorità di Rodi, perché gli avevano inviato una lettera ufficiale senza la rituale sottoscrizione, non disse loro neppure una parola di rimprovero, ma si limitò a invitarli ad aggiungere la sottoscrizione. Il grammatico Diogene era solito tenere a Rodi le sue lezioni il sabato; e quando Tiberio si era recato da lui per ascoltarlo in via straordinaria in un altro giorno, quello non lo aveva ricevuto e, per bocca di un suo schiavetto, gli aveva fatto dire di tornare nel settimo giorno; ebbene, quando Diogene si presentò alla sua porta, a Roma, per salutarlo, gli fece solo comunicare che tornasse al settimo anno. A certi governatori che suggerivano di caricare di ulteriori tributi le province, rispose che compito di un buon pastore è tosare le pecore, e non scorticarle.
33. Un po’ alla volta, però, si rivelò vero principe, e si mostrò, anche se per parecchio tempo di umore variabile, tuttavia più spesso ben disposto e piuttosto attento al bene della comunità. Dapprima interveniva solo per evitare che qualcosa non si facesse a dovere. Così appunto annullò alcune deliberazioni del Senato, e molte volte si offriva come consigliere a magistrati che istruivano processi: si sedeva accanto a loro, o di fronte, in prima fila. E se circolava la voce che un imputato se la cavava grazie a raccomandazioni, improvvisamente si presentava e, o dal basso, o salendo sulla tribuna del magistrato inquirente, ricordava ai giudici le leggi, la loro coscienza, il reato su cui indagavano. Inoltre, se qualcosa, nella pubblica moralità, si deteriorava o per negligenza o cattiva abitudine, si assunse il compito di restaurarla.
34. Ridusse drasticamente le spese per i giochi e per gli spettacoli, decurtando i compensi degli attori e riducendo a un determinato numero le coppie di gladiatori. Deplorando duramente che i prezzi dei vasi di Corinto fossero saliti alle stelle e che tre triglie si fossero pagate trentamila sesterzi, propose che si ponesse un freno all’arredamento, e che i prezzi delle derrate alimentari fossero regolati ogni anno a discrezione del Senato. Intanto agli edili veniva affidato l’incarico di sorvegliare le bettole e le taverne, perché non vi fosse consentita nemmeno la vendita di prodotti di pasticceria. E per incoraggiare con l’esempio la pubblica parsimonia, egli stesso nei pranzi importanti faceva spesso servire cibi avanzati il giorno prima, e magari già incominciati, e anche mezzo cinghiale, affermando che esso aveva esattamente lo stesso sapore di un cinghiale intero. Vietò con un editto che ci si salutasse ogni giorno con il bacio e che si praticasse lo scambio di strenne al di là del Capodanno: era abituato a ricambiare le strenne con altre di valore quadruplo, e a consegnarle di sua mano; ma, stanco di essere importunato per tutto il mese da quelli che non avevano potuto avvicinarlo in quel giorno festivo, non sopportò più oltre la faccenda.
35. Le matrone che si prostituivano, e a cui mancasse un accusatore pubblico, dispose che fossero accusate, con decisione comune, dai parenti, secondo l’uso degli antichi. Sciolse dal giuramento un cavaliere romano, che appunto aveva giurato di non ripudiare mai la moglie, consentendogli così di liberarsene, dopo che era stata scoperta in adulterio con il genero. Alcune donne di cattiva reputazione, per perdere il diritto e la dignità di matrone allo scopo di evitare la pena fissata dalle leggi, cominciavano a dichiararsi prostitute, e tutti i giovani più depravati di entrambe le classi sociali, affrontavano volontariamente la nota d’infamia per non essere impediti da un decreto del Senato di esibirsi sul palcoscenico e sull’arena: ebbene, tutti costoro, maschi e femmine, perché nessuno avesse una via di scampo in simili gherminelle, Tiberio li esiliò. Ad un senatore egli tolse il laticlavio, quando seppe che intorno al primo di Luglio quello si era trasferito in campagna, per poter prendere in affitto a minor prezzo, dopo quella data, una casa in città 53. Ad un altro tolse la carica di questore perché, dopo aver preso moglie alla vigilia del sorteggio delle province, il giorno appresso l’aveva ripudiata.
36. Represse i culti stranieri e i riti egiziani e giudaici, costringendo quelli che professavano tali culti a bruciare le vesti da cerimonia e tutto l’arredo sacro. Col pretesto del servizio militare distribuì in province dal clima piuttosto malsano i giovani giudei, e allontanò dalla capitale gli altri dello stesso popolo e quelli che seguivano culti simili ad essi, sotto pena di perpetua schiavitù se non avessero obbedito 54. Cacciò pure gli astròlogi; poi però, quando lo supplicarono e promisero che avrebbero rinunciato alla loro professione, li perdonò.
37. Particolare cura egli ebbe di tutelare la tranquillità dei cittadini contro ladri e briganti, e contro gli eccessi delle sommosse. In tutta Italia dispose qua e là distaccamenti militari più numerosi di prima. A Roma costituì una caserma in cui venissero alloggiate le coorti pretoriane, che fino a quel momento non avevano sede fissa ed erano sparse qua e là in diversi alloggiamenti. Quanto ai tumulti popolari, li represse assai duramente dopo che erano sorti, ma evitò il più possibile che sorgessero. Quando ci furono in teatro alcuni morti per una rissa, esiliò i capi delle due fazioni e gli attori per i quali era sorta la lite; e nessuna preghiera del popolo potè mai indurlo a richiamarli. Una volta la plebaglia di Pollenza non lasciò uscire dal foro il funerale di un primipilare 55 se non dopo aver estorto agli eredi, con la forza, il denaro per uno spettacolo di gladiatori; allora Tiberio fece partire una coorte da Roma e un’altra dal regno di Cozio – senza far conoscere il motivo del viaggio –; ed esse, estratte improvvisamente le armi e dato fiato alle trombe, entrarono in città attraverso porte opposte: così egli gettò per sempre in prigione la maggior parte di quella plebe e dei decurioni. Abolì anche il tradizionale diritto d’asilo, dovunque ancóra ci fosse. Agli abitanti di Cìzico, che avevano osato qualche violenza nei confronti di cittadini romani, tolse collettivamente la libertà che avevano meritato durante la guerra Mitridàtica. I movimenti dei nemici esterni egli bloccò, senza intraprendere alcuna spedizione, per opera dei suoi generali, e, anche per opera loro, soltanto con esitazione e in caso di necessità. I sovrani stranieri ostili e sospetti egli represse più con minacce e lagnanze che con la forza; alcuni, però, dopo averli attirati presso di sé con lusinghe e promesse, non li rimandò più indietro, come il germano Marobodo, il trace Rascupori, il cappadoce Archelào 56: di quest’ultimo ridusse il regno a provincia romana.
38. Per due anni di séguito dopo l’assunzione del potere, non mise piede fuori Roma; successivamente, non si allontanò che per recarsi in località vicine e, al massimo, ad Anzio 57, e per di più raramente e per pochi giorni, sebbene avesse spesso dichiarato che intendeva tornare a visitare le province e gli eserciti, e quasi ogni anno preparasse la partenza, radunando i mezzi di trasporto e disponendo tutto il necessario lungo municipi e colonie, lasciando persino che si facessero pubbliche preghiere per la sua partenza e per il suo ritorno: cosicché per scherzo lo si chiamava comunemente Callippide, di cui si diceva, con proverbio greco, che corresse sempre ma non avanzasse nemmeno di un cubito.
39. Ma, quando rimase privo di entrambi i figli, Germanico morto in Siria e Druso a Roma, cercò la solitudine della Campania; e quasi tutti erano convinti e andavano dicendo che non ne sarebbe più ritornato, anzi, che presto sarebbe morto. E mancò poco che entrambe le previsioni risultassero vere: a Roma non ritornò più, e pochi giorni dopo, nei pressi di Terracina, in una villa di campagna chiamata la Spelonca, mentre egli pranzava, casualmente caddero giù parecchi grossi blocchi di pietra, e, mentre molti dei convitati e dei camerieri ne furono schiacciati, Tiberio inaspettatamente si salvò.
40. Percorsa la Campania, dopo aver consacrato a Capua un Campidoglio e a Nola un tempio di Augusto – che era il motivo addotto per la partenza –, si recò a Capri, particolarmente attratto da quell’isola, perché la si raggiungeva da un solo e piccolo litorale, mentre tutto intorno c’erano altissime rupi scoscese e mare profondo. Ma sùbito il popolo lo supplicò insistentemente di ritornare: c’era stata una catastrofe intorno a Fidene, dove, per il crollo dell’anfiteatro durante uno spettacolo di gladiatori, erano perite più di ventimila persone. Tiberio tornò allora sul continente e diede a tutti la possibilità di avvicinarlo, e ciò è tanto più notevole perché, uscendo da Roma, aveva ufficialmente avvertito che non lo disturbassero, e durante tutto il viaggio aveva fatto allontanare quelli che volevano avvicinarlo.
41. Ritornato nell’isola, a tal punto rifiutò di occuparsi della cosa pubblica, che da allora non reintegrò più le decurie dei cavalieri né i tribuni militari e i comandanti di cavalleria; non cambiò i governatori delle province, tenne per alcuni anni la Spagna e la Siria senza legati consolari, lasciò che i Parti occupassero l’Armenia, che i Daci e i Sàrmati devastassero la Mesia, e i Germani le Gallie 58: tutto ciò con grande discredito e non minore pericolo per l’impero.
42. Ma in questa segregazione, ritrovata la sua libertà, e, in certo modo, tenuti alla larga gli occhi dei cittadini, sfogò finalmente e contemporaneamente tutti i suoi vizi, a lungo mal dissimulati. Ne parlerò dettagliatamente, cominciando dai primi. Ancora agli inizi del servizio militare, per l’eccessiva avidità di vino, lo chiamavano «Biberio» anziché Tiberio, e «Caldio» anziché Claudio, e «Merone» anziché Nerone 59. Più tardi, ormai principe, proprio mentre andava moralizzando la vita della comunità, trascorse una notte e due giorni, senza sosta, banchettando e bevendo insieme con Pomponio Fiacco e Lucio Pisone 60; e sùbito dopo affidò all’uno la provincia di Siria, all’altro la prefettura della capitale, proclamandoli anche per iscritto amici carissimi di tutte le sue ore. Con Sestio Gallo, un vecchio libidinoso e scialacquatore, già bollato d’ignominia da Augusto, e rimproverato da lui stesso in Senato pochi giorni prima, accettò di cenare a patto che non cambiasse o togliesse nulla dalle sue abitudini, e che la cena fosse servita da fanciulle nude. Una volta, per la questura antepose a candidati nobilissimi uno del tutto sconosciuto, perché questo, durante un banchetto, aveva bevuto un’intera anfora di vino offertagli da lui. Donò duecentomila sesterzi ad Asellio Sabino per un dialogo in cui quello aveva rappresentato una gara tra un fungo, un beccafico, un’ostrica e un tordo. Infine istituì una nuova carica, quella di addetto ai piaceri, preponendovi il cavaliere romano Tito Cesonio Prisco.
43. Nel suo isolamento di Capri escogitò anche dei salottini con divani, sede segreta delle sue libidini, nella quale gruppi di fanciulle e di invertiti, nonché gli inventori di accoppiamenti mostruosi – che egli chiamava spintrie – in triplice catena si prostituivano vicendevolmente davanti a lui, per eccitare con tale spettacolo la sua libidine ormai declinante. Camere da letto, disposte in vari luoghi, egli adornò con quadretti e statuette derivate dalle pitture e sculture più lascive, e le dotò dei libri di Elefantide 61, perché a nessuno mancasse, nelle sue prestazioni, un modello per la posizione ordinatagli. Escogitò anche, qua e là nelle selve e nei boschetti, dei luoghi dedicati a Venere e giovani d’ambo i sessi che si prostituivano negli antri e nelle cavità delle rocce, in aspetto di piccoli Pan e di Ninfe. Non per niente ormai lo chiamavano apertamente e dappertutto, traendo la parola dal nome dell’isola, Caprino.
44. Si macchiò di turpitudini ancóra più vergognose, tanto che a stento si possono riferire o ascoltare, e a maggior ragione credere: avrebbe addestrato dei bambini di tenerissima età, che egli chiamava pesciolini, ad aggirarsi e a scherzare tra le sue cosce mentre lui nuotava, lievemente leccandolo e mordicchiandolo; e bambini più grandicelli, ma non ancóra svezzati, avrebbe accostato al suo membro, come a un capezzolo: a questo tipo di libidine era indubbiamente più portato, sia per natura, sia per l’età. Una volta anche il quadro di Parrasio 62, in cui Atalanta con la bocca soddisfa Meleagro 63, gli fu lasciato in eredità con la condizione che, se egli si sentiva a disagio per il soggetto, ricevesse in cambio di esso un milione di sesterzi; ebbene, egli naturalmente non solo preferì il quadro, ma addirittura lo collocò nella sua camera da letto. Si racconta pure che una volta, in occasione di un sacrificio, egli, conquistato dalla bellezza dell’inserviente che gli porgeva il turibolo, non riuscì a trattenersi, e, appena finita la cerimonia, trattolo in disparte, sùbito, sul posto, lo stuprò insieme a un fratello di lui, flautista; e poco dopo fece spezzare le gambe ad entrambi, perché si erano rinfacciati a vicenda quell’atto vergognoso.
45. Quanto fosse abituato a giocare con la vita delle donne, anche illustri, apparve chiaramente dalla fine che fece una certa MalIonia: l’aveva attirata a sé, ma quella rifiutava decisamente di subire dell’altro ancóra; allora lui scatenò contro di lei dei delatori, e, anche imputata, non cessò di domandarle se si fosse pentita, finché essa, lasciato il tribunale, si precipitò a casa e si trafisse con un’arma, dopo avere a chiara voce vituperato l’oscenità della bocca di quel vecchio irsuto e ripugnante. Fu così che nei giuochi che seguirono, in un’Atellana con funzione di epilogo, fu applaudita entusiasticamente e divenne popolare la battuta che «il caprone ormai vecchietto lecca il sesso alla capretta».
46. Parsimonioso e addirittura avaro, ai suoi compagni di viaggi o di spedizioni militari non diede mai un’indennità, ma si limitò al loro mantenimento. Un solo gesto di liberalità egli compì nei loro confronti, ma a spese del patrigno, quando, divìsili in tre categorie secondo il rango di ciascuno, alla prima assegnò seicentomila sesterzi, alle seconda quattrocentomila, alla terza – che egli chiamava non di amici, ma di Greci – duecentomila.
47. Da principe non compì alcuna costruzione grandiosa: le sole che aveva intrapreso – un tempio di Augusto e il restauro del teatro di Pompeo –, dopo tanti anni lasciò incompiute. Non diede nemmeno pubblici spettacoli; e assai raramente assistette a quelli dati da altri, per evitare che gli venissero fatte delle richieste, soprattutto dopo che era stato costretto ad affrancare l’attore comico Azio. Dopo aver sostenuto economicamente pochi senatori, per non aiutarne altri disse che non avrebbe sovvenzionato più nessuno, se l’interessato non avesse dimostrato al Senato di averne giusti motivi. Con ciò scoraggiò parecchi che si sentivano umiliati e si vergognavano: tra questi anche Ortalo, nipote dell’oratore Quinto Ortensio 64, il quale, pur con un modesto patrimonio, dietro sollecitazione di Augusto aveva allevato quattro figli.
48. Soltanto due volte si mostrò generoso nei confronti del popolo: una prima volta quando mise a disposizione per tre anni cento milioni di sesterzi, senza alcun interesse; una seconda, quando rimborsò il danno ad alcuni proprietari di casamenti che erano stati distrutti dal fuoco sul colle Celio. Al primo esborso fu costretto dalla grande scarsezza di denaro liquido, per la quale il popolo reclamava aiuto – Tiberio aveva già sancito, mediante un decreto del Senato, che chi prestava denaro dovesse investire in terreni i due terzi del suo capitale, e che i debitori pagassero immediatamente la stessa percentuale del loro debito; ma la crisi non si era risolta –; quanto al secondo, vi fu costretto per alleggerire l’estrema gravità del momento; ma considerò così importante il beneficio concesso, che volle che il colle Celio, cambiando nome, si chiamasse Augusto. Ai militari, dopo aver raddoppiato il làscito di Augusto ad essi destinato, non fece più alcun donativo, tranne uno di mille denari a ciascuno dei pretoriani, perché non si erano associati a Seiano 65, e alcune somme alle legioni di Siria, perché, uniche, non avevano onorato il ritratto di Seiano tra le loro insegne. Rarissimi furono pure i congedi definitivi da lui concessi ai veterani: mirava alla loro morte per vecchiaia e al vantaggio che a lui derivava dalla loro morte. Neppure le province egli alleggerì con alcuna liberalità, tranne la provincia d’Asia, quando alcune sue città furono distrutte da un terremoto.
49. Col passare del tempo rivolse l’animo anche a vere e proprie rapine. Pare accertato che l’augure Gneo Lentulo, che aveva un ingentissimo patrimonio, fu da lui spinto, con la paura e l’angoscia, al disgusto della vita e a morire lasciando erede soltanto lui; e fu da lui condannata la nobilissima Lepida 66 per ingraziarsi Quirino, che, già console, ricchissimo e senza figli, dopo averla ripudiata vent’anni prima, ora l’accusava di avere a suo tempo tentato di avvelenarlo. Furono anche confiscati gli averi dei più eminenti cittadini delle Gallie, delle Spagne, della Siria e della Grecia, con calunnie così inconsistenti e spudorate, che ad alcuni non fu rinfacciato altro che il fatto che tenessero in contanti una parte del patrimonio. A parecchie città e privati cittadini furono tolte antiche esenzioni e i diritti di sfruttare miniere e di imporre tributi. Anche Vonone, re dei Parti, che, scacciato dai suoi compatrioti, con un ingente tesoro si era rifugiato ad Antiochia affidandosi praticamente alla protezione del Popolo Romano, fu perfidamente spogliato ed ucciso 67.
50. Rivelò il suo odio contro i parenti anzitutto nel caso del fratello Druso – quando divulgò una lettera, in cui quello si rivolgeva a lui per costringere insieme Augusto a restaurare la libertà –, poi anche nel caso degli altri. Alla moglie Giulia, sempre relegata, fu tanto lontano dal mostrare qualche segno di cortesia e di umanità – e sarebbe stato il minimo –, che anzi, chiusa per ordine del padre in una sola città, le vietò persino di uscire di casa e di avere contatti con uomini. La defraudò anche del peculio concessole dal padre, e delle sue rendite annue, col pretesto del diritto pubblico, dato che Augusto non aveva disposto niente a proposito di ciò nel suo testamento. Mal sopportando la madre Livia, come se essa rivendicasse una parte di potere uguale alla sua, evitò di incontrarla troppo spesso e di avere con lei lunghi colloqui a tu per tu, per non sembrare guidato dai suoi consigli, dei quali lui tuttavia aveva spesso bisogno e li seguiva. Considerò un’indegnità il fatto che si fosse ventilata in Senato la proposta che ai suoi titoli si aggiungesse, come figlio di Augusto, così anche figlio di Livia. Perciò non permise che essa fosse chiamata «Madre della Patria» o che accettasse alcun onore eccezionale ufficialmente offertole. Spesso l’ammonì anche a non immischiarsi in faccende troppo importanti e non convenienti ad una donna, soprattutto quando vide che, in occasione di un incendio accanto al tempio di Vesta, era intervenuta anche lei e aveva esortato il popolo e i soldati a impegnarsi di più nel portare soccorso, così come usava fare al tempo del marito.
51. Poi giunse anche all’ostilità nei suoi confronti, e, a quanto raccontano, per il seguente motivo. Quando essa lo pregò insistentemente di ammettere nelle decurie dei giudici un uomo che aveva ricevuto la cittadinanza, Tiberio dichiarò che lo avrebbe ammesso solo a condizione che lei accettasse che si scrivesse nell’albo che «ciò gli era stato estorto dalla madre». Quella, allora, inviperita, tirò fuori dal suo sacrario alcuni vecchi biglietti a lei indirizzati da Augusto, che dicevano dell’asprezza e dell’intolleranza del carattere di Tiberio, e li lesse ad alta voce. Che essa li avesse tanto a lungo conservati e così ostilmente glieli avesse rinfacciati, fu per lui un colpo così duro, che alcuni ritengono che fu questo forse il motivo principale del suo ritiro a Capri. Fatto sta che in tutto il triennio in cui egli fu lontano da Roma mentre la madre era ancóra viva, la vide una volta sola, in un solo giorno e per pochissime ore. Poi non si curò di starle accanto quando si ammalò; e quando morì, mentre egli faceva sperare il suo arrivo, in quei parecchi giorni d’indugio il corpo si corruppe e cominciò a putrefarsi; le fu fatto il funerale ed egli vietò che fosse divinizzata, come se si trattasse di una disposizione lasciata da lei stessa. Considerò nullo anche il suo testamento, ed entro breve tempo perseguitò tutti i suoi amici ed intimi, anche quelli a cui essa aveva affidato, morendo, la cura del suo funerale; uno di essi, dell’ordine equestre, fu persino da lui condannato al lavoro delle pompe 68.
52.Non amò di affetto paterno né il suo figlio autentico, Druso, né quello adottivo, Germanico: maldisposto verso i vizi del secondo. Druso era infatti di vita troppo molle e dissoluta. Perciò neppure quando morì ne fu particolarmente afflitto: si limitò a non rimettersi al consueto lavoro subito dopo il funerale; ma vietò che durasse troppo a lungo, in segno di lutto, la sospensione delle attività. Anzi, ai delegati di Ilio che un po’ troppo tardi esprimevano le loro condoglianze, rispose prendendoli un po’ in giro, come se avesse già cancellato il ricordo del dolore, che anche lui esprimeva loro le sue condoglianze per aver perduto l’impareggiabile concittadino Ettore. Quanto a Germanico, lo denigrò a tal punto che sminuì, come superflue, le sue magnifiche imprese, e criticò le sue gloriosissime vittorie come dannose per la repubblica. E lamentò, proprio in Senato, che Germanico, senza consultarlo, si fosse recato ad Alessandria per una grave e repentina carestia. Si crede pure che sia stato lui, Tiberio, causa di morte per il nipote, attraverso il legato di Siria Gneo Pisone 69. C’è chi crede che questo, più tardi incriminato, avrebbe rivelato le istruzioni ricevute, se, mentre segretamente le esibiva, *** Tiberio non gliele avesse fatte togliere e non avesse fatto tagliare la gola a lui stesso. Perciò da molte parti fu scritto e dappertutto di notte si sentiva gridare «Ridacci Germanico!». Del resto, egli stesso confermò il sospetto, maltrattando crudelmente, più tardi, anche la moglie e i figli di Germanico.
53. Alla nuora Agrippina, che dopo la morte del marito si lamentava di qualcosa con troppa libertà, prese la mano e, recitando un verso greco, disse: «Tu al potere non sei: come puoi credere, figliuola di ricevere un’offesa?»; poi non la degnò più d’una parola. E poiché una volta, durante una cena, essa non osò assaggiare dei frutti offertigli da lui, smise anche di invitarla, fingendo di sentirsi accusato di veneficio, mentre era tutta una manovra deliberatamente architettata: sia che lui le offrisse i frutti per metterla alla prova, sia che lei se ne guardasse come da certissima causa di morte. Alla fine, dopo averla calunniata di volersi rifugiare ora presso la statua di Augusto, ora presso gli eserciti, la relegò a Pandataria; e poiché gli lanciava insulti, un centurione, per suo ordine, la massacrò di botte fino a cavarle un occhio. Un’altra volta che essa aveva deciso di lasciarsi morire d’inedia, le fece aprire a forza la bocca e ficcarle dentro il cibo. E dopo che quella insistette e morì, la perseguitò ancóra con gravissime accuse; fece annoverare tra i giorni nefasti il suo genetlìaco, e arrivò a farsi un merito di non averla fatta strangolare e gettare nelle Gemonie, e lasciò che per tale clemenza si facesse un decreto con cui gli si rendevano grazie, e che si consacrasse un dono d’oro a Giove Capitolino.
54. Aveva tre nipoti da parte di Germanico – Nerone, Druso e Gaio – e uno da parte di Druso, cioè Tiberio. Quando dunque la morte lo privò dei suoi figli, egli raccomandò ai Senatori i due figli maggiori di Germanico, appunto Nerone e Druso, e festeggiò il giorno in cui ciascuno di essi entrò nella vita pubblica, offrendo un donativo alla plebe. Ma quando seppe che, all’inizio dell’anno, anche per loro si erano fatti pubblici voti per la salute, disse in Senato che non si dovevano tributare tali onori se non ad uomini esperti e di età matura. Rivelato con ciò il suo segreto sentimento, li fece bersaglio di ogni accusa, con varie macchinazioni li spinse ad esasperarsi fino a insultarlo, ed esasperati a tradirsi: allora li accusò con una lettera velenosissima, accumulando su di loro anche altre infamie; li fece dichiarare nemici della patria e morire di fame, Nerone nell’isola di Ponza, Druso nei sotterranei del palazzo imperiale. C’è chi ritiene che Nerone sia stato costretto a darsi la morte, quando il carnefice, come se fosse stato inviato per volere del Senato, gli mostrò i lacci e gli uncini 70; e che a Druso sia stato tolto ogni cibo, tanto che egli tentò di mangiare l’imbottitura del materasso. E i resti di entrambi sarebbero stati dispersi in modo tale che ben difficilmente potessero, quando che fosse, essere ricomposti.
55. Oltre i vecchi amici e familiari, Tiberio aveva chiesto di avere venti tra i più eminenti cittadini come consiglieri nella gestione degli affari. Di tutti costoro, sì e no due o tre lasciò incolumi; tutti gli altri li abbatté, chi per un motivo chi per un altro; tra questi, con una coda di parecchi morti, Elio Seiano 71: Tiberio lo aveva innalzato a grandissima potenza, non tanto per affetto, quanto per valersi dei suoi servigi e delle sue macchinazioni per colpire i figli di Germanico, e consolidare per la successione al potere il suo nipote autentico, nato da suo figlio Druso.
56. Non più tenero si mostrò nei confronti dei grèculi suoi commensali, di cui tanto si compiaceva. Una volta domandò a un certo Senone, che conversava con eccessiva ricercatezza, che dialetto fosse quello, tanto sgraziato. Quello rispose che era dòrico. Allora Tiberio lo relegò a Cinaria, immaginando che gli fosse stato rinfacciato il suo vecchio ritiro, dato che a Rodi parlano dòrico. Ancora: aveva l’abitudine, in base alle sue letture giornaliere, di porre durante la cena delle domande; ebbene, scoprì che il grammatico Seleuco 72 si informava prima accuratamente dai suoi camerieri quali autori di volta in volta egli stesse leggendo, per poter giungere preparato; allora dapprima lo allontanò dalla sua intimità, poi lo spinse pure alla morte.
57. La sua indole crudele e piena di rancore non rimase nascosta nemmeno nella sua fanciullezza. Pare che per primo acutamente la notasse, e la definisse con una immagine molto calzante, il suo maestro di retorica Teodoro di Gàdara 73, che ogni tanto lo rimproverava chiamandolo JtrjXòv aitati jce^Qa^iévov, [cioè fango intrìso di sangue]. Ma assai più chiaramente essa si rivelò nel principe, anche nei primi tempi, quando cercava ancóra di accattivarsi il favore della gente fingendo la moderazione. Una volta, mentre passava un funerale, uno spiritoso aveva incaricato ad alta voce il morto di riferire ad Augusto che non venivano ancora pagati i suoi lasciti alla plebe; Tiberio lo fece condurre davanti a sé, gli fece dare il dovuto e lo fece mettere a morte, perché potesse riferire a suo padre come stavano le cose. Non molto tempo dopo, un cavaliere romano, un certo Pompeo, in Senato insistette nel rifiutargli qualche cosa; egli allora, mentre lo minacciava di arresto, gli dichiarò che da Pompeo ne avrebbe fatto un Pompeiano: con crudele gioco di parole egli bersagliava il nome di quell’uomo e la fine che aveva fatto il vecchio partito pompeiano.
58. Nel medesimo periodo, quando un pretore gli chiese se volesse che si perseguissero i reati di lesa maestà, rispose che bisognava applicare le leggi. E le applicò con la massima severità. Un tale aveva tolto la testa a una statua di Augusto, per mettervi quella di un altro; la faccenda fu discussa in Senato, e poiché sussisteva il dubbio, l’indagine fu espletata con la tortura: l’imputato fu condannato. A poco a poco questo genere di imputazioni pretestuose giunse a tal punto che furono considerati delitti capitali anche questi: aver bastonato uno schiavo o essersi cambiato d’abito nei pressi di una statua di Augusto, essere entrati in una latrina o in un lupanare portando un’effigie di Augusto impressa su una moneta o su un anello, e aver criticato qualche sua azione o parola. Fu pure messo a morte uno che aveva permesso che nella sua colonia gli fosse conferita una carica nello stesso giorno in cui a suo tempo erano state conferite cariche ad Augusto.
59. Col pretesto della severità e della restaurazione dei costumi, ma assai più per assecondare la sua indole, si comportò in molti casi così crudelmente e ferocemente, che alcuni deploravano in versi la situazione presente e preannunciavano i mali futuri:
«Aspro e crudele, vuoi che tutto io dica in breve? Che io crepi, se può volerti bene anche tua madre».
«Tu non sei cavaliere; e sai perché? centomila sesterzi
non hai. Ancora? Rodi fu un esilio! 74»
«Hai messo fine all’età d’oro, Cesare,
di Saturno. È così:
vivo te, sarà sempre età del ferro».
«Ha in uggia vino; ora di sangue ha sete.
Ne beve avidamente,
come prima beveva il vino schietto».
«Guarda, Romolo, Silla Fortunato,
– non per te ma per sé –;
vedi anche Mario, dopo il suo ritorno,
e le mani di Antonio, tante volte
imbrattate di sangue,
mentre scatena guerre tra Romani 75,
e di’: “Roma perisce! Regnò sempre
con molto sangue ognuno
che al potere pervenne dall’esilio”.»
Dapprima Tiberio voleva che tutto ciò fosse inteso come composto da persone che non tolleravano le sue riforme, e non già per intima convinzione, ma per stizza e rabbia; e ogni tanto diceva: «mi odino, purché si piéghino». Ma più tardi lui stesso dimostrò che era tutto vero e sicuro.
60. Aveva raggiunto Capri da pochi giorni, quando improvvisamente un pescatore gli aveva offerto, mentre lui se ne stava in luogo isolato, una grossa triglia; Tiberio, spaventato dal fatto che quello si fosse inerpicato fino a lui dalla parte posteriore dell’isola, attraverso un terreno aspro e impraticabile, gli fece strofinare in faccia quella stessa triglia; e poiché quello, mentre lo punivano, si rallegrava di non avergli offerto anche una gigantesca aragosta che aveva pescato, gli fece straziare il volto anche con l’aragosta. Un’altra volta fece giustiziare un soldato pretoriano per aver rubato un pavone nel suo bel giardino. Durante un viaggio, poiché la lettiga su cui egli viaggiava, era rimasta bloccata dai cespugli, fece battere quasi a morte, dopo averlo fatto stendere a terra, un centurione delle prime coorti, incaricato di esplorare il terreno.
61. Poi proruppe in ogni genere di crudeltà: non gli mancò mai la materia, giacché dapprima perseguitò amici e semplici conoscenti della madre, poi quelli dei nipoti e della nuora, e infine di Seiano. Dopo la morte di quest’ultimo divenne ferocissimo. E da ciò apparve chiarissimo che in passato non tanto era stato sollecitato da Seiano, quanto Seiano stesso aveva fornito le occasioni che lui andava cercando. Eppure nel suo Memoriale – che per sommi capi e concisamente egli compose sulla sua vita – Tiberio osò scrivere di aver punito Seiano perché aveva scoperto il suo odio furibondo per i figli di suo figlio Germanico; in realtà li fece morire lui stesso, l’uno quando Seiano era già sospetto, l’altro dopo che finalmente era stato schiacciato. Sarebbe lungo seguire dettagliatamente i suoi atti di crudeltà; basterà elencarne le categorie, come esempi di tale ferocia. Nemmeno un giorno, infausto o sacro che fosse, trascorse senza punizione di qualcuno; contro alcuni si procedette nel primo giorno del nuovo anno. Molti furono accusati e condannati insieme con i figli, e anche dai loro figli. Fu vietato ai parenti di piangere i condannati a morte. Furono decretati particolari premi per gli accusatori, talvolta anche per i testimoni. A nessun delatore fu negata la fiducia. Ogni reato fu considerato capitale, anche se si trattava di poche e semplici parole. A un poeta fu rinfacciato di avere, in una tragedia, coperto di vituperio Agamennone. A uno storico fu rinfacciato di aver dichiarato Bruto e Cassio gli ultimi veri Romani. Si procedette sùbito contro gli autori, e i loro scritti vennero bruciati, anche se, qualche anno prima, erano stati apprezzati mentre venivano letti anche in presenza di Augusto. Ad alcuni, messi agli arresti, fu tolto il conforto non solo dello studio, ma anche della conversazione e del colloquio. Alcuni, citati in giudizio, tentarono di uccidersi in casa perché sicuri della condanna e per evitare i tormenti e l’ignominia; altri si avvelenarono in pieno Senato; e tuttavia, ricucite le ferite e mezzo morti e ancora palpitanti, furono trascinati in carcere. A nessuno dei suppliziati fu risparmiato di esser gettato nelle Gemonie o di essere trascinato con l’uncino 76; in un solo giorno ne furono gettati e trascinati una ventina, anche donne e bambini. Le ragazze giovanissime, poiché per tradizione le vergini non potevano essere strangolate, dal carnefice prima furono violentate e poi strangolate. Quelli che volevano uccidersi furono tenuti in vita con la forza. Tiberio considerava infatti la morte un supplizio troppo lieve, tanto che, avendo sentito che un imputato, di nome Carnulo, l’aveva anticipata, esclamò: «Carnulo mi è sfuggito!». Mentre ispezionava le prigioni, a uno che chiedeva di affrettargli l’esecuzione rispose: «Con te non mi sono ancóra riconciliato». Un uomo di rango consolare nei suoi Annali ha inserito questo episodio: una volta, in un affollato banchetto a cui aveva partecipato lui stesso, un nano che stava accanto alla mensa fra altri buffoni domandò improvvisamente e ad alta voce a Tiberio perché mai Paconio, imputato di lesa maestà, fosse ancóra vivo dopo tanto tempo; Tiberio dapprima rimproverò la petulanza di quella lingua, ma dopo pochi giorni scrisse al Senato che decidesse quanto prima sulla esecuzione di Paconio.
62. Accrebbe e rafforzò la sua ferocia quando fu esasperato da una rivelazione relativa alla morte di suo figlio Druso. Lui credeva che fosse morto di malattia e di stravizi, ma quando seppe che era stato eliminato col veleno da una macchinazione della moglie Livilla e di Seiano, non risparmiò a nessuno torture e supplizi; e per giorni interi si dedicò a questa sola inchiesta con tanto impegno e fervore, che ordinò di sottoporre immediatamente a tortura – come se fosse un elemento essenziale per l’inchiesta – quando gli annunciarono che era arrivato un suo ospite di Rodi, che lui stesso aveva chiamato a Roma con una cordiale lettera; poi, scoperto l’errore, lo fece anche uccidere, perché non raccontasse in giro l’oltraggio subito. A Capri si mostra ancóra il luogo delle esecuzioni, da cui faceva precipitare in mare, in sua presenza, i condannati, dopo lunghe e raffinate torture: li riceveva, giù, un gruppo di soldati di marina, che con pertiche e remi massacrava i cadaveri, perché non rimanesse in alcuno alcun soffio di vita. Fra gli altri generi di torture aveva escogitato anche questo: rimpinzati fraudolentemente di abbondante vino puro, legati loro improvvisamente i genitali, li straziava insieme con la tortura delle corde e dell’urina impedita. Che se non lo avesse prevenuto la morte e se Trasillo non lo avesse a bella posta – a quanto si dice – indotto a differire alcune condanne facendogli balenare la speranza di vivere più a lungo, si ritiene che ne avrebbe uccisi ancóra di più e che non avrebbe risparmiato neppure i suoi ultimi nipoti: considerava sospetto Gaio e disprezzava Tiberio come frutto di adulterio. E ciò non è affatto inverosimile, giacché ogni tanto diceva fortunato Priamo perché era sopravvissuto a tutti i suoi.
63. Che in mezzo a tutto ciò egli sia vissuto non solo inviso ed esecrabile, ma anche irrequieto ed esposto agli oltraggi, ci sono molti indizi che lo dimostrano. Vietò che si consultassero gli aruspici in privato e senza testimoni. Tentò persino di distruggere gli oracoli vicini alla capitale, ma, spaventato dall’aura di grandezza delle Sorti di Preneste 77, vi rinunciò; le fece sigillare e portare a Roma, ma qui erano scomparse; non si ritrovarono se non quando l’arca fu riportata nel suo tempio. Non osando allontanare da sé prima uno e poi un altro ex console, dopo che già erano state loro assegnate le province, li trattenne finché, dopo alcuni anni, mentre essi erano ancora a Roma, diede loro dei successori: nel frattempo, poiché il titolo del loro ufficio permaneva, delegava loro continuamente dei compiti, a cui essi dovevano provvedere per mezzo di legati e di collaboratori.
64. Non trasferì mai la nuora e i nipoti, dopo la condanna, se non incatenati e in lettiga chiusa, per mezzo di soldati impedendo che passanti e viaggiatori si voltassero a guardare o si fermassero.
65. Seiano macchinava un colpo di stato; Tiberio allora, sebbene vedesse che ormai il suo compleanno veniva celebrato pubblicamente e che suoi ritratti d’oro venivano onorati un po’ dappertutto, a stento, finalmente, e con l’astuzia più che con la sua autorità di principe, lo abbatté. In effetti, anzitutto, per allontanarlo da sé con l’apparenza di conferirgli un onore, se lo prese come collega nel suo quinto consolato – lo aveva assunto di nuovo, e proprio a tale scopo, dopo un lungo intervallo e sebbene assente da Roma –; quindi, ingannatolo con la prospettiva di una parentela e della potestà tribunizia, mentre quello meno se lo aspettava lo denunziò con un messaggio vergognoso e miserabile: tra l’altro pregava i senatori che gli mandassero un console 78, il quale conducesse dinanzi a loro lui, vecchio e solo, con una qualche scorta di soldati. Ma anche così, non fidandosi e temendo dei torbidi, aveva ordinato che, in caso di necessità, venisse liberato il nipote Druso, che ancóra egli tratteneva a Roma imprigionato, e lo si mettesse alla guida dello Stato. Aveva pure allestito delle navi e meditava di fuggire presso qualche legione. Da un’altissima rupe osservava continuamente gli eventuali segnali che aveva incaricato di innalzare da lontano, perché non tardassero ad arrivargli le notizie, appena succedesse qualcosa. Comunque, anche dopo schiacciata la congiura di Seiano non si sentiva affatto più tranquillo o più sicuro, e per i nove mesi successivi non mise piede fuori della villa chiamata di Giove.
66. Per di più, inasprivano il suo animo irrequieto i vari oltraggi provenienti da ogni parte: non c’era nessuno dei condannati che non gli riversasse addosso ogni genere di vituperio, o direttamente o con scritti lasciati nell’orchestra. Ma tutto ciò lo colpiva in modo contrastante: ora avrebbe voluto, per la vergogna, che restasse ignoto e celato; ora invece se ne infischiava e lui stesso ne parlava e lo divulgava. Lo stesso Artabano, re dei Parti 79, lo lacerò con una lettera in cui gli rinfacciava parricidi e massacri e ignavia e dissolutezza, e lo invitava a dare soddisfazione al più presto, con il suicidio, al grandissimo e giustissimo odio dei cittadini.
67. Alla fine, disgustato di se stesso, con questo inizio di messaggio proclamò quasi tutti i suoi mali: «Signori Senatori, mi distruggano gli dèi e le dee peggio di come io stesso mi sento distruggere ogni giorno, se so che cosa in questo momento dovrei scrivervi, o come scrivervi, o che cosa non scrivervi affatto». Alcuni ritengono che egli, esperto di predizioni, avesse presagito tutto ciò, e parecchio tempo prima avesse previsto quanta avversione ed infamia lo attendessero in avvenire; proprio per questo, agli inizi del principato, avrebbe tanto ostinatamente rifiutato l’appellativo di Padre della Patria e il giuramento sui suoi atti: voleva evitare che con maggior vergogna più tardi lo si riconoscesse indegno di così grandi onori. Lo si può dedurre dal discorso che egli tenne su entrambi gli argomenti, in particolare da queste parole: lui sarebbe stato sempre uguale a se stesso, e mai, finché fosse sano di mente, avrebbe mutato condotta; ma bisognava evitare, creando un precedente, che il Senato si vincolasse agli atti di qualcuno, perché poteva capitare che questi cambiasse. E ancora: «Se un giorno», disse, «dubiterete della mia devozione a voi – e prima che accada ciò, mi auguro che l’ora estrema mi sottragga a questo vostro mutamento di opinione su di me – l’appellativo di Padre a me non aggiungerà alcun onore, e a voi rimprovererà o la leggerezza di avermi conferito questo titolo, o l’incostanza del vostro incoerente giudizio su di me».
68. Fu di corporatura massiccia e robusta e di statura superiore alla media; largo di spalle e di petto, e anche nelle altre membra, da capo a piedi ben proporzionato. Aveva la mano sinistra più agile e più robusta, e con le articolazioni così solide, che con un dito trapassava una mela fresca ed intatta, e con le nocche poteva ferire la testa di un bambino o anche di un ragazzo. Era di colorito molto chiaro, con l’attaccatura dei capelli bassa sulla nuca, così da coprirgli anche il collo: pare che questa fosse in lui una caratteristica di famiglia. Bello il volto, in cui però comparivano diffusi e improvvisi foruncoli; occhi molto grandi e tali che – cosa che potrebbe sorprendere – vedevano anche di notte e al buio, ma per breve tempo e solo quando si erano appena aperti dopo il sonno; poi di nuovo perdevano l’acutezza. Camminava con il collo rigido ed eretto, con volto quasi accigliato. Era per lo più taciturno, non conversava affatto o pochissimo anche con i più intimi, e per di più molto lentamente, non senza un morbido gesticolare delle dita. Augusto aveva notato tutte queste sue caratteristiche, sgradevoli e piene di arroganza, e tentò di giustificarle spesso in Senato e dinanzi al popolo, dichiarandole difetti di natura, non dell’animo. Godette di ottima salute, che rimase pressoché intatta per quasi tutto il tempo del suo principato, sebbene, a partire dalla trentina, egli si curasse da sé senza l’aiuto o il consiglio di medici.
69. Piuttosto indifferente nei confronti degli dèi e delle stesse religioni: era dedito all’astrologia e perfettamente convinto che tutto fosse regolato dal destino; però temeva fin troppo i tuoni e, quando il tempo era un po’ brutto, portava sempre sul capo una corona d’alloro, perché si dice che quella fronda tenga lontano il fulmine.
70. Coltivò con il massimo impegno le arti liberali, sia greche sia latine. Nell’oratoria latina seguì Messala Corvino 80, che egli, da giovane, aveva guardato con rispetto, allorché quello era già vecchio. Ma, con la sua affettazione ed eccessiva pedanteria, rendeva oscuro il proprio stile: era ritenuto miglior oratore quando improvvisava che quando si era accuratamente preparato. Compose anche una poesia lirica, intitolata Compianto per la morte di Lucio Cesare. Scrisse anche poesie in greco, imitando Euforione e Riano e Partenio: questi poeti gli piacevano moltissimo, per cui nelle pubbliche biblioteche collocò i loro scritti e i loro ritratti, tra gli autori antichi e più grandi. Fu questo il motivo per cui molti eruditi a gara pubblicarono, dedicandole a lui, molte opere su questi scrittori. Ma soprattutto egli si occupò di mitologia fino ai particolari più minuti e ridicoli: i grammatici – una categoria di persone, per la quale, come ho detto, aveva particolare interesse – li metteva generalmente alla prova con domande di questo genere: chi fosse la madre di Ecuba, quale nome avesse Achille tra le ragazze, che cosa usassero cantare le Sirene. E nel giorno in cui per la prima volta entrò nella Curia dopo la morte di Augusto, quasi per adempiere insieme al suo dovere di figlio devoto e di uomo pio, seguendo l’esempio di Minosse pregò gli dèi con incenso e con vino, ma senza flautista, come appunto quello a suo tempo in occasione della morte del figlio.
71. Sebbene in generale egli fosse pronto e tutt’altro che impacciato nell’uso della lingua greca, tuttavia non se ne servì dappertutto, e in particolare se ne astenne in Senato. Addirittura, dovendo una volta parlare di monopolio, prima si scusò di dover usare una parola straniera. Ancora: una volta, poiché in un decreto del Senato sentì leggere la parola «ἔμβλημα», propose di cambiarla e di cercare, al posto della parola greca, la corrispondente latina, o, se non si trovava, di esprimere il concetto con un giro di parole. Anche a un soldato, a cui era stata chiesta una testimonianza in greco, vietò di rispondere altrimenti che in latino.
72. Durante il periodo del suo isolamento, solo due volte tentò di ritornare a Roma: una volta con una trireme giunse fino ai giardini vicini alla Naumachìa, dopo aver disposto pattuglie lungo le rive del Tevere per allontanare quelli che gli venissero incontro; la seconda volta per la via Appia fino a sette miglia da Roma; ma tornò indietro dopo aver visto, ma non raggiunto, le mura della città. La prima volta non si sa per quale motivo tornò indietro, la seconda perché spaventato da un prodigio. Tra i suoi hobby c’era un serpente: e poiché, quando andò come al solito a dargli da mangiare di sua mano, lo trovò divorato dalle formiche, fu ammonito ad evitare la violenza della folla. Tornando dunque rapidamente in Campania, cadde malato ad Astura; migliorato un poco, si recò a Circei 81; e per non far neppure sospettare la sua malattia, non solo presenziò ai Ludi Castrensi, ma dall’alto cercò di colpire con giavellotti un cinghiale che era stato fatto entrare nell’arena. Sùbito ne provò una fitta al fianco: si era accaldato, e poi aveva preso freddo; per cui ricadde in malattia più grave. Per qualche tempo, però, non si arrese al male, anche se fattosi portare a Miseno, non tralasciò nulla della routine quotidiana, nemmeno i conviti o gli altri piaceri, un po’ per intemperanza, un po’ per dissimulazione. E quando il medico Càricle, che si doveva allontanare per un viaggio, uscendo da un suo convito gli prese la mano per baciarla, Tiberio, credendo che gli avesse tastato il polso, lo invitò a rimanere e ad accomodarsi di nuovo; e tirò in lungo il banchetto. Nemmeno allora rinunciò alla consuetudine di rivolgere la parola, stando in piedi in mezzo al triclinio, a ognuno di quelli che lo salutavano, mentre un littore stava sull’attenti accanto a lui.
73. Intanto, avendo letto negli Atti del Senato che erano stati rilasciati senza nemmeno essere ascoltati alcuni imputati, a proposito dei quali egli aveva scritto succintamente soltanto il fatto che erano stati nominati da un delatore, furibondo di essere stato disprezzato, decise di ritornare ad ogni costo a Capri, poiché difficilmente avrebbe osato qualcosa se non dal suo rifugio sicuro. Ma trattenuto dal cattivo tempo e dall’aggravarsi della malattia, morì poco dopo nella villa già appartenuta a Lucullo, a settantasette anni, nel ventitreesimo anno d’impero, il 16 marzo sotto i consoli Gneo Acerronio Proculo e Gaio Ponzio Nigrino 82. C’è chi crede che gli fu propinato da Gaio 83 un veleno lento e devastatore; altri, che in un momento in cui la febbre era calata, gli fu negato il cibo che egli chiedeva; altri ancóra, che fu soffocato con un cuscino, quando, dopo che gli era stato tolto l’anello in un momento in cui aveva perso conoscenza, egli, ripresosi, chiese di riaverlo. Seneca scrive che Tiberio, rendendosi conto che stava per morire, si tolse l’anello e lo tenne per un po’ in mano come se intendesse consegnarlo a qualcuno, poi se lo rimise al dito e, tenendo chiusa la mano sinistra, giacque a lungo così, immobile; poi, improvvisamente, chiamò i servi, e poiché nessuno gli rispondeva, si alzò e, venutegli meno le forze, crollò non lontano dal letto.
74. Durante l’ultimo suo compleanno, egli aveva sognato che l’Apollo Temenite (una statua maestosa e artisticamente pregevole, portata da Siracusa per essere collocata nella biblioteca di un nuovo tempio) gli aveva dichiarato che non poteva essere dedicato da lui. E pochi giorni prima ch’egli morisse, crollò a Capri per un terremoto la torre del faro. E a Miseno la cenere di un braciere, portato per riscaldare un triclinio, spenta e fredda già da un pezzo, improvvisamente verso sera si riaccese e continuò tenacemente a risplendere sino a tarda notte.
75. Della sua morte il popolo talmente si rallegrò, che, al primo annuncio, alcuni correndo qua e là gridavano «Tiberio al Tevere!», altri pregavano la Madre Terra e gli dèi Mani che non dessero al morto altra sede che tra gli empi, altri ancóra minacciavano al cadavere Puntino e le Gemonie, esasperati, oltre che dal ricordo della sua passata crudeltà, anche da un’atrocità recente: con un decreto del Senato si era stabilito che l’esecuzione dei condannati fosse sempre differita al decimo giorno; ora, accadde che il giorno dell’esecuzione di alcuni era proprio quello in cui si seppe di Tiberio; i condannati implorarono pietà, ma poiché Gaio era ancora lontano e non c’era nessuno a cui si potesse ricorrere e appellarsi, i custodi, per non agire contro il decreto, li strangolarono e li gettarono nelle Gemonie. Crebbe dunque l’odio, come se la crudeltà del tiranno sopravvivesse alla sua morte. Quando si cominciò il trasporto della salma da Miseno, parecchi gridavano che si doveva piuttosto portarlo ad Atella 84 e bruciacchiarlo nell’anfiteatro. Ma fu portato a Roma dai soldati e cremato con funerale pubblico.
76. Due anni prima aveva fatto testamento in due copie: l’una di sua mano, l’altra di mano di un liberto, ma con lo stesso testo, e lo aveva fatto convalidare dai sigilli anche di persone umilissime. Con quel testamento lasciava eredi in parti uguali i nipoti Gaio figlio di Germanico e Tiberio figlio di Druso, e li sostituiva l’uno all’altro 85. Lasciò anche diversi legati, tra i quali uno alle vergini Vestali, ma anche a tutti quanti i soldati e alla plebe romana un tanto a testa, e anche, separatamente, ai magistrati di quartiere.