Libro terzo
1. Navigando senza tappe ad onta del mare invernale, Agrippina sbarcò nell’isola di Corcira, situata dirimpetto alla Calabria. Qui fece una sosta di pochi giorni, cercando di calmare l’animo suo, stravolta com’era dal dolore e incapace di sopportarlo. Intanto, come si sparse la notizia del suo arrivo, tutti coloro che erano stati amici di Germanico e moltissimi militari e quelli che avevano combattuto ai suoi ordini e parecchi dai vicini municipii, che neppure lo avevano conosciuto, sia che ritenessero loro dovere verso l’imperatore, sia che seguissero gli altri, accorsero nella città di Brindisi, che offriva l’approdo più rapido e più sicuro. E come da lontano fu avvistata la flotta, non solo il porto e le spiagge, ma le mura e i tetti e ogni luogo dal quale si poteva scorgere in lontananza furono colmi d’una moltitudine di gente addolorata, e si chiedevano l’uno con l’altro se era meglio accogliere lo sbarco in silenzio o con qualche voce.
Non si sapeva ancora che cosa fosse meglio fare quando la flotta entrò lentamente nel porto, non, come soleva, con rapido batter di remi, poiché ogni cosa era improntata a mestizia. E quando Agrippina scese con due figlioletti1, reggendo tra le braccia l’urna con le ceneri, fissi gli occhi a terra, si levò un lamento solo; né si potevano distinguere i congiunti dagli estranei, gli uomini dalle donne, tranne che il seguito di lei era affranto dal prolungato cordoglio, mentre coloro che scendevano a incontrarla, da minor tempo addolorati, li superavano nel pianto.
2. L’imperatore aveva mandato due coorti di pretoriani e avevaordinato ai magistrati della Calabria, della Puglia e della Campania di rendere i supremi onori alla memoria di suo figlio. Le ceneri furono portate a spalla dai tribuni e dai centurioni; precedevano le insegne disadorne e i fasci capovolti, e quando attraversavano le colonie, il popolo in vesti di lutto, i cavalieri in trabea2, a seconda delle finanze dei luoghi, bruciavano drappi, profumi e altre offerte funebri. Accorsero anche gli abitanti di città fuori del percorso, innalzarono altari agli dèi Mani, sacrificarono vittime e con lacrime e alti lamenti dimostrarono il loro dolore. Druso arrivò fino a Terracina con Claudio, il fratello minore di Germanico e con i figli di lui, che erano rimasti a Roma. I consoli, M. Valerio e M. Aurelio, già entrati in carica, i senatori e moltissimi del popolo riempirono la via in disordine, ciascuno saziandosi di lacrime: non c’era la minima adulazione, perché era noto a tutti che Tiberio mal dissimulava la sua soddisfazione per la morte di Germanico.
3. Tiberio e l’Augusta si astennero dal farsi vedere, perché ritenevano indegno della loro maestà piangere in pubblico o perché se gli occhi di tutti avessero scrutato i loro volti, avrebbero intuito la loro insincerità. Non trovo né negli storici del tempo e nemmeno nel notiziario di quei giorni3 che la madre Antonia abbia partecipato ad alcuna cerimonia importante, mentre risultano citati per nome, oltre Agrippina, Claudio e Druso, e tutti gli altri parenti: forse ne fu impedita da ragioni di salute oppure, sconvolta dal dolore, non ebbe la forza di misurare con i propri occhi l’entità della sventura. Sono più disposto a credere che Tiberio e l’Augusta, che non mettevano piede fuori dal palazzo, l’abbiano costretta a restarvi lei pure, per apparire afflitti in pari misura e affinché l’ava e lo zio sembrassero attenersi all’esempio della madre.
4. Il giorno in cui le ceneri furono deposte nel mausoleo di Augusto trascorse parte in un mesto silenzio, parte turbato dai lamenti; le strade dell’Urbe erano affollate, luceva di fiaccole il campo Marzio. Qui i militari armati, i magistrati senza distintivi, il popolo diviso per tribù andavano dicendo che lo Stato cadeva a pezzi, che non c’era più speranza, in modo così esplicito e manifesto che avresti creduto che non si ricordassero più di chi stava al potere. Nulla però dispiacque di più a Tiberio quanto il calore d’affetto manifestato dal popolo ad Agrippina: la chiamavano onore della patria, sola rimasta del sangue di Augusto, esemplare unico della virtù antica, e volgendosi al cielo supplicavano gli dèi di conservare sani i suoi figli e che sopravvivessero ai malvagi.
5. Alcuni avrebbero voluto un funerale ufficiale solenne, e paragonavano le grandiose onoranze che Augusto aveva voluto per Druso, il padre di Germanico. Si era recato lui stesso, benché l’inverno fosse rigidissimo, fino al Ticino e non s’era allontanato dalla salma fino a che non furono giunti a Roma; attorno al catafalco erano state poste le immagini dei Claudi e dei Giulii4. Lo avevano pianto nel Foro, dai rostri erano stati pronunciati gli elogi; per lui erano state celebrate tutte le cerimonie trasmesse dagli avi o inventate dai posteri; a Germanico invece non erano state tributate nemmeno le onoranze usuali e quelle che sono dovute ai nobili. Certamente il suo corpo era stato cremato senza fasto in terra straniera, a causa della grande lontananza, ma tanto più sarebbe stato giusto tributargli ora le onoranze estreme in modo più maestoso, dato che la sorte gli aveva negato le prime. Il fratello5 gli era andato incontro non più d’un giorno di cammino; lo zio neppure fino alle porte di Roma. Dov’erano le consuetudini d’un tempo, l’immagine del defunto esposta sul catafalco, i poemi composti in memoria del suo valore, gli elogi, le lacrime o almeno i simulacri del dolore?
6. Furono riferiti a Tiberio questi commenti ed egli, per soffocare le chiacchiere del popolo, emanò un editto per richiamare alla memoria che molti Romani illustri erano morti per la repubblica, ma nessuno era stato celebrato con un rimpianto così acceso. Il che appariva meritorio a lui e a tutti, se però si fosse usata moderazione. Infatti non si addicono le stesse onoranze a famiglie modeste e piccoli regni e a principi e a un popolo imperiale. A un dolore recente era stato opportuno reagire con il cordoglio, cercar sollievo nel pianto; ma ormai gli animi dovevano tornare alla compostezza.
Un tempo il divo Giulio, alla scomparsa dell’unica figlia, il divo Augusto alla morte dei nipoti non avevano lasciato vedere il loro dolore. Non era necessario citare esempi più lontani; quante volte il popolo romano aveva sopportato con forza d’animo le sconfitte degli eserciti, la morte dei comandanti, l’estinzione di nobili famiglie. I principi sono mortali, la repubblica è eterna. E dunque riprendessero le loro occupazioni e, data l’imminenza dei giochi Megalesi, riprendessero anche i divertimenti.
7. Cessato dunque il lutto nazionale, ciascuno tornò ai suoi doveri, Druso raggiunse l’esercito in Illiria; ma l’animo di tutti era intento a ottenere la condanna di Pisone e molti protestavano perché questi intanto se ne andava in giro per le amene regioni dell’Asia e dell’Acaia, con superbo e subdolo indugio alterava le prove del delitto.
Infatti ormai era di dominio pubblico il fatto che la notoria avvelenatrice Martina, mandata da Cn. Senzio, era morta improvvisamente a Brindisi e s’era trovato del veleno nascosto nel nodo dei suoi capelli; ma nel corpo nessun segno di suicidio.
8. Pisone mandò avanti il figlio con l’incarico di placare l’imperatore. Si recò da Druso, che sperava di trovare non sdegnato per la morte del fratello e anzi più benevolo verso di lui, ora che era stato tolto di mezzo il suo rivale.
Tiberio, ostentando l’imparzialità del suo giudizio, accolse cordialmente il giovane, anzi con l’amabilità che si usava verso i figli delle famiglie nobili. Druso rispose a Pisone che se fossero state veritiere le voci che correvano avrebbe dato prova d’un risentimento particolare, ma che preferiva ritenerle false e infondate e sperava che la morte di Germanico non avrebbe fatto danno ad alcuno. Disse queste cose in pubblico, perché non si erano verificati incontri privati; ma senza dubbio gli furono suggerite da Tiberio poiché in altre occasioni s’era mostrato ingenuo e impulsivo come lo sono i giovani, mentre in quel momento aveva dato prova dell’accortezza d’un vecchio.
9. Pisone attraversò il mare di Dalmazia, lasciò le navi ad Ancona, poi attraversò il Piceno e, percorrendo la via Flaminia, raggiunse la legione che dalla Pannonia veniva trasferita a Roma, per poi esser condotta come presidio in Africa; e si fece vedere spesso dai soldati, sia negli schieramenti sia durante la marcia, cosa che suscitò molti commenti. Da Narni, per sfuggire a sospetti e perché le decisioni di chi ha paura sono esitanti, si fece portare sul corso della Nera e poi del Tevere, il che aumentò lo sdegno del popolo, perché la nave approdò in pieno giorno presso il mausoleo dei Cesari, mentre la riva era affollata, Pisone si presentò seguito da una fitta schiera di clienti e Plancina con un seguito di donne festanti. Suscitarono poi irritazione e malanimo le decorazioni festose della sua casa, prospiciente il foro, il ricevimento, il convito; dato l’affollamento della zona, nulla passò inosservato.
10. Il giorno seguente, Fulcinio Trione citò Pisone davanti ai consoli. Si opposero Vitellio e Veranio e tutti quelli che facevano parte della compagnia di Germanico, asserendo che non spettava affatto a Trione; e che essi non si presentavano come portatori di denunce, ma come testimoni, e per riferire le ultime volontà di Germanico. Trione allora desistette dall’accusa in quella causa e ottenne però di sostenerla contro i precedenti di Pisone e fu chiesto al principe di assumere l’istruttoria. Cosa alla quale non si oppose neppure l’imputato, temendo le passioni del popolo e dei senatori, mentre riteneva la fermezza di Tiberio tale da non tener conto delle voci e del resto pensava fosse vincolato dalla consapevolezza della madre; a un giudice unico riesce più facile distinguere le cose vere da quelle travisate in peggio, mentre sui molti prevalgono l’odio e il malanimo. A Tiberio non sfuggiva la gravità del processo e di quale accusa fosse colpito lui stesso. Ammise dunque pochi intimi e ascoltò le minacce degli accusatori e le preghiere dell’imputato; poi, affidò la causa impregiudicata al Senato.
11. Druso intanto tornò a Roma dall'Illirico. I senatori gli avevano decretato l’ovazione per la resa di Maroboduo e per le imprese dell’estate precedente, ma l’onore fu rinviato.
Dopo di che, Pisone chiese che la sua difesa fosse assunta da L. Arrunzio, P. Vinicio, Asinio Gallo, Esernino Marcello e Sesto Pompeo, ma questi addussero varie scuse per rifiutare e perciò si presentarono L. Pisone6 e Livineio Regolo, mentre tutta la città fremeva di sapere con quanta lealtà si sarebbero comportati gli amici di Germanico e quali speranze avesse l’imputato; e se Tiberio sarebbe riuscito a reprimere e nascondere ciò che sentiva. In nessun’altra occasione il popolo fu più attento né mai si lasciò andare a più segrete dicerie sospettosi silenzi sul conto dell’imperatore.
12. Nella prima seduta del Senato, Cesare pronunciò uri’orazione deliberatamente moderata. Disse che Pisone era stato legato e amico di suo padre e che egli lo aveva mandato da Germanico, dietro proposta del Senato, affinché lo aiutasse nel governo dell’Oriente. Forse là aveva irritato il giovane con la sua superbia e contraddicendolo? Se aveva gioito della sua morte o l’aveva soppresso con un delitto, si doveva giudicare con la massima imparzialità. «Poiché se egli ha trasgredito i limiti del suo ufficio, se ha mancato alla deferenza dovuta al comandante, se si è compiaciuto della morte di lui e del mio lutto, io lo odierò, lo bandirò dalla mia casa e così vendicherò offese private, ma senza ricorrere al mio potere di principe. Se invece si scopre che è stato commesso un delitto, va punito, chiunque dei mortali sia stata la vittima; allora voi dovete procurare il giusto conforto ai figli di Germanico e a me, suo padre. Al tempo stesso cercate di accertare se Pisone ha suscitato disordini e sedizioni nell’esercito, se per ambizione ha cercato di accattivarsi l’affetto dei soldati, se ha riconquistato la provincia con le armi oppure se queste notizie sono false e sono state esagerate dagli accusatori. In questo caso, ho diritto di sdegnarmi contro la loro eccessiva parzialità. A qual fine infatti si è denudata la salma, la si è esposta agli occhi del popolo, e s’è lasciata correre anche tra gli stranieri la voce che era stato avvelenato, se fino a questo momento questi fatti non sono stati accertati e sono ancora oggetto di indagine? Piango dunque il figlio mio, lo piangerò sempre; ma non impedirò all’imputato di produrre tutte le prove con le quali dimostrare la sua innocenza e, se mai vi fu, la colpevolezza di Germanico; e vi prego di non considerare accertato il reato per il fatto che la causa è connessa al mio lutto. Se legami di sangue o di fedeltà gli hanno procurato difensori, siategli di aiuto nel pericolo, con l’eloquenza, con l’impegno di cui ciascuno è capace; invito gli accusatori alla stessa tenacia, alla stessa fermezza. Avremo tributato a Germanico questo solo privilegio, che l’indagine sulla sua morte venga svolta nella Curia anziché nel Foro, al cospetto del Senato invece che davanti ai giudici normali; tutto il resto sarà esaminato con pari mitezza. Nessuno tenga conto delle lacrime di Druso né del mio dolore, e nemmeno delle calunnie che circolano sul conto nostro.»
13. Fu stabilito di concedere due giorni all’accusa e, dopo un intervallo di sei, l’imputato ne avrebbe avuti tre per difendersi. Fulcinio incominciò a parlare citando vecchie e futili accuse, quella d’aver governato la Spagna con favoritismi e avidità, cose che anche se fossero state provate non avrebbero procurato danno all’imputato, qualora venisse assolto dalle accuse recenti, né smentite gli avrebbero provocato l’assoluzione, se fosse stato ritenuto colpevole dei reati più gravi. Dopo di lui, Serveo, Veranio e Vitellio con pari impegno e, quest’ultimo, con molta eloquenza, obbiettarono che Pisone per odio verso Germanico e smania di rivolgimenti aveva corrotto i soldati, permettendo loro eccessi d’ogni genere e offese agli alleati, tanto che gli elementi peggiori lo chiamavano padre delle legioni, mentre si comportava con durezza verso i migliori, specie contro i compagni e amici di Germanico; e che infine lo aveva portato alla morte con incantesimi e con il veleno; indi rammentarono le cerimonie e i sacrifici sacrileghi compiuti da Pisone e Plancina e come egli s’era mosso con le armi contro lo Stato e che per poterlo portare in tribunale, s’era dovuto sconfiggerlo in battaglia.
14. La difesa sorvolò su tutte le altre accuse – infatti, non avrebbe potuto smentire né la corruzione dell’esercito, né che aveva lasciato la provincia in mano ai peggiori né le mancanze di rispetto verso il comandante; soltanto il reato di veneficio sembrò attenuato, poiché gli stessi accusatori non riuscivano a provarlo in modo sufficiente, quando dicevano che in un banchetto Pisone, disteso su un triclinio più in alto di Germanico, aveva avvelenato con le sue mani le vivande di lui. Per la verità, non sembrava possibile che tra la servitù altrui e sotto gli occhi di tutti, di Germanico stesso, avesse osato una cosa simile; l’imputato chiedeva che fossero interrogati con tortura gli schiavi suoi e i servitori del banchetto. Ma i giudici continuarono ad esser implacabili per varie ragioni: Cesare perché aveva mosso guerra alla provincia, i senatori perché nessuno mai aveva creduto che la morte di Germanico fosse avvenuta senza delitto; infine chiesero che si producesse la corrispondenza, cosa alla quale si opposero sia Pisone che Tiberio. Intanto si udivano le grida del popolo davanti alla Curia: se fosse riuscito a sottrarsi alla sentenza del Senato, loro non avrebbero tenuto a freno le mani. E già avevano portato fino alle Gemonie7 le statue di Pisone e le avrebbero fatte a pezzi, se l’imperatore non avesse ordinato di salvarle e rimetterle al loro posto. Infine Pisone fu portato via su una lettiga da un tribuno della coorte pretoria, mentre la gente si chiedeva se quel custode lo seguisse per salvarlo o per eseguire la condanna.
15. Altrettanto violento era l’odio per Plancina, ma essa godeva d’una protezione più altolocata; per questa ragione ci si chiedeva fino a che punto Cesare avesse potere contro di lei. Ed essa, fino a che a Pisone rimase qualche speranza, giurava di voler essergli compagna qualunque fosse la sua sorte e, se necessario, era pronta a morire con lui; ma quando, per le segrete preghiere dell’Augusta, ottenne la grazia, poco a poco incominciò a distaccarsi dal marito, a separare la propria difesa da quella di lui. L’imputato si rese conto che ciò gli sarebbe stato fatale e dubitando se tentare ancora di difendersi, per le preghiere dei figli si fece coraggio e tornò in Senato; qui dovette sopportare il rinnovarsi dell’accusa, le voci ostili dei padri, l’odio, la ferocia di tutti; ma nulla gli fece terrore quanto il volto di Tiberio, senza compassione e senza ira, impassibile, impenetrabile, per non lasciare che trasparisse il minimo segno di emozione. Fu riportato a casa, come per riflettere sulla difesa che avrebbe pronunciato il giorno seguente; scrisse poche righe, le firmò e le consegnò a un liberto; poi dedicò le solite cure alla sua persona. Poi, a notte inoltrata, quando la moglie uscì dalla camera, ordinò che chiudessero la porta. E alle prime luci dell’alba lo trovarono con la gola tagliata; accanto a lui, a terra, la spada.
16. Ricordo d’aver sentito dire dai vecchi che spesso tra le mani di Pisone fu visto un fascicolo, che non fece leggere a nessuno; i suoi amici solevano dire che contenesse lettere di Tiberio e le istruzioni a danno di Germanico; che egli si era proposto di produrle ai senatori e denunciare l’imperatore, se non fosse stato dissuaso da Seiano con false promesse; e che non s’era ucciso di sua volontà, ma che s’era fatto entrare un sicario. Non sono in grado di asserire né l’una né l’altra cosa, ma tuttavia non vorrei passare sotto silenzio ciò che mi fu raccontato da persone che vissero fino alla mia giovane età. Cesare, con un’espressione di tristezza, si lamentò con i senatori che con quella morte s’era cercato di attizzare il malanimo contro di lui; ordinò che fosse chiamato M. Pisone8 e lo interrogò a lungo, per sapere in che modo il padre aveva trascorso l’ultimo giorno e l’ultima notte. E poiché quello gli rispondeva per lo più da persona avveduta, ma a volte in modo imprudente, gli lesse poche righe di Pisone, più o meno di questo tenore: «Sopraffatto dalla cospirazione dei miei avversari e dall’odio suscitato da una falsa accusa, poiché fino a questo momento non c’è stato modo di provare la verità e la mia innocenza, chiamo a testimoni gli dèi immortali, Cesare, che ho trascorso la mia mia vita fedele a te e devoto a tua madre; prego entrambi di provvedere ai miei figli, dei quali Cn. Pisone non è legato al mio destino, quale che esso sia, poiché ha trascorso a Roma tutto questo tempo; mentre M. Pisone cercò di dissuadermi dal ritornare in Siria. Così avessi ascoltato il mio giovane figlio, anziché lui il vecchio padre! Per questo ti imploro con tanto maggior fervore che egli, innocente, non debba scontare la pena del mio errore. In ricordo di quarantacinque anni di devozione, del consolato che rivestimmo insieme, della stima in cui mi tenne un tempo il padre Tuo, Augusto, e della Tua amicizia, ti chiedo la salvezza del mio sventurato figlio: né ti chiederò mai più nulla, dopo questo».
Di Plancina, non una parola.
17. Dopo di ciò, Tiberio assolse il giovinetto dall’imputazione d’aver provocato una guerra civile, poiché era stato il padre a dare gli ordini e il figlio non aveva potuto opporsi; lo mosse a pietà, inoltre, la nobiltà della famiglia e la fine tragica di Pisone, ancorché meritata. Parlò poi di Plancina, non senza imbarazzo e vergogna, adducendo a suo favore le preghiere di sua madre, contro la quale era più acceso lo sdegno di tutte le persone oneste. La nonna dunque aveva il coraggio di guardare in viso, di rivolger la parola all’assassina del nipote, sottrarla al giudizio del Senato. Ciò che le leggi procurano a tutti i cittadini, solo a Germanico era stato negato; era stato pianto da Vitellio e Veranio, ma l’imperatore e l’Augusta avevano difeso Plancina; propinasse dunque ad Agrippina il veleno, usasse contro di lei e contro i suoi figli quelle trame che aveva sperimentato con tanto successo, saziasse quell’ottima ava e lo zio con il sangue della sventurata famiglia.
Trascorsero due giorni in quel simulacro di processo. Tiberio insisteva con i figli di Pisone che proteggessero la madre; e poiché la parte civile e i testimoni gareggiavano nelle accuse e non rispondeva nessuno, la compassione superava l’odio. Il primo a cui fu chiesto di esprimere il voto fu il console Aurelio Cotta (dato che era stato l’imperatore a istruire il processo, i consoli fruivano anche di quel diritto); questi propose che il nome di Pisone fosse cancellato dai Fasti9, che fosse confiscata una parte dei suoi averi, una parte lasciata al figlio Cn. Pisone e che egli cambiasse il suo prenome. A M. Pisone, espulso dal Senato, furono concessi cinque milioni di sesterzi e fu relegato per dieci anni. Plancina, grazie all’intercessione dell’Augusta, fu assolta.
18. Molti articoli di questa sentenza furono mitigati da Tiberio. Rifiutò che fosse cancellato dai Fasti il nome di Pisone, quando vi erano rimasti quelli di M. Antonio, che aveva mosso guerra alla patria, e quello di Giulio Antonio10, che aveva disonorato la famiglia di Augusto. Prosciolse M. Pisone dall'ignominia e gli lasciò il patrimonio del padre; abbastanza risoluto, come ho detto più volte, per quel che riguardava il denaro e in quel momento più disposto a mitezza per la vergognosa assoluzione di Plancina. Respinse la proposta di Valerio Messalino, di erigere una statua d’oro nel tempio di Marte Ultore, e quella di Cecina Severo, che si consacrasse un’ara alla vendetta; simili offerte sacre, ripetè, si fanno per vittorie riportate su popoli stranieri, ma le sciagure di casa nostra vanno occultate con tristezza. Messalino aveva aggiunto che si doveva render grazie a Tiberio, ad Augusta, ad Agrippina e a Druso per aver vendicato Germanico, ma si dimenticò di nominare Claudio11. Allora L. Asprenate gli domandò, in pieno Senato, se l’aveva fatto di proposito; e fu aggiunto anche il nome di Claudio. A me, quanto più rifletto sia sugli avvenimenti odierni sia su quelli antichi, tanto più sembra che risulti lo scherno della sorte in tutte le vicende dei mortali: e infatti la fama, le aspettative, la deferenza destinavano all’impero tutti, tranne quello che la sorte segretamente riserbava alla carica di futuro principe.
19. Pochi giorni dopo, su proposta di Cesare furono conferite cariche sacerdotali a Vitellio, a Veranio e a Serveo; promise a Fulcinio il suo voto per le cariche, ma lo ammonì a non guastare la sua facondia con l’eccessivo calore. Così si conclusero i provvedimenti presi per vendicare la morte di Germanico, che suscitarono vari commenti non solo tra i contemporanei, ma anche in epoche successive. Gli avvenimenti più importanti, infatti, restano sempre avvolti nel dubbio, poiché per alcuni notizie sentite dire in qualsiasi modo sono verità sacrosante, altri invece danno per false le cose veritiere: due mali che vanno aumentando col tempo.
Intanto Druso, partito da Roma per rinnovare gli auspicii, ben presto vi tornò con l’onore dell’ovazione. Dopo pochi giorni morì sua madre, Vipsania12, la sola dei figli di Agrippa ad avere una fine serena; tutti gli altri o morirono manifestamente di spada, o si crede siano morti di veleno o di fame.
20. Lo stesso anno Tacfarinate che, come ho già detto, fu respinto da Camillo, riprese le ostilità, prima con incursioni saltuarie e, per la rapidità in cui avvenivano, impunite, poi devastando villaggi e riportandone grosse prede; alla fine assediò una coorte romana, non lontano dal fiume Pagyda. Il comandante di quella fortezza era Deerio, un uomo di grande prontezza ed esperto di guerra. Ritenne disonorevole quell’assedio; arringò i soldati e, affinché offrissero battaglia in campo aperto, dispose le schiere davanti all’accampamento. Al primo scontro la coorte fu respinta ma egli, mettendosi in evidenza tra i dardi, si oppose ai fuggiaschi, rimproverò i signiferi, dicendo che un soldato romano non volge la schiena a delle orde di selvaggi o disertori e, benché ferito, con un occhio trafitto, tenne il viso rivolto ai nemici; né lasciò il campo fino a che cadde, abbandonato dai suoi.
21. Quando L. Apronio, successore di Camillo, fu informato di quanto era accaduto, angustiato per il comportamento disonorevole dei suoi più che per il successo nemico, compì un atto raro ai suoi tempi e d’antica memoria: trasse a sorte uno ogni dieci della coorte che s’era coperta di vergogna e lo fece uccidere a colpi di verghe. Quella severità fu salutare: un corpo di veterani, non più di cinquecento uomini, sconfisse le truppe del medesimo Tacfarinate, che avevano assalito una fortezza di nome Tala. In quello scontro un soldato semplice, un certo Rufo Elvio, riportò l’onore d’aver salvato la vita d’un cittadino e ricevette da L. Apronio le collane e l’asta. Cesare vi aggiunse la corona civica e si dolse, più che risentirsi, del fatto che Apronio non gli avesse dato anche quella con la sua autorità di proconsole. Ma Tacfarinate, poiché i Numidi, abbattuti, si rifiutavano di fare assedi, ampliò il campo delle ostilità, ritirandosi quando era incalzato e poi tornando all’assalto alle spalle. Fino a che il barbaro si attenne a questa tattica, sfuggì impunemente ai Romani, esausti e delusi; ma quando si spostò verso la costa, senza allontanarsi dai suoi accampamenti per via delle prede, Apronio Cesiano, inviato dal padre, con la cavalleria e le coorti ausiliarie, alle quali aveva aggregato i legionari più veloci, si batté con successo contro i Numidi e li ricacciò nel deserto.
22. A Roma Lepida, che, oltre al rango della famiglia Emilia, aveva avuto anche L. Silla e Cn. Pompeo per bisavoli, fu denunciata d’aver simulato un parto da P. Quirino, un uomo ricco e senza figli; a questa imputazione si aggiungevano quelle di adulterio, di tentati avvelenamenti e d’aver consultato astrologi caldei sul futuro della famiglia di Cesare13. Assunse la difesa dell’imputata il fratello Manio Lepido. L’avversione di Quirino, ancora adirato contro di lei, dopo la dichiarazione di ripudio, le aveva attirato la compassione, benché fosse disonorata e colpevole. Non sarebbe stato facile, a chi avesse voluto farlo, scoprire l’animo del principe in quel processo, tanto passò dall’ira alla clemenza e ne alternò i segni. All’inizio pregò il Senato che non si discutesse sul reato di lesa maestà, subito dopo invece indusse il console M. Servilio e altri testimoni a sporgere denuncia proprio di quei reati che aveva voluto lasciar cadere. Gli schiavi di Lepida, che erano tenuti sotto custodia militare, li affidò ai consoli e non permise che fossero interrogati con tortura riguardo a quelle imputazioni che avevano qualche rapporto con la sua famiglia. Inoltre dispensò Druso, che era console designato, dal formulare la sentenza per primo, cosa che a qualcuno parve un gesto civile, affinché non si imponesse agli altri l’obbligo di uniformarsi; qualcuno invece vi ravvisò un segno di crudeltà, poiché Druso, se avesse ceduto ad altri quel diritto altro non avrebbe ceduto che l’obbligo di condannare.
23. Nelle giornate dei giochi, durante i quali il processo era sospeso, Lepida si recò a teatro con altre donne di famiglie illustri; qui con lacrime e lamenti invocò i suoi antenati, specialmente Pompeo, al quale si doveva quel monumento14 e attorno si vedevano le sue statue; suscitò tanta pietà nei presenti che tutti, sciogliendosi in lacrime, levarono furiose grida di abbominio contro Quirino, vecchio, senza figli, di nascita oscura, al quale era stata data una donna che era destinata a sposare L. Cesare ed esser la nuora di Augusto. Ma, sottoposti gli schiavi alla tortura, vennero alla luce le colpe di Lepida e fu approvato il parere di Rubellio Blando, secondo il quale si sarebbe dovuto condannarla all’esilio. Druso espresse il suo consenso, mentre altri si dichiararono più miti. Poi si consentì alla richiesta di Scauro, che da lei aveva avuto una figlia, che non le fossero confiscati gli averi. Allora finalmente Tiberio rivelò d’aver appreso dagli schiavi di Quirino che Lepida aveva tentato di avvelenarlo.
24. Le avversità che avevano colpito famiglie illustri – infatti i Calpurnii avevano perduto Pisone, e, a breve distanza di tempo, gli Emilii Lepida, – furono compensate dal ritorno di D. Silano, che fu restituito alla famiglia Giunia. Narrerò brevemente la sua storia.
La sorte, che fu propizia ad Augusto per quel che riguardava lo Stato, gli fu avversa nelle vicende della sua famiglia per la scandalosa condotta della figlia e della nipote15, che egli mandò in esilio mentre punì con la deportazione o con la morte i loro complici nell’adulterio: il definire sacrilegio e reato di lesa maestà, nomi molto pesanti, i rapporti colpevoli, del resto comuni, tra i due sessi egli si era discostato dalla clemenza dei nostri maggiori e dalle sue stesse leggi16. Ma io mi propongo di narrare la conclusione di altri avvenimenti e di quelli di quel tempo se, compiuta l’opera alla quale mi sono accinto, vivrò abbastanza da iniziarne ancora. D. Silano, che commise adulterio con la nipote di Cesare, benché non avesse ricevuto punizione più grave che Tesser escluso dall’amicizia di Cesare, si rese conto che gli si faceva intendere l’opportunità dell’esilio; né osò implorare clemenza al Senato e al Principe fino a che non fu imperatore Tiberio, valendosi del prestigio del fratello, M. Silano, che occupava una posizione molto elevata per la stirpe insigne e per l’eloquenza. A Silano che gli espresse la sua gratitudine, Tiberio, al cospetto del Senato, rispose che lui pure era lieto che suo fratello tornasse da un lungo viaggio, ritorno che il diritto gli consentiva, dato che non aveva subito il bando da un decreto del Senato né da legge alcuna; che però, per quel che lo riguardava, non era cancellata l’offesa fatta a suo padre e che il ritorno di Silano non annullava ciò che Augusto aveva voluto.
Dopo questo, D. Silano soggiornò nell’Urbe, ma non ottenne alcuna carica.
25. Poi in Senato si discusse sulla legge Papia Poppea17 e su l’opportunità di emendarla; Augusto l’aveva promulgata quando era già avanti negli anni, dopo la proposta delle leggi Giulie, per stimolare i celibi con le pene e arricchire l’erario. Non per questo aumentarono i matrimoni e le nascite, poiché si riteneva preferibile non avere prole; ma nel contempo aumentava il numero di coloro che erano in pericolo, poiché tutte le famiglie erano esposte alle insinuazioni dei delatori, di modo che mentre prima si soffriva per le colpe, ora per le leggi. Il che mi induce a parlare più diffusamente dei principi del diritto e attraverso quali procedimenti si è giunti all’infinita moltitudine delle leggi vigenti e alla varietà di esse.
26. I più remoti mortali, ancora immuni da passioni malvagie, vivevano senza perfidia né delitti e, di conseguenza, senza castighi né divieti. Né c’era bisogno di ricompense, poiché ciascuno si comportava onestamente per sua volontà e, dato che non si desiderava nulla al di là del costume, nulla era vietato incutendo timore. Ma come sparì l’eguaglianza e in luogo della moderazione e dell’onore subentrarono l’ambizione e la violenza, sopraggiunsero le tirannidi e presso molti popoli sono rimaste per sempre. Altri invece, subito o dopo che la monarchia gli era venuta a noia, preferirono le leggi. Le prime furono semplici, adeguate ad uomini primitivi: sono rimaste famose quelle emanate a Creta da Minosse, a Sparta da Licurgo e infine quelle, più sottili e più numerose, da Solone ad Atene.
Da noi Romolo governò come voleva; poi venne Numa e impose agli uomini i vincoli della religione e del diritto divino; altre leggi furono escogitate da Tullio e Anco; ma fu soprattutto Servio Tullio a emettere leggi che avrebbero dovuto esser osservate anche dai re.
27. Dopo la cacciata di Tarquinio, il popolo si procurò molti provvedimenti per resistere alle fazioni dei patrizi, tutelare la libertà e consolidare la concordia. Furono nominati i decemviri e, attingendo le leggi migliori da ogni dove, furono stilate le XII Tavole, vertice dell’equità e del diritto. Le leggi successive infatti a volte furono adeguate alle pene, vale a dire comminate in conformità al reato commesso, il più delle volte però furono emanate in un clima di violenza, in occasione di conflitti sociali o per la brama di conseguire cariche illecite o per bandire uomini insigni o per altre ragioni inique. Ecco dunque i Gracchi e i Saturnini, sobillatori della plebe18, e Druso19, fautore non meno di quelli di concessioni a nome del Senato; gli alleati italici furono incitati dalle promesse e delusi dall’opposizione. Neppure durante la guerra italica e, subito dopo, quella civile20, fu sospesa la votazione di leggi molteplici e contraddittorie; fino a che il dittatore L. Silla, abolite o emendate quelle precedenti, ne emanò un gran numero, ma almeno impose una breve tregua; ma non tardarono le proposte turbolente di Lepido e ben presto fu resa ai tribuni la possibilità di incitare il popolo21.
Ormai i decreti non riguardarono più la comunità, ma mirarono a singoli individui; aumentò il degrado dello Stato quanto più furono numerose le leggi.
28. Allora Cn. Pompeo, console per la terza volta, fu incaricato di imporre il buon costume, ma adottò rimedi peggiori dei mali, sovvertì quelle stesse leggi che aveva emanate e perdette con le armi ciò che con le armi aveva voluto proteggere. Da allora la discordia durò vent’anni: non vi furono più norme civili né diritto, i crimini più atroci rimasero impuniti e molte azioni oneste furono causa di rovina. Finalmente, quando fu console per la sesta volta, ormai sicuro del suo potere, Augusto abolì le ordinanze del triunvirato e promulgò una costituzione, in base alla quale avremmo avuto la pace, e un principe.
Da allora il controllo delle leggi divenne più rigoroso; in base alla legge Papia Poppea furono nominati dei custodi, attratti da compensi, affinché, a prescindere dai privilegi dei padri di famiglia, i beni senza padrone appartenessero al popolo, quasi padre comune. Ma questi abusarono dei loro poteri e si impadronirono non solo dell’Urbe, ma dell’Italia e di ogni luogo dove vi fossero cittadini e i patrimoni di molti andarono in rovina. E già tutti erano dominati dalla paura; ma Tiberio volle porvi un rimedio e nominò per sorteggio cinque consolari, cinque ex pretori e altrettanti tra gli altri senatori, dai quali in molti casi furono attenuati i rigori della legge e per il momento apportarono sollievo.
29. Nello stesso periodo Tiberio raccomandò ai senatori Nerone, figlio di Germanico, ormai giunto all’età giovanile, affinché fosse esonerato dall’obbligo di assumere il vigintivirato22 e potesse aspirare alla questura con anticipo di cinque anni sull’età legale; il che suscitò qualche sorriso tra i presenti. Allegò come pretesto che a suo fratello e a lui era stato accordato lo stesso privilegio, su richiesta di Augusto. Non metto in dubbio che già allora vi fosse chi di nascosto si rideva di quelle preghiere; eppure la potenza dei Cesari allora era agli inizi, il ricordo dell’antico costume era negli occhi di tutti e il legame d’un patrigno con i figliastri era più tenue che quello d’un nonno verso un nipote23. A Nerone fu concesso anche il titolo di pontefice e il primo giorno in cui fece il suo ingresso nel foro, fu fatta una largizione alla plebe24, che esultò nel vedere un figlio di Germanico già giunto alla pubertà. Crebbe il compiacimento per le nozze di Nerone con Giulia, figlia di Druso. Questi fatti suscitarono commenti favorevoli, mentre fu visto con avversione il fatto che al figlio di Claudio fosse destinato come suocero Seiano; si riteneva che Tiberio avesse inquinato la nobiltà della famiglia e avesse messo su un livello troppo alto Seiano, già sospettato di aspirazioni eccessive.
30. (20 d.C.) Verso la fine dell’anno scomparvero due uomini illustri, Sallustio Crispo e L. Volusio. La famiglia di quest’ultimo era antica, ma non aveva mai superato la pretura; Volusio la portò al consolato, rivestì anche la carica di censore per la scelta delle decurie di cavalieri25 e fu il primo ad accumulare un patrimonio per il quale la famiglia diventò molto potente. Crispo, di famiglia equestre, era nipote d’una sorella di C. Sallustio, insigne storico degli eventi di Roma, che lo adottò e gli dette il suo nome. Benché gli sarebbe stato facile conseguire le più alte cariche, seguì l’esempio di Mecenate: pur non avendo la dignità di senatore, superò in potenza molti che erano stati consoli e trionfatori; si distinse dalle abitudini degli antichi per l’eleganza e la raffinatezza, il lusso e il tenore di vita da straricco. A questo aspetto sottostava però un forte ingegno, atto a compiere grandi imprese, tanto più attivo quanto più egli ostentava inerzia e indolenza. Dopo la morte di Mecenate fu il primo, anzi il principale confidente dei segreti degli imperatori, complice, tra l’altro, dell’assassinio di Agrippa Postumo; nell’età matura conservò l’apparenza dell’amicizia del principe più che la sostanza. Era accaduto lo stesso a Mecenate, sia che per volontà del destino è raro che il potere duri per sempre: o subentra la sazietà nei principi, quando hanno concesso ogni cosa, o in quelli ai quali non resta più nulla da desiderare.
31. (21 d.C.) Seguì il quarto consolato di Tiberio, il secondo di Druso, notevole perché furono colleghi padre e figlio. Due anni prima Tiberio aveva rivestito la stessa carica con Germanico, ma la cosa non aveva fatto molto piacere allo zio né il rapporto di parentela tra i due era altrettanto stretto. Al principio dell’anno Tiberio si recò in Campania, per rimettersi in salute; forse, poco a poco pensava già a una futura assenza lunga e ininterrotta o voleva che, partito il padre, Druso adempisse da solo alle funzioni di console. Il caso volle che una questione di poco conto provocasse poi un grave conflitto e offrisse al giovane l’occasione per conquistare favore. L’ex pretore Domizio Corbulone in Senato espose le sue lagnanze perché un giovane nobile, L, Silla, a uno spettacolo di gladiatori non gli aveva ceduto il posto. Erano a favore di Corbulone l’età, l’antico costume, la solidarietà dei più anziani; sostenevano la parte opposta Mamerco Scauro, L. Arrunzio e altri parenti di Silla. Vi fu una gara di eloquenza, furono rievocati gli esempi degli avi, che avevano preso di mira l’irriverenza dei giovani con gravi sanzioni. Fino a che Druso pronunciò parole utili a calmare gli animi e a Corbulone fu data soddisfazione per mezzo di Mamerco, che era zio e patrigno di Silla, e il più facondo oratore del tempo. Lo stesso Corbulone denunciò a gran voce il fatto che in Italia moltissime strade erano interrotte o impraticabili per la frode degli appaltatori e la negligenza dei magistrati e si dichiarò disposto ad assumersi l’incarico di provvedervi; il che però più che utile al pubblico risultò di grave danno a molti, contro i quali egli si accanì colpendoli sia finanziariamente sia nel buon nome con condanne e con vendite all’asta.
32. Non molto tempo dopo Tiberio con una lettera informò il Senato che l’Africa era stata nuovamente sconvolta da una irruzione di Tacfarinate, e che, a giudizio dei padri, bisognava scegliere come proconsole un uomo esperto di guerra, di sana costituzione e capace di comandare la spedizione. Ciò offrì a Sesto Pompeo il destro per esprimere il suo odio contro Manio Lepido; lo accusò d’essere indolente, privo di mezzi e indegno dei suoi maggiori, tanto che riteneva opportuno escluderlo dal sorteggio anche dell’Asia. Il Senato si dimostrò contrario, poiché giudicava Lepido un uomo mite, non inetto, e riteneva che le strettezze ereditate dal padre, la nobiltà del nome, portato senza macchia, si doveva attribuirle a suo onore e non a suo discapito. Quindi egli fu mandato in Asia; per quel che riguardava l’Africa, i senatori deliberarono che Tiberio scegliesse a chi affidarla.
33. Su questo, Severo Cecina espresse il parere che nessun magistrato al quale venisse assegnata una provincia fosse accompagnato dalla moglie; e dichiarò ripetutamente che con sua moglie egli viveva d’amore e d’accordo e da lei aveva avuto sei figli, eppure aveva sempre osservato questa norma e ora proponeva fosse stabilita per tutti; pur avendo trascorso quarant’anni di servizio in varie province, la moglie l’aveva sempre lasciata in Italia. Infatti non senza ragione un tempo era stato stabilito che non si portassero donne nei territori alleati o stranieri; poiché è inerente alla compagnia delle donne che il lusso in pace, la paura in guerra rappresentino un motivo di imbarazzo e facciano d’un esercito romano un’orda di barbari migratori. Il sesso femminile non soltanto è debole e inadatto alle fatiche, ma, se non lo si controlla, è crudele, ambizioso, avido di potere; le donne si insinuano tra i soldati, vogliono comandare ai centurioni; era accaduto di recente che una donna assistesse alle esercitazioni delle coorti, alla rivista delle legioni26. I senatori tenessero presente che tutte le volte che qualcuno veniva denunciato per concussione, la maggior parte delle accuse riguardava le mogli; con loro sùbito facevano combutta gli elementi peggiori nelle province, erano loro a darsi agli affari e concludere accordi; per le loro uscite ci voleva doppia scorta, doppio seguito; e gli ordini dati dalle donne erano più ostinati e più arroganti. Un tempo le leggi Oppie27 ed altre ancora avevano imposto limiti al loro potere; ma ora, caduti tutti i divieti, comandavano in casa, al Foro e persino sull’esercito.
34. Queste parole riscossero scarsi consensi; l’argomento, dicevano, non era all’ordine del giorno e del resto Cecina non godeva di prestigio tale da farsi censore in una questione di tanto rilievo. A questo punto Valerio Messalino, figlio di Messala, nel quale sussisteva una traccia della facondia paterna, rispose che molti provvedimenti rigorosi degli antichi erano stati emendati in senso più mite; ora l’Urbe non era più assediata da guerre, le province non erano più ostili; si concedeva ben poco alle esigenze delle donne, le quali non erano di peso né alla famiglia del marito né agli alleati; quanto al resto, esse vivevano nell’intimità con il marito e ciò non costituiva il minimo ostacolo alla pace. Evidentemente, in guerra dovevano andarci uomini pronti, ma quando tornavano dopo le fatiche quale conforto più onesto che quello della moglie? E se qualcuna era caduta nell’avidità o nell’ambizione, la maggior parte dei magistrati stessi non aveva ceduto alle più varie dissolutezze? E tuttavia non per questo non se ne mandavano più nelle province. Spesso erano stati spinti alla corruzione dalla perversità delle mogli; ma che forse tutti i celibi erano irreprensibili? Le leggi Oppie erano state approvate un tempo perché le condizioni della Repubblica lo esigevano; ma in seguito erano state emendate e mitigate, perché era parso opportuno. A che serve nascondere sotto altri nomi la nostra incapacità: se una donna eccede, la colpa è del marito. Per un paio di inetti non si deve togliere ai mariti la compagna della buona e della cattiva sorte e al tempo stesso abbandonare il sesso debole ed esporre le donne alla tentazione del lusso e alle brame altrui. È già tutt’altro che facile conservare intatti i matrimoni con la vigilanza d’un marito presente: che cosa accadrebbe se lo si facesse svanire dalla memoria con una separazione di molti anni? Quelli che si preoccupano dei peccati che si commettono lontano, non perdano di vista la depravazione di Roma. Druso aggiunse poche parole riguardanti il suo matrimonio; capita spesso ai principi di doversi recare nelle province più lontane delFimpero. Quante volte Augusto era andato in oriente e in occidente e Livia lo aveva accompagnato! Lui pure era andato nell'Illirico e, se fosse utile, andrebbe anche in altri paesi, ma certo non lo farebbe volentieri, se dovesse separarsi dalla sposa carissima, madre dei loro figli. Così la proposta di Cecina fu respinta.
35. Il giorno seguente Tiberio in una lettera si dolse indirettamente dei senatori perché rimettevano al principe tutte le preoccupazioni, e designò M. Lepido e Giunio Bleso, uno dei quali dovesse esser scelto come proconsole in Africa. Furono ascoltati i pareri di entrambi: Lepido rifiutò insistentemente, adducendo motivi di salute, l’età dei figli e una figlia nubile; ma si intuiva ciò che non diceva e cioè che Bleso, essendo zio di Seiano, era molto più potente. Bleso parlò fingendo a sua volta di voler ricusare, ma non con la stessa fermezza e fu sostenuto dal consenso degli adulatori.
36. Poi fu rivelato un fatto che si teneva celato, benché lamentato segretamente da molti. S’era radicato il costume che qualsiasi cattivo soggetto, purché tenesse stretta l’immagine dell’imperatore, poteva impunemente pronunciare improperi e provocare malanimo contro le persone oneste; liberti e persino schiavi così facendo potevano dire male parole o minacciare il patrono o il padrone e facevano paura. Il senatore C. Cestio disse che effettivamente gli imperatori sono pari agli dèi, ma che gli dèi esaudiscono soltanto le preghiere giuste e nessuno si rifugia in Campidoglio o in altri templi della città e si serve di quella protezione per delinquere. Le leggi, disse, erano abolite e totalmente rovesciate: Annia Rufilla, che egli aveva fatta condannare per frode, si permetteva di coprirlo d’insulti e di minacce nel foro e fino alla porta della Curia ed egli non osava ricorrere alla giustizia poiché quella gli opponeva il ritratto dell’imperatore. Altri denunciarono gridando fatti simili e ancor più insolenti, e pregarono Druso di infliggere un castigo esemplare; egli allora fece chiamare la donna e, accertata la colpa, ordinò che fosse messa in prigione.
37. Considio Equo e Celio Cursore, cavalieri romani, a seguito di una proposta dell’imperatore e d’un decreto del Senato, furono puniti per aver denunciato Magio Ceciliano di falso reato di lesa maestà. Le due condanne produssero elogi a Druso; prendendo parte alle riunioni e ai colloqui dei cittadini, egli attenuava il carattere chiuso del padre. Né dispiaceva nel giovane l’inclinazione ai piaceri; era preferibile che trascorresse il giorno a costruire28, la notte nei conviti, anziché da solo, senza la minima distrazione, si abbandonasse a malinconiche veglie e a tristi sospetti.
38. E infatti né Tiberio né gli accusatori venivano meno. Ancario Prisco aveva denunciato il proconsole di Creta, Cesio Cordo, di concussione e in più di lesa maestà, che rappresentava il vertice di ogni accusa. I giudici assolsero dall’imputazione di adulterio Antistio Vetere, uno dei notabili di Macedonia; Cesare lo rimproverò e lo fece sottoporre di nuovo a giudizio, invitandolo a scolparsi d’aver commesso lesa maestà, dato che era un uomo irrequieto, implicato nelle trame di Rescuporide, all’epoca in cui questi, ucciso il fratello Coti, si apprestava a farci guerra. L’imputato fu condannato all’esilio con l’aggravante di dover risiedere in un’isola priva di comunicazioni sia con la Macedonia sia con la Tracia. In effetti la Tracia, dopo che era stata divisa tra Remeltace e i figli di Coti, dei quali, data l’età, era tutore Trebelliano Rufo, non avvezza a noi, si comportava in modo ostile; ed accusava le angherie commesse a danno degli indigeni. I Celaleti, gli Odrusi e i Dii, popoli molto forti, presero le armi al comando di uomini diversi ma pari tra loro per le origini umili; il che provocò la mancata unione per una guerra feroce. Alcuni misero a ferro e fuoco le zone vicine, altri valicarono il monte Emo per indurre popolazioni lontane a sollevarsi; la maggior parte di essi, più organizzati, assediarono il re a Filippopoli, città che fu fondata da Filippo il Macedone.
39. Come fu informato di questi avvenimenti, P. Valleo, che comandava l’esercito più vicino, mandò cavalieri e coorti leggere contro quelli che si aggiravano nella zona per predare e assumere rinforzi, mentre egli, alla testa d’una forza di fanteria, mosse per togliere l’assedio alla città. Tutto si risolse felicemente nello stesso momento: i predatori furono massacrati, scoppiò un dissidio tra gli assedianti, il re fece una sortita e intanto arrivò la legione. Non si può neppure chiamare scontro armato o combattimento un eccidio di vagabondi quasi inermi, senza perdite da parte nostra.
40. (21. d.C.) Quello stesso anno le città della Gallia, per l’entità dei debiti contratti, tentarono una rivolta, i cui promotori più indomiti furono Giulio Floro dei Treviri e Giulio Sacroviro degli Edui29. Erano ambedue di nobile stirpe e per la fedeltà mostrata dai loro antenati dotati della cittadinanza romana, all’epoca in cui la si concedeva di rado e soltanto come premio al valore. In conciliaboli segreti, adunarono i più fieri o quelli che per povertà o per paura si trovavano nella situazione di dover delinquere; si accordarono di sollevare Floro i Belgi, Sacroviro i Galli più vicini. Sia per mezzo di incontri privati sia di adunanze, parlavano della necessità di ribellarsi per l’infierire delle imposte, l’alto prezzo dell’usura, la crudeltà e l’arroganza dei governatori; affermavano che tra le truppe, da quando avevano appreso la morte di Germanico, serpeggiava il malcontento; che era il momento opportuno per recuperare la libertà, se si considerava che il loro paese era florido mentre l’Italia era povera, imbelle la plebe dell’Urbe e solo valido nell’esercito il nerbo straniero.
41. Quasi non vi fu città che rimanesse indenne da quei germi di rivolta; i primi a insorgere furono gli Andecavi, poi i Turoni30, ma vennero domati dal legato Acilio Aviola, che fece venire una coorte da Lione, dove si trovava il presidio. I Turoni furono battuti da una legione mandata da Visellio Varrone, legato della Germania Inferiore, al comando dello stesso Aviola e di alcuni primati Galli, i quali prestarono aiuto al fine di nascondere la propria defezione e dichiararla in seguito. Persino Sacroviro si fece vedere a capo scoperto incitare a combattere a favore dei Romani, per dar prova, diceva, del suo valore. I prigionieri, però, riferirono che s’era esposto per farsi riconoscere e non esser colpito dai dardi. Tiberio, consultato su questo fatto, non si curò dell’accusa; e la sua indecisione alimentò la guerra.
42. Frattanto Floro persisteva nei suoi progetti e incitava un’ala di cavalleria, formata di reclute arruolate a Treviri e addestrate secondo la nostra disciplina, a massacrare i mercanti romani e dar inizio alla guerra. Pochi cavalieri furono corrotti, la maggior parte però rimase al suo posto. La massa degli indebitati e dei clienti invece prese le armi e cercava di portarsi sulle alture chiamate Ardenne, quando le legioni appartenenti ai due eserciti, che Visellio e C. Silio avevano fatto avanzare da sentieri opposti, li fermarono. Quella moltitudine disordinata fu dispersa da Giulio Indo che fu mandato avanti con un corpo scelto; era della stessa città di Floro ma contrario a lui e per questo più bramoso di dimostrare le sue capacità. Floro sfuggì ai vincitori nascondendosi in luoghi segreti, ma quando s’accorse che i soldati erano appostati davanti a tutte le uscite, si uccise. E fu la fine della rivolta dei Treviri.
43. La ribellione degli Edui fu più grave, poiché la popolazione era più ricca e il presidio in grado di soffocarla si trovava più lontano. Sacroviro aveva occupato la capitale Augustodunum con coorti armate, per aggregare i figli delle famiglie più nobili delle Gallie, che risiedevano nella città per compiere gli studi e per mezzo di essi, tenuti come ostaggi, assicurarsi l’appoggio dei genitori e dei parenti; subito distribuì ai giovani armi fabbricate segretamente. Erano quarantamila, la quinta parte dei quali armata come i nostri legionari, gli altri con spiedi e coltelli e con le frecce usate dai cacciatori. Si aggregarono a loro schiavi destinati a diventare gladiatori, tutti coperti di ferro, come usa da loro. Li chiamano grupellari e non sono molto abili nel colpire, ma invulnerabili ai colpi. Queste forze erano avvantaggiate dal consenso non ancora esplicito delle città vicine e dall’aperta simpatia dei singoli, nonché dalla discordia dei comandanti romani, tra i quali si disputava su chi avrebbe comandato le operazioni. Finì che Varrone, invalido per l’età, cedette il comando a Silio, che era nel fiore degli anni.
44. A Roma intanto correva voce che non soltanto gli Edui e i Treviri ma sessantaquattro città galliche s’erano liberate, che avevano indotto i Germani a unirsi a loro, che le Spagne erano infide, tutte notizie che, come sempre avviene, venivano credute più gravi del vero. I migliori si affliggevano per amore della repubblica, molti invece per insofferenza del presente e desiderio di cambiamenti si rallegravano, anche se ne andava della loro sicurezza; e se la prendevano con Tiberio, il quale, in simili frangenti, consumava le sue energie a leggere le denunce degli accusatori. Che forse anche Sacroviro sarebbe stato denunciato al Senato per il reato di lesa maestà? esistevano finalmente uomini che sapevano fermare con le armi quelle lettere sanguinarie31. Una pace così miserabile tanto valeva cambiarla, fosse pure con una guerra. Tiberio con tanto maggiore impegno si mostrava imperturbabile, non cambiava la sua residenza né appariva preoccupato, e in quei giorni si comportò come il solito o per grandezza d’animo o perché era in possesso di notizie sicure che la situazione era tollerabile e meno grave di quanto si diceva.
45. Intanto Silio mosse alla testa di due legioni, precedute da una schiera di ausiliari; devastò i villaggi dei Sequani32, che si trovavano al confine ultimo del territorio, attigui agli Edui e loro alleati in armi. Poi si diresse su Augustodunum a marce rapide, con i signiferi in gara tra di loro; e anche i soldati semplici, frementi d’impazienza, rifiutavano il riposo consueto e le soste notturne: che guardassero in faccia i nemici e fossero visti da loro, era sufficiente per vincere. A dodici miglia dalla città, apparve con le sue truppe Sacroviro in campo aperto. Aveva collocato all’avanguardia gli uomini coperti di ferro, ai lati le coorti, alla retroguardia quelli semi inermi. Egli, in mezzo ai capi, avanzava su uno splendido cavallo, rammentava le antiche glorie dei Galli e tutte le sconfitte che avevano inflitte ai Romani; quanto sarebbe stata onorevole la libertà ai vincitori, e intollerabile ai vinti subire per la seconda volta la schiavitù.
46. Ma non parlò a lungo né a uomini di buon animo; poiché si avvicinavano le legioni in formazione di battaglia e quei cittadini raccogliticci, inesperti di guerra, non avevano più né occhi per guardare né orecchie per ascoltare. Silio al contrario, benché la speranza che si era ripromessa lo dispensasse dall’incitare i suoi, tuttavia andava gridando che era vergognoso per loro, che avevano sconfitto i Germani, marciare ora contro i Galli come se si fosse trattato di veri nemici. Recentemente una sola coorte è stata sufficiente per vincere i ribelli Turoni, un’ala per i Treviri, e poche squadre di questo stesso esercito hanno sbaragliato i Sequani. Ora sconfiggete gli Edui, quanto più ricchi e avvezzi a gozzovigliare, tanto più imbelli, e risparmiate quelli che scappano. A queste parole si levò un grido altissimo, la cavalleria accerchiò il nemico, la fanteria lo aggredì frontalmente e ai fianchi non vi fu resistenza. Gli uomini vestiti di ferro procurarono qualche indugio, perché coperti di lastre resistevano alle aste e alle spade; ma i soldati impugnarono scuri e picconi, quasi dovessero abbattere un muro e così spaccarono corazze e corpi, altri con pertiche e forconi gettavano a terra quelle moli inerti; e li lasciavano lì distesi, come cadaveri, senza che facessero il minimo sforzo per alzarsi. Sacroviro prima si rifugiò ad Augustodunum, poi, temendo la resa della città, si diresse verso una fattoria non lontana, con pochi fedelissimi. Qui si tolse la vita e gli altri si uccisero a vicenda; la casa, incendiata dal tetto, fu il loro rogo.
47. Allora finalmente Tiberio comunicò al Senato per lettera33 che la guerra era incominciata e conclusa. Non tolse né aggiunse nulla alla verità, ma disse che la vittoria si doveva al merito dei legati, fedeli e valorosi, e alle sue direttive. Spiegò poi per quale ragione non si erano recati sul posto delle operazioni né lui né Druso; magnificò la grandezza dell’impero, tale che non sarebbe stato dignitoso per i principi partire per la sollevazione di uno o due popoli e lasciare la città dalla quale si dipartiva il governo del mondo. Ora che non si poteva attribuire a paura, sarebbe partito per controllare personalmente la situazione e ristabilire l’ordine. I senatori decretarono voti per il suo ritorno, rendimenti di grazie ed altre cerimonie. Solo Cornelio Dolabella, per superare gli altri, si spinse a un’adulazione forsennata: propose che, al ritorno di Tiberio dalla Campania, fosse accolto con l’ovazione. Arrivò subito una seconda lettera di Cesare nella quale dichiarava che, dopo aver soggiogato in gioventù genti ferocissime e aver accettato e rifiutato tanti trionfi34, non si riteneva così sprovvisto di gloria da aver bisogno, ora che era vecchio, del futile premio d’una passeggiata nei dintorni di Roma35.
48. Circa nello stesso periodo chiese al Senato che si celebrasse a spese dello Stato il funerale di Sulpicio Quirino. Questi, nato a Lanuvio, non aveva alcun rapporto di parentela con l’antica famiglia patrizia dei Sulpicii, ma era stato infaticabile nell’esercito e rigoroso nelle cariche che aveva assunto, il che gli aveva fatto ottenere il consolato sotto Augusto. In seguito, si guadagnò le insegne trionfali, per aver espugnato le fortezze degli Omonadesi; nominato consigliere di C. Cesare, quando gli era stata assegnata l’Armenia, aveva reso omaggio a Tiberio che in quel momento risiedeva a Rodi. In questa occasione Tiberio rivelò il fatto ai senatori, elogiò la deferenza del defunto nei suoi riguardi, e accusò M. Lollio che denunciò come istigatore della malvagità e dell’insubordinazione di C. Cesare contro di lui; ma agli altri non era gradita la memoria di Quirino, per la sua dura persecuzione, che ho già ricordato, di Lepida e per la sua turpe e arrogante vecchiaia.
49. Alla fine dell’anno Clutorio Prisco, cavaliere romano, che aveva ricevuto un premio in denaro da Cesare per aver scritto un poema celebre, nel quale aveva pianto la morte di Germanico, fu accusato da un delatore per aver detto che con un’altra composizione, scritta durante una malattia di Druso, avrebbe guadagnato molto di più a pubblicarla se fosse morto. Clutorio ne aveva dato lettura per vanità in casa di P. Petronio, alla presenza della suocera di questo, Vitellia, e di molte donne di nobile stirpe. Quando il delatore si presentò, tutti per paura testimoniarono a suo favore, soltanto Vitellia affermò di non aver udito nulla. Ma ottennero più fede le testimonianze a carico dell’imputato e, conforme al parere di Aterio Agrippa, console designato, fu emessa contro il reo la condanna a morte.
50. M. Lepido si oppose e prese la parola come segue: «Se, padri coscritti, consideriamo soltanto il fatto che Clutorio Prisco con parole nefaste contaminò l’animo suo e le orecchie di chi lo ascoltava, non basterebbe la prigione, il laccio o nemmeno le torture riservate agli schiavi. Ma se turpitudini e delitti non hanno limiti, la moderazione del principe e degli avi nostri e il vostro esempio possono attenuare i supplizi e i castighi; c’è differenza tra leggerezza e crimine, tra parole e azioni malvagie, sì che c’è modo di emettere una sentenza perk quale né il delitto resti impunito né noi dovremo pentirci di eccessiva clemenza o di troppo rigore. Ho sentito spesso il nostro principe lamentarsi perché qualcuno aveva preceduto con il suicidio la sua clemenza. Clutorio è vivo, e la sua esistenza non costituirà un pericolo per lo Stato né la sua condanna un esempio. Se le sue composizioni sono colme di sciocchezze, tanto più saranno inconsistenti ed effimere; e non c’è da preoccuparsi che commetta azioni gravi e importanti un uomo che rivela lui stesso le proprie colpe non ad animi virili ma si insinua tra le donne. Lasci Roma dunque e, confiscati i suoi averi, sia condannato all’esilio; ritengo che meriti lo stesso castigo dei rei di lesa maestà».
51. Dette il suo assenso a Lepido solo Rubellio Blando, consolare. Gli altri si dichiararono d’accordo con Agrippa, e Prisco, condotto in carcere, fu immediatamente giustiziato. Tiberio si dolse con il Senato con l’ambiguità abituale, poiché mentre elogiava la devozione di quelli che vendicavano con rigore le offese, anche lievi, rivolte all’imperatore, al tempo stesso deprecava che la pena fosse stata eseguita con tanta precipitazione per un reato soltanto di parole; e dunque lodava Lepido senza rimproverare Agrippa. I senatori allora decretarono che le loro decisioni non dovevano esser depositate nell’erario36 prima che fossero trascorsi dieci giorni e che altrettanto dovesse durare la vita dei condannati. Ma il Senato non aveva facoltà di tornare sulle sue decisioni né in quell’intervallo di tempo l’animo di Tiberio si sarebbe mitigato.
52. (22 d.C.) Seguì il consolato di D. Aterio e C. Sulpicio e fu un anno senza torbidi all’esterno ma inquieto in patria per il timore di misure severe intese a reprimere il lusso, che prorompeva sfrenatamente in tutte le cose per le quali si prodiga il denaro. Ma vi erano altri sciali, anche più gravi, che non venivano alla luce perché il più delle volte i veri prezzi venivano dissimulati, mentre i lussi della mensa, noti perché se ne parlava continuamente, suscitarono il timore che il principe, uomo di parsimonia antica, intervenisse severamente. A cominciare da C. Bibulo, tutti gli edili protestavano che la legge sul lusso37 non era rispettata e che i prezzi dei generi di consumo aumentavano di giorno in giorno, tanto che non si potevano contenere mediante mezze misure; i senatori, consultati sulla questione, l’avevano deferita interamente all’imperatore. Ma Tiberio rifletté a lungo con se stesso se fosse possibile frenare sontuosità così smodate o se invece la repressione non avrebbe apportato un detrimento anche maggiore allo Stato e quanto sarebbe stato indecoroso proporre riforme che non sarebbe riuscito a imporre; mentre, qualora avesse raggiunto lo scopo, avrebbe provocato disdoro e ignominia a personalità illustri; finì per scrivere al Senato una lettera, il cui tenore fu come segue:
53. «Forse su altri argomenti, padri coscritti, sarebbe più opportuno che io venissi interpellato di persona ed esponessi quello che ritengo utile alla repubblica. Ma nella relazione attuale è stato meglio che i miei occhi fossero rivolti altrove, perché voi li avreste diretti sui volti, sulla paura di quelli che dovrebbero essere denunciati per un lusso ignominioso, e io avrei dovuto vederli e metterli alle strette. Se i valorosi edili si fossero consultati con me in precedenza, non so se li avrei persuasi a tralasciare di denunciare vizi ormai radicati e inveterati, piuttosto che arrivare a questo punto, di mettere sotto gli occhi di tutti quali reati non siamo in grado di reprimere. Essi hanno fatto il loro dovere, come vorrei che facessero tutti gli altri magistrati; a me però non è lecito tacere né agevole pronunciarmi, poiché io non esercito i poteri dell’edile o del pretore o del console; dall’imperatore si richiede qualche cosa di più grande, più elevato. E mentre ciascuno si assume il merito degli atti giusti, l’odio per le colpe di tutti ricade su uno solo. Qual è infatti la prima cosa che dovrei punire, quale eccesso reprimere perché si torni all’austerità antica? forse l’ampiezza smisurata dei poderi? o il numero e l’origine degli schiavi? o il peso dell’oro e dell’argento? le statue, i quadri mirabili? o le vesti indossate da uomini e donne, oppure la passione tipicamente femminile delle pietre preziose, a causa della quale il nostro denaro va a finire nelle mani di genti straniere o nemiche?
54. Non ignoro che nei conviti, nei circoli, molti deplorano queste cose, invocano un freno; ma se qualcuno emette una legge, precisa le pene, quelli stessi grideranno che la città è sconvolta, che si cerca di rovinare tutti i più abbienti, e che non c’è nessuno immune da reati. Eppure anche le malattie inveterate e aggravatesi col tempo non si possono guarire se non con cure rigide e dolorose; così l’animo quando è al tempo stesso corrotto e corruttore, infermo e ardente, non potrà tornare sano con rimedi più leggeri delle passioni che lo infiammano. Tante leggi emesse dai nostri maggiori, tante altre apportate dal divo Augusto, quelle trascurate per oblìo, queste, il che è più vergognoso, per inosservanza, non sono servite che a rendere il lusso indisturbato; poiché se tu vuoi quello che non è ancora vietato, avresti paura che lo sarà; ma se hai trasgredito i divieti impunemente, non avrai più né timore né ritegno. Perché dunque un tempo regnava l’austerità? perché ciascuno sapeva moderare se stesso, perché eravamo cittadini di una sola città e fino a che regnavamo sulla sola Italia non esistevano le tentazioni odierne. Vincendo i paesi stranieri, abbiamo imparato a consumare i beni altrui, con le guerre civili anche i nostri. Che lieve danno è quello denunciato dagli edili! Come si deve considerarlo insignificante, se lo paragoni a tutto il resto! Ma per Ercole, nessuno dice una parola sul fatto che l’Italia ha bisogno dei prodotti stranieri, che la vita del popolo romano dipende ogni giorno dagli incerti del mare e delle burrasche e se la produzione delle province non soccorresse padroni, schiavi e campi, sarebbero davvero le ville e i parchi a sostentarci! È questo, padri coscritti, l’affanno che angustia il principe. Se lo si trascura, lo Stato andrà in rovina. Gli altri mali si deve guarirli nell’animo nostro: possiamo convertirci noi per dignità, i poveri per bisogno, i ricchi per sazietà. E se qualcuno dei magistrati promette d’aver tanta capacità e tanta severità da riuscire ad opporsi io lo elogio e dichiaro che mi scarica d’una parte delle mie fatiche. Ma se intendono denunciare i vizi e poi, quando avranno ottenuto la gloria di questo gesto, suscitano il malcontento e lo fanno ricadere su di me, credete, padri coscritti, che io non vado in cerca di malanimo; ne assumerò di grave e il più delle volte infondato per il bene della repubblica, ma ho il diritto di pregarvi di evitarmi quello che non ha motivo né fondamento e non è utile né a me né a voi».
55. Come udirono la lettera dell’imperatore, gli edili furono dispensati da quell’incarico; e il lusso della mensa che era durato cent’anni, dalla battaglia di Azio al conflitto a seguito del quale Galba prese il potere, ed era costato un immenso spreco di denaro, poco a poco è passato di moda. Mi fa piacere ricercare le cause di questo mutamento. Un tempo le famiglie ricche e nobili andavano in rovina per amore del lusso; poiché allora si poteva propiziarsi il popolo, gli alleati, i re: chi si faceva notare per il patrimonio e per una casa splendidamente arredata diventava illustre per la fama e le clientele. Ma da quando si infierì con massacri e la grandezza della fama fu causa di rovina, chi sopravvisse si convertì a costumi più saggi. Al tempo stesso, gli uomini nuovi, ammessi in Senato dai municipii, dalle colonie e persino dalle province, introdussero la parsimonia dei loro paesi e anche quando la loro operosità o la fortuna consentiva a molti di arricchire nell’età avanzata, perdurò in loro l’animo d’un tempo. Ma il principale promotore della restrizione dei costumi fu Vespasiano, che per primo osservava l’austerità antica nelle vesti e nell’alimentazione. La deferenza verso il principe, il desiderio di imitarlo furono più forti che i castighi delle leggi e il timore. Ma forse in tutte le cose si verifica quasi una roteazione, e i costumi hanno un ciclo, come le stagioni; e non è detto che le cose andassero meglio al tempo dei nostri maggiori; anche il nostro lascia molte opere degne d’essere lodate e imitate dai posteri. Auguriamoci che permanga in noi questa competizione nel bene con i nostri antenati.
56. Tiberio si acquistò fama di moderazione per aver represso i delatori sempre aggressivi e mandò una lettera al Senato nella quale chiedeva per Druso la potestà tribunizia. Questo titolo che implica il potere supremo fu inventato da Augusto per non assumere quello di dittatore e tuttavia con nome diverso sovrastare a tutti gli altri poteri. Volle poi Agrippa collega in quella carica e, dopo la sua morte, Tiberio Nerone, affinché non vi fossero dubbi riguardo al successore. Così facendo ritenne di tenere a freno le proterve attese degli altri e al tempo stesso confidava nella modestia di Nerone e nella propria grandezza. Tiberio si regolò sul suo esempio, si associò Druso nel potere supremo e fino a che Germanico era ancora in vita lasciò impregiudicata la scelta tra i due. Comunque, iniziò una lettera invocando gli dèi affinché volgessero i suoi piani al bene dello Stato, poi si espresse con misura sulla condotta del giovane, senza falsi elogi. Aveva moglie e tre figli, aveva la stessa età di lui quando Augusto l’aveva chiamato ad assumere quell’alto incarico. Ormai non era prematuro assumere Druso a partecipare a compiti già noti, dopo un’esperienza di otto anni, durante i quali aveva sedato insubordinazioni, aveva concluso guerre, aveva meritato il trionfo e il consolato.
57. I senatori avevano intuito subito il senso di quel discorso e perciò l’adulazione fu più ricercata. Tuttavia non escogitarono altro che innalzare statue ai principi, are agli dèi, archi e le solite cose; tranne che M. Silano ritenne di onorare i principi umiliando il consolato e propose che negli atti pubblici e privati non si computassero più gli anni dal nome dei consoli, ma da quello di coloro che esercitavano la podestà tribunicia. Q. Aterio, avendo avanzato la proposta che le deliberazioni di quel giorno si potessero incidere nella Curia in lettere d’oro, si coprì di ridicolo perché ormai così vecchio ne avrebbe ricavato soltanto la vergogna d’un’adulazione senza pudore.
58. Intanto a Giunio Bleso fu prorogato il governo della provincia d’Africa, e Servio Maluginense, flàmine di Giove, domandò d’essere ammesso al sorteggio della provincia d’Asia, dichiarando che era priva di fondamento la tradizione conforme alla quale ai flàmini Diales non era lecito uscire dall’Italia e che i suoi diritti non erano diversi da quelli dei flàmini di Marte e di Quirino. Di conseguenza, se quelli potevano governare le province, perché doveva esser negato ai flàmini di Giove? su questo argomento non c’era alcuna sentenza del popolo e non si trovava alcun divieto nei libri delle cerimonie. Era accaduto più volte che i pontefici celebrassero i riti di Giove38, se il flàmine era impedito da malattia o da una funzione pubblica. Erano trascorsi settantacinque anni dal suicidio di Cornelio Merula39, eppure nessuno l’aveva sostituito e le cerimonie non avevano subito interruzioni. Se dunque era stato possibile non creare nessuno, senza che ciò provocasse danno al culto, quanto sarebbe stato più facile per lui assentarsi un anno solo, poiché tanto durava il potere proconsolare. Un tempo era dovuto a rivalità personali il divieto, emesso dai Pontefici Massimi, ai flàmini di recarsi nelle province; ora, per grazia degli dèi, il sommo dei Pontefici era anche il sommo degli uomini40, non esposto a rivalità, a odi, a predilezioni.
59. L’àugure Lentulo e altri pronunciarono pareri contrastanti, di conseguenza si venne alla decisione di attenersi al parere del Pontefice Massimo. Tiberio rinviò l’esame sul diritto del flàmine, impose un limite alle cerimonie decretate per il conferimento della potestà tribunicia a Druso e in modo particolare si oppose alla proposta dell'iscrizione in lettere d’oro come eccessiva e contraria al costume degli avi. Fu letta una lettera di Druso che, benché ispirata a modestia, fu giudicata estremamente superba. Tutto ormai era caduto in basso a tal punto che un giovane insignito d’un onore così alto non si recava nemmeno a onorare le divinità dell’Urbe, non si presentava in Senato e non prendeva nemmeno gli auspici sul suolo della patria. C’era forse una guerra o era trattenuto in paesi lontani? al contrario, se la spassava sulle spiagge e i laghi della Campania. Era questa la preparazione di colui che sarebbe stato il sovrano del genere umano, questo apprendeva dai consigli del padre. Che un vecchio imperatore non sopportasse la vista dei cittadini, adducendo a pretesto la stanchezza dell’età e le fatiche trascorse, sia pure; ma che cosa tratteneva Druso, se non la sua arroganza?
60. Tiberio intanto rafforzava la sostanza del potere e al tempo stesso offriva ai senatori una parvenza del costume antico, sottoponendo al loro esame le istanze delle province. Infatti nelle città della Grecia aumentava impunemente la facoltà di stabilire luoghi d’asilo, e i templi erano affollati dalla feccia degli schiavi. Fruivano della stessa protezione i debitori per sfuggire ai creditori, vi si rifugiavano i sospetti di delitti capitali e non c’era governo abbastanza forte da tenere a freno le insubordinazioni del popolo, i delitti degli uomini e proteggere il culto degli dèi. Fu dunque deliberato che le città inviassero delegati e la documentazione dei loro diritti. Alcune rinunciarono spontaneamente a diritti abusivamente usurpati; molte altre confidavano nelle superstizioni vetuste e nelle proprie benemerenze verso il popolo romano. Fu uno spettacolo stupendo quello del giorno in cui i privilegi concessi dal Senato degli avi nostri, i patti degli alleati, e anche quelli dei sovrani che avevano regnato prima del dominio romano, i culti stessi degli dèi il Senato potè esaminarli, libero come un tempo di confermarli o modificarli.
61. Si presentarono per primi i rappresentanti di Efeso, e rammentarono che Apollo e Diana non erano stati generati a Deio, come comunemente si credeva; non lontano dalla loro città si trovava il fiume Cencreo e il bosco di Ortigia: qui Latona, giunta al momento del parto, aveva dato alla luce quei numi, appoggiandosi a un ulivo che esisteva ancora; per ordine degli dèi il bosco era stato consacrato e Apollo stesso vi si era rifugiato dopo lo sterminio dei Ciclopi, per sfuggire all’ira di Giove. Più tardi il padre Libero, vittorioso in guerra, aveva concesso il perdono alle Amazzoni che s’erano prosternate supplici all’ara. Aveva aumentato la santità del tempio il favore di Eracle, quando s’era impadronito della Lydia; il dominio dei Persiani non ne aveva diminuito i privilegi, e li avevano confermati sia i Macedoni sia noi.
62. Subito dopo vennero i Magnesii, i quali si basavano su le disposizioni di L. Scipione e di L. Silla, rispettivamente vincitori il primo di Antioco, il secondo di Mitridate; entrambi avevano reso onore alla fedeltà e al valore dei Magnesii, dichiarando che il tempio di Diana Leucofrina era un asilo inviolabile. Dopo di che vennero i delegati di Afrodisia e di Stratonicea, e presentarono una disposizione di Cesare come riconoscimento delle loro benemerenze verso il suo partito e un’altra recente del divo Augusto, nella quale quei cittadini erano elogiati per aver sopportato una incursione dei Parti senza venir meno alla lealtà verso il popolo romano. La città di Afrodisia conservava il culto di Venere, Stratonicea quello di Giove e di Trivia. Gli abitanti di Jerocesarea risalirono più indietro nel tempo: nel loro paese, dissero, c’era un tempio dedicato a Diana Persica, che esisteva già ai tempi di Ciro; fecero i nomi di Perpenna, di Isaurico e di molti altri comandanti, i quali avevano concesso l’inviolabilità non solo al tempio, ma a un’area di due miglia tutt’attorno. Poi i Ciprioti parlarono di tre templi, il più antico dei quali era stato edificato da Aeria in onore di Venere Pafia, il secondo da suo figlio Amato a Venere Amatusia, il terzo a Giove di Salamina da Teucro, fuggiasco per l’ira di suo padre Telamonio.
63. Fu data udienza anche a legazioni di altre città; i senatori, stanchi perché erano così numerose, deferirono ai consoli il compito di prendere in esame i diritti di ciascuna e se si fosse insinuato qualche abuso, rimettessero la questione impregiudicata al Senato. Oltre alle città che ho ricordato, i consoli riferirono d’aver accertato il diritto d’asilo al tempio di Esculapio, non lontano da Pergamo; tutti gli altri si fondavano su origini oscure per l’antichità. Quelli di Smirne, infatti, asserivano d’aver dedicato un tempio a Venere Stratonice in ossequio a un ordine emanato da un oracolo di Apollo, e quelli di Teno si riferirono allo stesso oracolo, per ordine del quale avevano consacrato una statua e un tempio a Nettuno. Quelli di Sardi, rifacendosi a fatti più recenti, parlavano di un dono di Alessandro vittorioso e lo stesso dissero i Milesii del re Dario; ma il loro culto degli dèi riguardava per alcuni la venerazione di Diana, per altri di Apollo. Quelli di Creta si limitarono a una statua del divo Augusto. Il Senato emanò alcuni decreti nei quali, con molto riguardo, si prescriveva tuttavia una certa misura, e si ordinava che incisi in bronzo fossero affissi nei templi per consacrarne la memoria e affinché nessuno con il pretesto della religione degenerasse nell’intrigo.
64. (22 d.C.) Verso lo stesso tempo una grave malattia di Augusta costrinse il principe ad affrettare il ritorno nell’Urbe, sia che vi fosse ancora tra madre e figlio una sincera affezione o un odio occulto. Non molto tempo prima, Augusta aveva dedicato una statua al divo Augusto non lontano dal teatro di Marcello e nell’iscrizione il nome di Tiberio figurava dopo il suo; si ritenne che egli nascondesse un forte risentimento, come per una menomazione della maestà del principe. Ma in quell’occasione il Senato deliberò suppliche agli dèi e solenni giochi votivi41, che dovevano essere celebrati da Pontefici, àuguri, quindecemviri e sodali augustali. Lucio Apronio propose che li presiedessero anche i Feciali42, ma Cesare si disse contrario, distinguendo i rispettivi compiti dei diversi ordini sacerdotali e citando esempi: fino a quel momento infatti non era avvenuto mai che ai Feciali spettasse tale onore. Gli Augustali erano stati aggiunti perché il loro ordine apparteneva alla famiglia a vantaggio della quale si celebravano i voti.
65. Mi sono proposto di riferire soltanto le sentenze che si sono distinte per eccellenza o per bassezza; poiché a mio avviso la funzione precipua degli annali è che non passino sotto silenzio le azioni virtuose e che chi pronuncia parole o compie atti malvagi tema l’infamia dei posteri. D’altra parte quegli anni furono talmente inquinati e abbietti per l’adulazione che non solo le personalità eminenti dello Stato, che dovevano proteggere la propria rinomanza con la deferenza, ma tutti i consolari, gran parte degli ex pretori e senatori subalterni43 si alzavano a gara per proporre omaggi turpi ed eccessivi. Si racconta che Tiberio, tutte le volte che usciva dal Senato, fosse solito esclamare in greco: «o uomini pronti a servire!»: evidentemente persino colui, che pure non avrebbe voluto la libertà del popolo, era disgustato da quell’abbietto servilismo.
66. Poco a poco dalla mancanza di dignità si passò alle aggressioni. Contro C. Silano proconsole d’Asia, accusato dagli alleati di concussione, si scagliarono insieme il consolare Mamerco Scauro, il pretore Giunio Otone e l’edile Bruttedio Nigro, e lo accusarono d’aver profanato la santità di Augusto, d’aver mostrato disprezzo per la maestà di Tiberio. Mamerco si basava su esempi antichi, L. Cotta denunciato da Scipione Africano, Servio Galba da Catone il Censore, P. Rutilio da M. Scauro44; come se Scipione e Catone avessero inteso punire reati dello stesso genere, così pure Scauro, che il pronipote Mamerco, obbrobrio dei suoi, aveva coperto di disonore con i suoi misfatti. Giunio Otone agli inizi faceva l’insegnante, poi la potenza di Seiano l’aveva fatto entrare in Senato ed egli aveva promosso le sue oscure origini con atti temerari. Bruttedio, fornito di buone qualità, avrebbe potuto salire in alto se avesse seguito la via retta, ma spronato dall’impazienza di raggiungere posti elevati, aveva cercato di sorpassare quelli che gli erano pari, poi i superiori, infine persino le proprie ambizioni: cosa che ha spinto molti onesti alla rovina. Sdegnando ciò che avrebbero potuto ottenere gradatamente con sicurezza, vollero impadronirsene subito e si rovinarono.
67. Al numero degli accusatori si aggiunsero Gellio Publicóla e Marco Paconio; il primo era questore di Silano, il secondo legato. Del resto non cera chi dubitasse che Silano s’era macchiato di atti crudeli e di concussione. Ma a queste imputazioni se ne aggiungevano altre ancora, che sarebbero state gravi anche per un innocente. Oltre ad aver contro molti senatori, doveva difendersi da solo contro i più valenti oratori dell’Asia, che erano stati scelti per sostenere l’accusa. Inoltre, era digiuno d’eloquenza e in preda al terrore per la propria sorte, cosa che toglie la parola anche ai più eloquenti. Tiberio lo metteva alle strette con lo sguardo e con la voce, lo martellava di domande, non gli concedeva la possibilità né di confutare né di eludere le interrogazioni; anzi, spesso era costretto a confessare affinché le domande non cadessero nel vuoto. Un agente del fisco inoltre aveva comprato gli schiavi di Silano affinché si potessero interrogare sotto tortura e per impedire che qualcuno dei familiari lo aiutasse in quel cimento gli venivano imputati reati di lesa maestà, di fronte ai quali non c’era che tacere. Silano chiese un rinvio di pochi giorni ma poi rinunciò a difendersi; e tuttavia ebbe il coraggio di inviare a Cesare una lettera che conteneva al tempo stesso espressioni di odio e preghiere.
68. Tiberio, per far sì che le misure che aveva in animo a danno di Silano fossero accettate con il pretesto di un precedente, ordinò che si desse lettura di uno scritto del divo Augusto relativo a V. Messala, proconsole d’Asia lui pure, e del decreto che il Senato aveva emesso nel suo caso. Poi chiese a L. Pisone che esprimesse il suo parere. Questo incominciò dilungandosi sulla clemenza dell’imperatore, poi disse che Silano doveva essere esiliato e relegato nell’isola di Giaro45. Gli altri furono d’accordo. Cn. Lentulo però chiese che i beni materni di Silano dovessero essere considerati a parte (la madre era una Azia)46 e restituiti al figlio. Tiberio acconsentì.
69. Cornelio Dolabella andò oltre con l’adulazione: propose, dopo aver deplorato la condotta di Silano, che nessuno noto per il malcostume e coperto di obbrobrio potesse esser sorteggiato per governare una provincia; e che fosse il principe a giudicare. In effetti le leggi puniscono i reati commessi, ma sarebbe stato meglio per i candidati e ancor più per gli alleati se i reati si prevenissero. Cesare parlò contro questa proposta; in effetti, egli non era all’oscuro delle voci che correvano su Silano, ma non si può prendere una decisione basandosi sulle voci. Spesso era accaduto che nelle province molti si erano comportati in modo diverso da quel che si poteva sperare o temere da loro; alcuni dall’altezza del grado erano stimolati a far bene, altri invece diventavano indolenti. Il principe non è in grado di conoscere ogni cosa di scienza propria né deliberare dove lo trascinano le manovre altrui. Infatti le leggi riguardano i fatti, poiché il futuro è incerto. I nostri maggiori hanno stabilito che se è stato commesso un reato, le pene dovranno seguire. Non è bene sovvertire istituzioni saggiamente meditate e sempre approvate. I principi hanno già sufficienti responsabilità e potere. Il diritto decade in proporzione con l’aumento del potere; né si deve ricorrere all’autorità quando si può agire conforme alle leggi. Era così insolita in Tiberio la ricerca della popolarità che queste parole furono accolte con particolare piacere. Ed egli, abile a controllarsi quando non era adirato per fatti personali, aggiunse che l’isola di Giaro era aspra e priva di civiltà e che a un uomo che un tempo aveva appartenuto al loro ordine, i senatori potevano piuttosto concedere che fosse relegato nell’isola di Cidno47. La stessa grazia la implorava la sorella di Silano, Torquata, vergine d’una castità d’altri tempi; su questo si procedette alla votazione.
70. Dopo questo, furono ascoltati i delegati di Cirene e fu condannato per concussione Cesio Cordo, su denuncia di Ancario Prisco. Cesare invece proibì che fosse ritenuto reo di lesa maestà il cavaliere romano L. Ennio, imputato per aver fuso una statua d’argento di Tiberio per farne utensili; protestò vivamente Ateio Capitone, quasi volesse dar prova di autonomia. Non si doveva sottrarre ai senatori la facoltà di decidere né lasciare impunito un reato di tale gravità, disse. Che l’imperatore fosse pure noncurante quando l’offesa riguardava lui; ma non usasse indulgenza quando l’oltraggio colpiva lo Stato. Tiberio comprese che dietro queste parole c’era più di quel che dicevano e persistette nell’assoluzione. Capitone ne ricavò una vergogna ancora maggiore, dato che, essendo esperto delle leggi umane e divine, aveva menomato i suoi meriti di uomo pubblico e di cittadino privato.
71. Fu introdotto poi un problema di religione: in quale tempio si dovesse collocare l’offerta votata dai cavalieri romani alla Fortuna Equestre, per la guarigione di Augusta; la dea aveva molti santuari in città, ma nessuno con questo nome. Poi venne fuori che un tempio di questo nome esisteva ad Anzio e che tutte le cerimonie nelle città italiche e i templi e le immagini degli dèi erano sotto la giurisdizione e l’autorità di Roma. Così si stabilì di deporre l’offerta ad Anzio. Dato che si trattava di questioni inerenti alla religione, Cesare rese noto un problema recentemente rinviato a proposito del flàmine diale Servio Maluginense, e lesse un decreto dei Pontefici secondo il quale tutte le volte che un flàmine diale si ammalava aveva facoltà, con il consenso del Pontefice Massimo, di assentarsi per più di due notti, purché non nei giorni del sacrificio pubblico e per non più di due notti nello stesso anno; queste norme erano state emanate sotto Augusto e ne risultava evidente che l’assenza d’un anno e il governo d’una provincia non era consentito a un sacerdote di quell’ordine. E fu rievocato l’esempio del Pontefice Massimo L. Metello, che aveva trattenuto a Roma il flàmine Aulo Postumio. Cosicché l’Asia fu affidata a colui che nel sorteggio veniva subito dopo Maluginense.
72. Negli stessi giorni Lepido chiese al Senato l’autorizzazione di restaurare e decorare a sue spese la basilica di Paolo, edificio della gens Emilia48. Si usava ancora la munificenza nelle opere pubbliche; né Augusto aveva impedito a Tauro, a Filippo, a Balbo di dedicare a ornamento di Roma e alla gloria della posterità le spoglie nemiche e le ricchezze superflue49. Sul loro esempio Lepido, benché di modica ricchezza, riesumò l’onore degli avi. Quanto al teatro di Pompeo, distrutto da un incendio fortuito, Cesare si impegnò a farlo ricostruire, dato che nessuno della famiglia era in grado di sostenere la spesa, ma tuttavia avrebbe conservato il nome di Pompeo. Al tempo stesso pronunciò un alto elogio di Seiano, poiché al suo impegno e alla sua vigilanza si doveva se la violenza del fuoco era rimasta limitata a un edificio solo. I padri coscritti allora decretarono che nel teatro di Pompeo fosse collocata una statua di Seiano. Pochi giorni dopo Cesare decorò con le insegne trionfali Giunio Bleso, proconsole in Africa e disse che lo faceva in onore di Seiano, di cui Bleso era zio. Ma tuttavia le imprese di Bleso erano degne di quell’onore.
73. In effetti Tacfarinate, benché ripetutamente respinto, aveva ricostituito le sue forze con ausiliari arruolati nell’interno dell’Africa, e giunse a tal punto di sfrontatezza da inviare ambasciatori a Tiberio; e si permise di chiedere un territorio come residenza per sé e per l’esercito; altrimenti, minacciava la guerra a oltranza. Dicono che mai Tiberio si sdegnò per un’offesa fatta a lui e al popolo romano quanto per il fatto che un disertore, un bandito si comportasse alla stessa stregua d’un regolare nemico. Neppure a Spartaco50, che aveva massacrato impunemente tanti eserciti consolari, e messo a ferro e fuoco l’Italia proprio nel momento in cui la repubblica minacciava di rovinare per le tremende guerre contro Sertorio e Mitridate, era stato concesso di patteggiare la resa. Tanto meno dunque quando il popolo romano era al vertice della potenza, si poteva permettere a un bandito come Tacfarinate di contrattare la pace con la concessione d’un territorio. Tiberio incaricò Bleso di promettere a tutti gli altri la speranza dell’impunità a patto che deponessero le armi e, a qualunque costo, catturassero il loro capo. Quel condono indusse molti alla resa; poi, Bleso proseguì le ostilità contro Tacfarinate con una tattica non molto diversa dalla sua.
74. Il suo esercito era certamente inferiore a quello romano per la disciplina, ma più agile nelle incursioni, quindi era in grado di effettuare attacchi con bande numerose, poi si ritirava e al tempo stesso tendeva insidie ai nostri. Furono predisposte tre diverse direzioni di marcia e tre colonne. Il legato Cornelio Scipione fu messo al comando d’un reparto che si diresse nei luoghi dove i nemici facevano scorrerie contro i Lepticiani per poi ritirarsi presso i Garamanti; il figlio di Bleso a sua volta guidò i suoi uomini in una direzione diversa, per impedire che i villaggi dei Ortensi fossero devastati impunemente. Al centro si pose il comandante in persona con truppe scelte. Collocando posti fortificati nei punti idonei fece sì che le forze nemiche si trovassero in località anguste e difficili: in qualunque direzione si volgessero si trovavano soldati romani di fronte, ai lati o alle spalle. Così molti furono uccisi e molti accerchiati. Allora Bleso suddivise quell’esercito, già tripartito, in più manipoli, a ciascuno mise a capo un centurione di provato valore; poi, benché l’estate ormai fosse trascorsa, non ritirò l’esercito – come era l’uso – nei quartieri d’inverno dell’antica provincia, ma, come se fosse all’inizio delle operazioni, le collocò in luoghi fortificati e, per mezzo di soldati con armi leggere ed esperti del deserto, poco a poco costrinse Tacfarinate a indietreggiare e a spostare continuamente il campo, finché catturò suo fratello e si ritirò; troppo presto però per il vantaggio degli alleati, poiché si lasciava dietro alle spalle uomini capaci di riprendere le ostilità. Tiberio comunque considerò conclusa la guerra e concesse a Bleso d’esser salutato imperatore dalle legioni, onore antico che si accordava ai comandanti che così venivano acclamati dall’esercito vincitore per le loro imprese fortunate, nell’entusiasmo della vittoria; vi potevano anche essere più imperatori allo stesso tempo, ma pur sempre sullo stesso piano di eguaglianza degli altri. Augusto aveva concesso quel titolo ad alcuni, Tiberio lo accordò a Bleso. E fu l’ultima volta.
75. (22 d.C.) Quello stesso anno vennero a mancare due personalità insigni, Asinio Salonino, nipote di Marco Agrippa e di Asinio Pollione. Era una personalità eminente perché fratellastro di Druso51, nonché destinato a diventare genero di Tiberio, e Ateio Capitone, del quale ho già parlato. Questi nella città aveva già raggiunto una posizione molto elevata per i suoi studi di diritto civile; ma aveva come padre un semplice pretore e suo nonno era un centurione di Silla. Augusto gli aveva accelerato la carriera al consolato affinché, con la dignità di quel titolo, potesse prevalere su Antistio Labeone, lui pure insigne studioso delle stesse discipline. A quel tempo erano emersi contemporaneamente quei due luminari della pace, Labeone però raggiunse più vasta rinomanza, per il suo spirito libero e incorruttibile, mentre Capitone piaceva ai potenti per il suo ossequio. Ebbene, Labeone non superò mai il grado di pretore e proprio per questa mancanza di riguardo riscosse maggiore stima, mentre Capitone, per aver raggiunto il consolato, ebbe contro di sé il malanimo generato dall’invidia.
Erano trascorsi sessantaquattro anni dalla battaglia di Filippi52 quando morì Giunia, nipote di Catone, sposa di Cassio, sorella di Bruto53. Il suo testamento suscitò molti commenti perché, pur essendo ricchissima e avendo nominato con parole di stima le più alte personalità della città, non fece il nome di Tiberio. Questi accettò la cosa con signorilità e non pose ostacoli alle esequie solenni, all’elogio che fu pronunciato davanti ai rostri e alle altre celebrazioni funerarie. Sfilarono davanti al feretro i ritratti di venti famiglie aristocratiche, i Manli, i Quinzi e altre di pari nobiltà; ma avanti a tutti splendevano i volti di Bruto e Cassio, proprio perché le loro effigi mancavano.