Introduzione
Il nome dell’erudito e poligrafo Cornelio Nepote dice sicuramente poco ai giovani d’oggi, immersi in un presente dominato dalla tecnologia e dalle scienze e protesi verso un futuro che dal presente già sanno sarà diverso; ma risveglia certamente vecchi ricordi, e forse anche qualche senso di fastidio, negli esponenti delle generazioni passate che proprio ai suoi scritti biografici, e a quelli di altri autori ritenuti facili, legarono i primi maldestri tentativi di apprendimento scolastico della lingua latina. L’eccessiva semplicità degli scritti corneliani fece emettere nel 1782 un tagliente giudizio al Mably, che arrivò a definirli buoni solo per i bambini; ma, poiché c’era anche chi la riteneva «maestosa», unitamente alla grande varietà dei contenuti e al loro valore documentario, tale semplicità ha garantito a Nepote una fortuna notevole, che è però sicuramente sproporzionata in rapporto alla modesta profondità del suo spirito e all’ingenuità conservatrice del suo pensiero. Perché allora riaccostarci oggi ad un autore come lui? La risposta non è facile e richiede prima gli opportuni approfondimenti.
Cornelio Nepote è un personaggio di cui si sa veramente poco. Neanche il suo prenome ci è stato tramandato. Dalla Storia naturale di Plinio il Vecchio (3, 18, 127) sappiamo che sarebbe stato Padi accola, cioè «abitante nei dintorni del Po»; dal poeta Ausonio (Egloghe 1, 9) che sarebbe stato Gallo e conterraneo del poeta Catullo. Combinando tali dati con varie altre notizie, molti studiosi hanno creduto di dargli una patria in Pavia, l’antica Ticinum, che però non è sul Po. Sicché altri lo hanno fatto piuttosto nativo di Osti glia (Mantova), località che meglio risponderebbe al requisito della «padanità» e sicuramente meglio si adatterebbe a spiegare i rapporti di stima e di amicizia intercorsi con Catullo, che proprio a Nepote dedicava, come si ricorderà, il lepidus libellus dei suoi carmi, compiacendosi nel contempo, con riferimento alle Cronache corneliane, delle dotte e faticose realizzazioni storiografiche dell’amico.
La precisa data di nascita ci è ignota, ma indizi vari, contenuti in quello che ci è rimasto nei relitti delle sue opere, ce la fanno collocare intorno al 100 a.C. All’età di circa 30 anni si trasferì a Roma, forse su sollecitazione del suo maestro, Valerio Catone, e, grazie alla notorietà acquisita con la già ricordata opera cronografiai, potè stringere vincoli di stima ed amicizia con grossi per sonaggi del mondo romano. Tra questi sono da annoverare il famoso editore Tito Pomponio Attico, grande amico di Cicerone e destinatario di molte sue epistole, e Cicerone stesso. Per il primo Cornelio nutrì sentimenti di vera e propria devozione e nella biografia a lui dedicata appare tanto minuziosamente informato dei suoi affari e delle sue vicende, da render lecito considerarlo, come s’è fatto, non che un semplice segretario – compito questo che non si addiceva che a schiavi -, addirittura socio e collaboratore di Attico. A legare i due contribuivano, accanto alle comuni prospettive letterarie e divulgative, gli interessi per Veditoria, esplicitamente attestati dalle fonti anche per Cornelio. Quanto a Cicerone, la loro familiarità è testimoniata dagli almeno due libri di epistole da lui indirizzate al biografo, come ci informa Macrobio nei Saturnali (2, 14), e dalle relative risposte (Lattanzio, Istituzioni divine, 3, 15, 10).
Scriveva Gerolamo nel Chronicon che il Nostro avrebbe raggiunto il vertice della carriera letteraria intorno al 40 a.C., collegando quasi certamente il suo floruit con la pubblicazione di un’opera di vasta divulgazione quale gli Esempi. È difficile invece precisare gli anni della stesura e della pubblicazione delle Vite degli uomini illustri, l’unica opera che ci è, a dire il vero molto parzialmente, pervenuta. Anche se i più pensano agli anni 35-32 a.C., non si può escludere che l’opera sia stata invece concepita e realizzata in un più lungo arco di tempo e pubblicata a spezzoni autonomi, organicamente unitari e in quanto tali eventualmente rielaborabili: un ’opera aperta dunque, cosa che esime dal presumere necessariamente una seconda edizione.
Anche la data della morte di Nepote è incerta. L’unica notizia che ne abbiamo è molto vaga. Secondo Plinio il Vecchio, infatti, sarebbe morto «sotto il principato di Augusto», il che porta al dopo Azio (31 a.C.) e forse a non prima del 27, anno della decisiva seduta senatoriale, nella quale fu concesso ad Ottaviano il titolo di Augustus.
L’eccessiva sporadicità delle notizie sulla vita di Cornelio, ricostruibile, come s’è visto, per lo più lasciando aperto un ventaglio di ipotesi, è riconducibile senz’altro al suo non eccelso spessore letterario e scientifico; ma la si può anche leggere in dipendenza dal fatto che, come è forse comprensibile in relazione a tempi così duri e travagliati quali quelli della Roma dell’età delle guerre civili, egli condusse una vita lontana dalle attività pubbliche, al contrario di altri personaggi di spicco della letteratura latina coeva, che furono invischiati in prima persona nella vita politica, anche ad altissimo livello. Non si può non pensare, nell’uno e nell’altro caso, a certi intellettuali dei nostri giorni, a quelli che si chiudono come Nepote nella torre d’avorio dei loro studi e delle loro attività assistendo imperturbati all’evolversi delle vicende; e per converso a quelli che si tuffano negli avvenimenti, scadendo però fino al punto di asservire il loro prestigio e le loro capacità mentali e tecniche a questa o quella fazione politica. E dire che a Cornelio, come del resto al suo mecenate Attico, al cui comportamento prudente e moderato egli si uniformava fino al punto di idealizzarlo, non mancavano né i mezzi né le doti per fare il politico. A detta di Plinio il Giovane (Lettere 5, 3, 6) Nepote, che non fu senatore, era anzi di una dirittura interiore non indegna di quell’ordine. Da questa affermazione qualcuno ha anche dedotto, ma non del tutto correttamente, un’appartenenza del nostro biografo all’ordine equestre.
La nebulosità che avvolge persino i dati più elementari della vita di Cornelio, connota anche il suo Fortleben, dal momento che solo una minima parte delle sue opere ci è arrivata, e per di più in gran parte sotto il nome, altrimenti ignoto, di un Emilio Probo, versi del quale, sicuramente databili al IV secolo d.C., sono stati tramandati in coda al testo di una delle Vite rimasteci. La querelle sulla vera paternità di queste ultime si è trascinata per secoli a partire da Sicco Polenton, nel Quattrocento, ma si è oggi definitivamente risolta a vantaggio di Nepote. A Probo non si è riconosciuto che il ruolo (meritorio) del copista, e gli si è perfino negato il diritto di fregiarsi del nome di Emilio. Il fatto è davvero curioso e divertente: il glorioso nome gli sarebbe stato attribuito per il banale errore di un copista medievale che avrebbe sciolto male l’abbreviazione Em. Probus del manoscritto, leggendo (A)em(ilius) Probus, anziché Em(endavi) Probus, frase che si riferiva appunto all’attività di trascrizione del testo.
Il fatto decisivo nella vita del cisalpino Nepote è indubbiamente il suo trasferimento a Roma. Così come quello di Valerio Catullo, esso è probabilmente connesso col riaccendersi nell’Urbs di un vivo interesse per la cultura grecanica, legato ad una serie di note concause. Sono forse nel vero quanti individuano nel grammatico e poeta Valerio Catone, anch’egli cisalpino, il promotore del trasferimento, nel senso che sarebbe stato lui ad attirare nella capitale una schiera di allievi ed amici, cultori già in patria della cultura ellenizzante, dando con ciò esca all’esperienza neoterica dei poetae novi (da cui pare non sia stato immune lo stesso Cornelio), esperienza che si sarebbe quindi nutrita non solo di influssi ellenistici, ma anche, in qualche maniera, di valori riconducibili al sostrato etnico dei componenti la cerchia. Non è del tutto fuor di luogo mettere a confronto questa specie di migrazione intellettuale con fenomeni analoghi a noi più vicini, ad esempio quelli che hanno visto come centro di attrazione Parigi e, da noi, Roma, Firenze o Milano, città che sono state spesso occasionali epicentri di scuole e correnti letterarie ed artistiche; o nazioni importanti, come gli Stati Uniti nel secondo quarto del nostro secolo, vera e propria spugna di assorbimento per intellettuali e scienziati europei, soprattutto tedeschi. L’attività «migratoria» verso Roma dei tempi di Cornelio veniva incoraggiata da gente come Attico, che non solo si prestava a far da punto di riferimento per i vari intellettuali, coinvolgendoli in una serie di iniziative e promozioni, ma li aiutava anche economicamente, rendendoli compartecipi delle sue attività imprenditoriali. Così come fece col nostro biografo, che potè dedicarsi con la tranquillità necessaria alla composizione delle sue opere, magari non eccelse, ma certo molto impegnative e laboriose.
Tali furono in effetti le Cronache, l’opera cronografica in tre libri e tale la raccolta di Esempi, in almeno cinque. Sia delle une che degli altri non possediamo che frammenti (rispettivamente nove e ventisette), appena sufficienti per renderci conto del grande valore culturale dell’autore. A giudicare da essi il contenuto doveva essere molto vario. Nelle Cronache questo si allargava alla mitologia, alla letteratura, alla varia umanità. Specialmente negli Esempi è abbastanza chiaro poi l’intento dell’autore di non tralasciare campo alcuno dello scibile, di tutto approfondire, di tutto proporre al suo pubblico in complessi repertori ragionati. L’esigenza che informò le opere non fu certamente quella, come indurrebbe a credere il titolo della seconda, di fornire ai lettori dei modelli, dei punti di riferimento esemplari (nella stessa ottica cioè con cui si guardava alla storia, quando la si considerava magistra vitae), quanto piuttosto quella, caratteristica di molti poligrafi ed eruditi dell’età di Cornelio (e tra questi anche il maggiore, Varrone, o lo stesso Cicerone), della codificazione, della sistemazione e – nell’ambito di un decisivo impegno teso all’assimilazione della tradizione romana ai parametri della cultura letteraria «internazionale» – della divulgazione elevata. Era questo del resto un portato scontato del grave momento politico e sociale che si stava attraversando a Roma, dove le vicende che andavano susseguendosi facevano ormai a chiare lettere presagire la fine di un’epoca e spingevano, nell’attesa dei tempi nuovi, a fare dei consuntivi, a mettere assieme delle summe, a proceder quindi ad un lavoro di sistemazione che avrebbe dovuto rappresentare l’eredità di una gloriosa stagione della storia e della cultura romana per le generazioni future. A questo rispondeva l’eterogeneità dei contenuti delle due opere corneliane e una prova evidente è da riscontrare, ad esempio, nell’assenza, perlomeno nei frammenti degli Esempi rimastici, di fatti straordinari, meravigliosi, paradossali, del tipo tanto caro ai paradossografi ellenistici. Nei pochi frammenti sopravvissuti troviamo invece informazioni e dati di carattere geografico (se non appartengono ad altra opera specifica), naturalistico (zoologico e botanico), tecnico-edilizio, gastronomico e soprattutto topografico (circa la metà). Ma era questo che il pubblico richiedeva e questo Cornelio, come gli altri divulgatori contemporanei (tra i quali non si deve dimenticare il suo amico Attico), gli offriva. E negli stessi termini ragionavano i suoi contemporanei di fronte alla curiosità dei singoli di conoscere le proprie origini, le proprie radici. Tutti ricorderanno la caccia al proprio passato innescata qualche anno fa in America e da lì in tutto il mondo da un film televisivo di grande successo. Anche nella Roma degli ultimi anni della repubblica si diffuse una moda analoga, anzi una esigenza, veicolata e indotta dall’azione della propaganda augustea sull’opinione pubblica romana ed italica, che aveva imposto un complesso lavoro di esaltazione e di ricostruzione di carattere etnobiografico, con oggetto il popolo romano. Tra quelli che più l’avvertirono e se ne fecero carico, con ricerche di tipo genealogico e biografico (prosopografico, direbbero oggi certi studiosi) ci fu anche Attico, l’amico di Nepote. Ricerche di questo genere, peraltro, non erano che un aspetto di un vasto e complesso fenomeno culturale i cui germi seminali sono stati, più o meno correttamente, individuati negli elogi funebri e nello ius imaginum, il diritto cioè di esporre nelle proprie abitazioni maschere e ritratti dei defunti. Sulla base di una trasposizione analogica e con l’innesto in un filone letterario creato e sviluppato nel mondo ellenistico, si diffuse anche a Roma il genere biografico, quel genere cioè nel quale il nostro Cornelio è considerato il primo vero rappresentante, grazie alle sue Vite degli uomini illustri e alle due lunghe biografie, purtroppo perdute, di Catone e di Cicerone. Egli è anzi in assoluto il primo autore di biografie «politiche» una parte del cui lavoro sia sopravvissuta.
In origine la raccolta di vite era in almeno sedici libri, concepiti a coppie, con un libro dedicato a uomini famosi stranieri e uno a romani segnalatisi nello stesso campo. L’accostamento era solo meccanico, nel senso che il parallelismo non era concepito per esprimere giudizi di merito o alimentare ubbie nazionalistiche, come nel più tardo Plutarco. Cornelio prendeva in considerazione diverse categorie. Tra queste abbiamo attestate quelle dei generali, degli storici, dei re. Per le altre si fanno ipotesi, non sempre del tutto convincenti, sulla base dei poco più che venti frammenti rimastici e si pensa che i rimanenti libri trattassero di oratori, filosofi, poeti, giuristi, grammatici, retori, artisti. Non è detto però che nelle Vite ci fosse effettivamente spazio per tutte queste categorie professionali. Del prodotto biografico corneliano, complesso e vasto in obbedienza alle attitudini di erudito e poligrafo dell’autore, a noi non è, però, arrivata che una minima parte. Oltre i frammenti, abbiamo il proemio dell’opera, ventitré biografie del primo libro, che trattava dei generali stranieri (quasi tutti greci) e le Vite di Catone il Censore (la più breve delle due a lui dedicate da Nepote) e di Attico, dal libro degli storici latini.
Si è tentato, in passato, di inserire le Vite corneliane in uno dei due filoni individuati in un fondamentale, ma ormai superato saggio dal Leo; si è cercato cioè di inquadrarle nel filone «peripatetico» (esemplificato nella biografia plutarchea, attenta ai caratteri, alle considerazioni moraleggianti, alla psicologia) o in quello «alessandrino» (esemplificato invece nella biografia svetoniana, attenta ai dati, alle notizie, all’incasellamento in rubriche). A parte l’ormai riconosciuta inadeguatezza di tale polarizzazione (che ha indotto a teorizzare l’esistenza di altri filoni, come quello definito «encomiastico») ai fini di un esatto inquadramento del genere biografico, c’è da osservare come nel mondo romano la propensione per atteggiamenti di tipo «sincretistico», evidenti anche in altri campi, rendessero a priori impossibile, o perlomeno difficile, l’adesione a questo o quel modello precostituito. In Cornelio notiamo appunto il confluire, con dosaggio alquanto variato di volta in volta, delle forme delle varie correnti biografiche: c’è adesione ad una soltanto in alcune biografie, contaminazione e sovrapposizione in altre. La varietà investe anche la struttura delle singole vite, che è la più varia che si possa immaginare, già a guardare il poco che ci è rimasto.
Nel prologo della sua Vita di Alessandro Plutarco, così scriveva: «Io non scrivo un’opera di storia, ma delle vite». L’avvertenza ai lettori non è che una decisa presa di posizione e di adesione al genere biografico, un genere che gli antichi distinguevano nettamente, anche a livello di teorizzazione, da quello storiografico. Solo in età tardoantica la distanza tra i due generi sembrò attenuarsi, ingenerando confusione e sovrapposizione di idee e di generi. Anche Cornelio, all’inizio della Vita di Pelopida, aveva espresso idee analoghe a Plutarco. Egli scriveva infatti che il suo intendimento era quello di far conoscere al grosso pubblico le virtù degli eroi e la loro grandezza.
Conscio di scrivere vite e non storia, egli si mostrava teso ad evitare due grossi pericoli e cioè quello di raccontare i fatti troppo dettagliatamente e, all’opposto, quello di finire col toccare solo i principali e di cadere perciò nella trascuratezza. Da buon esponente del genere biografico, nel quale egli, come Plutarco, si autoinseriva, cercava di porre rimedio ai due eccessi, onde evitarne le nefaste conseguenze, la noia, cioè, e la disinformazione dei lettori.
Storia e biografia in qualcosa erano però simili ed esattamente nel carattere formativo ed esemplare che veniva loro attribuito. Per il resto gli autori di vite rigettavano qualsiasi pretesa di imparzialità, prendendo al contrario posizione a favore del genere encomiastico, rifiutandosi di narrare nel dettaglio e nel giusto ordine cronologico gli eventi (come appunto gli storici) e preferendo concentrarsi invece sulla vita e sul carattere di personalità, che si erano conquistate reputazione e gloria, lasciando un loro peculiare segno distintivo. L’attenzione per i tipi anziché per gli individui era ovviamente alla base di molte scelte in riguardo alle vite da trattare.
Sembrerebbe pertanto inutile e metodicamente scorretto giudicare Cornelio (e ogni altro biografo), come storico, nelle vesti cioè che egli non voleva dichiaratamente indossare. Ma poiché i moderni hanno finito con l’assimilare i due generi e le biografie tendono ad essere utilizzate alla stessa stregua delle fonti storiografiche, non sarà inutile spendere qualche parola sul valore storico delle Vite corneliane. In tale prospettiva bisogna prendere in considerazione fattori diversi, come la scelta e l’uso delle fonti, l’obbedienza alle leggi del genere e, naturalmente, le capacità personali.
Cornelio stesso ci fa conoscere i nomi di molti degli autori delle opere di cui si è servito, molto spesso indirettamente, per il tramite probabilmente di altri lavori di carattere biografico. Si tratta di storici importanti, come Tucidide o Polibio, ma più spesso meno importanti, come Timeo, segno evidente che la ricerca della verità storica non era il suo principale obiettivo. Né doveva esserlo, se doveva rispettare le leggi del genere nel quale si produceva. Queste imponevano obblighi selettivi di altro genere, visto che puntavano fondamentalmente sull’edificazione del lettore attraverso la proposizione di comportamenti, caratteri e psicologie esemplari. Tra i fatti, solo quelli che rispondevano a esigenze «tipologiche» apparivano degni di essere accolti nel singolo progetto biografico. Questo spiega le lacune, le sproporzioni strutturali tra un episodio e l’altro e tra una vita e l’altra, l’eccessiva concessione all’aneddoto e la ridotta presenza di considerazioni storiche. Ai negativi effetti di tutto ciò si sarebbe potuto opporre un efficace argine se Cornelio avesse mostrato maggior senso critico. Se al cocktail mescoliamo le accuse di credulità, errori, inesattezze e superficialità riusciamo perfettamente a capire il perché di certi pesanti giudizi nei confronti del Nostro.
A capirli però, ma non a condividerli del tutto. Va infatti evidenziato – e lo si è fatto ad esempio per altri importanti autori, come Svetonio – la scontata riduttività di un approccio al biografo che tenga pregiudizialmente conto della sola sua adesione a schemi e leggi di genere. È vero invece che la schematizzazione biografica di Nepote risultava fortemente condizionata anche dalla sua particolare intuizione della società, oltreché da fatti letterari puri e semplici. L’esaltazione del cavaliere Attico e delle sue scelte ci illumina su quello che era l’ideale politico corneliano, che era di moderazione, di centralismo, diremmo oggi, con una ben precisa tendenza però verso la conservazione. La sua in fondo era una scelta di tipo classicistico: il passato era infatti il suo ideale, perché in esso egli era convinto si potessero ritrovare quei valori e quei punti fermi che la rivoluzione morale, specie dopo l’età sillana, aveva completamente distrutto. Non staremo naturalmente a dar troppo rilievo all’ingenuità del biografo cisalpino, non foss’altro perché nel corso della storia dell’umanità figure di ben altra statura intellettuale si sono come lui illuse di uscire da momenti di crisi e travaglio col semplice richiamo alle esperienze passate. Lungi dall’essere dunque scontate concessioni al tópos o alle leggi del genere, o semplici espressioni di piatto buon senso, i pur rari interventi personali di Cornelio appaiono densi di significati se correttamente interpretati. A chi sa leggere le Vite nella giusta maniera la sua figura appare in una luce nuova e si finisce quindi per attribuirgli qualche merito in più di quanto in genere non si faccia oggi. Ci si rende anche conto di come la fortuna di cui egli ha ininterrottamente goduto in età moderna, non è addebitabile soltanto alla semplicità dei suoi scritti (maestosa per alcuni, assolutamente piatta per altri), alla loro varietà e alla loro rispondenza a canoni pedagogici e didattici.
Ma basta questo a giustificare una riproposizione della lettura delle Vite corneliane ai lettori dei nostri giorni, lettori di un’età in cui il rifiuto del classico si fa sempre più massiccio, coinvolgendo autori di ben altra rinomanza? La fortuna di qualsivoglia opera letteraria è sempre stata, anche al di là del valore intrinseco, strettamente connessa alla sintonia tra i suoi contenuti e il modo di pensare e di intendere del pubblico che ne deve fruire. Uno sguardo al numero di edizioni delle Vite dal Quattrocento ad oggi mostra come esse abbiano avuto fortuna sostanzialmente uniforme. Anche quando autori del calibro di un Plutarco mostravano flessioni per la ridotta rispondenza ai gusti di un’epoca, il nostro «lepidissimo historico», come lo definì il Boiardo, continuava ad essere pubblicato e letto. Forse ciò era dovuto, come si diceva prima, alla flessibilità che nasceva dalla grande varietà delle biografie di Nepote, forse alla loro semplicità e linearità, forse all’utilità sul piano pedagogico e didattico e su quello della formazione politica e militare. Qualcuna di queste caratteristiche potrebbe raccomandarne la lettura anche oggi. Ad incentivarla potrebbero altresì contribuire l’atteggiamento tollerante e la mobilità dei modelli etici di Cornelio, il suo razionalismo, la sua propensione per l’individualismo e il culto della personalità, la sua moderazione, pur se contrastante con la tendenza odierna all’estremizzazione delle posizioni. Non va infine sottovalutato il carattere eminentemente divulgativo dell’opera (genus scripturae leve), che, specie per un pubblico giovane (o di bocca buona), può pur sempre rappresentare un facile e allettante approccio al mondo classico.
ANTONINO PINZONE