Opere minori
Nota introduttiva
Le tre opere minori di Tacito rappresentano ancor oggi un complesso, intricato e composito enigma. E, del resto, abbastanza romanzeschi sono anche i modi con cui esse sono state tramandate ai lettori moderni.
La Germania, l’Agricola, il Dialogus de oratoribus non ci sono pervenuti assieme alle due opere maggiori, gli Annales e le Historiae. Anzi, si ebbe notizia di un codice che conteneva opere sconosciute di Tacito solo nel 1426 quando l’umanista Poggio Bracciolini entrò in contatto con un monaco proveniente dal convento prussiano di Hersfeld (poco a nord di Fulda) il quale cercava appoggi presso la curia romana. Poggio Bracciolini, che era segretario del sarzanese Tommaso Parentucelli, il futuro papa Niccolò V, poteva far leva sugli entusiasmi umanistici del suo patrono la cui raccolta personale di codici antichi costituì poi il nucleo originario della Biblioteca Vaticana. Si fece fare allora dal monaco un inventario dei codici del suo monastero: si diffuse in questo modo la notizia che non tutto Tacito era conosciuto e che altre sue opere aspettavano di ritornare alla luce. Poggio Bracciolini e il futuro Niccolò V tentarono di tutto per raggiungere il codice ma solo quando quest’ultimo fu eletto al soglio pontificio, fu possibile organizzare una missione in Germania che fu affidata all’umanista Alberto Enoch d’Ascoli e che aveva tra i suoi scopi anche il recupero del codice con le opere tacitiane.
Fu probabilmente lo stesso Enoch a riportare il codice in Italia, nel 1455. Ma i tempi erano cambiati. Niccolò V era morto e al suo posto era stato eletto, col nome di Callisto III, un membro della influente casata spagnola dei Borgia, Alfonso. Costui era uomo di grandissima cultura e insigne giurista, ma al centro dei suoi interessi era la politica estera, soprattutto in chiave antiturca.
È plausibile che Enoch d’Ascoli si sia trovato nella necessità (o nella tentazione) di far fruttare il prezioso codice e lo abbia smembrato in varie parti per realizzare utili maggiori e più facili. Dal codice di Hersfeld furono tratti almeno tre apografi, ma lo smembramento fu rovinoso. Solo nel 1902 Cesare Annibaldi scoprì, a Iesi, nella biblioteca del conte Guglielmo Balleani, un manoscritto (il Codex Aesinas Lat. 8) contenente l’Agricola e la Germania (ma non il Dialogus): otto fogli del Codex Aesinas, che includono la parte centrale dell’Agricola, furono riconosciuti come appartenenti al codice di Hersfeld. Tutto il resto era frutto della fatica dell’umanista di Osimoy Stefano Guarnieri che aveva riempito le parti mancanti leggendo con tutta probabilità da uno dei tre apografi tratti dall’originale. Il codice manoscritto Hersfeldensis-Guarnieri fu, da Stefano e dal suo fratello, riposto nella biblioteca di Iesi che essi stessi avevano fondato e che divenne, alla fine del XVIII secolo, proprietà dei conti Balleani.
Vita di Giulio Agricola
Nel 77 d.C. Tacito si fidanzava con la figlia di Gneo Giulio Agricola; l’avrebbe sposata l’anno seguente, lei quattordicenne, lui poco più che ventenne. Tacito si imparentava così con un personaggio in vista che usciva allora dal consolato e si apprestava a partire come legato in Britannia dove lo attendeva una situazione particolarmente difficile. In quegli stessi anni (imperatore è Vespasiano) Tacito inizia la sua carriera politica: nell’88 (con Domiziano) è pretore, e, una volta uscito dalla pretura, si allontana, con la moglie, da Roma forse come propretore nella Gallia Belgica, forse come legato in Germania.
In quel decennio si sono bruciate prematuramente le avventure esistenziali di Vespasiano (che muore nel 79) e di Tito (che guida il principato appena per un biennio, tra il 79 e l’81 ). Succede loro Domiziano che, nel giudizio di Tacito, fa vivere all’impero un quindicennio devastante, in cui fu perfino difficile sopravvivere a se stessi1.
Il 23 agosto del 93, Agricola muore: aveva cinquantrè anni ed era, dunque, nel fiore della vita. Su quell’uomo che ancora tanto avrebbe potuto dare alla res publica, si era abbattuta la gelosia di Domiziano, invidioso dei successi ottenuti in Britannia? Tacito non dice che fu il veleno del principe a uccidere il suocero: con l’abilità che poi frutterà pagine memorabili nelle due opere maggiori, costruisce un clima di sospetto (si legga in questa chiave tutta l’ultima parte, a partire dal capitolo 39) in cui singoli microeventi (come il bacio frettoloso del capitolo 40), o amare riflessioni (come, sempre in quel capitolo 40, l’abitudine della gente a giudicare l’importanza delle persone dall’imponenza del loro seguito) costruiscono un quadro di indimenticabile tensione emotiva.
In questo quadro matura il sospetto del veneficio che ha il suo culmine in una straordinaria rassegna di comparse in controluce: i liberti, i medici imperiali, le staffette che recano notizie aggiornate di minuto in minuto.
Ma Tacito, come si è detto, è assente. Non può saziarsi di sguardi e abbracci nel momento dell’addio2 non può manifestare subito il suo dolore.
Nasce così, un quinquennio più tardi, questo De vita Iulii Agricolae liber, un’opera che appartiene solo parzialmente al genere della laudario funebris e si amplia alla biografia, alla monografia storica, all’indagine etnografica.
Il dibattito sul genere (che non può essere oggetto di questa breve introduzione) rispecchia la complessa costruzione dell’opera. Dopo un esordio di forte taglio moralistico (il clima politico di servitù rende ingrato il lavoro di chi deve parlare della virtù e rende insopportabile l’esempio della virtù stessa, e la tesi generale), Tacito percorre brevemente la carriera politica di Agricola prima della legazione in Britannia. Seguono una descrizione della Britannia stessa e un excursus sulla politica estera romana verso quella regione prima dell'arrivo di Agricola. Poi il nucleo centrale, dal capitolo 14 al 38: e il lavoro di pacificazione (noi moderni diremmo, con parola solo apparentemente positiva, normalizzazione,) dell’isola. Alla fine il ritorno, le manovre di Domiziano, la morte.
Lo schema appena tracciato non restituisce ancora la frastagliata complessità dell’opera: bisogna ricordare almeno i due discorsi (Calgaco e Agricola) che precedono la battaglia di Graupio (dal capitolo 30 al 35) e anche l’avventura della cohors Usiporum che vive uno spettrale periplo della Britannia e va incontro a una fine ingloriosa. E poi le vicende familiari di Agricola, la sua educazione, le sue innovazioni strategiche, il suo spirito attivo e ardimentoso che prende in controtempo sia l’esercito romano che la resistenza britannica...
È possibile intravvedere un progetto e un disegno unitari in tanta complessità? A noi pare di sì, se bene si considera il significato della figura di Agricola, la cui opera politica e militare viene presentata come una culminazione della storia, come una svolta degli eventi. Agricola diventa una sorta di demiurgo assoluto che ha successo lì dove tutti hanno fallito e dove perfino Giulio Cesare si è limitato a indicare ai posteri la conquista, senza poterla realizzare3.
Allora se Agricola è il demiurgo che piega la realtà al suo volere, va tutto bene: va bene la descrizione favolosa e terrificante della Britannia e dei mari del Nord con le loro isole lontane, va bene il fierissimo discorso di Calgaco, va bene persino la surreale avventura della cohors Usiporum.
Agricola/demiurgo tiene, prima della battaglia di Graupio, un discorso che fa sentire le forze romane sullo spartiacque della storia. E conclude: «Basta con le campagne militari: chiudete con una grande giornata cinquantanni di guerra»4. È lui che risolve la battaglia ed è lui ad essere dappertutto per far fronte ad ogni problema5. Ma la sua apoteosi Agricola l’ha celebrata ancora prima di combattere, quando ha inventato il modo di integrare tra loro le forze di terra e di mare: uno spettacolo terribile a vedersi per i barbari che comprendono come stia loro di fronte un nemico disperatamente invincibile6.
Questa centralità di Agricola ci regala pagine memorabili, come quelle del confronto tra la sua virtù e l’infingardaggine altrui, come quelle del lutto e del dolore finali. Ma finisce con il diventare sospetta.
Sembra funzionale a spezzare il mondo in modo manicheo: da una parte Domiziano il turpe, l’imbelle, l’invidioso; dall’altra Agricola morigerato, abile, intelligente. Tacito non va troppo per il sottile nel costruire la contrapposizione: denigra senza mezze misure Domiziano facendo apparire come un insuccesso completo la campagna militare contro i Catti che invece ottenne buoni risultati (anche se poi furono puerili le smanie di trionfo dell’imperatore); esalta in blocco l’azione di Agricola che probabilmente non riportò al monte Graupio una vittoria così netta come le pagine tacitiane fanno apparire. Tacito mira insomma a costruire la coppia dialettica tiranno/vittima come avverrà nelle opere maggiori (Tiberio/Germanico, Nerone/Corbulone, ecc).
Sarà forse possibile allora vedere in Agricola la proiezione delle frustrazioni di Tacito che, è vero, scrive nell’epoca piena di speranze del trapasso del principato da Nerva a Traiano, ma che ha portato avanti la sua carriera politica soprattutto sotto Domiziano. L’Agricola/demiurgo è forse un alibi morale? Vuole essere la dimostrazione incarnata che anche sotto un cattivo principe è possibile agire bene, realizzare il vantaggio della res publica, fornire un esempio da consegnare alla posterità?
Probabilmente la vita di Agricola è anche tutto ciò. Ma l’analisi resta difficile, perché alla fine rimane comunque chiaro che Agricola ha pagato con la vita (e con gli anni più fertili) il suo benfare. E il sospetto che si insinua nel lettore è che la colpa non sia nel cattivo principe, ma nel fatto che esista un principe, tout court.
Ecco nascere le altissime pagine del finale: perché forse solo con il riflusso nel privato è possibile essere se stessi e conservare la propria integrità. Agricola è davvero se stesso quando, dopo il suo ritorno, prende a gustare tranquillità e riposo, a vivere modestamente, a farsi accompagnare da uno o due amici soltanto. E, nonostante tutto, il suo prestigio militare è pericolosissimo in un ambiente di imbelli7.
Anzi: quando i grandi pericoli incombenti sulla patria reclamano il suo nome come quello dell’unico possibile salvatore, ciò affretta la sua fine. Il pericolo si ingigantisce e la sua rovina si avvicina: emergono, disperanti, tutte le contraddizioni del principato.
Annota Tacito: l’obbedienza e la moderazione, se accompagnate da operosità ed energia, possono arrivare a tanta gloria, quanta molti sono riusciti ad ottenere per vie difficili, diventando famosi grazie ad una morte clamorosa senza però che lo stato ne ricevesse alcun vantaggio8.
Si fa strada nello storico che sta progettando le Historiae, l’amara riflessione che a voler trovare esempi di virtù bisogna indagare nel privato, e che la virtù è sempre dei singoli, mai della res publica: tuttavia quest’epoca non fu tanto povera di valore da non proporre anche esempi di nobiltà: madri che accompagnano figli profughi; mogli che seguono i mariti esuli; congiunti fedelissimi; generi di grande fermezza; schiavi leali anche se sottoposti a tortura; uomini di prestigio capaci di sopportare le più dure costrizioni e perfino la morte (al punto che è possibile il paragone con le più celebrate morti dell’antichità)9.
La Germania
Nello stesso anno dell’Agricola, il 98, Tacito compose La Germania, che i manoscritti ci tramandano col titolo di De origine et situ Germanorum: anche quest’operetta pone notevoli problemi di interpretazione ed analisi.
Nunc demum redit animus (ora finalmente ci torna il coraggio) aveva proclamato Tacito nel celebre incipit del terzo capitolo dell’Agricola. Nerva sta esaurendo il suo biennio di principato, ma ha designato in Traiano un successore prestigioso e forte. Nondimeno i problemi politici sono gravi e incombenti: quando viene annunciata l’adozione (cioe nel 97), Traiano è governatore della Germania superiore. Sul suo nome si è incentrata l’attenzione di quella parte della classe senatoria che poco si era compromessa sotto il quindicennio domizianeo, ma il trapasso non è facile. Quando Nerva muore scoppiano sedizioni pretoriane contro il successore designato. E qui accade l’evento strano: Traiano non torna affatto a Roma, assorbito com’è dai suoi impegni militari sulla frontiera renana. Si rivela però un abile politico: nomina suoi satelliti nei posti chiave delle magistrature civili e dell’amministrazione pubblica; reprime la rivolta pretoriana e, nonostante riduca della metà (sarà anche un accorto amministratore) il tradizionale donativo concesso per l’ascesa al trono di un nuovo principe, la successione avviene in modo indolore. In questo contesto, proprio nei mesi in cui Roma attende il nuovo imperatore e mentre costui si attarda nelle operazioni militari sul fronte germanico, Tacito scrive la Germania.
Opera di propaganda o monografia storico-etnografica (magari in un primo tempo pensata per una delle opere maggiori – probabilmente le Historiae – e poi diventata autonoma)? E se opera di propaganda, a favore di cosa? A favore di un’azione decisa da parte di Traiano che ridimensionasse e riscattasse la storica sconfitta di Teutoburgo di quasi un secolo prima oppure a favore di un prudente consolidamento del confine?
Indicazioni non ne abbiamo. Non sappiamo se a Roma esistessero una corrente favorevole alla belligeranza estesa e continua nel settore germanico e, contrapposta a questa, una corrente tendente al prudente contenimento della minaccia barbarica. Non abbiamo, del resto, indicazioni dalla stessa monografia tacitiana, ad eccezione di quell’urgentibus imperii fatibus del capitolo 33, che richiama due analoghe espressioni liviane10, ma che rimane di non facile interpretazione. Nondimeno appare scontato che proprio da questa espressione si debba partire.
Tacito sembra quasi pronunciare la frase a mezza voce, in un contesto del tutto inatteso e dopo aver proposto al lettore una immagine così forte e brusca, da far quasi sbiadire la considerazione sui fati che incombono sull’impero. Tacito sta passando in rassegna le popolazioni germaniche e dopo Usipi e Tencteri, è la volta di Bructeri, Camavi e Angrivari. A questo punto l’immagine-choc: «non è mancato un certo favore degli dei verso di noi: infatti non siamo stati privati nemmeno dello spettacolo della battaglia. Più di sessantamila sono morti: e non è accaduto sotto le spade e le frecce dei Romani e inoltre, fatto ancor più splendido, per offrire gioia ai nostri occhi»11.
Tacito gioisce dei nemici in conflitto tra loro, a procurare mutua rovina e morte. Allora è chiaro che siamo all’interno di una analisi politica: il punto chiave viene dalla speranza che gli avversari si uccidano tra loro, togliendo difficoltà, forse altrimenti insormontabili, all’esercito romano: «spero proprio che rimanga e anzi cresca nei popoli se non l’amore verso di noi, almeno l’odio tra di loro, poiché il fato incombe sull’impero e nulla di più utile ci può dare la fortuna se non la discordia tra i nemici»12..
Il dato è importante e riprende due luoghi del tutto analoghi dell’altra opera di questi mesi, l’Agricola13: nel primo caso Tacito riflette in prima persona, nel secondo fa parlare addirittura Calgaco in un passaggio fondamentale del suo discorso. Di converso viene in mente Galba che, ormai incalzato dal suo destino, sapeva che «quanto è destinato dal fato, pur se riconosciuto, non può essere evitato»14.
È chiaro che sono giri di pensiero e riflessioni abituali per Tacito e per la sua visione in negativo del momento politico. È possibile riassumere così: un destino tremendo pesa sull’impero perché ai suoi confini urge un grande, bellicoso, indomabile popolo. Questo popolo può essere contrastato soprattutto sfruttandone i dissidi interni.
La visione politica si arricchisce (ma solo a questo punto: l’ammirazione per l’incorrotta virtù patria dei Germani non può essere assunta come unica motivazione della monografia) del motivo etico.
Accogliendo in parte anche l’affascinante interpretazione di A.A. Lund (che nella sua introduzione alla Germania del 1988 parla di mundus inversus), pare evidente che Tacito ammira/teme del popolo germanico la grande forza, lo slancio guerriero, la solidità delle strutture sociali, i forti legami familiari, la virtus in contrapposizione alla civiltà romana inaridita in un vuoto formalismo e sostenuta ormai soltanto dalla fame di ricchezza, benessere e successo. Insomma la civiltà emergente che minaccia la civiltà che ha esaurito o sta esaurendo il suo slancio vitale.
I matrimoni dei Germani non si prestano a calcoli di interesse, le loro donne sono caste, i figli vengono allevati in casa (si legga la sezione dei capitoli 18-20); i liberti non hanno lo strapotere che hanno nella società romana («il fatto che i liberti siano in condizione di inferiorità e sicuro indizio di libertà»15); i giovani ricevono scudo e framea alla stessa età in cui i giovani romani vivono l’imbelle cerimonia di indossare la toga virilis16.
E poi il discorso sulla ricchezza che attraversa l’intera monografia. Tacito si chiede se non sia stato un beneficio degli dei aver negato ai barbari la consapevolezza del valore di oro e argento17; riflette amaramente sul fatto che i Germani hanno imparato dai Romani ad apprezzare gli oggetti preziosi18; infine, per limitarsi a pochi esempi, chiude con un bruciante epifonema uno degli ultimi capitoli: come esercitano i Romani la loro auctoritas? «Raramente -, afferma, – il nostro è un aiuto militare: più spesso li aiutiamo col denaro e i soldi non valgono meno delle armi».19.
È forse questa l’estrema sintesi della visione tacitiana: puntiamo sui conflitti interni dei nostri avversari e li corrompiamo col nostro denaro.
Solo a questo prezzo, è possibile neutralizzare il pericolo che viene da gente dall’integra vita morale, giustamente ambiziosa, pronta al mutamento. È uno dei tanti approdi, realisticamente aspro e dolorante, dell’indagine storiografica tacitiana.
Dialogo degli oratori
Il Dialogus de oratoribus propone una discussione avvenuta, si immagina, attorno al 75 d.C., durante il principato di Vespasiano. Vi partecipano Marco Apro (maestro dello stesso Tacito e sostenitore dell’oratoria contemporanea), Giulio Secondo (forse anche lui maestro di Tacito e lasciato ai margini del dibattito), Vipstano Messalla (sostenitore dell’eloquenza di modello ciceroniano e, parzialmente, portavoce di Tacito), Curiazio Materno (che ospita in casa sua gli altri protagonisti del dialogo e che rispecchia l’ideologia tacitiana). Ai quattro personaggi va aggiunto l’io narrante di Tacito stesso che, nelle prime pagine, afferma di aver seguito, giovanissimo (forse ventenne), il dibattito.
Tra le opere tacitiane, il Dialogus resta fuori schema, la più dibattuta, la più tormentata. Proviamo a indicare, per così dire in gerarchia, i termini della quaestio praticamente da sempre aperta.
1. L’effettiva paternità di Tacito: essa viene oggi riconosciuta dalla grande maggioranza degli studiosi. Va detto che i primi dubbi vennero espressi già nel 1519 dal dotto tedesco Beato Renano e furono poi amplificati nel 1574 da Giusto Lipsio, professore dell’università di Leida sulla base di rilievi stilistici. Ma occorre aggiungere che la tradizione manoscritta depone sostanzialmente per la paternità tacitiana anco e politico. Le parole di Materno sono improntate a equilibrio e dunque, nella loro oggettiva serenità, credibili e persuasive. Materno riconosce che l’eloquenza era un tempo stimolata dall’«abitudine al foro in cui nessuno era costretto a concludere la sua arringa nel giro di poche ore, in cui non vi era limite ai rinvìi, in cui ognuno dava la durata che voleva al suo discorso, in cui non si pretendeva di limitare il numero dei giorni e dei patroni»20. E, insomma, bisogna riconoscere che era necessario darsi delle regole. A questo ha provveduto Cn. Pompeo: «ma le cause continuarono a venir trattate tutte nel foro, tutte in pieno regime di legalità, tutte davanti ai pretori»21.
Poi il viraggio netto, ruotante attorno al concetto di vera legalità: col principato (prezzo da pagare necessariamente alla pacificazione) «il lungo periodo di quiete, l’apatia indisturbata del popolo, l’ininterrotta tranquillità del senato, l’assoluta disciplina imposta dal principe avevano pacificato, come ogni altro aspetto della vita civile, anche l’eloquenza»22.
Facile sentire, dietro alle parole tranquille, più accorata rassegnazione che riconoscimento di un superiore livello di vita. Ed ecco questo fondamentale capitolo 39, in cui Materno/Tacito avverte il lettore: sta per raccontare una cosa che strapperà un sorriso. Pare chiaro: non si riferisce solo alla ridicola immagine dell’avvocato/oratore stretto nella sua paenula, nuova uniforme dell’oratoria decaduta. Lancia un segnale: «forzerò i toni, parlerò per antifrasi, occorre capire qualcosa di più di quanto io dica o possa dire». Il capitolo 39 gira attorno ad alcune poderose immagini: gli oratori, come i cavalli di razza, hanno bisogno di ampi spazi per provare il loro valore, non possono parlare nel deserto, sentono sulla pelle gli applausi e la pressione di un pubblico grande e attento, magari non sempre favorevole, talora perfino ostile.
Ed ecco il capitolo 40: immaginiamo che Materno alzi il tono della voce e si lasci trasportare. L’oratoria antica era un fuoco e la parità effettiva di diritti permetteva di attaccare i potenti e anzi «il vanto veniva dall’avere nemici importanti»23! L’argomentazione sarà ripresa e ribadita tra qualche tratto. E allora com’era la vera eloquenza? «Era capace di lasciare il segno, nutrita di insubordinazione (quella che qualche sciocco chiama libertà), compagna delle sedizioni, provocatrice di un popolo sfrenato, restia all’obbedienza e al rigore, insofferente, temeraria, arrogante, quale, insomma, mai nasce nelle città bene ordinate»24.
Materno non ha bisogno di ricordare che sta parlando per antifrasi, ma lo fa ugualmente anche se in modo indiretto. A Sparta e a Creta, si chiede e chiede, c’è mai stata grande oratoria? No, perche là funzionava una inattaccabile legalità (da leggere dispotismo, autoritarismo?). E prosegue: «fino a quando la nostra città deviò dalla sua strada e fino a quando si consumò nelle discordie e nelle lotte di parte; finché il foro non fu pacificato, finché il senato non trovò concordia di intenti, finché non vi fu regola nei procedimenti giudiziari, finché nessun rispetto era dovuto ai potenti, finché i magistrati non ebbero limitazioni al loro potere, Roma produsse una più valida eloquenza, come un campo non domato dall’aratro produce erbacce rigogliose»25.
L’immagine delle erbacce rigogliose è perfino trionfale. Mediato dalla struttura del dialogo e frenato dalla naturale prudenza indotta dai tempi, qui troviamo, nella sua interezza, Tacito, con le sue nostalgie rassegnate, ma vivide nella memoria e ancora fertili di atteggiamenti eticamente dolorosi.
Non è casuale che il capitolo si chiuda sui Gracchi la cui «eloquenza non fu per la repubblica tanto preziosa, da tollerare anche le loro proposte di legge»26.
Esattamento come negli Annales: i Gracchi sono definiti, con qualche ostilità, perturbatori della plebe27. Ma quando la situazione si deteriora e rotola verso il peggio, ecco a ristabilire l’ordine Cn. Pompeo: ma i rimedi sono peggiori del male e Pompeo deve sovvertire le leggi da lui stesso create28!
GIAN DOMENICO MAZZOCATO
1 «...non modo aliorum, sed etiam nostri superstites sumus.» (Agricola, 3).
2 «... satiari vultu, complexuque non contigit.» (Agricola, 45).
3 «Divus Iulius ... potest videri ostendisse posteris, non tradidisse.» (Agricola, 13).
4 «Transigite cum expeditionibus, imponite quinquaginta annis magnum diem...» (Agricola, 34).
5 «Quod ni frequens ubique Agricola... iussiset.» (Agricola, 37).
6 «...visa classis obstupefaciebat, tamquam aperto maris sui secreto, ultimum victis perfugium clauderetur.» (Agricola, 25).
7 Agricola, 40.
8 Agricola, 42.
9 Historiae, I, 3.
10 «iam urgentibus Romanam urbem fatis» (Livio, V, 36) e «iam fato quoque urgente» (Livio, V, 22).
11 Germania, 33.
12 loc. cit.
13 «Nec aliud adversus validissimas gentis pro nobis utilius, quam quod in commune non consulunt» (Agricola, 12); «... nostris illi dissensionibus ac discordiis clari vitia hostium in gloriam exercitus sui vertunt» (Agricola, 32).
14 «...quae fato manent, quamvis significata, non vitantur.» (Historiae, I, 18).
15 «...impares libertini libertatis argumentum sunt.» (Germania, 25).
16 Germania, 13.
17 «Argentum et aurum propitiine an irati dii negaverint dubito.» (Germania, 5).
18 «Iam et pecuniam accipere docuimus.» (Germania, 15).
19 «Raro armis nostris, saepius pecunia iuvantur, nec minus valent.» (Germania, 42).
20 Dialogus de oratoribus, 38.
21 loc. cit.
22 loc. cit.
23 Dialogus de oratoribus, 40.
24 loc. cit.
25 Dialogus de oratoribus, loc. cit.
26 loc. cit.
27 «Hinc Gracchi et Saturnini turbatores plebis...» (Annales, III, 27).
28 «Cn. Pompeius, ...corrigendis moribus delectus et gravior remediis quam delicta erant, suarumque legum auctor idem ac subversu...» (Annales, III, 28).