Vita di Giulio Agricola

 

 

 

 

1. Ben poco interessano alla nostra epoca i suoi grandi uomini. Tuttavia neppure essa ha del tutto trascurato l’usanza (un tempo molto più praticata) di tramandare ai posteri le azioni e i costumi degli uomini illustri, tutte le volte che una qualche grande e nobile virtù è riuscita a sconfiggere e a calpestare il vizio che accomuna grandi e piccole nazioni: l’ignoranza e l’odio verso la giustizia.

Ma ai tempi dei nostri antenati non solo era più facile e agevole compiere atti degni di essere ricordati, ma anche i maggiori ingegni erano indotti a celebrare la virtù. E non erano spinti da spirito di parte o ambizioni personali; piuttosto si sentivano compensati dalla consapevolezza della propria onestà.

Sono molti, anzi, coloro che non hanno giudicato segno di presunzione, ma coscienza dei propri meriti, raccontare la loro vita. Né Rutilio1 né Scauro2 ne hanno ricavato motivo di sfiducia o biasimo perché le azioni virtuose sono maggiormente apprezzate nelle epoche in cui più facilmente fioriscono.

Invece io sono costretto, ora, mentre inizio a raccontare la vita di un defunto, a chiedere una indulgenza che non chiederei se mi accingessi a formulare accuse; così crudeli e ostili alla virtù sono i tempi presenti3.

 

2. Abbiamo letto che furono condannati a morte Aruleno Rustico per aver lodato Peto Trasea ed Erennio Senecione per aver lodatoPrisco Elvidio4. E si incrudelì non solo contro le loro persone maanche contro i loro libri, al punto che i triumviri5 ebbero l’incarico pubblico di bruciare nel foro e proprio nel luogo dei comizi le opere di quegli straordinari ingegni.

Essi credevano davvero di poter cancellare con quelle fiamme la voce del popolo romano, la libertà del senato e la coscienza di ogni uomo. Come se non bastasse furono anche banditi i filosofi6 e mandata in esilio ogni buona arte, perché nulla di onesto si potesse in alcun luogo incontrare.

Abbiamo dato certamente un grande esempio di sopportazione; e come l’antica età repubblicana era giunta al limite estremo della libertà, noi toccammo il confine ultimo della schiavitù poiché, per mezzo di spie, ci avevano tolto perfino lo scambio di idee e parole. Assieme alla voce avremmo perduto anche la memoria, se fosse stato in nostro potere dimenticare, come lo era il tacere.

 

3. Ora torna finalmente il coraggio. Benché al primo sorgere di questa fortunata epoca Nerva Cesare7 abbia associato due elementi incompatibili (il principato e la libertà); benché Nerva Traiano8 faccia crescere ogni giorno la felicità di questi tempi facendo della sicurezza dei cittadini non solo una speranza o un desiderio ma robusta prospettiva che essa sia davvero realizzabile, tuttavia i rimedi operano più lentamente dei mali. Ciò avviene per la naturale debolezza umana e come i nostri corpi crescono con gradualità ma muoiono di colpo, così è più facile soffocare l’attività degli ingegni che richiamarli a nuova vita. Anzi: subentra la dolcezza dell’ignavia stessa e la pigrizia, prima odiata, finisce con l’essere apprezzata.

Così per quindici anni9 (un periodo lunghissimo nella vita di un uomo!) molti sono venuti meno per casi fortuiti, ma le persone più ardite sono morte per la crudeltà del principe. In pochi siamo sopravvissuti: non solo agli altri, ma, se posso dire così, a noi stessi. Dal fiore degli anni ci è stato strappato un periodo tanto lungo che quelli che tra noi erano giovani sono diventati vecchi e i vecchi sono giunti al limite dei loro anni. E nel silenzio.

Tuttavia non mi rincrescerà di aver messo a confronto, seppur con stile disadorno e rozzo10, la memoria della schiavitù di ieri con la testimonianza del bene di oggi. Intanto questo libro, col quale io voglio onorare mio suocero Agricola, sarà lodato come prova del mio affetto o almeno trattato con indulgenza.

 

4. Gneo Giulio Agricola nacque nell’antica e illustre colonia di Forogiulio11; entrambi gli avi furono procuratori imperiali, e dunque egli apparteneva alla nobiltà equestre. Suo padre, Giulio Grecino12, apparteneva all’ordine senatorio ed era noto per lo zelo con cui coltivava eloquenza e filosofia. Ma furono questi suoi meriti ad attirargli l’ira di Gaio Cesare. Infatti aveva ricevuto l’ordine di accusare Marco Silano13, ma si era rifiutato ed era stato ucciso.

Sua madre, Giulia Procilla, fu donna di esemplare pudicizia: educato nel suo grembo e circondato dall’affetto, trascorse fanciullezza e adolescenza coltivando le arti liberali. Lo tenevano distante dagli allettamenti del vizio non solo la sua indole buona e sincera, ma anche il fatto che fin da bambino risiedette e studiò a Marsiglia, città dove si incontrano e bene si accordano la raffinatezza greca e la semplicità tipica della vita di provincia.

Ricordo bene che Agricola raccontava spesso che egli, ancora giovanissimo, studiava la filosofia con un accanimento superiore a quello consentito a un romano e per di più senatore. Tuttavia la prudenza della madre frenava il suo animo focoso ed entusiasta. E certo il suo ingegno eletto e teso alla perfezione aspirava, senza cautele e, anzi, con grande trasporto, a una gloria splendida e sublime. Poi con l’età prevalse la moderazione che lo frenò. Ma dei suoi studi filosofici egli, cosa difficilissima, conservò il senso della misura.

 

5. Iniziò la carriera militare in Britannia, meritandosi l’approvazione di Suetonio Paolino14, comandante avveduto e prudente che lo reputò degno di far parte del suo quartier generale. Agricola non fece come tanti giovani che trasformano la vita militare in occasione di dissipazione: non usò il suo titolo di tribuno e la sua inesperienza per darsi con indolenza ai piaceri e per ottenere congedi. Li usò invece per conoscere la provincia, per farsi conoscere dall’esercito, per imparare da chi era esperto, per imitare i migliori. Non faceva nulla per vanità, non rifiutava alcun incarico per paura, agiva con sollecitudine e attenzione.

Mai come in quei tempi la Britannia fu agitata e incerta: veterani trucidati, colonie incendiate, eserciti tagliati fuori15. Allora si combatteva per sopravvivere, poi per la vittoria.

Tutte queste cose avvenivano secondo le strategie e il comando di un altro e spettarono al comandante il successo finale e la gloria di aver recuperato la provincia; tuttavia la campagna militare fece crescere nel giovane abilità, pratica, motivazioni. Nel suo animo si fece strada il desiderio di gloria militare, mal tollerata in quel tempo in cui gli uomini in vista erano guardati con sospetto e da una grande reputazione venivano pericoli non minori che da una cattiva reputazione.

 

6. Di qui si trasferì a Roma per intraprendere la carriera politica. Sposò Domizia Decidiana16 e questo matrimonio diede lustro e impulso a lui che aspirava a grandi onori. La loro fu una convivenza segnata da ammirevole concordia, da vicendevole amore, da una gara continua da parte di ognuno per anteporre a sé l’altro: tanto più grandi sono i meriti di una buona moglie, quanto è maggiore la colpa di una cattiva compagna.

Il sorteggio della questura gli diede la provincia d’Asia e Salvio Tiziano come proconsole17: né la carica né il suo proconsole riuscirono a corromperlo. E dire che la provincia era ricca e anche allettante per chi volesse rubare e il proconsole, avido di ogni cosa, era disponibilissimo a comperare con qualsiasi favore il reciproco silenzio sulle malversazioni. Lì ebbe una figlia18, che gli fu di grande aiuto e conforto, visto che gli era morto poco prima un figlio.

Successivamente trascorse tranquillo e senza incarichi l’intervallo tra questura e il tribunato e lo stesso anno di tribunato, ben consapevole che sotto Nerone la mancanza di spirito di iniziativa era un saggio comportamento. Stesso silenzio e uguale atteggiamento durante la pretura: non gli era infatti toccata nessuna funzione giudiziaria19. Organizzò i giochi e le cerimonie – spesso inutili – connesse alla sua carica cercando il giusto mezzo tra parsimonia e dispendiosità, attirandosi buona fama nella misura in cui evitava lo sfarzo.

Allora fu scelto da Galba all’incarico di ispettore dei doni dei templi e grazie alla sua meticolosa investigazione dimostrò che lo Stato non aveva subito furti sacrileghi (eccettuati quelli compiuti da Nerone).

 

7. L’anno seguente inflisse un duro colpo al suo animo e alla sua casa. I soldati della flotta otoniana, vagando senza alcun freno, sottoposero a saccheggio Intimilio20, in Liguria, e uccisero la madre di Agricola nei suoi possedimenti. Depredarono le sue terre e gran parte del patrimonio (questa era stata la causa dell’uccisione).

Agricola partì per tributare con pietà figliale gli onori funebri e fu raggiunto dalla notizia che Vespasiano aveva assunto l’impero: subito aderì al suo partito. Reggeva quel principato ai suoi esordi e la stessa Roma, Muciano21, dato che Domiziano era ancora giovane e traeva dal potere paterno solo motivi di arroganza.

Agricola fu mandato ad arruolare soldati: Muciano lo giudicò onesto e abile e gli affidò il comando della ventesima legione22, molto restia nel giurare fedeltà al nuovo imperatore; si diceva anzi che il suo predecessore fomentasse sedizioni. Essa era, in verità, indocile e incuteva timore anche ai legati consolari. Era impotente a domarla perfino il legato pretorio, forse per la disposizione d’animo sua, forse per quella dei soldati. Così Agricola fu insieme successore e restauratore dell’ordine: diede prova di una accortezza non facile a trovarsi, preferendo far vedere che aveva trovato la legione già pacificata e non che l’aveva pacificata lui.

 

8. Il comando della Britannia era allora detenuto da Vettio Bolano23 con mitezza eccessiva se paragonata alla riottosità di quella provincia. Agricola, abituato all’obbedienza e abile nel conciliare l’utile e l’onesto, moderò il suo desiderio di azione e il suo entusiasmo per non fare ombra a Vettio.

Subito dopo la Britannia ebbe, come consolare, Petilio Ceriale24. Immediatamente i meriti di Agricola ebbero modo di risaltare: a dire il vero, in un primo tempo, Ceriale gli affidava solo fatiche e rischi, poi lo associò nella gloria dell’impresa; spesso gli affidava parti dell’esercito per metterlo alla prova, talvolta, soddisfatto dagli esiti delle sue imprese, lo mise a capo di forze più numerose.

Agricola, dal canto suo, non ostentò mai vanagloria per le imprese compiute; piuttosto riservava a sé il ruolo dell’esecutore e il merito del successo a chi aveva l’iniziativa e il comando della campagna. Così, portato all’obbedienza e accorto nel parlare, si teneva fuori dall’invidia e si procurava ugualmente titoli di merito.

 

9. Il divo Vespasiano aspettò che tornasse dal comando della legione per accoglierlo nel numero dei patrizi25; poi gli affidò il governo dell’Aquitania: era una altissima dignità non solo per l’importanza dell’ufficio ma per la prospettiva del consolato cui da questa scelta era avviato.

Sono in molti a credere che alle menti abituate alla vita militare manchi la furbizia, perché la giustizia militare è sbrigativa, semplice e soprattutto immediata e dunque non abitua alle astuzie delr attività forense. Agricola invece possedeva una connaturata prudenza e sapeva facilmente comportarsi con equilibrio anche tra magistrati civili.

E del resto sapeva dividere bene le ore da dedicare agli affari e quelle per il riposo. Quando lo richiedevano le assemblee e l’amministrazione della giustizia, sapeva essere serio, attento, severo e, molto spesso, anche clemente. Quando aveva sbrigato le pratiche d’ufficio, smetteva la maschera del potere e si spogliava della severità, del sussiego, della inesorabilità. Inoltre, cosa non certo frequente, la disponibilità non diminuiva la sua autorevolezza e la severità non gli impediva di essere amato.

Sarebbe ingiusto nei riguardi delle virtù di un simile uomo, lodare soltanto 1"integrità e il disinteresse. La fama, poi, egli non se la procurò ostentando i suoi meriti o con intrighi (così fanno in molti, anche se sono uomini onesti): si tenne lontano dalla competizione con i colleghi e dalle beghe contro i procuratori, poiché giudicava inglorioso riuscire vincitore in simili contrapposizioni ma anche vergognoso uscirne sconfitto.

Tenne quell’incarico meno di tre anni26; subito fu chiamato alla speranza del consolato: lo accompagnava la voce comune che gli era destinata la Britannia, non perché lui alimentasse chiacchiere in questo senso ma perché sembrava all’altezza del compito. L’opinione pubblica non sempre sbaglia: qualche volta, anche, designa correttamente.

Fatto console, egli promise a me giovanissimo sua figlia27 in cui riponeva ogni speranza e, dopo il consolato, me la diede in sposa. Subito dopo ebbe il comando della Britannia e gli fu anche conferita la dignità pontificale.

 

10. Molti scrittori28 hanno descritto geografia e popoli della Britannia. Io non intendo mettermi in competizione di studio o di ingegno con loro, ma ne riferirò tenuto conto che solo allora essa fu sottomessa e così quelle notizie ancora non conosciute con esattezza che i miei predecessori hanno abbellito con la fantasia, io le esporrò con la credibilità che viene dalla verità29.

La Britannia è la più grande tra le isole note ai Romani. Quanto a posizione geografica e astronomica essa si estende verso la Germania a oriente, verso la Spagna a occidente; a mezzogiorno ha la Gallia dalla quale essa è visibile; la sua parte settentrionale è battuta dal mare devastante e infinito, non essendoci di fronte alcuna terra.

Livio tra gli scrittori antichi e Fabio Rustico30 tra quelli recenti (entrambi storici di grande eleganza), hanno paragonato la forma della Britannia a un piatto allungato o a una scure bipenne. Effettivamente tale è la sua forma al di qua della Caledonia e per questo si è pensato che questa fosse la configurazione dell’intera isola. Per chi si spinge oltre la sterminata e informe distesa di terre che si estendono oltre quel litorale estremo, la Britannia si assottiglia a guisa di cuneo.

La flotta romana che per la prima volta ha costeggiato la costa del più lontano mare, confermò che la Britannia è un’isola. Allo stesso tempo scoperse e soggiogò le isole, fino ad allora sconosciute, chiamate Orcadi. Fu scorta perfino Tule31, perché l’ordine era di non spingersi oltre e incombeva la brutta stagione.

Ma il mare, torpido e greve a chi cerca di remare, a quanto si dice, non viene sollevato neppure dai venti. Io penso che sia dovuto al fatto che le terre e i monti, causa e materia di tempeste, sono lì radi e una grande e ininterrotta massa marina fa più fatica a muoversi.

Natura dell’Oceano e maree non sono materia di questo libro. Molti ne hanno parlato; io aggiungo solo che in nessun luogo il mare si estende con tanta ampiezza anche per via di molti bracci che si diramano in ogni direzione. Il mare inoltre non solo cresce e decresce lungo il litorale, ma entra profondamente nelle terre, vi circola, si introduce persino tra le montagne come in suo dominio.

 

11. Se i primi abitatori della Britannia siano stati autoctoni o immigrati, è questione irrisolta come spesso accade ai barbari ignoranti. I loro corpi hanno strutture diverse e si possono formulare differenti ipotesi: le chiome rosso-oro degli abitanti della Caledonia e le grandi membra sembrerebbero provare l’origine germanica; i volti scuri e i capelli prevalentemente crespi dei Siluri32 oltre alla posizione contrapposta a quella della Spagna fanno credere che gli antichi Iberi abbiano passato lo stretto e si siano stanziati là. I più vicini ai Galli sono simili a costoro, forse perché permangono i caratteri originari, forse perché il clima forgia corporature simili in terre che si protendono l’una verso l’altra in direzioni opposte.

In generale è plausibile che i Galli, data la loro vicinanza, abbiano occupato l’isola. È possibile riconoscere i loro riti per le identiche credenze superstiziose; la lingua è abbastanza simile ed essi sono altrettanto audaci nel cercarsi i pericoli e uguale è anche la paura nel fuggire da questi quando davvero si presentano.

I Britanni comunque ostentano superiore fierezza, come di chi non si è rammollito in una lunga pace. Noi sappiamo che il massimo fulgore delle popolazioni galliche è coinciso con le loro guerre; poi la tranquillità ha generato in essi l’inerzia e andarono del pari perduti valore e libertà. Ai Britanni sconfitti in epoche più antiche33 è successa la stessa cosa; gli altri rimangono tali quali erano i Galli.

 

12. I Britanni hanno il loro nerbo nella fanteria, ma alcune tribù vanno in battaglia anche sul carro. L’auriga è il più nobile, a combattere sono i suoi clienti. Una volta obbedivano a dei re; ora sono trascinati in contrapposti partiti e in diverse passioni politiche da vari capi.

È gente molto valorosa e per noi nessun aiuto è più prezioso del fatto che non riescono mai a prendere decisioni comuni34. Molto rara è la coalizione di due o tre tribù al fine di affrontare un comune pericolo: combattono separatamente e tutti insieme vengono sconfitti.

Il cielo è spesso ottenebrato da piogge e da nuvole, ma il freddo non è mai eccessivo. I giorni sono più lunghi dei nostri; la notte è chiara e così breve nella parte più settentrionale della Britannia che solo un esiguo intervallo consente di individuare la fine e l’inizio della luce.

Sento dire perfino che, se le nubi non velano il cielo, si può vedere di notte il fulgore del sole, il quale non sorge e non tramonta: semplicemente trascorre nel cielo. Certo nelle più settentrionali distese della terra, a causa delle ombre che sono basse, le tenebre non si levano in alto e la notte non raggiunge lo spazio delle stelle35.

Il terreno è coltivabile: escludendo l’ulivo, la vite e le altre coltivazioni tipiche delle terre più calde, è fecondo di messi. La maturazione è lenta e rapido il germogliare; la causa dei due fenomeni è la stessa: la grande umidità della terra e del cielo.

La Britannia è ricca di oro, argento e altri metalli: compenso alla conquista. L’Oceano genera perle piuttosto scure e livide. Alcuni pensano che dipenda da scarsa perizia nel raccoglierle: infatti nel mar Rosso vengono staccate dagli scogli ancor vive e respiranti; in Britannia vengono invece raccolte mano a mano che vengono buttate fuori dalle onde del mare. Sono più disposto a credere che ci sia difetto nella natura delle perle, piuttosto che nell’avidità romana.

 

13. I Britanni accettano tranquillamente gli arruolamenti, i tributi e gli altri oneri imposti dall’impero, purché non accompagnati da torti; invece mal sopportano le ingiustizie: sono soggiogati all’obbedienza, non ancora alla schiavitù. Primo fra i Romani, il divo Giulio portò un esercito sul suolo britannico: pur terrorizzando gli indigeni in una fortunata battaglia e pur essendosi impadronito della zona costiera, si può dire che egli abbia indicato quella terra ai posteri, non che l’abbia trasmessa loro36.

Poi vennero le guerre civili: i capi rivolsero le loro armi contro la cosa pubblica e anche in tempo di pace la Britannia fu a lungo dimenticata. Il divo Augusto definiva avvedutezza politica questa dimenticanza37 e per Tiberio fu una sorte di ordine ereditato. È noto che Caligola progettò a lungo una invasione della Britannia38, ma egli aveva natura facile ai ripensamenti ed era scoraggiato dai tentativi, imponenti ma vani, effettuati contro la Germania.

Il divo Claudio rinnovò l’impresa39: egli trasferì nell’isola legioni e milizie ausiliarie e associò Vespasiano al comando dell’impresa (e per Vespasiano questo fu l’inizio della fortuna ormai imminente). Furono soggiogati dei popoli, furono catturati dei re, fu designata dal fato la persona di Vespasiano.

 

14. Il primo legato consolare inviato a governare la Britannia fu Aulo Plauzio40; poi Ostorio Scapola41: furono due grandi condottieri che gradualmente ridussero a provincia la parte più vicina della Britannia e fondarono una colonia di veterani42. Recarono in dono alcune tribù al re Cogidumno (dimostratosi di una fedeltà a tutta prova fino ai nostri giorni), secondo la vecchia e consolidata abitudine del popolo romano di usare anche i re come strumenti di asservimento.

Poi Didio Gelilo43 conservò le conquiste dei suoi predecessori, e si limitò a costruire alcuni forti in posizione avanzata solo per farsi la nomea di aver ampliato la provincia. A Didio succedette Veranio44, che morì dopo pochi mesi.

Dopo di lui, Suetonio Paolino resse con buon esito la provincia per due anni sottomettendo popoli e rafforzando le guarnigioni. Incoraggiato da questi successi, organizzò una spedizione contro l’isola di Mona45 che forniva aiuti ai ribelli, ma si sguarnì le spalle e offrì l’occasione per la rivolta.

 

15. Infatti i Britanni, scrollatisi di dosso la paura grazie alla lontananza del legato, cominciarono a dibattere tra loro i disastri provocati dalla schiavitù: confrontavano le ingiustizie subite e, commentandole, accendevano il loro animo: la sopportazione non recava loro altro che imposizioni sempre più gravose. E loro accettavano di buon grado ogni cosa.

Prima avevano un solo re; ora se ne vedevano imporre due: il legato che incrudeliva contro le loro vite, il procuratore che depredava i loro beni. E a chi è sottomesso non fa differenza che i dominatori vadano d’accordo o siano divisi tra loro: uno si serve di centurioni, l’altro di schiavi ma entrambi sono dediti a violenze e soprusi. Nulla si salva dalla loro avidità, nulla dal loro desiderio di piaceri.

In guerra è il più forte ad avere diritto al bottino; invece erano soprattutto degli ignavi e dei vigliacchi a strappare loro le case, a deportare i figli, a imporre leve come a gente che soltanto per la sua patria non sa morire. Se i Britanni si fossero contati avrebbero scoperto quanto esiguo era il numero dei soldati sbarcati! Così le Germanie avevano scosso il loro giogo; e a difenderle non c’era l’Oceano, ma un fiume.

Loro potevano trovare motivazioni a combattere nella patria, nelle mogli, nei genitori; i Romani solo nell’avidità e nella lussuria. Se ne sarebbero andati, come aveva dovuto andarsene il divo Giulio: bastava emulare il valore degli antenati. Non dovevano spaventarsi per l’esito sfavorevole della prima o della seconda battaglia; può essere che la fortuna favorisca i primi assalti, ma la tenacia premia i disperati.

Ormai anche gli dèi avevano pietà dei Britanni: tenevano lontano il comandante romano e costringevano l’esercito nemico in un’altra isola. Era certo un passo difficile, ma loro, ormai, dovevano deliberare. Da quel momento era più pericoloso farsi sorprendere in simili progetti che osare.

 

16. Con questi discorsi si infiammarono l’un l’altro; tutti insieme intrapresero la guerra sotto la guida di una donna di sangue reale, Boudicca46 (essi nell’affidare il comando non distinguono tra uomini e donne). Assalirono i soldati di guarnigione nei fortini, espugnarono le difese e invasero la stessa colonia, sede della loro oppressione: ebbri di vittoria non risparmiarono alcuna crudeltà.

Se Paolino, avvisato della sommossa, non fosse giunto immediatamente, avremmo perduto la Britannia. Egli riuscì a restituirla all’antica sottomissione, riportando il successo in un’unica battaglia. Furono molti, però, quelli che non deposero le armi: erano sconvolti dalla consapevolezza del loro delitto e soprattutto dalla paura che il legato, uomo straordinario in tutto il resto, diventasse prepotente contro chi si arrendeva e prendesse provvedimenti più duri del solito come chi si vendica di una offesa personalmente subita.

Fu mandato dunque Petronio Turpiliano47, perché più facilmente placabile e soprattutto nuovo ai reati dei nemici e dunque più disponibile verso chi si pentiva. Egli ricompose i dissidi a lui preesistenti, non uscì dal compito prefissatogli e consegnò la provincia a Trebellio Massimo48. Trebellio, fiacco e per nulla esperto di vita militare, resse la provincia senza energia. Allora anche i barbari appresero a cedere agli allettamenti dei vizi e il sopraggiungere della guerra civile fornì un buon alibi all’inerzia49. Si dovettero patire discordie, perché i soldati, abituati al servizio attivo, nell’ozio si abbandonavano alla licenza.

Trebellio riuscì a evitare l’ira dell’esercito, in modo indecoroso e avvilente, fuggendo e nascondendosi; poi riaffermò, seppur in modo precario, la sua autorità e sembrò quasi che fosse stato patteggiato l’arbitrio dei soldati contro la salvezza del comandante. Alla fine la sommossa rientrò senza spargimento di sangue.

Nemmeno Vettio Bolano, nel perdurare delle guerre civili, governò con fermezza la Britannia: stessa inerzia nei riguardi dei nemici, identico disordine negli accampamenti. In ogni caso, Bolano, persona onesta e senza motivi per riuscire odioso, non s’era procurata molta ciutorevolezza, ma almeno era riuscito simpatico.

 

17. Ma quando Vespasiano recuperò all’impero la Britannia, assieme a tutto il resto del mondo, ecco allora grandi capitani e straordinari eserciti in grado di far capitolare le speranze dei nemici. Petilio Ceriale portò subito il terrore aggredendo la tribù dei Briganti50, che viene considerata la più numerosa dell’intera provincia. Si combattè a lungo e spesso con grande spargimento di sangue; alla fine Ceriale soggiogò la maggior parte dei Briganti sconfiggendoli o facendo pesare sul loro capo la minaccia della guerra.

Certamente Ceriale era destinato ad oscurare la diligenza e la fama di tutti i suoi successori. Ma Giulio Frontino51 seppe reggere il confronto: uomo grande quanto i tempi consentivano, sottomise la forte e combattiva gente dei Siluri dopo aver lottato non solo contro il valore degli uomini ma anche contro le difficoltà della regione.

 

18. Questa era la condizione della Britannia e questa la situazione militare che Agricola trovò quando, già a estate molto inoltrata, vi sbarcò: i soldati romani che ormai credevano sospesa ogni spedizione e pensavano al riposo; i nemici che aspettavano un’occasione propizia. La tribù degli Ordovici52, poco prima del suo arrivo, aveva quasi sterminato uno squadrone di cavalleria che operava nel suo territorio, e questa iniziativa aveva ridato coraggio a tutta la provincia.

Chi, tra le genti britanniche, voleva la guerra approvava l’esempio e aspettava le decisioni del nuovo legato. Agricola decise di affrontare il pericolo anche se l’estate era trascorsa, anche se le truppe erano disseminate per la provincia, anche se i soldati pensavano che ormai fosse imminente la stasi invernale delle operazioni (tutti fatti che ostacolano e ritardano chi vuole iniziare una guerra), anche se era opinione prevalente che si dovesse limitare a presidiare i luoghi meno tranquilli. Agricola radunò le legioni e pochi ausiliari e poiché gli Ordovici non avevano coraggio di scendere in pianura, fece salire lui l’esercito sulle alture: si pose davanti alla schiera perché il rischio esigeva lo stesso coraggio da parte di tutti.

Sterminò quasi tutto il popolo, consapevole che il successo deve essere sfruttato subito e che il terrore che avrebbe potuto incutere in seguito dipendeva da come aveva iniziato. Allora concepì il disegno di assoggettare tutta l’isola di Mona, al cui possesso, come ho raccontato prima, Paolino aveva dovuto rinunciare a causa della ribellione di tutta la Britannia.

Era una decisione improvvisa e mancavano le navi: il comandante supplì con la sua intelligenza e la sua fermezza. Fece deporre tutti i bagagli, scelse i più bravi tra gli ausiliari (erano quelli che conoscevano i guadi e sapevano nuotare alla loro maniera che consente di tenersi armi e cavalli) e li mandò avanti con tale rapidità che i nemici dovettero rendersi conto che nessun ostacolo era insormontabile per chi affrontava così la guerra: erano stupiti perché si aspettavano piuttosto una flotta, delle navi, un’azione dal mare53.

Così chiedettero la pace e l’isola si arrese. Agricola ne trasse fama e gloria poiché, di solito, coloro che prendono possesso di una provincia passano i primi tempi a mettersi in mostra e a ricevere onori. Lui invece aveva preferito spendere quel tempo tra pericoli e fatiche.

Pur dopo un simile successo, Agricola non si vantava e non chiamava col nome di campagna militare o vittoria l’aver tenuto a freno dei vinti. Non diede neppure conto delle sue imprese con lettere laureate, ma proprio nascondendo i suoi meriti finì con l’ottenere maggior fama, perché tutti si chiedevano cosa sperasse dal futuro uno che aveva passato sotto silenzio imprese così grandi.

 

19. Agricola conosceva le disposizioni d’animo dei provinciali e sapeva per le esperienze d’altri che a ben poco servono le armi se a esse tiene dietro l’ingiustizia. Dunque decise di troncare i motivi di conflittualità.

Cominciò da se stesso e dai suoi, tenendo a freno il seguito (cosa questa che è difficile almeno quanto il governo di una provincia). Non affidava alcun affare pubblico a liberti o a schiavi; non assumeva centurioni o soldati per spirito di parte, per raccomandazioni o suppliche, ma solo sulla base della loro bravura e della loro affidabilità.

Cercava di sapere ogni cosa, ma non puniva tutto. Regolava col perdono i piccoli falli, puniva con rigore i reati più gravi ma molto spesso si accontentava del pentimento. Affidava incarichi amministrativi a persone che non si sarebbero fatte tentare, piuttosto che punirle dopo averle colte in fallo.

Ammorbidì la riscossione dei tributi e del frumento, ripartendo equamente i gravami. Provvide anche a eliminare tutto ciò che, escogitato a fini di lucro, rendeva ancor più odioso il pagamento del tributo. I Britanni, in segno di scherno, dovevano attendere davanti ai granai chiusi, poi comperare il frumento e aggiungervi anche una mancia54. Venivano costretti a deviazioni di cammino e a spostamenti in regioni lontane; in questo modo, pur essendoci nelle vicinanze dei quartieri invernali, le popolazioni dovevano portare il grano in luoghi remoti e impraticabili. Insomma, quella che doveva essere una facilitazione per tutti, diventava il guadagno di pochi55.

 

20. Agricola represse questi abusi subito, già nel primo anno; restituì credito alla pace che, a causa della negligenza e dell’arroganza dei suoi predecessori, era temuta non meno della guerra.

Appena giunse l’estate56, radunò l’esercito e prese a mostrarsi spesso durante le marce; lodava chi si dimostrava disciplinato, tratteneva gli sbandati. Era lui a scegliere i luoghi per gli accampamenti e ad avventurarsi per primo nelle foci dei fiumi e nelle foreste. E intanto non lasciava ai nemici un attimo di tregua, mali depredava con improvvise scorrerie57. Quando li aveva spaventati a sufficienza, li trattava con magnanimità facendo loro gustare i vantaggi della pace.

Così molte tribù, che fino a quel giorno erano vissute indipendenti, diedero ostaggi e deposero l’atteggiamento ostile. Furono circondate da guarnigioni e da fortini in modo estremamente razionale e accurato: nessuna regione britannica era passata prima di allora dalla nostra parte in modo tanto pacifico.

 

21. L’inverno seguente fu speso in utilissimi provvedimenti. Infatti, per rendere abituali la quiete e le occupazioni pacifiche presso uomini abituati a vivere isolati, rozzi e dunque inclini alle guerre, Agricola procedette a esortazioni personali. Per quanto riguarda gli interventi pubblici, prese ad aiutare i Britanni nella costruzione di templi, piazze e case; lodava gli attivi, castigava i pigri in modo che la gara per ottenere premi sostituisse la costrizione.

Inoltre, grazie all’insegnamento delle arti liberali, dirozzava i figli dei capi e cominciò a preferire l’intelligenza dei Britanni alla diligente applicazione dei Galli: gente che poco prima aborriva la lingua latina, desiderava conoscere le regole dell’eloquenza. Cominciò a diffondersi anche il nostro modo di vestire e particolare fortuna ebbe la toga. Poco a poco i Britanni giunsero a farsi sedurre dai vizi e ad amare i portici, i bagni, i conviti eleganti. Non si accorgevano che chiamavano civiltà gli inizi della loro schiavitù.

 

22. Il terzo anno58 di spedizioni ci aperse la via a nuovi popoli perché furono devastate le regioni fino all’estuario del fiume chiamato Tanao59. Atterriti a morte, i nemici non osarono attaccare l’esercito pur messo a dura prova da tremende tempeste; ci fu dunque tempo per costruire anche dei fortini.

Chi se ne intendeva, notava che nessun altro comandante aveva mai scelto luoghi più adatti alla costruzione e con maggior avvedutezza. Nessun castello fatto innalzare da Agricola fu mai espugnato da alcun nemico o abbandonato per resa o fuga; infatti veniva reso ancor più affidabile contro i lunghi assedi da scorte sufficienti ad un anno. L’inverno diventava così una stagione sicura; si potevano fare frequenti sortite e ogni presidio era autosufficiente. I nemici si sentivano impotenti e ne erano disperati perché erano soliti compensare le sconfitte estive con i successi invernali, ma ora venivano ugualmente battuti nella brutta e nella buona stagione.

Né mai Agricola si dimostrò avido nell’appropriarsi di imprese altrui: centurioni o prefetti avevano in lui un fidatissimo testimone delle loro gesta. Qualcuno lo trovava troppo aspro nei rimproveri: in realtà aveva grande disponibilità verso gli onesti, ma non era certo piacevole contro i malvagi. Del resto l’ira durava in lui pochissimo: non erano da temere né il suo appartarsi né il suo silenzio. Riteneva più giusto un colpo inferto al momento che serbare rancore a lungo.

 

23. La quarta estate60 fu impiegata a consolidare il possesso delle regioni in cui era avanzato. Se il valore degli eserciti e la gloria del nome romano dovessero avere un limite, questo si sarebbe trovato proprio in Britannia. Infatti le acque della Clota e della Bodotria61, ricacciate indietro per immenso spazio dalle contrapposte maree, sono separate da una breve striscia di terra: lì egli consolidò la posizione con guarnigioni; tutta la zona costiera a noi vicina era saldamente presidiata e i nemici erano ricacciati di là, come su un’altra isola.

 

24. Nel quinto anno di campagna62 Agricola si spinse per la prima volta con la sua flotta in mari mai solcati e domò con scaramucce frequenti e tutte fortunate, popolazioni fino ad allora sconosciute. Fornì di una guarnigione di soldati la parte della Britannia che è rivolta verso l’Ibernia63. Era mosso non dalla paura di assalti ma dalla prospettiva che l’Ibernia, posta a metà strada tra la Britannia e la Spagna, potesse diventare, in questa parte importantissima dell’impero, un collegamento per scambi di ogni tipo: era inoltre accessibile anche dal mare di Gallia.

Paragonando la sua superficie a quella della Britannia, essa risulta più piccola, ma è comunque più grande delle isole dei nostri mari. Il suolo, il clima, l’indole, il modo di vivere degli abitanti non sono molto diversi da quelli della Britannia; gli approdi e i porti ci sono noti per via dei rapporti commerciali.

Agricola aveva accolto uno dei piccoli re di questa gente, espulso da una sedizione domestica e lo teneva in serbo per qualche buona occasione, dimostrandogli grande amicizia. Spesso Agricola mi ha raccontato che con una sola legione e poche milizie ausiliarie lTbernia poteva essere debellata e stabilmente mantenuta. Ciò avrebbe recato utilità anche alla Britannia, perché si sarebbero viste ovunque armi romane e la libertà sarebbe stata totalmente spazzata via da davanti gli occhi.

 

25. D’altra parte, nell’estate del suo sesto anno di governo64, volle conoscere le regioni poste oltre la Bodotria. Fece esplorare i porti dalla flotta poiché destavano grande paura sia una sollevazione generale dei popoli situati al di là sia le strade rese pericolose dall’esercito nemico. Con Agricola, la flotta divenne per la prima volta parte operativa dell’esercito: seguendo le altre forze, essa forniva un grande spettacolo perché la guerra avanzava insieme per mare e per terra; e spesso, nei medesimi accampamenti, fanti, cavalieri e marinai mettevano in comune provviste e allegria, vantando le loro imprese e le loro avventure. E dalle spacconerie dei soldati usciva un singolare confronto: di qua le profonde foreste e le montagne altissime, di là le tempeste e le onde ostili; da una parte la terra e i nemici, dall’altra l’Oceano sconfitto.

Da quello che riferirono alcuni prigionieri, lo spettacolo della flotta stordiva i Britanni, poiché ormai sembrava svelato il segreto del loro mare e preclusa ai vinti anche l’ultima possibilità di scampo.

Gli abitanti della Caledonia erano accorsi alle armi con un grande spiegamento di forze, ingigantito dalle dicerie (cosa che accade sempre quando si parla di realtà ignote). Avevano assalito per primi le fortezze e, nel ruolo di provocatori, incutevano grande terrore. Già i vili, camuffati da prudenti, suggerivano che bisognava tornare al di qua della Bodotria e ritirarsi piuttosto che venir respinti. E nel frattempo Agricola venne a sapere che il nemico si preparava all’assalto diviso in più colonne.

Per non essere circondato da chi lo soverchiava nel numero e meglio conosceva i luoghi, anch’egli divise l’esercito su tre colonne e prese ad avanzare.

 

26. I nemici seppero ciò e subito cambiarono strategia: durante la notte si gettarono tutti insieme sulla nona legione che era la più debole65; complici il sonno e lo spavento, uccisero le sentinelle e irruppero negli accampamenti. Già si combatteva all’interno di questi, quando Agricola fu informato dagli esploratori della strada scelta dai nemici. Subito ne seguì le orme e ordinò ai più veloci cavalieri e fanti di piombare alle spalle degli assalitori, innalzando anche alte grida. Alla prima luce dell’alba brillarono le insegne romane.

I Britanni furono spaventati dal duplice pericolo. Nei Romani tornò alto il morale e, ormai certi della salvezza, essi ora combattevano per la gloria. Organizzarono, anzi, una sortita e la battaglia, nelle strettoie degli accessi ai campi, divenne atroce. Alla fine i nemici furono respinti; tutti e due i tronconi dell’esercito romano combattevano, gli uni per dimostrare di aver portato aiuto, gli altri per dimostrare di non averne bisogno. Se le paludi e le foreste non avessero protetto i fuggiaschi, quella vittoria avrebbe posto fine alla guerra.

 

27. Crebbe la fierezza dell’esercito per la consapevolezza di questo successo e per la gloria che esso comportava: nulla sembrava precluso al loro valore; fremevano per entrare nella Caledonia e per trovare finalmente l’estremo confine della Britannia, con una serie ininterrotta di battaglie. E anche coloro che fino a qualche ora prima erano stati cauti e assennati, a cose fatte facevano grandi discorsi e si professavano pronti a ogni impresa. Questa è l’irragionevale condizione dei combattenti: della vittoria ognuno si prende il merito, la colpa delle sconfitte appartiene a uno solo.

I Britanni erano convinti di non essere stati sconfitti dal valore degli avversari, ma solo da una sfortunata occasione e dalla furbizia del comandante nemico: non deposero l’orgoglio e presero ad armare i giovani, a trasferire mogli e figli in luoghi sicuri, a sancire la coalizione delle tribù con assemblee e sacrifici. E così, con gli animi inaspriti dall’una e dall’altra parte, si separarono.

 

28. In quella stessa estate una coorte di Usipi66, arruolata in Germania e trasferita in Britannia, tentò una grande e memorabile impresa. Gli Usipi uccisero un centurione e alcuni legionari, frammisti ai manipoli in qualità di istruttori e che fungevano da esempio e guida. Salirono quindi su tre navi liburniche, spingendovi a forza i piloti. Mentre uno, remando, si allontanava, gli altri due furono uccisi perché sospetti; prima che la notizia della ribellione si diffondesse, presero a navigare davanti alla costa causando non poca meraviglia.

Dovettero sbarcare per rifornirsi d’acqua e provvigioni. Si scontrarono con molti Britanni che difendevano i loro averi: spesso riuscirono vincitori, talvolta furono respinti. Alla fine giunsero a tale estremo di miseria che dovettero divorarsi tra loro, cominciando prima dai più deboli, poi sorteggiando le vittime.

In questo modo circumnavigarono tutta la Britannia, perdendo le navi che non sapevano governare e scambiati per predoni: furono dapprima catturati dagli Svevi67, poi dai Frisii68. Alcuni furono venduti come schiavi e, di mano in mano, arrivarono alla riva del Reno da noi occupata; divennero famosi col racconto di tale incredibile avventura.

 

29. All’inizio dell’estate seguente69, Agricola fu colpito da un lutto familiare: la morte del figlio natogli un anno prima. Sopportò il colpo non ostentando impassibilità come tanti uomini forti, ma nemmeno abbandonandosi a pianti e lamenti come una donna. E, nel dolore, uno dei rimedi era la guerra.

Dunque mandò avanti la flotta che facesse preda in più regioni e spargesse incertezza e terrore; con l’esercito armato alla leggera, cui aveva aggregato alcuni Britanni valorosi e sperimentati durante un lungo periodo di pace, giunse al monte Graupio70, già presidiato dal nemico.

Infatti i Britanni, per nulla abbattuti dall’esito della precedente battaglia e sapendo che il futuro riservava loro o la vendetta o la schiavitù, si erano finalmente resi conto che il comune pericolo andava respinto con la concordia. Per mezzo di ambascerie inviate per stringere alleanze, avevano coinvolto le forze di tutte le tribù.

Già si potevano vedere più di trentamila uomini in armi. E inoltre affluivano tutti i giovani e i vecchi ancor vegeti e vigorosi; costoro, famosi per le guerre combattute, esibivano le insegne del proprio valore. A questo punto, si dice, prese la parola Calgaco, insigne tra tutti i comandanti per valore e nobiltà, in mezzo a quella folla ammassata che chiedeva la battaglia:

 

30. «Ogni volta che io cerco di guardare dentro alle cause della guerra e al destino che ci sovrasta, sento crescere la fiducia che questa giornata e il vostro accordo saranno l’inizio della libertà per tutta la Britannia. Perché tutti insieme vi siete qui radunati, perché non siete ancora contaminati dalla schiavitù, perché oltre noi non esiste alcuna terra. Nemmeno il mare è sicuro da quando ci minaccia la flotta romana. E dunque la guerra dichiarata è sì onorevole per i forti ma è anche il partito più sicuro per i vigliacchi.

Le precedenti battaglie, che ci hanno visto combattere con esito alterno contro i Romani, lasciavano nelle nostre mani ogni speranza di auto, perché noi, i più nobili di tutta la Britannia (per questo abbiamo sede nei penetrali di questa terra e nemmeno vediamo i litorali degli schiavi), perfino gli occhi avevamo incontaminati dal contatto con la tirannide71.

Il nostro vivere appartati e l’oscurità della nostra fama hanno difeso fino a oggi noi, estremi abitatori delle terre e della libertà; ora il confine estremo della Britannia si apre e solo ciò che è ignoto passa per magnifico. Ma nessun popolo ha sede oltre noi, nulla c’è se non scogli o flutti: i Romani sono ancora più ostili e dalla loro superbia non c’è scampo nemmeno con l’ossequio e la sottomissione.

Predatori del mondo intero: quando alle loro ruberie vennero meno le terre, si misero a frugare il mare. Se il nemico è ricco, eccoli avidi; se è povero, diventano arroganti. Né Oriente né Occidente potranno mai saziarli: soli fra tutti gli uomini riescono a essere ugualmente avidi della ricchezza e della povertà. Depredare, trucidare, rubare essi chiamano col nome bugiardo di impero. Dove passano, creano deserto e lo chiamano pace.

 

31. La legge di natura fa sì che tutti gli uomini amino sopra ogni cosa i figli e i congiunti: questi ci sono strappati con gli arruolamenti per portarli, come schiavi, altrove. Le mogli e le sorelle, anche se sfuggono agli stupri dei nemici, sono violate con la scusa dell’amicizia e dell’ospitalità. I beni e le rendite sfumano nei tributi, il raccolto annuo nelle contribuzioni in frumento; perfino i corpi e le braccia vengono logorati, in mezzo alle percosse e agli insulti, per aprire strade tra foreste e paludi.

Gli schiavi di nascita sono venduti una volta sola e inoltre il padrone li sfama. La Britannia compra la sua schiavitù ogni giorno e ogni giorno la nutre. E come tra i servi di una casa, lo schiavo ultimo arrivato è oggetto di scherno anche dai suoi compagni di servitù, noi, in questo antico asservimento del mondo intero, siamo gli ultimi e valiamo meno di tutti; ci cercano per mandarci a morire. Non ci sono campi, miniere o porti in cui lavorare e per i quali ci vogliano riserbare72.

Il valore e la fierezza dei sudditi sono invisi ai dominatori e la nostra solitaria lontananza, quanto più è sicura tanto più è sospetta. Non c’è dunque speranza di essere risparmiati: armatevi di coraggio sia voi che avete cara la vita sia voi che desiderate fortemente la gloria.

I Briganti, sotto il comando di una donna73, sono riusciti a incendiare una colonia, a espugnare accampamenti. Se l’ebbrezza della vittoria non li avesse infiacchiti, davvero avrebbero potuto scuotere il giogo. Noi che siamo integri, indomiti, pronti a combattere per la libertà e non per pentircene, mostriamo subito, al primo scontro, che uomini si sia tenuta in serbo la Caledonia.

 

32. Voi pensate che i Romani siano in guerra tanto valorosi quanto sono insolenti in pace? Sono bravi a trasformare in gloria del loro esercito quelle che sono in realtà le nostre colpe: grandi li abbiamo fatti noi coi nostri dissensi e con le nostre discordie74. Il loro esercito è un’accozzaglia di genti straniere l’una all’altra; la vittoria lo tiene unito, ma le difficoltà lo sgretoleranno a meno che voi non crediate vincolati dalla fede e dalla riconoscenza i Galli, i Germani e perfino (la parola mi brucia in bocca) la maggior parte dei Britanni, anche se ora offrono il loro sangue a una tirannide straniera, di cui sono stati più a lungo nemici che schiavi.

Paura e terrore forniscono un miserabile legame di amicizia e appena essi siano venuti meno, chi ha smesso di temere subito comincerà ad odiare. Siamo noi ad avere maggior fame di vittoria: non ci sono donne a infiammare i Romani, non ci sono genitori a farli vergognare della loro fuga. La maggior parte di loro non ha patria e, se ce l’hanno, non è questa. Sono poco numerosi, angosciati dall’ignoranza dei luoghi; se ne stanno a guardare il cielo e il mare e le foreste, tutte cose per loro sconosciute: gli dèi ve li stanno consegnando, in qualche modo, già presi e incatenati.

Non vi facciano paura le vane apparenze come il fulgore dell’oro e dell’argento: oro e argento non proteggono e non servono a ferire. Nella stessa schiera dei nemici troveremo braccia che ci appartengono: sono quei Britanni che riconosceranno la loro causa, sono quei Galli cui tornerà alla mente l’antica libertà. E abbandoneranno i Romani anche i Germani come hanno fatto di recente gli Usipi. Nessuna paura, d’ora in poi: hanno fortezze vuote, colonie difese da vecchi75, municipi debilitati e discordi tra chi obbedisce di malanino e chi governa senza giustizia76.

Qui voi avete un capo, qui un esercito. Là vi aspettano tributi, lavori in miniera e ogni altra sofferenza da schiavi: sul terreno dovrete decidere se sopportare in eterno o vendicarvi di tutto in un sol colpo. State per andare a combattere: pensate ai vostri antenati e alla vostra discendenza».

 

33. Una grande eccitazione accolse la perorazione eli Calgaco; e fremiti, canti, clamori confusi, come sempre fanno i barbari. Già i più eccitati correvano avanti facendo intuire gli schieramenti, tra bagliori di armi. Nel tempo stesso l’esercito romano si stava organizzando per la battaglia, quando Agricola prese a parlare, pensando di dover ancor di più accendere l’animo dei soldati, peraltro giàv entusiasti e a stento trattenuti dentro le fortificazioni77:

«È il settimo anno, miei commilitoni, da quando col vostro valore e, secondo gli auspici dell’impero romano, con la nostra leale azione, avete cominciato a riportare vittorie in Britannia. In tante spedizioni, in tante battaglie spesso abbiamo dovuto impegnarci a fondo contro il nemico o sopportare grandi fatiche quasi contro la natura stessa: mai però ho dovuto lamentarmi dei soldati, o i soldati di me.

Abbiamo ormai superato io i limiti raggiunti dai miei predecessori, voi dagli eserciti precedenti: la parte estrema della Britannia noi non la presidiamo con le parole o facendoci forti delle dicerie, ma con accampamenti ben muniti. Noi la Britannia l’abbiamo scoperta e sottomessa.

Spesso, mentre eravamo in marcia e le paludi, le montagne, i fiumi vi affaticavano, ho sentito le parole dei più valorosi tra voi: “Quando ci sarà dato il nemico? E quando una battaglia?”. Eccoli qua, stanati dai loro covili ed ecco l’occasione che il vostro valore e i vostri desideri attendevano. Vinciamo e tutto ci sarà facile, perdiamo e avremo tutto contro.

Abbiamo fatto tanta strada, superato foreste, guadato fiumi: bello e glorioso perché stavamo avanzando. Le stesse cose che oggi ci sono favorevoli, sarebbero di enorme pericolo per uomini in rotta. Noi non abbiamo la stessa conoscenza dei luoghi o ugual abbondanza di salmerie, ma solo il nostro braccio, le nostre armi e la consapevolezza che tutto risiede in loro.

Dal canto mio, da molto tempo so bene che mai reca salvezza a un esercito o a un comandante girare le spalle al nemico. Dunque una morte onorevole è preferibile a una vita di vergogna; e salvezza e onore abitano nello stesso luogo. Del resto non c’è nulla di inglorioso nel cadere vicino all’estremo confine delle terre e della natura.

 

34. Se contrapposti a voi ci fossero popoli o eserciti sconosciuti, vi esorterei ricorrendo a esempi di altri eserciti; ma qui basta ripensare a successi già conseguiti, basta interrogare i vostri occhi. Eccoli qua, quelli che voi avete sbaragliato, praticamente con un grido, l’anno scorso dopo che avevano aggredito un’unica legione e con un agguato notturno78. Questi sono, di tutti i Britanni, i più veloci a scappare e, grazie a ciò, quelli che più a lungo sono riusciti a sopravvivere.

Quando voi entrate in qualche bosco o in qualche regione montuosa, gli animali più imponenti vi vengono contro per travolgervi, ma quelli pavidi e impotenti scappano al solo calpestìo dell’esercito in marcia: esattamente allo stesso modo i più valorosi dei Britanni sono già caduti e questi che restano sono gli ignavi e i paurosi.

Finalmente li incontrate, ma non perché vi abbiano atteso: siete stati voi che li avete sorpresi. La disperazione e lo stordimento della paura estrema li hanno inchiodati qui, sulle loro stesse orme, perché voi riportiate una vittoria bella e memorabile. Basta con le campagne militari: chiudete con una grande giornata cinquantanni di guerra. E provate alla repubblica che i ritardi della guerra e i motivi delle rivolte non sono mai stati colpa dell’esercito».

 

35. Agricola stava ancora parlando e già era evidente l’ardore dei soldati. Grande eccitazione seguì alla fine del discorso e subito fu un correre di tutti alle armi.

Agricola dispose gli ottomila fanti ausiliari, entusiasti e frementi, a rafforzare il centro; i tremila cavalieri andarono a collocarsi alle ali. Le legioni rimasero schierate davanti al vallo: grande merito perché sarebbe stato risparmiato sangue romano in caso di vittoria immediata, riserva in caso di momentaneo ripiegamento.

L’esercito dei Britanni, per incutere terrore fin dal primo colpo d’occhio, si era disposto sulle alture in modo che la prima linea era schierata nel piano e gli altri guerrieri, in file serrate, su per il vicino pendio, si elevavano come su una gradinata. I cavalieri, montati su carri da guerra79, riempivano di corse rumorose la pianura tra i due schieramenti.

Agricola, poiché era soverchiante il numero dei nemici, temette che la battaglia impegnasse i suoi contemporaneamente di fronte e sulle ali. Allora diradò le file, anche se lo schieramento ne risultava troppo allungato e molti lo esortavano a far subentrare le legioni. Pronto alla speranza e saldo contro i pericoli, lasciò andare il cavallo e piantò i piedi davanti ai vessilli.

 

36. Il primo scontro avvenne a distanza: con grande fermezza e abilità i Britanni, grazie alle loro lunghe spade e ai piccoli scudi, evitavano o facevano cadere i nostri giavellotti; a loro volta scagliavano una grande quantità di dardi, fino a quando Agricola esortò quattro coorti di Batavi e due di Tungri80, ad attaccare da vicino con spade corte: era un modo di combattimento che essi da tempo avevano sperimentato e che creava disagi ai nemici i quali adoperavano scudi piccoli e spade enormi. Infatti gli spadoni dei Britanni, privi di punta, non erano adatti all’incrociarsi delle armi e agli scontri ravvicinati.

I Batavi cominciarono a tempestarli di colpi, a ferirli con gli umboni, a devastare i loro volti. Sbaragliate le file poste sulla pianura, cominciarono a salire sulle alture; le altre coorti, coinvolte nella foga dal desiderio di emulazione, presero a sterminare i Britanni più vicini; ma, presi dalla fretta di vincere, ne lasciavano indietro moltissimi tramortiti o illesi.

Appena quelli montati sui carri falcati cominciarono a fuggire, gli squadroni della nostra cavalleria presero a mescolarsi alla battaglia della fanteria. Pur spargendo un improvviso terrore, erano impacciati dalle file serrate dei nemici e dai dislivelli del terreno. Quella non assomigliava in nulla a una battaglia equestre perché, già malfermi sul pendio, i soldati erano urtati dai corpi dei cavalli. E, anzi, carri spesso senza guidatore e cavalli spaventati e privi di cavaliere, erano trascinati a caso dalla paura e li investivano ripetutamente di traverso e di fronte.

 

37. I Britanni che, attestati sulla sommità delle colline, fino a quel momento non erano stati coinvolti nella battaglia e guardavano con disprezzo l’esiguità del nostro numero, cominciarono a scendere a poco a poco e ad aggirare il nostro esercito ormai vittorioso. Proprio questo Agricola aveva temuto: oppose quattro squadroni di cavalleria, tenuti di riserva per le situazioni impreviste della battaglia, ai Britanni accorrenti e li sbaragliò mettendoli in fuga con tanta più energia quanto maggiore era la ferocia con cui si erano precipitati all’assalto.

Così la strategia dei Britanni si rivolse contro loro stessi e i cavalieri, distolti per ordine del comandante dal fronte della battaglia, aggredirono i nemici alle spalle. Ecco nella pianura, allora, un grandioso e atroce spettacolo: i nostri inseguivano, ferivano, catturavano prigionieri, ma se poi ne facevano altri, uccidevano i primi.

Ormai i nemici, assecondando il loro istinto, anche se numerosi e armati, avevano girato le spalle ad avversari poco numerosi. Alcuni, inermi, si gettavano nella battaglia per cercare la morte. Armi sparse ovunque; corpi e membra lacerati; e la terra intrisa di sangue. Talora i vinti avevano un bagliore di ira e valore.

Infatti dopo essersi avvicinati, nella fuga, alle foreste, conoscendo la zona, si riorganizzarono e presero a circondare i primi che con troppa foga li avevano inseguiti. Ma Agricola era dappertutto e aveva disposto delle coorti valide e agili, come in una battuta di caccia, per perlustrare ovunque; dove gli alberi erano più folti i cavalieri si muovevano a piedi, mentre gli altri, in sella, battevano le zone più aperte. Senza di loro, i nostri avrebbero, per eccessiva fiducia, subito qualche grave colpo.

Quando i Britanni compresero che a inseguirli c’erano schiere di nuovo saldamente organizzate, ripresero la fuga. Non, come prima, in gruppi e tenendo i collegamenti con i compagni, ma dispersi ed evitandosi a vicenda, cercarono luoghi lontani e poco praticabili. Solo la notte e la sazietà posero fine all’inseguimento.

Caddero circa diecimila nemici; noi perdemmo trecentosessanta dei nostri, tra i quali Aulo Attico, prefetto di coorte, trascinato in mezzo ai nemici dalla sua baldanza giovanile e dalla foga del cavallo.

 

38. La notte, trascorsa nell’allegria per il bottino fatto, fu piacevole per i vincitori. I Britanni, sparsi qua e là, piangevano e mescolavano il loro pianto con quello delle donne: trascinavano via i feriti e chiamavano gli incolumi; abbandonavano le case e le incendiavano, con furore, di loro iniziativa; sceglievano un nascondiglio per lasciarlo subito dopo; si riunivano per scambiarsi qualche consiglio e subito si separavano; guardavano i loro cari e ne provavano disperazione e talora rabbia. Ed era risaputo che, fatti crudeli dalla pietà, alcuni avevano ucciso la moglie e i figli.

Il giorno seguente diede un volto più completo alla vittoria: ovunque desolato silenzio, i colli deserti, i tetti che fumavano in lontananza, nessun incontro per i nostri esploratori. Questi, spediti in ogni direzione, accertarono che le tracce della fuga erano confuse e che i nemici, dunque, non si stavano riorganizzando da nessuna parte. Del resto, l’estate ormai alla fine impediva il propagarsi della guerra. Agricola condusse allora l’esercito nel territorio dei Boresti81.

Lì ricevette ostaggi e ordinò al prefetto della flotta di circumnavigare la Britannia: concesse, a questo scopo, dei soldati e, del resto, lo aveva preceduto il terrore. Lo stesso Agricola condusse fanteria e cavalleria negli accampamenti invernali con una marcia rallentata, perché il suo lento spostamento spaventasse l’animo delle genti appena soggiogate.

E intanto la flotta, aiutata dai venti e dalla fama che la accompagnava, ritornò, dopo aver costeggiato tutta la costa britannica, nel porto di Trucculo82, da cui era partita.

 

39. Questa concatenazione di eventi, Agricola non la esagerò sicuramente nei suoi rapporti con espressioni d’enfasi; tuttavia, Domiziano, poiché questa era la sua indole, accolse la notizia con volto lieto, ma col cuore inquieto. Era consapevole che il suo falso trionfo sulla Germania era diventato motivo di scherno, dato che egli aveva comperato degli schiavi e aveva camuffato i loro capelli e i loro vestiti in maniera che sembrassero dei prigionieri; ora invece si celebrava una vittoria vera e grande, che aveva fruttato l’eliminazione di molte migliaia di nemici e che era destinata a dare immensa notorietà al suo autore83.

Soprattutto gli era fonte di timore il fatto che il nome di un privato superasse quello dell’imperatore: invano, dunque, aveva ridotto al silenzio le attività forensi e l’onore dell’attività politica, se un altro s’impossessava della gloria militare. Tutto si poteva, certo, dissimulare, ma il titolo di buon comandante era prerogativa imperiale.

Domiziano era dunque assillato da simili pensieri. Saziatosi nel suo segreto di tali ansie (indizio, questo, di funeste intenzioni), pensò che l’atteggiamento più opportuno fosse quello di nascondere, per il momento, il rancore: prima o poi la fama travolgente di Agricola e il favore dell’esercito si sarebbero attenuati. Agricola, infatti, aveva ancora in mano la Britannia.

 

40. Pertanto fa decretare dal senato gli ornamenti trionfali, l’onore di una statua incoronata di alloro e ogni cosa che sostituisce il trionfo aggiungendo tutti gli elogi possibili84. Oltre a ciò fece spargere la voce che era destinata ad Agricola la provincia di Siria, che allora era vacante per la morte del consolare Atilio Rufo85 e riservata ad uomini di particolari capacità.

Fu opinione di molti che Domiziano avesse mandato ad Agricola un liberto, uno dei più fidati tra i suoi ministri, con una lettera in cui gli si assegnava la Siria, con l’ordine di consegnargliela se ancora fosse stato sul territorio della Britannia. Ma il liberto avrebbe incontrato Agricola proprio nello stretto dell’Oceano e sarebbe tornato da Domiziano senza nemmeno avergli parlato. La diceria risponde forse alla verità; forse è falsa, ma è comunque coerente all’indole del principe86.

Nel frattempo Agricola aveva lasciato al suo successore87 una provincia pacificata e sicura. Perché il suo ritorno non destasse particolare clamore a causa della folla di quelli che gli sarebbero andati incontro, si sottrasse alle premure degli amici entrando di notte in città e recandosi, sempre di notte, come gli era stato ordinato, nel Palazzo. Fu accolto con un bacio frettoloso: senza che una sola parola fosse detta, si mescolò alla turba dei cortigiani.

Del resto per rendere meno appariscente con altre virtù la gloria militare tanto pericolosa in un ambiente di imbelli, prese a gustare tranquillità e riposo. Il suo tenore di vita era modesto, era affabile nel parlare, si faceva accompagnare da uno o due amici soltanto, al punto che tutti coloro che erano abituati a misurare la grandezza degli uomini dal loro sfarzo, guardando ed osservando Agricola si interrogavano su come si era procurato tanta fama. Ed erano ben pochi quelli che comprendevano.

 

41. In quel periodo Agricola fu più volte accusato, assente, presso Domiziano. E, assente, fu ogni volta assolto. A metterlo in pericolo non erano qualche crimine o la querela di qualcuno offeso da lui, ma il principe stesso, ostile a ogni merito altrui, e la sua stessa gloria e la peggior genia di nemici, i lodatori.

E quelli erano, per la repubblica, anni in cui il nome di Agricola non poteva essere dimenticato88: tanti eserciti perduti in Mesia, in Dacia, in Germania, in Pannonia per temerità o ignavia dei capi; tanti ufficiali vinti e fatti prigionieri con intere coorti: c’era ormai di che tremare, non per i confini dell’impero o per la riva di un fiume, ma per i quartieri delle legioni e per il possesso delle province.

I disastri si accumulavano sui disastri e ogni anno era segnato da lutti e da rovesci: il popolo chiedeva Agricola come comandante poiché ognuno confrontava la sua energia, la sua fermezza, la sua esperienza militare con l’inerzia e la paura degli altri.

È noto che queste opinioni colpirono anche le orecchie di Domiziano perché i liberti pungolavano l’animo del principe, già incline al peggio: i liberti onesti lo facevano per affetto e fedeltà, i peggiori per maligna gelosia. Così Agricola era trascinato alla gloria, come in un precipizio, dal suo valore ma anche dai demeriti altrui.

 

42. Era ormai l’anno in cui si dovevano sorteggiare i proconsolati d’Africa e d’Asia. Dato il fresco assassinio di Civica89, non mancavano un ammonimento per Agricola né un precedente per Domiziano. Alcuni, partecipi dei progetti del principe, avvicinarono Agricola per chiedergli, di loro iniziativa, che intenzioni avesse riguardo al suo incarico in provincia. Dapprima, con una qualche ambiguità, lodavano l’ozio e la tranquillità; poi presero a offrire i loro buoni uffici per scusarlo se avesse rifiutato; infine cercarono scopertamente di persuaderlo e perfino di mettergli paura. Finirono col trascinarlo davanti a Domiziano.

Egli, abituato a fingere e pieno di sussiego, ascoltò le preghiere di Agricola che si scusava di rifiutare l’incarico, diede il suo assenso e arrivò al punto di farsi ringraziare senza arrossire per l’odiosità di quel beneficio. Tuttavia non concesse ad Agricola l’indennità di solito offerta ai proconsolari90 e che egli stesso aveva concesso ad altri: forse si era risentito che non gli fosse stata richiesta, forse comprendeva che sarebbe sembrata il prezzo del rifiuto da lui stesso imposto.

È tipico della natura umana odiare colui al quale si sia recata offesa. Però l’indole di Domiziano, facile all’ira in modo tanto più implacabile quanto più la teneva nascosta, era mitigata dalla moderazione e dalla prudenza di Agricola, perché questi non sfidava la fama e il destino con arroganza ostinata o con vana ostentazione di libertà.

Coloro che ammirano gli atti di ribellione, sappiano che anche sotto principi malvagi possono esistere grandi uomini: l’obbedienza e la moderazione, se accompagnate da operosità ed energia, possono arrivare a tanta gloria, quanta molti sono riusciti ad ottenere per vie difficili, diventando famosi grazie ad una morte clamorosa senza però che lo Stato ne ricevesse alcun vantaggio.

 

43. La sua fine fu luttuosa per noi, triste per gli amici; e nemmeno agli estranei o a quanti non lo conoscevano riuscì indifferente. Anche il popolino e le persone affaccendate in altre cose, si recarono spesso a casa sua e di lui parlavano nelle piazze e nei ritrovi. Nessuno, alla notizia della morte di Agricola, provò gioia o dimenticò subito.

Il compianto cresceva quanto più girava la voce che egli fosse stato vittima di veneficio91: io non posso riferire nulla di accertato. Del resto durante tutta la sua malattia, lo andarono a trovare sia i liberti più influenti sia i medici imperiali con maggior frequenza di quanto usino gli imperatori che sono soliti far visita attraverso intermediari: forse era attenzione nei suoi ri gii aldi, forse un modo per spiarne la fine.

Si venne, comunque, a sapere che nel giorno della morte, gli ultimi istanti di Agricola agonizzante furono annunziati da staffette a Domiziano, mentre nessuno credeva che in tal modo il principe affrettasse notizie che avrebbe ascoltato con tristezza. Tuttavia ostentò dolore nel portamento e nel volto: si era ormai liberato della persona che odiava ed era più abile a nascondere la gioia che il dolore.

Si seppe che, letto il testamento nel quale Agricola nominava Domiziano coerede della buonissima moglie e della figlia affezionatissima, il principe se ne rallegrò come si trattasse di un omaggio e di un segno di stima. Tanto era accecata la sua mente e tanto corrotta dall’adulazione continua, da non sapere che un padre buono designa coerede un principe solo quando costui è malvagio.

 

44. Agricola era nato sotto il terzo consolato di Gaio Cesare, il 13 giugno92; morì a cinquantatré anni, sotto il consolato di Collega e Priscino93, il 23 agosto.

Per i posteri che desiderino conoscere anche il suo aspetto, definirei il suo portamento più dignitoso che imponente; nulla nel suo volto incuteva timore: prevaleva la dolcezza. Era facile giudicarlo buono e volentieri lo si sarebbe definito grande.

Anche se ci è stato strappato proprio nei suoi anni più vigorosi, la sua vita è stata certo lunghissima, se si considera la sua fama. Aveva pienamente raggiunto i veri beni, quelli che risiedono nelle virtù. E la fortuna niente altro avrebbe potuto concedere a un uomo insignito della dignità consolare e degli ornamenti del trionfo.

Non gli importava essere smisuratamente ricco, tuttavia possedeva un patrimonio ragguardevole. Poiché gli sopravvissero la figlia e la moglie, può perfino sembrare fortunato per essere sfuggito agli eventi futuri lasciando intatta la sua dignità, splendente la sua fama, salvi congiunti e amici.

Infatti, anche se non gli fu consentito di arrivare all’alba di questa epoca fortunata e di vedere Traiano imperatore (cosa che egli auspicava, nell’intimità familiare, con auguri e voti), la sua morte prematura gli regalò il grande conforto di sfuggire a quel tempo estremo in cui Domiziano distrusse la repubblica, non più con qualche intervallo e pausa, ma senza soluzione di continuità e quasi con un unico colpo.

 

45. Agricola è morto prima di vedere la curia accerchiata, il senato assediato da uomini in armi94 e, in una sola strage, il massacro di tanti consolari, l’esilio e la fuga di tante nobilissime donne95. Caro Mettio poteva vantare una sola vittoria96 e Messalino schiamazzava con la sua voce accusatrice solo nella rocca Albana97. Allora Massa Bebio era solo un accusato98; poi successe che con le nostre mani cacciassimo in carcere Elvidio99, e successe anche che dovessimo provar vergogna alla vista di Maurico e di Rustico100 e davanti al sangue innocente di Senecione101.

Nerone aveva almeno distolto gli occhi e i delitti li aveva comandati, senza poi godere dello spettacolo: sotto Domiziano, invece, la maggior sofferenza consisteva nel vedere e nell’essere veduti; i nostri sospiri venivano registrati e a far risaltare l’impallidire di tanti uomini, bastava quella rossa maschera di ferocia, con cui celava la sua vergogna.

Che fortuna la tua, Agricola, morire nel momento più giusto dopo una vita tanto luminosa! Come raccontano quelli che poterono ascoltare i suoi ultimi discorsi, hai accolto il tuo destino con animo forte e sereno, quasi che tu volessi donare al principe l’innocenza, per quanto potevi.

Ma io e sua figlia non fummo provati solo dal dolore per il padre strappatoci; aumenta la nostra mestizia non averlo assistito durante la malattia, non averlo confortato durante l’agonia, non esserci saziati della sua vista e del suo amplesso102. Almeno avremmo ricevuto le sue disposizioni e le sue parole, che avremmo confitto nel nostro animo.

Ecco il nostro dolore, ecco la nostra ferita: averlo perduto quattro anni prima per la nostra lunga assenza. O migliore tra i padri, a onorarti e ad assisterti ha certo provveduto la tua innamoratissima moglie. Però con troppe poche lacrime sei stato composto nel tuo sepolcro e, certo, qualcosa è mancato ai tuoi occhi, nell’ultimo barlume di luce.

 

46. Se esiste un luogo che accoglie le anime dei buoni; se, come dicono i filosofi, le grandi anime non muoiono assieme al corpo, riposa in pace e richiama noi, che siamo la tua famiglia, dal vano rimpianto e dai lamenti muliebri, alla riflessione sulle tue virtù che non consentono lacrime e cordoglio.

Dobbiamo onorarti piuttosto con la nostra ammirazione, con lodi che restino eterne e, se ce lo consente la nostra debole natura, cercando di imitarti: questo è il vero onore, questa la devozione dei tuoi più stretti congiunti.

Io vorrei anche insegnare, a tua moglie e a tua figlia, a venerare, con la memoria, il marito e il padre, ripensando a ogni cosa che tu hai fatto e detto e abbracciando la bellezza e la nobiltà del tuo animo più ancora che del tuo corpo; io non credo che si debbano proibire le raffigurazioni in marmo e in bronzo, ma i simulacri sono fragili e caduchi, esattamente come le fattezze umane. Soltanto la figura dell’animo è eterna: per conservarla e raffigurarla non servono materia e arte, ma i tuoi stessi costumi.

Tutto ciò che di Agricola abbiamo amato, tutto ciò che in lui abbiamo ammirato rimane ed è destinato a durare negli animi degli uomini, nella eternità dei tempi, nella fama delle opere. L’oblio ha ricoperto la memoria di molti fra gli antichi, come ingloriosi e oscuri. Agricola, raccontato e tramandato ai posteri, sopravviverà103.

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
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