Libro secondo

 

Il secondo libro continua la narrazione degli eventi dell'anno 69 d. C. (822 di Roma).

69 d.C.: furono consoli Servio Sulpicio Galba (seconda volta) e Tito Vinio Rufino. Consoli aggiunti: Marco Salvio Otone e Lucio Salvio Otone Tiziano (seconda volta); Lucio Verginio Rufo (seconda volta) e Lucio Pompeo Vopisco; Celio Sabino e Flavio Sabino; Tito Arrio Antonino e Publio Mario Celso.

 

1. Alla parte opposta del mondo la sorte costruiva gli inizi e le motivazioni di un potere che, con alterne vicende, sarebbe risultato benefico o funesto per lo stato, prospero o esiziale per gli stessi principi1. Tito Vespasiano2, lasciata la Giudea per ordine del padre quando Galba era ancora vivo, affermava che la sua partenza era dovuta sia ad un atto di obbedienza al principe sia alla carriera politica per la quale la sua giovinezza era ormai matura. Ma il popolino, che non chiede di meglio che sbizzarrirsi in mille congetture, aveva messo in giro la voce che Tito fosse chiamato ad una adozione.

Queste chiacchiere trovavano alimento nella vecchiaia dell’imperatore e nel suo essere senza figli. E poi una città si immagina sempre un candidato dietro l’altro, finché non salta fuori l’unico prescelto.

La natura di Tito, che non sembrava precludergli alcuna fortuna, dava corpo a queste voci. E concorrevano anche l’aspetto (bello e avente in sé qualcosa di regale), le felici imprese di Vespasiano, gli auspici favorevoli e anche quelle circostanze fortunate che hanno, nelle anime credule, il peso di un vaticinio.

Si trovava a Corinto, città dell’Acaia, quando lo raggiunse sicura notizia della morte di Galba; alcuni gli davano per certo anche Vitellio in armi e in procinto di intraprendere la lotta. Egli, con animo turbato, convoca i più intimi amici ed esamina la situazione sotto ogni aspetto. Se fosse tornato immediatamente a Roma, nessun vantaggio gli sarebbe venuto da un atto di devozione che ormai spettava ad un altro; e c’era comunque il rischio di diventare ostaggio di Vitellio o di Otone. Se invece tornava sui suoi passi, se ne sarebbe certamente offeso il vincitore.

Ma la vittoria era ancora incerta e se poi, a dichiararsi per uno dei due partiti fosse stato il padre, ciò avrebbe certo diminuito le responsabilità del figlio. Se infine fosse stato Vespasiano stesso a prendere il potere, sicuramente, per uomini impegnati in progetti di guerra, sarebbe stato giocoforza dimenticare i torti subiti.

 

2. In tal modo, dunque, lottavano in lui speranza e timore: vinse la speranza. Qualcuno disse che avesse invertito la rotta per tornare dalla regina Berenice3. Certo il suo animo giovanile non era insensibile a quella donna, ma ciò non ostacolava minimamente la sua azione; la sua giovinezza fu allietata dai piaceri, ma si fece, durante il suo principato, più moderato di quanto fosse stato quando era al potere il padre.

Navigò dunque oltre l’Acaia, l’Asia e oltre tutta la porzione di costa che era alla sua sinistra. Fece rotta verso le isole di Rodi e di Cipro e, di là, seguendo itinerari poco battuti, verso la Siria. A Cipro lo prese il desiderio di visitare il tempio di Venere Pafia4, famoso sia tra gli isolani che tra i visitatori stranieri. Penso sia abbastanza interessante ricordare brevemente come questo culto sia iniziato, quali ritualità abbia il tempio, come sia rappresentata la dea (visto che nessun simulacro in nessun altro luogo assomiglia a questo).

 

3. Le leggende più antiche dicono che a fondare il tempio sia stato il re Aeria, mentre altri pensano che questo sia il nome stesso della dea, Un racconto più recente tramanda che sia stato Cinira a consacrare il tempio proprio nel luogo dove la dea aveva toccato terra dopo essere stata generata dal mare; però la scienza e l’arte aruspicine vennero da fuori e a importarle fu il Cilice Tamira. Fu stabilito anche che i discendenti di entrambe le famiglie presiedessero ai sacri riti. Successivamente, per attribuire alla stirpe regia una più visibile dignità rispetto alla famiglia straniera discendente da Tamira, quest’ultima rinunciò alla disciplina che aveva introdotto nell’isola. Da allora viene consultato solo il sacerdote discendente da Cinira.

Le vittime sono quelle che i fedeli offrono in voto ma c’è una preferenza per i maschi e massima è la fiducia per i responsi tratti dalle viscere dei capretti. Il sangue non può lordare l’altare che deve essere onorato con preghiere e fuoco puro; inoltre le are, anche se sono all’aperto, mai vengono bagnate dalla pioggia. Il simulacro della dea non ha forma umana ma consiste in una spirale che, da una base più larga, si innalza a cono fino ad un giro strettissimo. Perché di simile foggia sia il simulacro, non è dato sapere5»

 

4. Tito ammirò la ricchezza del tempio, i doni regali e tutti quegli oggetti che i Greci (un popolo innamorato di ogni cosa la cui origine si perda nella notte dei tempi) attribuiscono ad una antichità dai contorni incerti; chiese poi informazioni sulla rotta da tenere. Quando seppe che la via era aperta e favorevole il mare, interrogò, con espressioni velate, l’oracolo sul suo futuro, non prima di aver sacrificato molte vittime.

Sostrato (così si chiamava il sacerdote) rendendosi conto che le viscere davano segni concordemente favorevoli e che dunque Venere assentiva al grande progetto di Tito, rispose, sul momento, con poche parole di circostanza. Poi, richiesto un colloquio segreto. gli rivelò il futuro. Il coraggio di Tito ne fu rafforzato: col suo arrivo presso il padre, accrebbe moltissimo la fiducia di province ed esercito, in quel frangente piuttosto esitanti.

Vespasiano aveva quasi concluso la guerra giudaica, ma non era ancora riuscito ad espugnare Gerusalemme. L’impresa si presentava particolarmente ardua più per la conformazione montuosa del territorio e per l’indomabile fanatismo che per il persistere, presso gli assediati, di forze sufficienti a far fronte alle difficoltà.

L’ho già ricordato: lo stesso Vespasiano aveva tre legioni particolarmente preparate; Muciano ne aveva quattro che erano distanti da zone belliche; in queste legioni, però, vogliose com’erano di emulare la gloria del vicino esercito, non regnava certo la pigrizia. Anzi: quanto i legionari di Vespasiano erano preparati alla guerra grazie ai pericoli e alla fatica, altrettanto si erano rafforzati quelli di Muciano grazie al riposo ininterrotto e all’interesse per un conflitto non ancora sperimentato di persona. Entrambi potevano contare sull’aiuto di fanti, cavalieri, forze di mare e re alleati; entrambi avevano un nome famoso, anche se per motivi diversi6.

 

5. Vespasiano era rigoroso nel compiere il suo dovere di soldato: precedeva l’esercito in marcia, sceglieva il luogo dove piantare le tende, era sempre pronto, di notte e di giorno, a opporre al nemico le sue strategie e, se serviva, anche la sua mano. Si accontentava del cibo che trovava; il suo aspetto e la sua figura a malapena lo distinguevano da un soldato semplice. Avrebbe insomma eguagliato i comandanti antichi, se solo fosse stato meno avaro.

Al contrario Muciano si proponeva a tutti per la magnificenza della sua vita, per le ricchezze, per le abitudini in nessun modo commisurabili a quelle di un privato cittadino. Era più abile nel parlare e anche portato ad amministrare gli affari dello stato grazie al suo discernimento e alla sua lungimiranza. Che straordinario imperatore sarebbe venuto fuori se fosse stato possibile fondere le due personalità, eliminando i vizi e mescolando soltanto le virtù!

Peraltro, preposti il secondo alla Siria, il primo alla Giudea, discordavano, invidiosi l’uno dell’altro, sul modo di amministrare due province vicine. Ma quando morì Nerone, misero da parte ogni antagonismo e vennero ad un compromesso. L’intesa, in una prima fase, fu cercata tramite amici; successivamente Tito, come principale garanzia della loro concordia, aveva spazzato via ogni meschina rivalità in funzione di un reciproco vantaggio, grazie alla sua abilità e al suo talento naturale a cattivarsi anche chi avesse un carattere come quello di Muciano.

I tribuni, i centurioni e i soldati semplici li attirava a sé stimolandone l’impegno o dimostrando qualche indulgenza. Faceva appello al loro senso del dovere o anche, secondo l’indole di ciascuno, alla loro inclinazione ai piaceri.

 

6. L’arrivo di Tito era stato preceduto dal giuramento prestato da entrambi gli eserciti ad Otone, perché, al solito, le notizie arrivano fulmineamente ma la macchina della guerra civile è lenta nel mettersi in movimento: l’Oriente, assuefatto ad una lunga pace, vi si preparava allora per la prima volta. Infatti, nelle epoche precedenti, fortissimi eserciti repubblicani si erano affrontati, con le forze presenti in Occidente, in Italia e in Gallia. E Pompeo, Cassio, Bruto e Antonio, inseguiti dalla guerra civile al di là del mare, non ebbero certo fortuna, E di Cesari, in Siria e Giudea, si era parlato molto, ma se ne erano visti pochi.

Le legioni erano da sempre tranquille: le uniche minacce le avevano portate a scontrarsi, con esito alterno, con i Parti. E durante l’ultima guerra civile, mentre altrove regnava il caos, là nulla aveva perturbato la pace e la fedeltà a Galba.

Poi, appena fu risaputo che Otone e Vitellio, con armi scellerate, stavano per mettere le mani su Roma, i soldati cominciarono a protestare e a misurare gli effettivi delle loro forze, per il timore che agli altri toccassero i vantaggi del comando e a loro fosse destinata solo l’incombenza di servire: la Siria e la Giudea avevano pronte sette legioni e numerose truppe ausiliarie; contigui erano, da una parte, l’Egitto con due legioni e, dall’altra, la Cappadocia, il Ponto e tutte le truppe accampate lungo le frontiere dell’Armenia7. L’Asia e le altre province non mancavano di uomini ed erano ricchissime. La cintura delle isole e il mare stesso offrivano condizioni favorevoli e sicure per preparare la guerra.

 

7. Il malcontento dei soldati era sotto gli occhi dei loro comandanti, ma si decise che era meglio aspettare, visto che erano altri ad essere impegnati nella guerra. Vincitori e vinti di una guerra civile non si legano mai tra loro con una fiducia assoluta, e a quel punto poco contava a chi avrebbe arriso la fortuna, se a Vitellio o a Otone. Quando le cose vanno bene, diventano insolenti anche i migliori comandanti: questi erano destinati a perire uno in guerra e l’altro per la vittoria, a causa della loro ignavia, della loro dissolutezza, di ogni loro vizio e della discordia dei soldati.

Vespasiano e Muciano si erano accordati da poco, gli altri da più tempo: decisero di differire ad un momento più utile l’azione militare. I migliori eano mossi da amore per lo stato, molti dall’allettante prospettiva di bottino; c’era poi chi aveva un patrimonio personale in precarie condizioni. Ma tutti – buoni e cattivi – con motivazioni diverse e pari entusiasmo, desideravano la guerra.

 

8. Nel medesimo periodo l’Acaia e l’Asia furono atterrite dalla falsa notizia che si stava avvicinando Nerone. Sulla sua morte si erano diffuse notizie contraddittorie e perciò molti pensavano e immaginavano che fosse vivo. Racconterò nel prosieguo di quest’opera altri casi e tentativi8.

Uno schiavo del Ponto – o, come altri raccontano, un liberto proveniente dall’Italia – molto bravo a cantare accompagnandosi con la cetra (elemento che si aggiungeva alla somiglianza fisica e utile a sorprendere la buona fede della gente) prese la via del mare. Aveva aggregato a sé dei disertori che vagavano in condizioni miserevoli e che lui aveva corrotto con grandi promesse. Fu gettato dalla violenza dei marosi sull’isola di Cidno9; lì arruolò alcuni soldati che provenivano dall’Oriente e andavano in congedo. Se qualcuno recalcitrava, lo faceva uccidere; poi spogliò alcuni mercanti di schiavi e armò i migliori.

Circuì in ogni modo il centurione Sisenna il quale portava ai pretoriani delle destre congiunte, simbolo di concordia, a nome dell’esercito siriaco. Alla fine Sisenna dovette fuggire di nascosto dall’isola, tutto tremante e pieno di paura per le ritorsioni possibili. Perciò il terrore si diffuse largamente: la celebrità del nome fece rialzare la testa a molti per desiderio di cose nuove e per odio delle presenti.

Pensò il caso a dissipare questa fama che si ingigantiva giorno dopo giorno.

 

9. Il governo delle province di Galazia e Panfilia era stato affidato da Galba a Calpurnio Asprenate10. Come scorta gli erano state date due triremi della flotta di Miseno, con cui approdò all’isola di Cidno. Subito qualcuno mandò a chiamare i trierarchi nel nome di Nerone11.

Il falso Nerone, col volto atteggiato a tristezza e con invocazioni di lealtà ai soldati che un tempo erano stati suoi, li pregava che lo portassero in Egitto o in Siria. I trierarchi, forse per dubbio o forse per astuzia, dissero che dovevano parlare coi soldati e che sarebbero tornati dopo aver messo d’accordo tutti quanti. Invece riferirono fedelmente ogni cosa ad Asprenate: egli diede subito ordine che la nave fosse abbordata e che il falso imperatore venisse ucciso qualunque fosse la sua identità. La testa, rimarchevole per gli occhi, i capelli e la ferocia del volto, fu portata in Asia e di lì a Roma.

 

10. Roma era dominata dalla discordia e, tra libertà e anarchia, dall’incertezza a causa del continuo avvicendarsi dei principi. Ogni piccolo evento finiva con l’avere grandi ripercussioni. Vibio Crispo, che ricchezza, potenza e talento ponevano tra le persone famose ma non certo tra i buoni, citava in giudizio davanti al senato Annio Fausto, appartenente, all’ordine equestre, che al tempo di Nerone aveva fatto il delatore per professione12. Era da poco, cioè dal principato di Galba, che i senatori avevano deciso che era compito loro istruire i processi contro i delatori. Questa decisione del senato era stata oggetto di giudizi contrastanti perché era efficace o inefficace a seconda che l’accusato fosse ricco o povero, ma veniva tuttavia conservata come deterrente.

Crispo aveva impegnato ogni sua risorsa per distruggere il delatore del fratello; aveva anzi persuaso gran parte dei senatori a decidere per lui la pena capitale, senza concedergli nemmeno di essere ascoltato o di essere difeso. Presso gli altri senatori, invece, nulla deponeva a favore dell’accusato più della potenza dell’accusatore; erano dell’avviso che gli si dovesse concedere tempo, che i suoi crimini dovevano essere di dominio pubblico, che, per quanto odioso e colpevole, doveva essere, secondo l’uso, ascoltato.

In un primo tempo si impose questo secondo atteggiamento: il processo fu rinviato di qualche giorno; Fausto fu condannato ma senza quel consenso diffuso che egli si era meritato col suo ignobile comportamento. Pochi avevano infatti dimenticato che lo stesso Crispo aveva fatto il delatore prezzolato. Dunque a trovare opposizione non era l’entità della punizione, ma la figura di chi reclamava vendetta.

 

11. All’inizio, la guerra si mise bene per Otone, sotto il cui comando si erano mossi gli eserciti della Dalmazia e della Pannonia. Erano quattro legioni, da ciascuna delle quali vennero mandati avanti duemila soldati13. A brevi e regolari intervalli seguivano le legioni: la settima, arruolata da Galba; l’undicesima e la tredicesima di formazione meno recente; la quattordicesima che era la più famosa di tutte, avendo domato la rivolta della Britannia. Aveva aumentato la rinomanza dei legionari della quattordicesima, Nerone, designandoli come i migliori: di qui la lunga fedeltà a Nerone e l’entusiasmo poi riversato su Otone. Però, proprio perché si sapevano numerosi e forti, erano pieni di fiducia in se stessi e dunque lenti a muoversi.

La cavalleria e le coorti facevano da avanguardia alle legioni. Dalla stessa Roma era giunto un sostanzioso manipolo di uomini; cinque coorti di pretoriani con la loro cavalleria e la prima legione14. Inoltre c’erano duemila gladiatori, sostegno poco decoroso, ma impiegato durante le guerre civili anche da comandanti rigorosi.

Annio Gallo15 fu messo a capo di queste truppe e spedito in avanscoperta, insieme a Vestricio Spurinna per occupare le rive del Po. Si erano infatti rivelate inefficaci le prime misure: Cecina, che Otone aveva sperato di poter fermare ancora sul territorio gallico, aveva ormai valicato le Alpi.

Corpi scelti di esploratori, assieme alle rimanenti coorti pretorie, i veterani del pretorio e molti soldati di marina, accompagnavano Otone. Egli marciava speditamente e senza indulgere a vizi; procedeva a piedi davanti alle insegne, indossando la lorica di ferro16 Aveva la barba ispida e i capelli spettinati; era insomma molto lontano dall’immagine che tutti avevano di lui.

 

12. La fortuna arrideva alle sue imprese. Controllava, grazie al vantaggio che flotta e possesso del mare gli conferivano, gran parte dell’Italia fino ai confini delle Alpi Marittime. Affidò a Suedio Clemente, ad Antonio Novello, ad Emilio Pacense il compito di attraversarle per andare ad aggredire la Gallia Narbonese. Ma Pacense era rimasto vittima di una rivolta e messo ai ferri; Antonio Novello non era in alcun modo autorevole; Suedio Clemente amministrava il potere pensando al proprio vantaggio17, tanto da fingere di non accorgersi delle infrazioni alla disciplina e da smaniare solo per il combattimento.

Non sembrava nemmeno che passassero attraverso l’Italia, e luoghi e città della patria: bruciavano, devastavano, rapinavano come se si trattasse di lidi stranieri e di città nemiche, con esiti tanto più atroci quanto più impreparate erano ovunque le vittime di questo terrorismo. I campi erano pieni di gente al lavoro e senza difesa le case: i padroni correvano incontro assieme alle mogli e ai figli garantiti dalla tranquillità della pace e venivano travolti dagli orrori della guerra.

Il procuratore Mario Maturo18 presidiava le Alpi Marittime. Egli chiamò a raccolta le popolazioni locali (molti erano i giovani) per allontanare dal territorio della provincia i fautori di Otone, ma al primo assalto i montanari furono massacrati e dispersi. Era gente raccogliticcia, impreparata alla vita militare e ad essere comandata: non sapeva nemmeno cosa fosse l’orgoglio per una vittoria o il disonore di una fuga.

 

13. I soldati di Otone erano furiosi per quella battaglia e riversarono le loro ire sul municipio di Albintimilio19. Dalla lotta non avevano ricavato alcun bottino per la povertà dei contadini e lo scarso valore delle loro armi. Non potevano poi catturarli perché si muovevano velocissimi su un territorio che conoscevano bene. Così l’avidità dei predatori si riversò su vittime innocenti.

A rendere più infame il comportamento valse l’esemplare condotta di una donna ligure. Suo figlio era riuscito a sottrarsi alle ricerche e i soldati la torturavano, convinti che avesse nascosto figlio e denaro insieme. Quando le chiesero dove fosse rifugiato il figlio, essa mostrò il grembo e disse che si nascondeva lì. Né la paura né la minaccia di morte valsero a cambiare la fermezza di quella straordinaria risposta.

 

14. Ambasciatori pieni di paura recarono a Fabio Valente la notizia che sulla Gallia Narbonese, la quale aveva giurato fedeltà a Vitellio, incombeva la minaccia della flotta di Otone; erano presenti anche ambasciatori che imploravano aiuto per le colonie.

Egli inviò due coorti di Tungri20, quattro squadroni di cavalleria etutta l’ala dei Treviri col prefetto Giulio Classico21. Parte di queste truppe rimase nella colonia Forogiuliese, per evitare che, impegnando tutti gli uomini nelle operazioni dell’entroterra, il litorale rimanesse indifeso e la flotta otoniana potesse celermente attraccare. Dodici torme di cavalieri e uomini scelti delle coorti avanzarono contro il nemico; ad essi si aggiunse una coorte di Liguri, antico presidio di quelle regioni, e cinquecento reclute della Pannonia, non ancora inquadrate.

Scoppiò subito la battaglia. L’esercito fu schierato in modo che una parte dei soldati di marina, mescolandosi ai civili del luogo, presidiasse i colli vicino al mare; i soldati pretoriani coprivano la parte pianeggiante compresa tra i colli e il litorale. Sul mare, in questo modo, la flotta collegata ad essi e pronta a combattere, poteva presentarsi minacciando di fronte con le prore rivolte verso la spiaggia. I Vitelliani, che avevano il loro nerbo nei cavalieri ma erano meno forti nella fanteria, collocarono gli Alpini22 sulle alture prospicienti e le coorti in formazione serrata dietro alla cavalleria.

Gli squadroni dei Treviri si esposero incautamente al nemico; i veterani ricevevano il loro assalto frontalmente e intanto una schiera di esperti frombolieri locali li tormentava, con lanci di sassi, sui fianchi; costoro, mescolati ai soldati, mostravano nella vittoria grande baldanza, vigliacchi o valorosi che fossero. I Vitelliani sbandati furono ancor più terrorizzati dalla flotta, avanzata alle spalle dei contendenti; sarebbero stati del tutto circondati e completamente distrutti se l’oscurità non avesse frenato l’esercito vincitore, offrendo scampo agli sconfitti.

 

15. I Vitelliani, benché sconfitti, non vollero arrendersi. Chiamarono i rinforzi e aggredirono il nemico appagato e reso più tranquillo dalla vittoria. Uccise le sentinelle e scompigliato il campo, gettarono nel terrore la flotta. Poi, domata la paura, gli Otoniani, che avevano attestato le loro difese su un colle vicino, passarono al contrattacco.

Fu una strage atroce. I prefetti delle coorti tungre, dopo una difesa ad oltranza, vennero sommersi da una pioggia di frecce. Ma nemmeno agli Otoniani la vittoria costò poco sangue: quelli tra loro che temerariamente avevano inseguito i cavalieri, si trovarono circondati dopo che questi ebbero effettuato una conversione. Come se fosse stata pattuita una tregua e per evitare che la flotta da una parte e la cavalleria dall’altra recassero improvviso scompiglio, i Vitelliani ritornarono ad Antipoli, municipio della Gallia Narbonese, gli Otoniani ad Albingauno, nell’entroterra ligure23.

 

16. La notizia della vittoria ottenuta dalla flotta valse a tenere dalla parte di Otone la Corsica, la Sardegna e le altre isole del vicino mare. Poco mancò però che la Corsica ricevesse grave danno dalla temerità del procuratore Decimo Pacario24: la sua iniziativa non produsse grandi cambiamenti nel complesso di un conflitto tanto esteso, ma fu a lui esiziale. Egli odiava Otone ed era deciso ad aiutare Vitellio con le forze dei Corsi: ben misero aiuto, anche se la sua impresa fosse andata a buon fine!Convocò i maggiorenti dell’isola e rivelò loro il suo progetto. Claudio Pirrico, trierarca delle navi liburniche lì all’ancora, e Quinzio Certo, cavaliere romano, osarono parlare contro la sua proposta ed egli li fece uccidere25. La loro fine atterrì i presenti che subito giurarono nel nome di Vitellio, imitati dalla moltitudine che, pur ignara dei fatti, venne coinvolta nel terrore altrui. Ma quando Pacario iniziò a imporre leve e le fatiche della vita militare a quegli uomini indisciplinati, costoro si misero a considerare la loro debolezza, spinti dalla ripulsa di un inusitato impegno: quella che abitavano era un’isola e la Germania, con le sue legioni, appariva tanto lontana; e la flotta di Otone era riuscita a portare rovina e devastazioni anche a genti protette da fanteria e cavalleria.

Gli animi divennero subito ostili a Pacario, anche se la violenza rimase, al momento, nascosta: si trattava solo di scegliere il momento adatto ad un agguato. Una volta in cui Pacario si divise dal suo seguito e stava ai bagni, nudo e senza difesa, i congiurati lo uccisero e fecero quindi strage anche dei suoi amici. Gli stessi uccisori portarono a Otone le loro teste, come trofei di una vittoria sul nemico, ma per loro non ci fu né il premio di Otone né la punizione di Vitellio, perché questo episodio si perse nel guazzabuglio di ben più grandi misfatti.

 

17. Come ho già ricordato, la cavalleria Siliana aveva aperto una via verso l'Italia e qui aveva trasferito il teatro del conflitto, non perché qualcuno volesse favorire in modo particolare Otone e nemmeno per una preferenza a favore di Vitellio. Il fatto era che una lunga pace aveva snervato gli abitanti che erano ormai supini a qualsiasi servitù, facile preda di qualsiasi invasore, incuranti di qualsiasi miglioramento. La più fiorente regione d’Italia, vale a dire la pianura tra il Po e le Alpi con tutte le sue città, era tenuta dalle armi di Vitellio; e infatti erano giunte anche le coorti mandate avanti da Cecina.

Una coorte di soldati della Pannonia era stata catturata vicino a Cremona; cento cavalieri e mille dei soldati di marina erano stati sorpresi tra Piacenza e Pavia26. Grazie a questo successo, i Vitelliani non trovarono più alcun ostacolo lungo il fiume o sulle sue rive. Il Po, anzi, attirava i Batavi e le popolazioni transrenane che lo attraversarono all’improvviso davanti a Piacenza. Catturarono alcuni esploratori e terrorizzarono a tal punto tutti gli altri, che questi, ingannati dalla loro stessa paura, annunziarono che stava arrivando tutto l’esercito di Cecina.

 

18. Spurinna (era lui infatti ad occupare Piacenza) sapeva bene che Cecina non poteva essere già lì. E se anche fosse arrivato, egli doveva tenere i suoi soldati entro le mura e non affrontare il rischio di opporre tre coorti pretorie, un migliaio di riservisti e qualche cavaliere ad un esercito di veterani.

Ma i soldati, turbolenti e inesperti della guerra, afferrarono insegne e bandiere e, ignorando i comandi di centurioni e tribuni, si gettarono in armi contro il loro capo che cercava di trattenerli. Si arrivò addirittura a gridare che Otone stava per essere tradito e che era stato fatto venire di proposito Cecina. Spurinna dovette farsi complice della sconsideratezza altrui; vi fu in un primo tempo costretto, ma poi decise di simulare in modo molto veridico riflettendo che così i suoi consigli avrebbero avuto maggior effetto se appena i rivoltosi fossero venuti a più miti consigli.

 

19. I rivoltosi, arrivati davanti al Po, decisero che si doveva fortificare l’accampamento, anche perché la notte era ormai vicina. Bastò quella fatica non consueta a soldati abituati a vivere in città, a rendere meno focosi gli animi. I più anziani presero a rimproverare la loro stessa credulità e a indicare a quali paure e pericoli andavano incontro se Cecina avesse accerchiato coi suoi uomini, in aperta pianura, un numero così esiguo di coorti. Ben presto i discorsi che si tenevano in tutto l’accampamento furono improntati a maggior moderazione; i centurioni e i tribuni si mescolavano ai soldati e lodavano la lungimiranza del comandante che aveva saputo scegliere come sicura base per le operazioni militari, una colonia ricca di uomini e di mezzi.

Spurinna, invece di rinfacciare dei torti, preferì mostrare la via della ragionevolezza e provvide egli stesso (dopo aver piazzato delle vedette) a ricondurre in Piacenza gli uomini meno turbolenti e più disposti a ricevere ordini. Si provvide a consolidare le fortificazioni, a costruire bastioni supplementari, ad innalzare torri, a migliorare non solo l’armamento ma anche il rispetto degli ordini e la voglia di obbedire. Era proprio questo a mancare nell’esercito di Otone, non certo il valore.

 

20. Sembrava quasi che Cecina avesse lasciato al di là delle Alpi crudeltà e indisciplina; egli procedeva infatti in Italia senza concedere ai suoi alcun eccesso. Municipi e colonie lo accusavano però di orgoglio a causa del suo abbigliamento, perché parlava a degli uomini vestiti con la toga indossando un mantello di molti colori e le brache, cioè il tipico indumento barbarico27. Grandi lagnanze se le attirava anche sua moglie Salonina: erano in molti a dimostrarsi offesi perché essa procedeva su un cavallo ricoperto di porpora, anche se ciò non recava danno ad alcuno. Ma è tipico dei mortali guardare con sospetto alle fortune recenti degli altri ed esigere moderazione nella mutata sorte proprio da parte di quelli che appartenevano un tempo alla loro stessa condizione sociale.

Cecina, attraversato il Po, tentò con promesse, durante un colloquio, la fedeltà degli Otoniani. Fu a sua volta tentato. Dopo che pace e concordia furono esaltate con parole sonore ma vane, volse ogni sua strategia all’assalto di Piacenza curando soprattutto che esso generasse un grande terrore, consapevole com’era che, se avesse ottenuto subito dei successi, si sarebbe costruito una fama utile a quelli che voleva conseguire poi.

 

21. Il primo giorno fu caratterizzato più da attacchi impetuosi che da strategie degne di un esercito di veterani. I soldati attaccarono le mura, allo scoperto e senza premunirsi in alcun modo, perché erano saturi di vino e appesantiti dal cibo. In quello scontro andò incendiato il bellissimo anfiteatro che si trovava fuori delle mura; forse lo avevano incendiato gli assalitori lanciando torce, palle incendiarie e proiettili infuocati contro gli assediati; ma forse la colpa fu proprio di questi e dei loro tentativi di rilanciare indietro il fuoco.

Il popolino, con la mentalità sospettosa tipica dei provinciali, credette che quel materiale igneo fosse stato gettato a tradimento da qualcuno che veniva dalle vicine colonie per invidia e gelosia; in Italia non esisteva, infatti, alcuna struttura altrettanto capiente di spettatori. Rimasero non assodate le responsabilità, perché si temevano disastri peggiori e questo sembrava, tutto sommato, lieve; ma quando ritornò una certa tranquillità, tutti si rammaricavano come se fosse quello il danno più duro da sopportare.

Del resto Cecina fu respinto con grande spargimento di sangue dalla sua parte; tutta la notte fu spesa ad approntare nuovi apparecchi di guerra. I Vitelliani costruirono ripari mobili e tettoie di fascine e tavole per proteggere gli assedianti mentre cercavano di scavare sotto le mura; gli Otoniani prepararono invece pali appuntiti e una enorme mole di pietre, di piombo e di bronzo per infrangere i ripari dei nemici e schiacciarli.

Entrambi i contendenti avevano fatto di quella battaglia un punto d’onore, entrambi volevano ricavarne gloria. Risuonavano contrastanti esortazioni: da una parte si esaltava la forza delle legioni e dell’esercito germanico, dall’altra il decoro della milizia urbana e delle coorti pretoriane. Gli assediati venivano sbeffeggiati perché pigri, imbelli, corrotti dal teatro e dal circo. Dall’altra parte si rinfacciava agli invasori la loro ignoranza barbarica. Così Otone e Vitellio erano insieme celebrati e disprezzati, ma gli insulti erano efficaci a stimolare molto più che le lodi.

 

22. Il sole sorgente illuminò le mura piene di difensori e fece brillare la pianura di uomini in armi. La schiera dei legionari era compatta, mentre gli ausiliari, in ordine sparso, lanciavano dardi o sassi contro le zone più alte della cinta muraria e ne assaltavano le zone meno difese o meno salde a causa della loro vecchiezza. Dall’alto gli Otoniani scagliavano dardi con maggior forza e precisione contro le coorti dei Germani che avanzavano senza grandi cautele, agitando gli scudi sopra le spalle, con canti selvaggi e mezzi nudi, come è uso presso quel popolo.

I legionari, protetti dalle tettoie, scalzavano i muri, costruivano un terrapieno, lavoravano per abbattere le porte; ma sopra le loro teste, i pretoriani facevano rotolare, con gran fragore, macigni immensi predisposti proprio a questo scopo. Tra gli assalitori alcuni furono travolti, altri trapassati da parte a parte, altri ancora dissanguati o straziati. Il terrore contribuiva a rendere più atroce la strage perché era facile colpire dall’alto delle mura. Il prestigio dei Vitelliani ne fu profondamente scosso.

Cecina, vergognandosi di quell’azione temerariamente intrapresa, non volle rimanere nell’accampamento dove lo avrebbero deriso come un fanfarone. Passò di nuovo il Po e cercò di raggiungere Cremona. Si consegnarono a lui, mentre si metteva in viaggio, Turullio Ceriale, con parecchi marinai e Giulio Brigantico con alcuni dei suoi cavalieri. Il primo era un primipilare che Cecina conosceva già per essere stato centurione in Germania; il secondo era un prefetto della cavalleria di origine batava28.

 

23. Spurinna, informatosi sulla strada presa dai nemici, riferisce per lettera ad Annio Gallo la difesa di Piacenza, le azioni compiute, i progetti di Cecina. Gallo, il quale diffidava che un esiguo numero di coorti potesse sostenere più a lungo i violenti assalti dell’esercito germanico, conduceva la prima legione a rinforzare gli effettivi di Piacenza.

Quando fu raggiunto dalla notizia che Cecina in rotta stava ripiegando su Cremona, fece sostare a Bedriaco29 la legione che a fatica era riuscito a tenere insieme perché, smaniosa di combattere, era arrivata perfino a rivoltarsi. Bedriaco, resa sinistramente famosa da due sconfitte romane, si trova tra Verona e Cremona.

In quegli stessi giorni Marzio Macro30 riportò una vittoria non lontano da Cremona. Di carattere risoluto, Marzio non aveva esitato a sbarcare, di sorpresa, oltre il Po i gladiatori traghettati sulle navi. Lì subirono una rotta gli ausiliari di Vitellio: alcuni riuscirono a fuggire verso Cremona, ma furono passati per le armi tutti quelli che avevano opposto resistenza. L’ardore dei vincitori fu però frenato dalla paura che i nemici, rafforzati da truppe fresche, potessero girare le sorti della battaglia.

Il fatto parve sospetto agli Otoniani, sempre pronti a giudicar male le scelte dei loro comandanti. Tutti quelli che, vili nell’animo, facevano a parole sfoggio di gran coraggio, infamavano con varie accuse coloro che Otone aveva delegato a comandarli: Annio Gallo, Suetonio Paolino, Mario Celso.

Gli uccisori di Galba erano i più accaniti a fomentare sedizioni e contrasti: pazzi di paura per le colpe commesse, rimestavano ogni cosa sia con scoperti inviti alla rivolta sia con lettere segrete a Otone. Costui, che prestava fede anche al più miserabile e temeva gli onesti, si agitava inquieto: abile a fronteggiare le avversità, dimostrava di non saper sfruttare le buone occasioni. Fece venire il fratello Tiziano e gli affidò il comando supremo.

 

24. Intanto, sotto la guida di Paolino e Celso, le cose si erano evolute positivamente. Cecina era invece angosciato dal disastroso esito di ogni sua impresa e dalla declinante fama del suo esercito: era stato respinto da Piacenza, aveva visto massacrare le sue truppe ausiliarie, era uscito sconfitto perfino da scaramucce, numerose ma nemmeno degne di essere ricordate, tra pattuglie. E intanto si avvicinava Fabio Valente: perché proprio a costui non toccasse ogni merito della campagna militare, sentiva, più col cuore che con la ragione, di dover recuperare la sua fama offuscata.

A dodici miglia da Cremona vi è un luogo consacrato ai Castori31; lì egli nasconde nei boschi che sono a ridosso della via, i più fieri tra i suoi ausiliari. Ordina poi ai cavalieri di procedere oltre, di provocare i nemici a battaglia e di indurli ad un precipitoso inseguimento: a questo punto sarebbe scattata l’imboscata.

Il piano viene però riferito ai capi degli Otoniani; Paolino prende il comando della fanteria, Celso quello della cavalleria. Un reparto della tredicesima legione, quattro coorti di ausiliari e cinquecento cavalieri vengono dislocati sul settore sinistro; il dorso della strada viene tenuto da tre coorti pretorie in file serrate. Sul fronte destro avanza la prima legione con due coorti di ausiliari e cinquecento cavalieri. Oltre a tutto questo spiegamento di forze, vengono condotti sul campo di battaglia altri mille cavalieri, tra ausiliari e guardie pretoriane: avrebbero partecipato della vittoria (o recato aiuto se fosse insorta qualche difficoltà).

 

25. Le opposte schiere non erano ancora venute a contatto, che già i cavalieri vitelliani avevano girato le spalle; Celso, che conosceva l’insidia, tenne a freno i suoi. I Vitelliani sbagliarono il tempo dell’imboscata e, postisi all’inseguimento di Celso che indietreggiava poco a poco, furono proprio loro a cadere nel tranello. Si trovarono le coorti ai fianchi e i legionari davanti; e poiché anche i cavalieri con improvvisa conversione li avevano presi alle spalle, furono completamente circondati.

Suetonio Paolino non diede subito il segnale d’attacco alla fanteria: era naturalmente portato dal suo carattere a temporeggiare e a preferire le decisioni razionalmente maturate ai successi fortuiti. Così impartì disposizioni che i canali di irrigazione32 fossero riempiti, che il terreno fosse sgomberato, che le schiere si dispiegassero del tutto, convinto che fosse un rapido inizio di vittoria aver intanto prese le contromisure per non essere sconfitto. I Vitelliani, grazie a quel ritardo, ebbero modo di rifugiarsi in mezzo all’intrico di tralci di alcuni vigneti; lì vicino c’era anche una boscaglia da cui osarono sferrare un contrattacco. In questo modo massacrarono quelli tra i pretoriani che erano stati più pronti ad inseguirli e fu ferito anche il principe Epifane33, che esortava con foga a combattere per Otone.

 

26. Ecco a questo punto l’attacco della fanteria otoniana: lo schieramento nemico ne venne travolto e furono volti in fuga anche quelli che sopraggiungevano. Cecina, infatti, aveva fatto avanzare le coorti una alla volta e non tutte insieme: ne risultò aggravato, durante il combattimento, lo scompiglio poiché, per la paura, i fuggitivi travolgevano gli altri già dispersi e incapaci di organizzare una qualche resistenza. Per di più scoppiò negli accampamenti una sedizione perché i soldati non venivano condotti tutti alla battaglia; il prefetto degli accampamenti, Giulio Grato34, fu gettato in catene per il sospetto di tramare un tradimento a favore del fratello che combatteva sotto Otone. E dire che suo fratello, il tribuno Giulio Frontone, era stato imprigionato dagli Otoniani sotto la stessa accusa.

Del resto, su tutto il fronte d’attacco davanti alle trincee, fu tale il panico tra chi fuggiva e chi accorreva, che da entrambe le parti fu riconosciuto che l’intero esercito di Cecina avrebbe potuto essere cancellato, se solo Suetonio Paolino non avesse chiamato a raccolta i suoi. Il timore, ebbe a scusarsi, era che accusassero eccessiva fatica dopo un lungo viaggio e che i Vitelliani, uscendo freschi dall’accampamento, li aggredissero quando ormai erano stanchi. E se le sue truppe fossero state respinte non avevano nessuno che le potesse sostenere. Questa giustificazione del comandante trovò pochi consensi e fu addirittura accolta con ostilità nella massa dei soldati.

 

27. Questo rovescio, più che intimorire i Vitelliani, li ricondusse alla disciplina. E non solo presso Cecina, che si ostinava a riversare le colpe sui soldati, più pronti a combinare rivolte che a combattere sul serio; anche le truppe di Fabio Valente (ormai giunto a Pavia) avevano smesso di sottovalutare il nemico, avevano rinfocolato il loro desiderio di gloria e obbedivano al comandante con maggior rispetto e sottomissione.

D’altra parte era scoppiata tra loro una grave rivolta che ora mi appresto a narrare risalendo alle sue più lontane origini (non mi pareva infatti il caso di interrompere la cronologia degli eventi riguardanti Cecina). Ho già riferito come le coorti dei Batavi che durante la guerra neroniana35 si erano staccate dalla quattordicesima legione, si fossero aggregate a Fabio Valente nella città dei Lingoni, dopo che avevano sentito, durante il loro viaggio verso la Britannia, della secessione vitelliana.

Passando attraverso le tende di ciascuna legione si vantavano con grande protervia di aver domato i legionari della quattordicesima, di aver strappato l’Italia a Nerone, di tenere in mano le sorti di quella guerra. Ciò parve oltraggioso ai soldati, intollerabile al comandante; la disciplina fu minata da insulti e risse. Alla fine Valente arrivò a sospettare che quell’insolenza preludesse perfino a un tradimento.

 

28. Quando dunque fu annunciato che la flotta di Otone aveva respinto la cavalleria dei Treviri e dei Tungri e che la Gallia Narbonese era bloccata, Valente ordinò ad una parte dei Batavi di correre in aiuto agli alleati. Prese questa decisione sia perché gli stava a cuore la difesa di quelle popolazioni sia perché gli pareva il caso di tenere separate, grazie ad uno stratagemma militare, delle coorti turbolente e non facilmente controllabili se fossero rimaste unite. Quando la notizia fu divulgata, vi furono angosce tra gli ausiliari e mormorii tra i legionari.

Ci si vedeva infatti privati dell’aiuto di validissimi combattenti, molto esperti e vincitori di tante guerre: venivano allontanati dal campo di battaglia proprio quando il nemico era in vista. Se la salvezza di una provincia sembrava più importante di quella di Roma e di tutto l’impero, che andassero tutti lì. Se invece la chiave di volta del successo era in Italia, mandarli via significava strappare ad un organismo vivo le sue membra più importanti.

 

29. In mezzo a queste feroci proteste, Valente, mandando i littori36, cercava di riprendere il controllo della situazione. Ma è lui ad essere aggredito, ad essere preso a sassate, messo in fuga e inseguito. Gli gridano che ha nascosto le spoglie delle Gallie e l’oro dei Viennesi cioè il frutto delle loro guerre; gli frugano i bagagli, gli mettono sottosopra la tenda, perfino esplorano il terreno con giavellotti e lance. Valente, travestito da schiavo, se ne stava nascosto presso un decurione della cavalleria.

Allora Alieno Varo37, prefetto degli accampamenti, mentre il fronte dei rivoltosi si sfaldava poco a poco, ricorre a questo espediente: vieta ai centurioni di fare la ronda e ai trombettieri di suonare la tromba per chiamare i soldati ai loro compiti. Tutti ne furono come paralizzati; e poi via via sospettosi, attoniti e infine spaventati che non ci fosse più nessuno a comandare. Prima silenziosi e sottomessi, poi addirittura con preghiere e lacrime chiedevano perdono.

Quando riapparve Valente, sfigurato, in lacrime ma insperatamente incolume, i soldati provarono insieme gioia, pietà, entusiasmo. Fattisi perfino allegri, lo portarono sulla tribuna con aquile e insegne tutto attorno, lodandolo e congratulandosi con lui: è proprio vero che la moltitudine passa da un eccesso a quello opposto.

Valente, con calcolata moderazione, non chiese nessun castigo, ma, poiché non voleva essere sospettato di connivenza fingendo di ignorare tutto, rimproverò alcuni ben sapendo che nelle guerre civili ai soldati semplici si deve concedere qualcosa di più che ai capi.

 

30. Gli uomini di Valente furono raggiunti dalla notizia dell’insuccesso di Cecina mentre stavano fortificando il campo presso Pavia. Poco mancò che la sedizione si riaccendesse, quasi non fossero giunti in tempo per quella battaglia perché Valente aveva temporeggiato in malafede. Dunque non vollero più saperne di star fermi ad aspettare il capo: precedevano le insegne e, anzi, mettevano fretta ai portabandiera; si ricongiunsero così, con rapida marcia, alle truppe di Cecina.

Valente non godeva di buona fama presso gli uomini di Cecina, i quali si lamentavano di essere stati esposti alle forze fresche dei nemici nonostante fossero inferiori di numero. Ed esaltavano anche la forza dei nuovi venuti quasi a scusarsi e certo per adularli, in ogni caso per non essere dileggiati come dei vili sconfitti.

Valente disponeva di maggiori effettivi visto che quasi doppio era il numero dei suoi legionari ed ausiliari; nonostante ciò il favore dei soldati si volgeva verso Cecina non solo perché era considerato più accondiscendente per via della sua bontà d’animo ma anche perché era più giovane, più vigoroso, più prestante. Ed era anche dotato di un inspiegabile fascino.

Ciò metteva i capi in competizione: Valente veniva definito da Cecina come uno spregevole mostro; Cecina era invece, nelle parole di Valente, un vanesio fanfarone. Essi misero comunque da parte l’odio e si adoperarono per la comune causa rinfacciando ad Otone, in lettere sempre più frequenti, le sue colpe. Non si curavano di dovergli chiedere perdono, in caso di sconfitta, mentre i comandanti del partito otoniano si astenevano dall’offendere Vitellio, pur non mancando certo di argomenti in proposito.

 

31. In realtà, prima della loro fine (che procurò splendida fama a Otone, vergognosissima a Vitellio) destavano minor timore gli ignavi piaceri di Vitellio che le brucianti libidini di Otone. Quest’ultimo si era creato attorno un’aura di terrore e odio per l’uccisione di Galba mentre Vitellio non si vedeva imputato a colpa l’inizio della guerra. Vitellio, cedendo al ventre e alla gola, disonorava solo se stesso; con la sua lussuria e la sua sfrontata temerità, Otone era ritenuto ben più pericoloso per lo stato.

Quando le truppe di Cecina e Valente si ricongiunsero, non vi era più alcun motivo per non attaccare con ogni effettivo; Otone si mise invece a dibattere se era preferibile tirare in lungo la guerra o tentare la sorte.

 

32. Suetonio Paolino, considerato allora il più avveduto conoscitore di arte militare, reputò che fosse conveniente alla sua fama esprimere un parere generale sulla guerra. Affermò che a loro conveniva attendere, mentre la fretta avrebbe giovato al nemico.

Disse che l’esercito di Vitellio ormai era giunto tutto e non aveva grandi forze alle spalle dato che le Gallie erano in fermento e che non si voleva certo correre il rischio di abbandonare la sponda del Reno, stante il pericolo di invasioni da parte di popoli tanto bellicosi.

I soldati della Britannia erano frenati dai nemici e dal mare; le Spagne non abbondavano poi tanto di armi; la Gallia Narbonese era ancora sgomenta per l’incursione della flotta e il rovescio subito. L’Italia Transpadana era tutta chiusa dalle Alpi e nessun aiuto poteva venire dal mare anche per le devastazioni che proprio il passaggio delle truppe di Vitellio aveva apportato: in nessun luogo vi erano granaglie per l’esercito che, senza vettovaglie, non poteva certo essere mantenuto. Quanto ai Germani, che tra i nemici erano i guerrieri più temibili, bastava protrarre la guerra fino all’estate: i loro corpi si sarebbero infiacchiti e non avrebbero sopportato la trasformazione del territorio e del clima. Tante guerre, travolgenti al loro scoppiare, erano finite nel nulla a causa di noiosi temporeggiamenti.

Al contrario, dalla loro parte, doveva esservi fiducia per la ricchezza di mezzi disponibili. Dalla Pannonia, dalla Mesia, dalla Dalmazia, dall’Oriente potevano venire eserciti intatti; l’Italia e Roma rimanevano sempre il perno della politica mondiale grazie al senato e al popolo il cui nome mai si era eclissato ma, al massimo, offuscato. C’era abbondanza di mezzi, sia pubblici che privati, e di denaro che nelle guerre civili serve più delle spade. Il fisico dei soldati era abituato all’Italia o ai grandi calori. Davanti a loro scorreva il Po e abbondavano città, sicure con le loro fortificazioni e i loro difensori. Nessuna di queste (e la vittoriosa difesa di Piacenza stava a dimostrarlo) avrebbe ceduto al nemico. Dunque la guerra doveva essere protratta nel tempo. Di lì a pochi giorni sarebbe arrivata la quattordicesima legione, accompagnata dalla grande fama di cui godeva, assieme alle truppe della Mesia. Si sarebbe allora dovuto tenere un nuovo consiglio e decidere eventualmente di combattere con il rinforzo di quelle truppe.

 

33. Mario Celso disse di condividere il parere di Paolino. E fu riferito, da parte di quelli che erano andati a raccogliere la sua opinione dato che era caduto da cavallo qualche giorno prima, che era dello stesso parere anche Annio Gallo. Otone era più propenso a combattere; suo fratello Tiziano e il prefetto del pretorio Proculo, spinti a precipitare gli eventi dalla loro imperizia, giuravano che gli dèi, la fortuna e il nume tutelare avrebbero assistito le sue imprese come assistevano le sue decisioni: perché nessuno osasse esprimere pareri contrari, erano ricorsi alFadulazione.

Fu questo il modo con cui si arrivò alla decisione di combattere; poi si cominciò a discutere se era meglio che l’imperatore partecipasse o meno alla battaglia. Paolino e Celso avevano smesso qualsiasi opposizione per non far la figura di voler esporre il principe ai pericoli. E quei pessimi consiglieri lo indussero a ritirarsi a Brescello38 e a riservarsi, fuori dai rischi della battaglia, alle supreme responsabilità della guerra e dell’impero.

Quel giorno segnò l’inizio della rovina per Otone e i suoi. Infatti con lui si allontanò una valida schiera di coorti pretoriane, di esploratori e di cavalieri. Quelli che rimasero, avevano l’animo vacillante per i sospetti verso i loro comandanti: i soldati si fidavano solo di Otone e lui solo in loro aveva fiducia. E dunque l’autorevolezza dei capi risultava compromessa.

 

34. I Vitelliani erano venuti a sapere ogni cosa perché nelle guerre civili le diserzioni sono frequentissime e gli esploratori, per conoscere i piani altrui, si lasciano andare a confidenze circa i propri. Cecina e Valente se ne stavano tranquilli, pronti a cogliere il momento in cui i nemici si sarebbero gettati sconsideratamente allo sbaraglio. Attendendo l’imprudenza altrui (che è pur sempre un modo per essere saggi), avevano iniziato a costruire un ponte fingendo di voler attraversare il Po per aggredire la schiera di gladiatori che teneva la riva opposta; volevano anche che i loro soldati non impigrissero nell’inerzia.

A intervalli regolari, alcune navi, collegate da entrambe le parti con robuste tavole, venivano spinte controcorrente. Per rendere più saldo il ponte erano state gettate anche le ancore ed era stata presa la precauzione di tenere allentate le corde di ormeggio perché, salendo il livello dell’acqua, potesse alzarsi senza danni anche la fila di barche. Il ponte era chiuso da una torre portata dall’ultima barca: da essa venivano tenuti lontani i nemici con baliste e catapulte. Gli Otoniani, a loro volta, avevano costruito sulla riva una torre da cui lanciavano sassi e torce.

 

35. In mezzo al fiume c’era un’isola; cercavano di raggiungerla i gladiatori con le loro imbarcazioni mentre i Germani vi giungevano agevolmente a nuoto. Molti di loro, anzi, vi erano già approdati e Macro li aggredì con navi liburniche piene dei più pronti tra i gladiatori. Costoro, alla prova della battaglia, non mostravano la stessa fermezza dei soldati e inoltre, malfermi sulle gambe per le oscillazioni delle barche, non potevano dirigere i colpi con la stessa precisione di chi stava coi piedi ben piantati a terra.

Rematori e guerrieri erano preda del disordine per le oscillazioni imposte alle barche dai combattenti stessi; i Germani balzavano indisturbati sulle secche da cui potevano agevolmente afferrare le poppe, salire sulle tolde delle barche o addirittura sommergerle. Tutto questo avveniva sotto gli occhi dei contrapposti eserciti: quanto più ne godevano i Vitelliani, tanto più se ne rammaricavano gli Otoniani imprecando contro la causa e l’autore del disastro.

 

36. La battaglia si risolse in una disastrosa fuga, dopo che anche le navi superstiti furono strappate ai Batavi. Tutti volevano che fosse Macro a pagare e lo aggredirono brandendo le spade. Già era stato ferito dal lancio di un giavellotto, ma riuscì a salvarlo l’intervento di centurioni e tribuni.

Non molto dopo Vestricio Spurinna, per ordine di Otone, lasciò un piccolo presidio a Piacenza e corse a portare aiuto con le coorti. Otone mandò anche come nuovo comandante delle milizie che erano state di Macro, Flavio Sabino39, console designato. I soldati si rallegravano per il cambio di comandanti; non altrettanto i comandanti stessi, oppressi da un servizio reso gravoso dalla necessità di domare continue sedizioni.

 

37. Leggo in alcuni autori40, come i due eserciti denunciassero qualche esitazione e pensassero di far tregua e venire ad un compromesso, oppure di consentire l’elezione dell’imperatore da parte del senato. Sarebbero stati spinti a ciò dalla paura della guerra e anche dal disgusto per entrambi i principi, dei quali, ad ogni giorno che passava, venivano sempre più risapute le disonorevoli infamie. Per questo i capi otoniani consigliavano di prendere tempo e di indugiare: primo fra loro, Paolino che era il più vecchio tra i consolari e già combattente famoso, essendosi procurato grandissima gloria nelle spedizioni in Britannia.

Io posso anche ammettere che qualcuno, in cuor suo, volesse la pace e la fine dei contrasti, che pensasse ad un principe magnanimo e senza colpe dopo tanti imperatori corrotti e viziosi. Tuttavia non sono dell’avviso che Paolino, saggio e realista com’era, sperasse, in tempi tanto corrotti, tale moderazione da parte della massa, che coloro che avevano turbato la pace per amore dei torbidi, cessassero dalla guerra per amore della pace. E certo non si illudeva che eserciti diversi per lingua e costumi potessero realizzare un consenso e coalizzarsi. Quanto alla maggior parte dei legati e dei capi, essi erano troppo consapevoli dei loro vizi, della loro miseria e della loro scelleratezza, per non volere un principe corrotto come loro e a loro legato da vincoli di gratitudine.

 

38. L’avidità di dominio, antica e, anzi, innata negli umani, crebbe col crescere dell’impero e alla fine dilagò: non era infatti difficile andare tutti d’accordo quando si viveva entro piccoli confini41. Quando il mondo intero fu sottomesso ed erano ormai distrutte città e reami rivali, era possibile aspirare ad una potenza senza alcuna insidia esterna; ma allora cominciarono ad ardere le prime contese tra patrizi e plebei. Poi, per colpa sia di tribuni faziosi sia di consoli prepotenti, ecco nascere, nella stessa Roma e perfino nel Foro, le premesse delle guerre civili. Successivamente, un uomo di infime origini plebee, G. Mario, e il più intransigente dei nobili, Lucio Silla, sconfissero con le armi la libertà e la trasformarono in dispotismo. Dopo di loro, Gn. Pompeo agì con maggior discrezione, ma non in modo migliore. E da allora l’unica posta delle guerre fu il sommo potere.

Intere legioni di cittadini non deposero l’idea di combattere a Farsalo e a Filippi; men che meno lo fecero gli eserciti di Otone e Vitellio: identica ira divina, identico accanimento di uomini, identica propensione al delitto li spinsero alla discordia. Se poi le guerre si conclusero quasi al primo colpo, questo è segno dell’ignavia dei comandanti. Ma questa discussione su antichi e nuovi costumi mi ha forse portato troppo lontano. Ora ritorno alla successione ordinata degli eventi.

 

39. Otone partì per Brescello, lasciando l’onore del comando al fratello Tiziano; l’autorità effettiva era del prefetto Proculo; Celso e Paolino, della cui avvedutezza nessuno faceva uso, fungevano da alibi alle colpe altrui sotto l’inutile nome di comandanti. Tribuni e centurioni davano scarso affidamento, perché i migliori venivano allontanati ed erano in auge i peggiori; i soldati tenevano invece alto lo spirito ma gli ordini preferivano discuterli piuttosto che eseguirli. Si decise di spostare il campo quattro miglia oltre Bedriaco, ma la situazione era in mano a comandanti tanto poco avveduti che la truppa pativa la sete, pur essendo primavera ed essendoci fiumi tutto attorno. Qui si tenne consiglio se si dovesse dare battaglia: Otone insisteva a dire per lettera che i soldati si affrettassero; i soldati chiedevano la presenza dell’imperatore alla battaglia; i più volevano che tornassero i soldati dislocati oltre il Po. Non è possibile dire quale sarebbe stata la miglior decisione, ma è certo che quella presa fu la peggiore.

 

40. Partiti con equipaggiamento utile ad una campagna intera enon ad una sola battaglia, i soldati marciavano verso la confluenza del Po e dell’Arda42 che dista sedici miglia. Celso e Paolino non volevano esporre i loro soldati stanchi dal viaggio e appesantiti dal bagaglio, a nemici armati alla leggera e reduci da un cammino di sole quattro miglia: certo sarebbero stati assaliti mentre erano disorganizzati durante la marcia o intenti a costruire, sparsi qua e là, il vallo. Ma Tiziano e Proculo, sconfitti sul piano dell’analisi, facevano appello alla loro autorità di comandanti supremi. A dire il vero era anche giunto un cavaliere numida che recava, da parte di Otone, ordini inflessibili: inasprito dall’attesa e insofferente di doversi accontentare di speranze, deplorava l’inerzia dei capi e imponeva che si venisse alla prova.

 

41. Nella stessa giornata si presentarono a Cecina intento alla costruzione del ponte, due tribuni delle coorti pretorie, chiedendo un colloquio. Cecina si apprestava ad ascoltare le loro proposte e a controbattere, quando fu annunciato da due esploratori trafelati che il nemico era ormai vicino.

Il colloquio coi tribuni fu troncato a mezzo e non si potè dunque mai sapere se essi tramassero imboscate o tradimenti o volessero offrire qualche onesto consiglio.

Cecina dimise i tribuni e tornò all’accampamento. Trovò che Fabio Valente aveva già dato il segnale di battaglia e che i soldati erano in armi. Mentre si sorteggiavano tra le legioni gli schieramenti, si lanciarono avanti i cavalieri; strano a dirsi, ma solo il valore della legione italica impedì che fossero ricacciati entro il vallo da uno sparuto manipolo di Otoniani: i legionari, brandendo i pugnali, costrinsero i fuggenti a ritornare sui loro passi e a riprendere la battaglia. Lo schieramento delle truppe vitelliane non comportò alcun scompiglio: anche se il nemico era vicino, una fitta barriera di arbusti impediva la vista delle armi.

Sul fronte degli Otoniani, i comandanti erano annichiliti dalla paura, i soldati ostili ai loro comandanti e mescolati a carriaggi e inservienti. E la via era troppo stretta, a causa dei ripidi fossati sull’uno e sull’altro lato, per consentire il passaggio anche ad una schiera ben ordinata. Qualcuno si stringeva intorno alle sue insegne, qualcun altro le cercava; da ogni parte si alzava il confuso clamore di chi accorreva, di chi andava e veniva. Ognuno, a seconda del suo coraggio o della sua viltà, irrompeva nella prima fila o scivolava verso l’ultima.

 

42. Gli animi, già prostrati dall’improvviso terrore, furono ancor più fiaccati da una gioia illusoria, avendo qualcuno propagato la falsa notizia che Vitellio era stato abbandonato dal suo esercito. Non è noto se la notizia fosse stata diffusa dagli esploratori di Vitellio o fosse nata, per caso o per volontà di tradimento, dalla stessa parte otoniana. Gli Otoniani, smorzato l’ardore della battaglia, salutarono inaspettatamente il nemico. Furono accolti da un mormorio ostile e si diffuse anche il sospetto di tradimento, poiché molti tra gli stessi Otoniani ignoravano il motivo del saluto.

Proprio in quel momento irruppe la schiera nemica a file serrate, più forte e numerosa. Gli Otoniani, pur dispersi, inferiori di numero e stanchi, affrontarono con grande decisione il combattimento. Alberi e vigne disseminavano di ostacoli il campo e così la battaglia assunse vari aspetti: si combatteva da distante e da vicino, a gruppi confusi e a plotoni a forma di cuneo. Sul dorso della strada, si affrontavano corpo contro corpo e scudo contro scudo; venuto meno il lancio di giavellotti, elmi e corazze venivano frantumati da spade e scuri. Gli avversari, pur riconoscendosi fra loro, combattevano, ben visibili a tutti gli altri, per decidere le sorti dell'intero conflitto43.

 

43. Per caso, tra il Po e la strada, vennero allo scontro due legioni su un terreno sgombro: la ventunesima, detta Rapace e insigne per antica gloria, dalla parte di Vitellio; la prima, detta Adiutrice, mai sperimentata prima in battaglia, ma fierissima e avida di gloria, dalla parte di Otone. Quelli della prima, abbattuta l’avanguardia della ventunesima, catturarono l’aquila. La vergogna fu così forte che quelli della Rapace respinsero di nuovo gli avversari (tra i quali rimase sul terreno il luogotenente Orfidio Benigno) e strapparono moltissime insegne e vessilli al nemico.

In un altro settore della battaglia, la tredicesima legione fu respinta dall’assalto della quinta; la quattordicesima fu circondata da forze soverchianti44. Mentre i capi del partito otoniano da tempo erano in fuga, Cecina e Valente avevano già provveduto a rafforzare le loro schiere con truppe di riserva.

Si aggiunse un nuovo aiuto. Varo Alieno, assieme ai Batavi, aveva ormai annientato la schiera dei gladiatori, sterminandola completamente con le coorti schierate frontalmente, mentre tentava di ripassare il fiume con le navi, lì proprio sulle rive. Forte di questo successo, aveva aggredito i nemici sul fianco.

 

44. Gli Otoniani ebbero il centro del loro schieramento sfondato e fuggirono in disordine verso Bedriaco; era una distanza enorme, le strade erano ostruite dai cadaveri e la strage ne risultò dunque amplificata perché nelle guerre civili non si fanno prigionieri e non si pensa al riscatto. Suetonio Paolino e Licinio Proculo percorsero sentieri appartati e si tennero lontani dall’accampamento. Un panico immotivato espose all’ira dei soldati Vedio Aquila45, legato della tredicesima. Era ancora giorno pieno quando, rientrato nel campo, viene, da ogni parte, preso di mira dalle urla e dagli strepiti di rivoltosi e fuggiaschi: lo insultano e lo picchiano; gli danno del traditore e del disertore non perché fosse davvero colpevole di qualcosa ma perché è abitudine diffusa nella moltitudine scaricare su altri la propria vergogna.

Tiziano e Celso trovarono scampo nel buio della notte, quando già erano state disposte le sentinelle e sedate le turbolenze dei soldati: li aveva distolti dal rendere più grave la sconfitta con reciproche stragi, Annio Gallo facendo ricorso a esortazioni, preghiere e autorità. Sia che la sconfitta fosse irreversibile, sia che pensassero a riprendere le armi, era la concordia l’unico sollievo per gli sconfitti.

Tutti gli altri avevano l’animo affranto. Solo i pretoriani si sdegnavano di essere stati battuti col tradimento, non dal valore avversario. Sottolineavano che nemmeno per i Vitelliani la vittoria era stata incruenta, che avevano respinto la loro cavalleria, che avevano catturato un’aquila. Erano ancora ben salde le milizie che Otone aveva lasciato oltre il Po, stavano giungendo le legioni della Mesia, gran parte dell’esercito non si era mossa da Bedriaco. Non potevano ancora confessarsi sconfitti, e, quando davvero la sconfitta fosse giunta, c’erano le condizioni per andare a cercare una morte più onorevole in battaglia. Questi pensieri disperati rimescolavano in loro furore e apprensione, ma erano più spesso spinti all’ira che alla paura.

 

45. L’esercito di Vitellio si fermò a cinque miglia da Bedriaco, sia perché i comandanti vitelliani non osarono aggredire in quello stesso giorno l’accampamento nemico sia perché si sperava in una resa volontaria. I vincitori, usciti a battaglia senza alcun equipaggiamento, dovettero ripararsi con le loro armi e con i vantaggi derivanti dalla vittoria.

Il giorno dopo, per manifesta volontà dell’esercito di Otone e per i propositi di pentimento manifestati anche dai più irriducibili, fu mandata un’ambasceria. I capi dei Vitelliani non esitarono a concedere la pace. Gli ambasciatori furono peraltro trattenuti per qualche tempo e questo ritardo causò dubbi in quelli che ancora non sapevano se la pace davvero fosse stata concessa. Poi, congedata l’ambasceria, il vallo fu spalancato.

Vinti e vincitori si lasciarono allora andare al pianto, deprecando l’orrore delle guerre civili con la gioia che un momento così triste poteva concedere; sotto le stesse tende qualcuno curava le ferite dei fratelli, qualcuno soccorreva i congiunti; speranze e premi erano malsicuri, ben certi erano invece i morti e il lutto: a nessuno era stato risparmiato il dolore per l’uccisione di qualche persona cara. Quando fu ritrovato il corpo del legato Orfidio, si procedette a cremarlo secondo le abituali onoranze. Pochi furono sepolti dai loro cari, tutti gli altri rimasero sul terreno.

 

46. Otone aspettava nuove della battaglia per nulla in ansia e ben determinato nei suoi propositi. Arrivarono le prime notizie poco confortanti e subito dopo gli scampati alla battaglia confermarono il disastro subito. L’ardore dei soldati precedette le parole dell’imperatore: lo esortavano a stare di buon animo, c’erano ancora forze fresche ed essi stessi erano pronti ad osare e a sopportare l’estremo destino. E non era adulazione: davvero smaniavano, con una sorta di frenetico entusiasmo, di schierarsi a battaglia e di risollevare le sorti del partito.

Chi era lontano, tendeva le mani; i vicini gli abbracciavano le ginocchia. Il più infervorato era Plozio Firmo. Si trattava di un prefetto del pretorio che lo pregò di non abbandonare un esercito fedelissimo e soldati che tanti meriti avevano presso di lui. Questi erano i suoi argomenti: maggiore coraggio risiede nell’affrontare le avversità che nello sfuggire loro, i forti e i valorosi persistono nella speranza anche contro la fortuna, solo gli irresoluti e gli ignavi si lasciano spingere alla disperazione dalla paura. E a seconda che Otone, in mezzo a queste invocazioni, si mostrasse commosso o si atteggiasse a durezza, crescevano le urla di entusiamo o di dolore. A parlare così non erano solo i pretoriani, esercito personale di Otone: anche i messaggeri mandati avanti dalle truppe della Mesia promettevano ugual fermezza da parte dell’esercito in arrivo. Le legioni erano, anzi, entrate in Aquileia46, sicché nessuno poteva dubitare sulle possibilità di risollevare una guerra aspra, luttuosa, incerta sull’assegnazione della vittoria definitiva.

 

47. Otone era contrario a questi propositi bellicosi. Così parlò: «Esporre ulteriormente ai pericoli questo vostro entusiasmo e valore, penso sia un prezzo troppo grande per la mia vita. Quanto maggiore è la speranza di cui mi date prova, se solo volessi vivere, tanto più dolce mi sarà morire. Io e la fortuna ci siamo sperimentati a vicenda. Non date troppo peso al tempo: è più difficile mostrare moderazione nella fortuna, se si pensa di non poterla possedere a lungo.

La guerra civile è stata iniziata da Vitellio: presso di lui sono le radici di questo conflitto per il potere supremo. Che non ci sia bisogno di un’altra battaglia dopo la prima, io darò personale testimonianza. E da questo i posteri giudichino Otone. Vitellio godrà della presenza del fratello, della consorte, dei figli; a me non servono né vendetta né consolazioni. Certo: altri hanno retto l’impero più a lungo di me, ma nessuno lo ha lasciato con tanta fermezza.

Non posso sopportare che altri giovani romani e altri splendidi eserciti siano annientati e strappati allo stato. Possa invece recare con me la consapevolezza che voi mi avreste dato la vostra vita. Tuttavia dovete sopravvivermi. Non perdiamoci in indugi: io non voglio ritardare né la vostra salvezza né il mio proposito. Parlare troppo della propria morte è già un segno di debolezza. Questa è la più evidente prova della fermezza del mio proposito: non mi lamento di nessuno, perché mettere sotto accusa gli dèi o gli uomini è proprio di chi non pensa davvero alla morte».

 

48. Così parlò. Poi, con grande cordialità, prese a chiamare i suoi uno a uno, secondo l’età e il grado; diceva loro di andarsene in fretta e di non inasprire con la loro permanenza l’ira del vincitore. Coi giovani faceva leva sulla sua autorità, con i vecchi ricorreva alle preghiere: aveva il volto tranquillo, parlava con voce sicura, frenava le inopportune lacrime dei suoi. Ordina di concedere navie carri a chi se ne vuole andare; distrugge memoriali e lettere in cui troppo evidenti sono l’amore per lui o l’odio contro Vitellio; distribuisce denaro con una parsimonia che poco si addice ad uno che sta per morire.

Poi prese a consolare Salvio Cocceiano, l’adolescente figlio di suo fratello, tremante e piangente: ne lodava l’affetto ma ne rimproverava la paura.

Lo faceva riflettere sul fatto che Vitellio non sarebbe stato tanto crudele da non concedergli almeno quella grazia, lui che aveva avuto incolume l’intera famiglia.

Affrettando la morte egli si meritava la clemenza del vincitore: infatti aveva risparmiato l’estrema rovina dello stato non quando era ormai ridotto alla disperazione ma quando aveva ancora un esercito che chiedeva solo di essere ricondotto alla battaglia: davvero si era costruito un buon nome, davvero aveva nobilitato la sua discendenza. Dopo i Giulii, i Claudii, i Servii, egli per primo aveva introdotto la dignità imperiale in una nuova famiglia. Dunque Salvio aveva di che affrontare la vita a testa alta. Finì esortandolo a non dimenticare mai suo zio Otone; ma non andava bene nemmeno ricordarlo troppo.

 

49. Poi allontanò tutti e si prese un po’ di riposo. Un tumulto improvviso gli impedì di meditare sulle decisioni estreme che aveva formulato: gli dissero che alcuni soldati, agitandosi senza alcun ritegno, minacciavano di morte quelli che volevano andarsene. Si accanivano soprattutto contro Verginio, che era assediato nella sua casa sbarrata. Otone rimproverò gli iniziatori della rivolta e, tornato nella sua tenda, congedò di nuovo quelli che volevano andarsene, curando che lo potessero fare senza danno.

Sul far della sera, calmò la sete con un sorso di acqua gelata; si fece portare due pugnali di cui provò punta e affilatura. Poi se ne pose uno sotto il guanciale. Si assicurò che gli amici fossero partiti e trascorse una notte tranquilla: riuscì, si dice, perfino a prendere sonno.

All’alba si gettò col petto sulla lama. Schiavi e liberti entrarono nella tenda, richiamati dai lamenti di morte; con loro era il prefetto del pretorio Plozio Firmo: trovarono una sola ferita.

In fretta furono allestiti i funerali, come lo stesso Otone aveva richiesto con pressanti preghiere; non voleva che gli fosse tagliata la testa per farne oggetto di scherno.

Furono le coorti pretorie a trasportare il corpo, tra lacrime e lodi, baciandogli le ferite e le mani.

Alcuni soldati si uccisero accanto al rogo, non per rimorso o paura, ma per volontà di emulare la dignità del principe e per amore verso di lui. E, in seguito, quella morte fu da molti imitata a Bedriaco, a Piacenza e in molti altri attendamenti. A Otone fu costruito un monumento funebre modesto e perciò destinato a restare47.

Aveva trentasette anni e questa fu la sua morte.

 

50. Era nato nel municipio di Ferento48; suo padre era stato consolare, il suo avo pretore. La famiglia materna era di minore lustro, ma tuttavia di discreta rinomanza. Già ho raccontato che fanciullezza e gioventù abbia trascorso. Presso i posteri ebbe indifferentemente cattiva o buona fama a seconda che si ricordasse l’uno o l’altro dei due eventi (il primo ignobile, il secondo nobilissimo49) che segnarono la sua vita.

Io non ho mai creduto di poter venir meno al rigore della mia narrazione cercando avvenimenti fantastici o blandendo con invenzioni l’animo dei lettori; tuttavia non oserei togliere credito a quanto fu divulgato e tramandato.

Gli abitanti del luogo ricordano che nel giorno in cui si combattè a Bedriaco, un uccello di specie mai vista si posò in un bosco sacro e molto frequentato presso Regio Lepido50. Né il sopraggiungere di molte persone né gli altri uccelli che gli svolazzavano attorno, riuscirono a spaventarlo e a cacciarlo via, finché Otone non si uccise. Allora scomparve e chi si diede la briga di annotare l’inizio e la fine di quel prodigio, si accorse che coincidevano con i tempi della morte di Otone.

 

51. Durante i funerali di Otone, lutto e dolore riaccesero la rivolta e non vi era nessuno che la domasse. I soldati si rivolsero a Verginio con preghiere e minacce ora per fargli accettare il comando ora per preparare un’ambasceria a Cecina e Valente. Verginio, però, aveva frustrato il tentativo degli invasori della sua casa, uscendo dalla porta posteriore. Le preghiere delle coorti dislocate a Brescello furono riferite da Rubrio Gallo51: la grazia fu subito ottenuta, mentre Flavio Sabino consegnò al vincitore le truppe di cui aveva avuto il comando.

 

52. La guerra ebbe fine in tutto il teatro delle operazioni. Molti dei senatori che avevano lasciato Roma con Otone e si erano fermati a Modena, corsero rischi gravissimi. Quando giunse a Modena la notizia della sconfitta, i soldati la definirono sprezzantemente falsa, perché pensavano che i senatori fossero ostili a Otone; presero a sorvegliare i loro discorsi e a interpretarne (e sempre in modo malevolo) i volti e gli atteggiamenti; schernendoli e insultandoli cercavano anche un concreto pretesto per sterminarli. I senatori, dal canto loro, avevano anche un’altra paura, non volendo che li si credesse troppo esitanti nell’abbracciare la vittoria del partito vitelliano ormai prevalente.

Così, trepidanti e ansiosi per entrambi i motivi, si radunano: nessuno ha preso autonomamente una decisione ma ognuno si sente più sicuro tra molti che condividono la stessa colpa. Ad aggravare l’angoscia dei senatori atterriti, il senato municipale di Modena, offrendo loro armi e denaro, li chiamava, con intempestivo omaggio, padri coscritti.

 

53. Degno di nota fu l’alterco sorto quando Licinio Cecina aggredì Marcello Eprio52, accusandolo di parlare in modo ambiguo.

Neppure gli altri esprimevano con chiarezza le loro opinioni, ma il nome di Marcello, particolarmente inviso ed esposto all’odio per il ricordo delle delazioni, aveva provocato Cecina, uomo nuovo e da poco accolto tra i senatori, a cercare notorietà costruendosi grandi inimicizie.

La moderazione di persone più prudenti valse a separarli. Tutti ritornarono a Bologna per procedere a nuove deliberazioni e nell’attesa di maggiori notizie. A Bologna si sparpagliarono sui diversi assi viari per interrogare ogni nuovo arrivato. Fu sentito anche un liberto di Otone sui motivi della sua partenza: rispose che portava le ultime disposizioni dell’imperatore e che lo aveva lasciato quando era ancora in vita. Tuttavia era ormai solo preoccupato della posterità e già molto lontano dalle attrattive della vita. Grande fu lo stupore e nessuno osò chiedere di più; così gli animi di tutti divennero favorevoli a Vitellio.

 

54. Prendeva parte ai consigli suo fratello L. Vitellio che già accettava ogni adulazione, quando all’improvviso Ceno, liberto di Nerone, provocò un generale moto di paura propinando una tremenda menzogna: l’arrivo della quattordicesima e la sua riunione con le forze provenienti da Brescello, avevano ribaltato le sorti dei due partiti e provocato una strage fra i vincitori.

Si era inventato tutto per restituire con una buona notizia qualche validità ai salvacondotti che Otone aveva rilasciato e che avevano perduto qualsiasi valore.

Ceno guadagnò rapidamente Roma, ma fu raggiunto pochi giorni dopo dal castigo di Vitellio. Per i senatori, però, il pericolo aumentò perché i soldati di Otone prendevano per vere quelle notizie. E ad aumentare la paura c’era anche il fatto che essi avevano lasciato Modena e abbandonato il partito di Otone con una sorta di deliberazione ufficiale. Non si erano più rivisti tra loro e ciascuno aveva provveduto a se stesso; alla fine una lettera di Fabio Valente dissolse ogni motivo di apprensione. E quanto più la morte di Otone era stata onorevole, tanto più celermente se ne diffondeva la notizia.

 

55. Roma era del tutto tranquilla e la gente assisteva, come ognianno, ai giochi Ceriali53. In teatro fu riferito da fonte attendibile che Otone era morto e che il prefetto della città, Flavio Sabino, aveva fatto giurare i soldati di Roma per Vitellio: fu generale l’applauso per il nuovo imperatore. Il popolo recò in giro per i templi le immagini di Galba coronate di fiori e allori. Fu anche innalzato un mucchio di corone presso il lago Curzio, che Galba moribondo aveva arrossato col suo sangue.

Senza frapporre indugi, per Vitellio vengono decretati in senato tutti gli onori escogitati durante ogni altro principato. Si pensò anche a esprimere plauso e ringraziamento all’esercito germanico; fu inoltre mandata un’ambasceria che presentasse le consuete congratulazioni. Fu letta una lettera di Fabio Valente scritta, con buon senso della misura, ai consoli (ma fu maggiormente apprezzata la modestia di Cecina che non aveva scritto nulla).

 

56. Ma l’Italia era afflitta da malanni più gravi e più atroci perfino della guerra. I Vitelliani si erano sparpagliati tra i municipi e le colonie a spogliare, depredare, violentare e stuprare. Erano avidi del lecito e dell’illecito e disposti a far mercato di tutto; non si trattenevano dal recar oltraggio né alle cose sacre né alle cose profane. Vi fu chi, coprendosi della propria veste militare, consumò vendette private. Quei soldati che conoscevano le diverse regioni, indicavano i territori più ricchi e i più facoltosi possidenti: tutto era predato e, se qualcuno opponeva resistenza, era destinato alla morte. I comandanti erano costretti a tollerare o, quanto meno, a non impedire quegli eccessi.

Cecina era meno avido, ma più ambizioso; Valente invece era da sempre protagonista di ignobili traffici e guadagni e perciò disposto a coprire le colpe altrui. L’Italia da tempo aveva vista distrutta la sua prosperità e tanta violenza, tante devastazioni, tante ingiustizie arrecate da fanti e cavalieri, venivano sopportate con grande malanimo.

 

57. Nel frattempo Vitellio ancora ignorava di aver riportato la vittoria e quindi guidava le rimanenti forze dell’esercito germanico come se la guerra fosse ancora tutta da combattere. Lasciò pochi veterani nei quartieri invernali e affrettò le leve nelle Gallie, per completare i quadri delle legioni che rimanevano in Germania. Affidò ad Ordeonio Fiacco la difesa della riva sinistra del Reno e provvide ad aggiungere alle sue truppe un contingente di ottomila uomini scelti dall’esercito della Britannia. Avanzò per pochi giorni e finalmente venne a sapere della vittoria di Bedriaco e che la morte di Otone aveva posto fine alla guerra. Chiama i soldati in assemblea e li colma di lodi per il loro valore. L’esercito gli chiedeva di donare la dignità equestre al suo liberto Asiatico ed egli cercò di porre freno a questa indecorosa adulazione. Il suo carattere era però fragile e, nell’intimità di un banchetto, concesse ciò che pubblicamente aveva negato: elargì così l’onore dell’anello ad Asiatico, che era un servo spregevole e tutto intento a soddisfare le sue ambizioni con male arti.

 

58. In quegli stessi giorni arrivarono notizie che le due Mauritanie, ucciso il procuratore Albino, erano passate dalla parte di Vitellio. Lucceio Albino54, che aveva ricevuto da Nerone l’incarico di governare la Mauritania Cesariense, si era visto affidare da Galba anche l’amministrazione della Mauritania Tingitana. Disponeva dunque di un esercito non trascurabile: aveva diciannove coorti, cinque reparti di cavalleria e un grande numero di Mauri55, truppa addestrata alla guerra con ladrocini e rapine. Quando Galba era stato ucciso, egli subito si era dichiarato per Otone e siccome l’Africa non gli bastava, minacciava la Spagna dalla quale era diviso soltanto da un angusto braccio di mare.

Cluvio Rufo56 se ne preoccupò e fece marciare verso il litorale la decima legione come se avesse l’intenzione di traghettarla di là; in ogni caso mandò avanti dei centurioni per vedere di conciliare i Mauri al partito di Vitellio. Non fu difficile: l’esercito germanico godeva di buona fama nelle province; inoltre si diffondeva la voce che Albino ostentasse disprezzo per il titolo di procuratore e avesse preso a farsi chiamare Giuba, usurpando anche le insegne regali.

 

59. Dunque le disposizioni degli animi così cambiarono: Asinio Pollione, prefetto della cavalleria e fedelissimo di Albino, Festo e Scipione57, prefetti delle coorti, vengono uccisi. Lo stesso Albino viene trucidato, al suo approdo sulla riva, mentre cerca di lasciare la Tingitana e di raggiungere la Cesariense. Stesso destino ebbe sua moglie pur essendosi consegnata agli assassini. Di tutti questi eventi, per quanto importanti fossero, Vitellio si informava con molta superficialità, incapace com’era di farsi coinvolgere davvero dalle preoccupazioni.

Ordina all’esercito di avanzare per via di terra. Quanto a lui si imbarca sul fiume Arari58, con nessun apparato degno del suo rango principesco ma facendosi notare, anzi, per la sua abituale povertà. Poi però, Giunio Bleso, governatore della Gallia Lugdunese e uomo di illustri natali, generoso d’animo quanto ricco, gli diede una splendida scorta, formata anche da tutti i servitori che un principe deve avere. Vitellio non ne provò gratitudine e tuttavia nascondeva l’antipatia con un ossequioso servilismo.

A Lugduno lo accolsero i capi del partito dei vincitori e di quello degli sconfitti. Vitellio fece sedere ai lati della sua sedia curule Valente e Cecina, dopo averli lodati davanti a tutti i partecipanti all’adunanza. Poi ordinò che tutto l’esercito andasse incontro al suo figlioletto; se lo fece portare, lo rivestì del suo stesso paludamento; stringendolo al petto, lo chiamò Germanico e lo adornò di tutte le insegne imperiali: un onore certo eccessivo in tempi di buona fortuna, un conforto nella futura cattiva sorte.

 

60. Allora furono uccisi i migliori centurioni dell’esercito otoniano, causa principale, questa, del distacco degli eserciti illirici da Vitellio59. Intanto le altre legioni sia per contagio sia per malanimo contro i soldati germanici, meditavano la guerra. Vitellio fece compiere a Suetonio Paolino e a Licinio Proculo, sotto accusa e dunque vestiti a lutto, una umiliante attesa. Alla fine li ascoltò ed essi usarono argomenti difensivi più condizionati dal bisogno che improntati al decoro. Si fecero un merito perfino del loro tradimento, attribuendo ad un loro fraudolento piano la lunga marcia prima della battaglia, la conseguente fatica degli Otoniani, la confusione di carriaggi e soldati in marcia e anche parecchie altre cose in realtà fortuite. Vitellio credette a quelle menzogne e perdonò la fedeltà ad Otone.

Il fratello di Otone, Salvio Tiziano, non corse alcun pericolo, giustificato dal suo affetto e dalla sua inerzia. A Mario Celso fu conservato il consolato. Tuttavia trovò credito la voce che Cecilio Semplice volesse comperare quella carica anche a costo della morte di Celso, cosa questa che gli fu poi rimproverata in senato. Vitellio non se ne curò e successivamente concesse il consolato a Semplice, senza che questi avesse dovuto pagarlo con un delitto. Tracalo fu protetto contro i suoi accusatori da Galeria, moglie di Vitellio.

 

61. Mentre uomini di tale importanza correvano gravi pericoli, un certo Maricco, plebeo della tribù dei Boi60, osò (quasi mi ripugna doverne parlare) buttarsi dentro il gioco della fortuna e sfidare gli eserciti romani fingendo di essere ispirato dagli dèi. Si era accreditato attributi divini e il ruolo di liberatore delle Gallie; aveva chiamato in armi ottomila uomini e cercava anche di coinvolgere i cantoni vicini agli Edui. Ma quella nazione, con scelta avveduta e valendosi dei suoi giovani migliori rinforzati da coorti inviate da Vitellio, disperse quella turba di fanatici. Maricco fu catturato durante quel combattimento e subito gettato in pasto alle fiere; ma siccome queste tardavano a sbranarlo la moltitudine lo credeva protetto dagli dèi. Alla fine fu ucciso sotto gli occhi di Vitellio.

 

62. Vitellio non infierì ulteriormente contro i ribelli61 e i loro patrimoni; furono convalidati i testamenti dei caduti nelle file otoniane (o si seguì la legge per chi era morto senza testamento): insomma se avesse posto un freno alla sua intemperanza, sul piano dell’avidità non era certo da temere.

Nel mangiare aveva eccessi turpi e insaziabili. Si faceva portare ghiottonerie da tutta Roma e perfino da tutta Italia. Anzi: il rumore dei suoi carri riecheggiava su ogni strada, dall’uno e dall’altro mare; i maggiorenti delle città si rovinavano per allestirgli banchetti e intere popolazioni subivano questa devastazione. I soldati, abituandosi ai piaceri e imparando a disprezzare il loro comandante, perdevano spirito di sacrificio e abitudine al valore.

Vitellio si fece precedere a Roma da un editto in cui differiva l’assunzione del nome di Augusto e rifiutava quello di Cesare62, ma nella pratica non rinunciava a nessun potere. Cacciò gli astrologi dall’Italia e proibì severamente ai cavalieri romani di svilire la loro dignità frequentando scuole per gladiatori o combattendo nel circo. Erano stati spinti a tali comportamenti dai predecessori di Vitellio con denaro e più spesso con la violenza. E molti municipi e colonie gareggiavano con Roma nell’adescare con alti compensi i giovani più corrotti.

 

63. Vitellio andava facendosi più superbo e crudele da quandoera arrivato il fratello e avevano cominciato a insinuarsi nel suo seguito maestri di tirannia; ordinò dunque di far uccidere Dolabella che, come ho già ricordato, era stato relegato da Otone nella colonia di Aquino. Quando Dolabella seppe della morte di Otone, si recò a Roma. Questo fatto gli valse un’accusa al prefetto della città Flavio Sabino da parte di Plancio Varo63, ex pretore e già intimo amico di Dolabella: costui aveva lasciato il confino e si era atteggiato a capo del partito sconfitto. Aggiunse che aveva cercato di sobillare la coorte di stanza ad Ostia. Ma di così gravi delitti non esistevano prove e Plancio Varo, pentitosi, chiedeva, dopo una simile scelleratezza, un tardivo perdono.

Triaria, moglie di Lucio Vitellio e crudele quanto una donna difficilmente può essere, terrorizzò Flavio Sabino che, davanti ad una questione tanto grave, esitava. Triaria lo accusò di volersi fare una fama di clemenza, creando un pericolo per l’imperatore. Sabino era di carattere mite, ma la paura lo spingeva a capovolgere le sue opinioni e a temere rischi personali nei pericoli altrui. Per non apparire il salvatore di Dolabella, gli diede l’ultima spinta quando costui era già sull’orlo del baratro.

 

64. Vitellio, per paura e odio64 visto che Dolabella aveva da poco sposato Petronia che era stata sua moglie, lo chiamò con una lettera. Gli diceva di evitare la via Flaminia, troppo battuta, e di fare una digressione verso Terni65. In quel posto (così aveva ordinato ad un sicario), doveva essere ucciso. All’assassino parve troppo lungo l’inseguimento e Dolabella era ancora in viaggio quando, in una locanda, fu gettato a terra e sgozzato. Così, con questo atto odioso, si presentò il nuovo regime.

Faceva singolare contrasto con la dissolutezza di Triaria, l’esempio di moderazione, a lei vicino, di Galeria che era moglie dell’imperatore e mai aveva voluto rendersi responsabile di infamie. Di pari onestà era Sestilia, la madre dei due Vitellii, una donna che ricordava il buon costume antico: quando le portarono le prime lettere del figlio, si racconta, lei ebbe a dire di aver partorito un Vitellio, non un Germanico66. Mai, nemmeno in seguito, si rallegrò per le lusinghe della fortuna o l’ossequio dei cittadini. Della sua casa avvertì solo le sciagure.

 

65. Cluvio Rufo lasciò la Spagna e seguì Vitellio che si era allontanato da Lugduno. In volto esprimeva felicità e deferenza, ma era, nel suo cuore, pieno di ansie e consapevole d’essere stato fatto segno di accuse67. Ilaro, liberto imperiale, lo aveva infatti denunciato perché, a suo dire, avuta notizia della contesa tra Vitellio e Otone, aveva progettato un potere autonomo dal principato impadronendosi delle Spagne. Prova del delitto era che nell’intestazione dei suoi salvacondotti non figurava il nome né dell’uno né dell’altro principe. E alcuni passaggi dei discorsi di Cluvio si prestavano ad essere interpretati come tesi a crearsi popolarità e come offensivi nei riguardi di Vitellio.

Prevalse, però, l’autorevolezza di Cluvio e Vitellio fece punire il suo liberto. Cluvio fu aggregato al seguito del principe: non gli fu tolta la Spagna che governò senza andarvi come del resto aveva già fatto Lucio Arrunzio: Lucio Arrunzio era stato trattenuto da Tiberio per paura ma del tutto opposto era il caso di Cluvio.

A Trebellio Massimo non fu concesso lo stesso onore: era scappato dalla Britannia per il malcontento dei soldati e al suo posto Vitellio inviò uno del suo seguito, Vettio Bolano.

 

66. Le legioni sconfitte erano ancora piene di animosità e questo angustiava Vitellio: erano sparse in tutta Italia e, mescolate alle legioni vincitrici, diffondevano parole ostili. Particolarmente accaniti erano quelli della quattordicesima, i quali negavano di essere stati sconfitti: a Bedriaco era stato battuto solo un loro distaccamento e il nerbo della legione non era presente. Si decise allora di rimandarli in Britannia da cui li aveva chiamati Nerone e che intanto si accampassero tra le coorti dei Batavi da cui erano divisi da lunga discordia.

Naturalmente la pace non durò a lungo tra soldati che tanto si detestavano: a Torino, mentre un batavo inveiva contro un artigiano da cui si diceva imbrogliato e invece un legionario lo difendeva come suo ospite, intervennero i commilitoni di entrambi aggregandosi a loro. Il passo dagli insulti al sangue fu breve. Lo scontro sarebbe stato tremendo se due coorti di pretoriani, prendendo le parti della quattordicesima, non avessero rincuorato i legionari e spaventato i Batavi. Vitellio tuttavia comandò che i Batavi, in riconoscimento della loro fedeltà, fossero aggregati al suo seguito. La legione invece doveva passare le Alpi Graie, compiendo una deviazione per evitare Vienna: non poco timore mettevano gli abitanti di quella città68. Nella notte in cui la legione era in partenza, bruciò parte della colonia di Torino a causa dei fuochi lasciati accesi qua e là; il disastro fu eclissato, come spesso succede per i danni arrecati dalle guerre, da disastri maggiori in altre città.

Passate le Alpi, i più turbolenti della quattordicesima legione volevano marciare su Vienna, ma furono trattenuti dallo sforzo concorde di chi era più prudente di loro. Così la legione passò in Britannia.

 

67. Vitellio però era preoccupato anche per le coorti pretorie. I pretoriani, prima isolati e poi tranquillizzati da una buona liquidazione69, portavano le armi ai loro tribuni. Ma quando si diffuse la notizia che Vespasiano aveva iniziato la sua guerra, ripresero il servizio e divennero, anzi, il nerbo del partito flaviano.

La prima legione di marina fu mandata in Spagna a placarsi nella pace e nell’ozio; l’undicesima e la settima furono restituite ai loro accampamenti invernali. Quelli della tredicesima furono impiegati nella costruzione di anfiteatri: Cecina a Cremona e Valente a Bologna preparavano l’allestimento di spettacoli gladiatori perché Vitellio non era mai tanto preso dalle fatiche del governo da dimenticare i divertimenti70.

 

68. Vitellio aveva separato le sconfitte truppe otoniane con grande senso di equilibrio. Ma la rivolta scoppiò tra i vincitori per la degenerazione di un gioco che provocò un alto numero di vittime e quindi maggiore odio per Vitellio. Egli partecipava, a Pavia, ad un banchetto la cui organizzazione era stata affidata a Verginio. I legati e i tribuni guardano sempre ai costumi dei loro principi: o ne imitano il rigore o imparano a godere dei banchetti fuori orario; conseguentemente anche i soldati sono disciplinati o del tutto incontrollabili. Il seguito di Vitellio era in preda alla confusione e all’ubriachezza, tanto che pareva partecipare alla veglia notturna per un baccanale più che alla disciplinata vita di un accampamento.

Due soldati, un legionario della quinta e un ausiliario gallo, si misero per scherzo a lottare fra di loro. Il legionario cadde e il gallo si mise ad insultarlo, mentre tutto intorno si faceva gran tifo per l’uno o per l’altro, da parte di quelli che erano sopraggiunti a guardare lo spettacolo. Ma ad un certo punto i legionari si scatenarono contro gli ausiliari: ne furono massacrate due coorti. Il rimedio di un tumulto fu un secondo tumulto. In lontananza si vedevano balenìi di armi e nuvole di polvere: subito si pensò che la quattordicesima legione avesse invertito la marcia e venisse a cercare la battaglia. Era la retroguardia, invece, e quando ciò fu risaputo l’apprensione sbollì.

Nel frattempo uno schiavo di Verginio, che passava per caso, venne scambiato per un attentatore alla persona di Vitellio: i soldati si precipitarono al banchetto chiedendo la morte di Verginio. Nemmeno Vitellio, pur impaurito da qualsiasi sospetto, ebbe dubbi sulla sua innocenza: tuttavia occorse molta pazienza per calmare coloro che chiedevano la morte del consolare (e loro comandante di un tempo). Nessuno, più di Verginio, divenne bersaglio di ogni tumulto: rimaneva la fama e l’ammirazione per l’uomo, ma anche l’odio dei soldati che avevano subito un torto da lui71.

 

69. Il giorno dopo Vitellio diede udienza alla delegazione del senato cui aveva ordinato di aspettarlo a Pavia. Poi si trasferì nell’accampamento dove lodò, forse in modo eccessivo, la devozione dei soldati, suscitando grande risentimento negli ausiliari per l’inaccettabile livello di impunità e arroganza cui erano giunti i legionari. Le coorti di Batavi furono rimandate in Germania perché non osassero qualche atto ancor più turbolento. Così il destino gettava le premesse di una guerra insieme esterna ed interna72. Furono rimandati nelle sedi dei loro popoli gli ausiliari galli, molto numerosi e reclutati all’inizio della defezione73, in mezzo ad altri vani preparativi di guerra.

C’era poi il problema di non svuotare del tutto le casse dello stato già esauste per le largizioni: Vitellio ordina severi tagli nel numero dei legionari e degli ausiliari, eliminando completamente le riserve ed offrendo congedi senza limitazione alcuna.

Il provvedimento recò danno allo stato e provocò malcontento nella truppa perché ugual peso di incarichi veniva distribuito tra meno soldati (e pericoli e fatiche ne venivano moltiplicati). Inoltre le forze erano corrotte dalle mollezze con grave danno della tradizionale disciplina e degli ordinamenti istituiti dagli avi: presso di loro più dal valore che dal denaro era sostenuta la potenza romana.

 

70. Quindi Vitellio si diresse verso Cremona e, dopo aver presenziato allo spettacolo gladiatorio allestito da Cecina, espresse il desiderio di fermarsi sulla piana di Bedriaco per constatare con i suoi occhi le vestigia della recente vittoria74. Visione turpe e orribile: a quaranta giorni dalla battaglia si vedevano ancora corpi lacerati, membra recise, uomini e cavalli ridotti a carogne putride, il terreno impregnato di sangue marcio, alberi abbattuti e raccolti spietatamente devastati.

Ma era ugualmente rivoltante la scena offerta dalla strada che i Cremonesi avevano cosparso di alloro e rose; vi avevano anche innalzato altari e sacrificato vittime come per un omaggio regale; tutti atti che recarono giovamento in quel momento, ma danno in un futuro non lontano.

Valente e Cecina mostravano i luoghi della battaglia: da qui aveva fatto irruzione la schiera delle legioni; da qui erano balzati fuori i cavalieri; da quella parte gli ausiliari si erano separati per accerchiare il nemico. Tribuni e prefetti decantavano i singoli episodi cui avevano preso parte mescolando verità ad esagerazioni e perfino a menzogne. Anche la massa dei soldati deviava dalla strada con grida di gioia, riconoscendo i luoghi dove si era combattuto e guardando esterrefatti i mucchi di armi e i cumuli di cadaveri. Qualcuno provò pietà e dolore per il variare della fortuna e ne pianse.

Ma Vitellio non distolse gli occhi né provò orrore per tante migliaia di cittadini insepolti: anzi, lieto e inconsapevole del destino che incombeva su di lui, preparò un sacrificio alle divinità locali.

 

71. Subito dopo Fabio Valente allestisce uno spettacolo di gladiatori a Bologna (ma con uomini e coreografie fatti venire da Roma). Mano a mano che Vitellio si avvicinava alla città, il suo procedere era sempre più turpemente accompagnato da branchi di istrioni e castrati e da tutto quell’apparato che caratterizzava la corte di Nerone: proprio questo suo predecessore Vitellio ricordava con grande ammirazione. Del resto lo aveva perfino accompagnato nel suo canto, non per quella necessità cui avevano dovuto piegarsi perfino i più onesti, ma per totale asservimento al lusso e al cibo.

Per rendere possibili alcuni mesi di consolato a Valente e Cecina, furono ristretti i periodi degli altri consolati; fu anche ignorato il periodo destinato a Marzio Macro, poiché era uno dei capi del partito otoniano; il periodo di un console designato da Galba, Valerio Marino, che nulla aveva fatto ma era tanto mite da sopportare l’ingiustizia senza dire niente, fu differito. Viene messo da parte anche Pedanio Costa: anche se di altro tenore furono i pretesti addotti da Vitellio, egli era sgradito al principe per la sua ostilità a Nerone e anche perché aveva istigato Verginio75.

Vitellio fu perfino ringraziato: tanta era l’assuefazione al servilismo.

 

72. Un imbroglio, che sembrava agli inizi foriero di minaccia, fu chiarito in pochi giorni. Si era fatto vivo un tale che affermava di essere Scriboniano Camerino76. Asseriva che il clima di paura instaurato da Nerone lo aveva costretto a nascondersi in Istria, dove lo assistevano la clientela e i beni antichi dei Crassi e dove il nome loro riscuoteva ancora credito. Come testimoni di questa sua menzogna aveva chiamato autentica feccia: una folla di creduloni e alcuni soldati che, o per ignoranza della verità o per interesse nei riguardi di qualsiasi rivolgimento, già cominciavano a stringersi a gara attorno a lui.

Fu portato davanti a Vitellio e interrogato sulla sua vera identità. Non fu creduto in nulla e venne, anzi, riconosciuto dal suo padrone che ravvisò in lui uno schiavo fuggito di nome Geta. Così fu giustiziato secondo il modo di procedere contro gli schiavi77.

 

73. Quasi non si può credere a quale superbia e indolenza sia arrivato Vitellio, dopo che corrieri provenienti dalla Siria e dalla Giudea gli annunziarono che tutto l’Oriente gli aveva giurato fedeltà.

A dire il vero Vespasiano e l’eco delle sue imprese erano sulla bocca di tutti, anche se in modo un po’ vago e da fonti non ben verificabili: quando udiva il suo nome, Vitellio si scuoteva. Tuttavia, da allora, lui e il suo esercito, come se non esistessero più rivali, si lasciarono andare ad eccessi di crudeltà, libidine e rapina, certo più consoni a genti barbare.

 

74. Vespasiano, intanto, andava considerando la situazione militare, gli armamenti, le forze a lui vicine o lontane. Aveva a tal punto dalla sua parte i soldati che questi lo avevano ascoltato in silenzio mentre dettava il giuramento di fedeltà a Vitellio e gli augurava prospera fortuna. A sua volta, Muciano era ben disposto verso Vespasiano e ancor di più verso Tito. Tiberio Alessandro, prefetto dell’Egitto, condivideva questo atteggiamento; annoverava come sua la terza legione, poiché era passata dalla Siria alla Mesia. Le altre legioni dell’Illirico lo avrebbero seguito: questa era la sua speranza, viste le sdegnate reazioni di tutto l’esercito all’arroganza dei soldati vitelliani che, col loro aspetto torvo e il loro linguaggio sboccato, schernivano e consideravano inferiori tutti gli altri.

Ma in una situazione militare molto complessa, spesso si esita: Vespasiano talvolta concepiva grandi speranze, talvolta vedeva prevalere fattori avversi. Come avrebbe vissuto il giorno in cui avesse esposto alla guerra i suoi sessantanni78 e i suoi due giovani figli?

Nelle vicende private si può procedere con gradualità e, secondo la volontà di ognuno, rischiare di più o di meno: ma chi aspira al principato non ha via di mezzo tra la vetta e l’abisso.

 

75. Aveva davanti agli occhi la forza dell’esercito germanico, ben nota ad un uomo competente di arte militare come lui; le sue legioni mai avevano preso parte ad una guerra civile e quelle di Vitellio erano appena uscite vittoriose da un simile conflitto; inoltre gli Otoniani sconfitti si lamentavano ma ben poche risorse gli potevano offrire.

Nelle discordie civili la fedeltà dei soldati traballa e ognuno può essere fonte di pericolo. Che aiuto gli avrebbero potuto dare fanti e cavalieri, se uno o un altro avessero chiesto ai nemici un premio per un delitto compiuto al momento giusto? Così era morto Scriboniano sotto Claudio e proprio grazie a questo delitto, il suo assassino, Volaginio, era salito ai sommi gradi della milizia da semplice gregario che era.

È più facile sollevare una moltitudine che sfuggire ad un solo uomo.

 

76. Questi timori lo facevano esitare ma altri luogotenenti e amici lo incoraggiavano. Muciano gli parlò più volte in segreto e alla fine gli rivolse questo discorso alla presenza di molti: «Tutti coloro che concepiscono grandi progetti, debbono valutare se ciò che stanno per intraprendere è utile allo stato e fonte di gloria per sé; se sia agevole o almeno non troppo arduo. Bisogna anche valutare il ruolo dei consiglieri e se questi mettono in gioco anche il loro rischio personale. E, in caso di esito favorevole, a chi andrebbe il merito maggiore.

Vespasiano, io ti chiamo all’impero: quanto ciò possa contribuire a salvare lo stato e a darti gloria dipende dagli dèi e dalla tua azione. Non temere in me il fantasma dell’adulazione; essere scelti dopo Vitellio assomiglia molto più ad un’ingiuria che a un titolo di merito. Noi non ci leviamo a combattere contro la mente geniale del divo Augusto né contro la cauta vecchiaia di Tiberio né tantomeno contro la dinastia di Gaio o Claudio o Nerone consolidata da un lungo esercizio del potere. Anche davanti agli antenati di Galba ti sei fatto da parte. Una ulteriore inerzia sarebbe interpretata da tutti come apatia e viltà: non puoi permettere che lo stato sia profanato e distrutto a meno che questa tua condizione di servo, tu la consideri disonorevole ma sicura.

Ormai è passato e, anzi, del tutto trascorso il tempo in cui tu potevi sembrare mosso da ambizione personale: il principato è la tua unica via di scampo. Ti sei forse dimenticato come è stato ucciso Corbulone79? Riconosco che egli era di origine più nobile della nostra, ma anche Nerone superava Vitellio per nobiltà dei natali. Chi si fa temere è sempre famoso quanto basta agli occhi di chi teme.

E che sia l’esercito a poter creare il principe lo dimostra lo stesso Vitellio, innalzato al grado cui si trova solo dall’odio contro Galba e non certo per il suo servizio o la sua fama militare. Vitellio sta disperdendo le legioni, disarma le coorti, semina ogni giorno nuovi motivi di conflitto. In questo modo ha fatto sentire il vuoto lasciato da Otone e dalla sua grandezza; costui non è stato vinto dalla strategia di un capo o dalla forza di un esercito ma dalla sua prematura disperazione.

Se mai gli uomini di Vitellio hanno posseduto un po’ di ardore e fierezza, stanno svilendo tutto nelle taverne e nelle gozzoviglie, imitando chi li comanda. Tu puoi disporre di nove legioni integre, dalla Giudea, dalla Siria e dall’Egitto80: non sono affaticate da combattimenti, non sono corrotte dalla discordia; i soldati sono ben allenati e vincitori di una guerra esterna. Hai forze di marina, di cavalleria, di fanteria. Fedelissimi re sono schierati al tuo fianco e possiedi una cosa che da sola vale tutte le altre: la tua esperienza.

 

77. Niente altro io ti chiederò per me se non di essere annoverato dopo Valente e Cecina: non devi disprezzare l’amicizia di Mudano solo perché non è un possibile rivale. Mi considero superiore a Vitellio, ma inferiore a te: la tua casa possiede un nome trionfale81 e tu hai due figli82 giovani uno dei quali già appare capace di dirigere un impero come ha dimostrato di saper comandare gli eserciti di Germania nei primi anni del suo servizio militare. Sarebbe assurdo non cedere il passo a colui che ha un figlio che io stesso adotterei se fossi il principe.

D’altra parte tu ed io non spartiremo allo stesso modo il bene e il male: se vinciamo avrò la dignità che tu mi riconoscerai, ma rischi e pericoli saranno pari. Anzi, il partito migliore è che tu stesso diriga i tuoi eserciti e che lasci a me la guerra e i rischi delle battasi . . .

Oggi i vinti sopportano una disciplina più rigorosa dei vincitori. Chi ha subito una sconfitta è stimolato ad atti di valore dall’ira, dall’odio, dal desiderio di vendetta; chi ha vinto, istupidisce nella noia e nell’arroganza. La guerra riaprirà le piaghe dei vincitori e anzi vi scaverà ancor di più; esse appaiono rimarginate ma sono in realtà ancora virulente. Io ho fiducia nella tua accortezza, nella tua parsimonia, nella tua saggezza non meno che nell’inerzia, nell’ignoranza e nella ferocia di Vitellio. In ogni modo la nostra causa ha di che trar vantaggi dalla guerra piuttosto che dalla pace: chi pensa a ribellarsi è già un ribelle».

 

78. Dopo le parole di Muciano, anche tutti gli altri, più rincuorati e convinti, stavano attorno a Vespasiano e lo esortavano menzionando i responsi degli oracoli e i movimenti delle stelle. Non era immune da suggestioni astrologiche, tanto è vero che, una volta al potere, tenne, senza curarsi di nasconderlo, come consigliere e indovino, un astrologo di nome Seleuco.

Anche vecchi presagi tornavano alla memoria: un cipresso che sorgeva con la sua maestosa altezza nei campi di Vespasiano, era un giorno crollato; il giorno seguente rieccolo lì a verdeggiare, ritto sulle sue stesse radici, alto e ancor più frondoso. Gli aruspici erano d’accordo: quello era un grande e favorevole presagio, promessa di chiara fama all’ancor giovane Vespasiano. Sembrava in un primo tempo che il presagio si fosse tutto avverato grazie alla concessione degli attributi trionfali, al consolato83, all’onore della vittoria giudaica. Ma, ormai raggiunti questi scopi, credeva che gli preannunziasse il principato.

Il Carmelo84 (con questo nome chiamano un dio e un monte) si trova tra la Giudea e la Siria. Non vi è, secondo quanto tramandato dagli avi, né il simulacro del dio e nemmeno un tempio: solo un altare e il culto. Vespasiano si trovava lì a compiere un sacrificio e cullava segrete speranze nel suo cuore; un sacerdote di nome Basilide85, esaminate le viscere, ebbe a dirgli: «Vespasiano, io non so se tu stia preparando la costruzione della tua casa o un ingrandimento dei tuoi poderi o un ampiamento del numero dei tuoi schiavi; di qualunque cosa si tratti grande sarà la tua residenza, dilatati i tuoi confini, numerosi i tuoi uomini».

La fama si era subito impadronita di questi segni enigmatici e ora ne scopriva il senso: null’altro era sulla bocca della gente. E tanto più se ne parlava quando Vespasiano era presente, perché con chi sta dando corpo alle speranze bisogna tornare più volte sugli stessi argomenti.

Muciano partì per Antiochia, capitale della Siria, e Vespasiano per Cesarea, capitale della Giudea: ormai non vi era più alcun dubbio sul partito da scegliere.

 

79. L’iniziativa di trasferire a Vespasiano il sommo potere spettò ad Alessandria, dove, già il primo di luglio, Tiberio Alessandro fece giurare in tutta fretta fedeltà alle legioni. Da allora in poi, quel giorno fu celebrato come il primo del principato, anche se l’esercito di Giudea prestò identico giuramento il 3 di luglio. E lo fece con tale entusiasmo che non attese nemmeno il ritorno di Tito dalla Siria con le notizie degli accordi intercorsi tra Muciano e suo padre. Tutto avvenne sotto la spinta spontanea dei soldati, senza che fosse convocata l’assemblea o fossero state riunite le legioni.

 

80. Si stavano cercando il tempo, il luogo e, cosa ben più difficilein situazioni simili, una voce che si alzasse per prima. Si riflettevasulle speranze, sui timori, sui mezzi migliori da usare, sugli eventicasuali, quando pochi soldati, schierati nel consueto ordine con cui si saluta il legato, salutarono imperatore Vespasiano uscito dalla tenda. Allora accorsero gli altri che riversavano su di lui tutte le parole che alludono al principato, a cominciare da «Cesare» e«Augusto». La disposizione d’animo era passata dalla paura alla fiducia; lo stesso Vespasiano non diede segno di vanità o di arroganza: nulla sembrava in lui cambiato mentre tutto stava cambiando.

L’innalzamento della sua condizione gli aveva come offuscato di nebbia gli occhi: quando questa si dissolse, disse poche parole in stile militaresco e accolse tutte le liete novità che stavano affluendo. Muciano che aspettava solo questo, sfruttò l’entusiasmo dei soldati facendo loro prestare giuramento. Poi entrato nel teatro di Antiochia, che lì è usato anche come luogo d’assemblea, Vespasiano si rivolse a quelli che accorrevano e si profondevano in adulazioni; siccome parlava abbastanza bene il greco, riusciva a dar buon risalto a ciò che diceva e faceva.

I provinciali e l’esercito si sentirono particolarmente offesi dalla notizia, sostenuta da Muciano, che Vitellio aveva stabilito di trasferire le legioni germaniche al più redditizio e tranquillo servizio in Siria. E inversamente alle legioni siriache sarebbero stati dati gli accampamenti invernali germanici, ben più duri a causa del clima e delle fatiche. C’era anche da dire che i provinciali avevano realizzato una buona convivenza con i soldati, tanto che si erano create parentele ed amicizie. E poi la lunga stanza in quei luoghi aveva reso noti e familiari gli accampamenti, quasi fossero diventati la nuova casa dei soldati stessi.

 

81. Nella prima metà di luglio tutta la Siria giurò. Soemo86 aderì col suo regno in cui abbondavano le risorse di uomini; aderì anche Antioco87, potente per antica ricchezza e, anzi, il più facoltoso tra i re soggetti a Roma. Chiamato da Roma per mezzo di messaggi segreti, Agrippa88 si affrettava per mare quando Vitellio ancora ignorava tutto.

Con non minore entusiasmo favoriva il partito di Vespasiano, la regina Berenice, nel fiore degli anni e della bellezza che era gradita anche al vecchio Vespasiano89 per la magnificenza dei suoi doni. Prestarono giuramento anche tutte le province bagnate dal mare fra Asia e Acaia, e tutta la distesa di terre interne fino al Ponto e all’Armenia (ma c’è da dire che erano rette da legati senza esercito, non essendo ancora state assegnate delle legioni alla Cappadocia).

Un consiglio sulla conduzione di tutta la guerra fu tenuto a Berito90. Lì si recò Muciano con i legati, i tribuni, i migliori tra soldati e centurioni e le truppe sceltissime dell’esercito giudaico. Era davvero uno spettacolo vedere tutti quei fanti e tutti quei cavalieri assieme ai re che gareggiavano in sfarzo: autentica immagine di un destino imperiale!

 

82. Il primo provvedimento bellico consistette nell’indire leve e nel richiamare i veterani. Alcune città, particolarmente attrezzate, vengono destinate alla fabbrica di armamenti; ad Antiochia viene battuta moneta d’oro e d’argento. Per ognuno di questi incarichi Vespasiano ha dei suoi sovrintendenti e tutto viene eseguito con la massima celerità.

Lo stesso Vespasiano li avvicinava tutti di continuo e li esortava: c’erano lodi per i laboriosi e incitamenti per i pigri; preferiva infatti non costringere e, quanto agli amici, passava sopra i loro difetti e ne metteva in evidenza i pregi.

Innalzò la dignità di molti concedendo prefetture e incarichi di procuratore; più numerosi ancora furono quelli che ebbero la dignità senatoria: tutti uomini di grande valore destinati ad altissimi incarichi, anche se qualcuno fu più fortunato che effettivamente meritevole. Per quanto riguarda il donativo ai soldati, Muciano lo aveva promesso nella prima assemblea, ma in termini molto contenuti e nemmeno Vespasiano concesse durante quella guerra civile ricompense maggiori di quanto altri avevano fatto in pace: era infatti fermamente contrario alle largizioni militari e per questo nel suo esercito regnava la disciplina.

Mandò legati ai Parti e agli Armeni e provvide a non restare con le spalle scoperte venendo meno, in quello scacchiere, le legioni che doveva impiegare nella guerra civile. Fu deciso che Tito vigilasse sulla Giudea mentre Vespasiano doveva tenere le chiavi d’Egitto91. Sembrava sufficiente per sconfiggere Vitellio solo una parte dell’esercito: al resto avrebbero provveduto il comando di Muciano, il nome di Vespasiano e il fato che non conosce mete irraggiungibili. Ogni esercito e ogni legato ricevettero delle lettere in cui si raccomandava di allettare i pretoriani ostili a Vitellio col premio che veniva concesso a chi rientrava in servizio.

 

83. Muciano con una truppa armata alla leggera, comportandosi più da associato all’impero che da subalterno, procedeva con un viaggio veloce quanto bastava per non sembrar preda di esitazioni. Tuttavia nemmeno si affrettava troppo, volendo che la sua fama crescesse col passare del tempo: sapeva di avere forze modeste e che si sopravvaluta sempre ciò che non si può constatare di persona. Comunque lo seguivano, in poderoso schieramento, la sesta legione e altri tredicimila vessillarii92.

Aveva fatto venire a Bisanzio la flotta del Ponto e stava ancora riflettendo sul da farsi. Gli pareva di dover assediare Durazzo93 con fanteria e cavalleria, lasciando da parte la Mesia. Nel contempo doveva chiudere il mare in direzione dell’Italia con navi da guerra. Asia e Acaia avrebbero avuto così le spalle sicure perché, senza opportuni presidi, sarebbero state inermi ed esposte a Vitellio. Vitellio da parte sua sarebbe stato incerto su quale parte d’Italia coprire, se avesse visto minacciare da flotte nemiche Brindisi e Taranto, Calabria e Lucania.

 

84. Le province risuonavano dello strepito degli allestimenti: navi, soldati, armi. Nulla però era frustrante quanto le requisizioni di denaro. Muciano ribadiva che questo era il perno stesso della guerra civile e non badava al diritto o alla legittimità ma soltanto alla grandezza delle ricchezze. Dunque: delazioni diffuse e rapine contro ogni persona facoltosa.

Situazione grave e intollerabile, in qualche modo scusabile nelle necessità belliche, ma che proseguì tuttavia anche quando la pace fu raggiunta: lo stesso Vespasiano, che all’inizio del suo principato non sembrava voler fondare il potere sull’ingiustizia, apprese a comportarsi così sfrontatamente dal favore della fortuna e dai cattivi maestri. Muciano sovvenzionò la guerra con capitali propri, generoso coi suoi beni personali ma intenzionato a rifarsi ampiamente col denaro pubblico. Altri seguirono il suo esempio nell’investire denaro in quella guerra, ma quasi nessuno ebbe le stesse possibilità di recuperarlo.

 

85. Frattanto l’impresa di Vespasiano aveva fatto rapidi progressi grazie al passaggio dell’esercito illirico dalla sua parte. La terza diede l’esempio alle altre legioni della Mesia, cioè l’ottava e la settima Claudiana che erano molto devote a Otone pur non avendo avuto parte attiva nella battaglia di Bedriaco. Erano avanzate fino ad Aquileia e avevano impegnato scaramucce con quelli che annunziavano la fine di Otone, lacerando anche i vessilli col nome di Vitellio94. Il loro era ormai un atteggiamento di aperta ostilità: erano persino arrivati a impadronirsi della cassa militare e a spartirsela. Provarono dunque paura e la paura li indusse a concepire questo piano: ciò che li avrebbe messi sotto accusa presso Vitellio, poteva diventare un credito verso Vespasiano. Così le tre legioni della Mesia cercavano di attirare, per mezzo di lettere, l’esercito della Pannonia, preparandosi anche allo scontro in caso di rifiuto.

In quel sommovimento, Aponio Saturnino, governatore della Mesia, osò un atto infame, mandando un centurione a uccidere Tettio Giuliano, legato della settima legione, a causa di inimicizie personali che egli voleva coprire con interessi del suo partito. Giuliano scoprì il pericolo e fece venire a sé persone che ben conoscevano quei luoghi: attraverso le impervie regioni della Mesia, fuggì oltre il monte Emo95. Non partecipò alla guerra civile, allungando con indugi di ogni tipo la sua marcia alla volta di Vespasiano: di volta in volta, a seconda delle notizie che riceveva, si affrettava o temporeggiava.

 

86. In Pannonia la tredicesima legione e la settima Galbiana, in cui duravano ancora dolore e ira dopo la battaglia di Bedriaco, non esitarono ad unirsi a Vespasiano, soprattutto per impulso di Primo Antonio96. Costui, un pregiudicato già condannato per falso ai tempi di Nerone, era stato riammesso all’ordine senatorio: anche questo malanno aveva portato la guerra.

Si diceva che proprio quando Galba lo aveva preposto alla settima legione, avesse più volte scritto a Otone, offrendosi come capo del suo partito; Otone non ne volle sapere ed egli non ebbe alcun ruolo nella guerra. Quando le cose si misero male per Vitellio, si buttò dalla parte di Vespasiano e gli fu di grande aiuto: attivo, abile parlatore, autentico artista nel seminare odio, abituato a profittare di discordie e sedizioni, arraffatore e prodigo insieme. In una parola: pessimo elemento in pace, di qualche utilità in guerra.

Gli accordi tra gli eserciti della Mesia e della Pannonia, coinvolsero anche i soldati della Dalmazia, pur senza subire l’influsso di legati consolari. Tampio Flaviano97 governava la Pannonia, Pompeo Silvano98 la Dalmazia, tutti e due ricchi e vecchi; ma avevano accanto il procuratore Cornelio Fusco99, nel fiore degli anni e di illustri natali. Da giovane aveva rinunciato alla dignità senatoria per sete di denaro e si era proclamato, nella colonia in cui era nato100, capo del partito galbiano. In tal modo divenne procuratore e si accostò al partito di Vespasiano, divenendo un indefesso fomentatore di guerra; gli piacevano non tanto i premi per il rischio corso, quanto il rischio stesso; ai beni stabili e sicuri preferiva le novità, le incertezze e le situazioni di non chiara soluzione.

Allora i capi flaviani cominciarono a smuovere e a scuotere tutto ciò che, qua o là, sembrava poco saldo. Mandarono lettere in Britannia alla quattordicesima legione e in Spagna alla prima, perché entrambe erano state favorevoli a Otone e contrarie a Vitellio; la Gallia fu tutta corsa da missive. In pochissimo tempo si accendeva e si estendeva la guerra, con gli eserciti illirici ormai in aperta ribellione e con gli altri che si apprestavano a seguirne il destino.

 

87. Mentre nelle province, Vespasiano e i comandanti del suo partito gestivano in questo modo le cose, Vitellio diventava ogni giorno più spregevole e torpido; si dirigeva, col peso di tutto il suo seguito, verso Roma, ma si fermava ad ogni città e ad ogni villa le quali offrissero qualche attrattiva. Lo seguivano sessantamila uomini in armi, corrotti e indisciplinati; un ancor più ampio numero di facchini e vivandieri, tutta gente più sfrontata degli schiavi; infine un gran seguito di legati e amici, incapaci di obbedire anche se sottoposti alla più ferrea disciplina.

Ingrossavano quel seguito già enorme, senatori e cavalieri che correvano, da Roma, incontro a Vitellio, alcuni per paura, molti per adulazione, gli altri (e a poco a poco tutti quanti) per non essere lasciati indietro dai partenti. Infine si aggregava a Vitellio una moltitudine di ribaldi, a lui noti per via di ignobili prestazioni: parassiti, attori, cocchieri, tutte amicizie indecorose di cui egli si compiaceva in modo sorprendente.

Nello sforzo di ammassare approvvigionamenti, tutto ne risultò prosciugato: non solo le colonie e i municipi, ma i contadini stessi e i loro campi, devastati come territorio nemico quando le messi erano già mature.

 

88. I soldati si uccidevano fra loro con stragi frequenti e orrende perché, dopo la rivolta iniziata a Pavia, era rimasto l’odio tra legionari ed ausiliari; l’unico accordo possibile tra loro risiedeva nelle malversazioni inflitte agli abitanti del luogo. La strage più grave, comunque, avvenne a sette miglia da Roma, dove Vitellio distribuiva ad ogni soldato il cibo sostanzioso che di solito si prepara per i gladiatori.

La gente si era sparpagliata per tutto l’accampamento. Alcuni, con le burle tipiche dei paesani, disarmarono dei soldati un po’ distratti, tagliando loro i cinturoni di nascosto e chiedendo poi se fossero ancora armati. I soldati non avevano l’animo disposto alle offese e non sopportarono lo scherzo; sguainarono le spade ed aggredirono la folla inerme. Fu ucciso, tra gli altri, il padre di un soldato che era lì ad accompagnare il figlio. Solo quando se ne seppe il nome e tutti ebbero compreso che si trattava di un errore, fu possibile salvare degli innocenti.

Grande tuttavia fu lo scompiglio a Roma, invasa dai soldati che avevano preceduto il grosso della truppa; cercavano di raggiungere soprattutto il Foro, vogliosi di vedere il luogo in cui Galba era caduto. Ma essi stessi non offrivano uno spettacolo di minor ferocia, irsuti, com’erano, di pelli ferine e con le loro enormi picche. Poco abituati, non riuscivano ad evitare l’accalcarsi della gente oppure cadevano per il selciato scivoloso o per gli spintoni di qualcun altro; così volavano gli insulti, poi si veniva alle mani e quindi alle armi. Anche tribuni e prefetti imperversavano da ogni parte, spargendo terrore con le loro bande di armati.

 

89. Torniamo a Vitellio. Egli si era mosso da ponte Milvio, su uno splendido cavallo, solennemente paludato101 e cinto di spada; spingeva il senato e il popolo davanti a sé e, se i consigli degli amici non lo avessero dissuaso, sarebbe entrato in Roma come in una città conquistata: allora indossò la pretesta e avanzò con le truppe in ordine di marcia. In prima fila c’erano le aquile di quattro legioni102; seguivano i vessilli di altre quattro103 e le insegne di dodici ali di cavalleria. Dopo le linee dei fanti avanzavano i cavalieri, poi trentaquattro coorti divise secondo i nomi dei popoli da cui venivano e secondo il tipo di armamento.

Davanti alle aquile avanzavano i prefetti di campo, i tribuni, i centurioni del primo ordine in veste bianca; gli altri ufficiali stavano vicini alla propria centuria splendenti di armi e decorazioni. Anche le falere e le collane dei soldati folgoravano; quell’esercito era davvero un grande spettacolo, degno di un capo ben diverso da Vitellio. Così entrò nel Campidoglio e lì abbracciò la madre, onorandola col nome di Augusta.

 

90. Il giorno dopo pronunciò uno splendido discorso su se stesso, come fosse davanti al popolo e al senato di un’altra città. Esaltava e lodava la propria energia e la propria temperanza, anche se tutti i presenti (per non dire dell’Italia intera, che aveva percorso dando scandalo per la sua inerzia e la sua lussuria) ben conoscevano le sue infamie.

Tuttavia il popolo, privo di preoccupazioni e incapace di distinguere il vero dal falso, ma ben edotto nell’arte di adulare, lo applaudiva con grida e clamori.

Quando Vitellio finse di rifiutare il titolo di Augusto, lo spinsero ad accettare, con risultato tanto vano quanto vano era stato il rifiuto.

 

91. La gente, che sempre si preoccupa dei significati riposti delle cose, prese per cattivo auspicio il fatto che, dopo aver ottenuto il titolo di pontefice massimo, Vitellio avesse emanato un editto sulle cerimonie pubbliche il 18 luglio: era quello un giorno da sempre infausto perché, proprio il 18 luglio, i Romani erano stati sconfitti al Cremerà e all’Allia104. Tanto egli era ignorante di ogni diritto umano e divino e tanta era l’incompetenza sua, dei suoi amici e dei suoi liberti, che sembrava quasi di essere tra gente continuamente ubriaca.

Vitellio si guadagnava il favore instabile della feccia: andava in giro come un privato cittadino a raccomandare i suoi candidati alle elezioni consolari, frequentava il teatro, faceva il tifo nel circo; tutti atteggiamenti gradevoli e democratici se adottati da un uomo virtuoso, ma giudicati indecorosi e vili nel ricordo del suo precedente stile di vita. Si recava in senato anche quando i senatori discutevano di affari di poco conto.

Una volta Prisco Elvidio105, pretore designato, aveva espresso un parere contrario a quello di Vitellio. Questi, in un primo tempo turbato, non andò oltre un’invocazione ai tribuni della plebe a soccorrere il suo potere contestato. I suoi amici cercavano di ammansirlo, perché temevano che la sua ira esplodesse di colpo ma egli rispose che non c’era nulla di strano nel fatto che due senatori esprimessero due opinioni politiche diverse. Egli stesso, aggiungeva, aveva più volte contraddetto Trasea106. A quel paragone impudente, molti risero. Altri trovarono conveniente proprio il fatto che avesse citato come esempio di vera gloria Trasea, invece che qualcuno dei personaggi più influenti.

 

92. Vitellio aveva messo a capo dei pretoriani Pubblio Sabino, ex prefetto di coorte, e Giulio Prisco, allora centurione107. Prisco era un protetto di Valente, Sabino di Cecina: tra i due generali, in completo disaccordo, non aveva alcun peso l’autorità di Vitellio. Cecina e Valente sostenevano il peso dell’impero; erano rosi da un odio antico che avevano in qualche modo nascosto in guerra e nella vita di caserma. Ma gli amici perfidi e anche una città in cui le inimicizie si generano con molta facilità avevano aumentato il risentimento. Vitellio si mostrava propenso ora all’uno, ora all’altro ed essi gareggiavano nella misura degli omaggi, nello sfarzo del seguito e nel numero sempre più spropositato di clienti. Ma il potere di una persona non è mai sicuro, quando diventa eccessivo.

Essi, ad un tempo, disprezzavano e temevano Vitellio, sempre oscillante tra improvvise collere e intempestive blandizie. Non per questo avevano trascurato di accaparrarsi case, giardini, beni dello stato, proprio mentre una turba di nobili, poveri fino al pianto, non trovavano alcun soccorso nell’imperatore: erano quelli che Galba aveva richiamato in patria coi loro figli. Anche la plebe condivise un provvedimento gradito ai maggiorenti della città: si concedeva ai reduci dall’esilio di ripristinare i loro diritti sui liberti108; il provvedimento, però, veniva reso vano dalle anime servili di questi che celavano il loro denaro in nascondigli segreti o presso uomini influenti. Alcuni erano passati nella casa imperiale ed erano diventati più potenti dei loro padroni.

 

93. I soldati erano sparpagliati nei portici, nei templi e in tutta la città, perché gli accampamenti erano pieni al punto che la truppa ne rifluiva a ondate: non era facile trovare il luogo delle adunate109, assolvere ai turni di guardia, mantenersi in allenamento. In mezzo alle attrattive della città e ad eccessi irriferibili, fiaccavano il corpo con l’ozio, l’animo con le libidini. Si arrivò a non aver cura nemmeno della salute: gran parte si accampò nei luoghi paludosi e malsani del Vaticano110 per cui crebbe il numero dei decessi. Il caldo insopportabile e la voglia di bagnarsi nel vicino Tevere prostrarono il fisico, facilmente aggredibile dalle malattie, delle genti di Germania e Gallia. Bisogna aggiungere lo sconvolgimento arrecato alla gerarchia militare da imbrogli e favoritismi111: venivano arruolate sedici coorti pretorie e quattro coorti urbane dotate di un organico di mille uomini ciascuna. Valente non si faceva scrupolo nel procedere ad arruolamenti in un clima di crescente illegalità in quanto sosteneva di aver sottratto Cecina stesso al pericolo. Infatti grazie al suo arrivo il partito vitelliano si era rafforzato ed egli aveva trasformato con un successo militare l’ignobile fama che accompagnava il lento procedere di Vitellio.

Tutti i soldati della Germania inferiore seguivano Valente ed è questo il motivo per cui si pensa che proprio allora la fedeltà di Cecina abbia cominciato a vacillare.

 

94. Vitellio, come era indulgente coi comandanti, così concedeva ogni libertà ai soldati. Ognuno sceglieva il servizio che più gli faceva comodo: anche se non ne aveva i requisiti, poteva entrare nelle milizie cittadine, bastava chiederlo. Di contro, ai migliori soldati che avessero espresso una preferenza in questo senso, fu concesso di restare tra i legionari o nella cavalleria.

E non mancavano certo coloro che, prostrati dalla malattia o col pretesto del cattivo clima, avevano un simile desiderio. Comunque fanteria e cavalleria persero il loro nerbo112 e ne risultò compromesso il decoro del campo, perché vi furono ammassati alla rinfusa ventimila uomini, senza procedere ad una oculata scelta in tutto l’esercito.

Durante un’assemblea cui partecipava anche Vitellio, fu chiesta la pena capitale per Asiatico, Flavo e Rufino113, capi dei Galli, per la loro militanza a favore di Vindice. Vitellio non frenava quelle espressioni, non solo per la viltà e l’ignavia che gli erano connaturate, ma anche perché era ben consapevole che incombeva il momento del donativo e che non aveva denaro per pagarlo. Dunque concedeva ogni altra cosa ai soldati.

I liberti imperiali ricevettero l’imposizione di un tributo proporzionato al numero di schiavi che avevano. E lui, smanioso solo di sperperare, costruiva scuderie per gli aurighi, infarciva i programmi circensi con spettacoli di gladiatori e di belve, giocava col denaro come se ne avesse enorme disponibilità.

 

95. Perfino il compleanno di Vitellio114 fu celebrato da Cecina e Valente con scontri tra gladiatori in tutti i quartieri della città: apparato enorme e mai visto da alcuno fino a quel giorno. Graditi al popolino e fonte di malcontento per i benpensanti furono i sacrifici funebri in onore di Nerone, su un’ara costruita nel campo Marzio. Furono pubblicamente sgozzate e cremate delle vittime. Accesero il fuoco gli Augustali, collegio sacerdotale che Tiberio aveva consacrato alla gente Giulia, come Romolo aveva fatto col re Tazio115.

Non erano ancora passati quattro mesi dalla vittoria e già Asiatico, liberto di Vitellio, uguagliava i Policliti e i Patrobii e tutti quei nomi che erano sinonimo di odiosità. In quella corte nessuno eccelleva per onestà ed energia: l’unica strada al potere consisteva nel saziare le libidini di Vitellio con sontuosi banchetti, con spese folli, con gli intrattenimenti nelle bettole.

Egli stesso pensava che fosse sufficiente godere del presente senza preoccuparsi del futuro: si valuta che in pochissimi mesi abbia dissipato nove milioni di sesterzi. Quella città grande e disgraziata che nello stesso anno aveva dovuto sopportare Otone e Vitellio, era sottoposta ad ogni vergognosa variazione di fortuna tra un Vinio e un Fabio, tra un Icelo e un Asiatico116. Poi arrivarono Muciano e Marcello117: altri uomini più che altri costumi.

 

96. La prima defezione annunziata a Vitellio fu quella della terza legione: vi provvide, per mezzo di lettere, Aponio Saturnino nel periodo antecedente al suo passaggio dalla parte di Vespasiano. Aponio non aveva scritto tutto, perplesso com’era per eventi tanto subitanei e, per giunta, quelli che stavano vicino a Vitellio, volendolo comunque adulare, gli riferivano la notizia sminuendone la portata: era stata una sola legione a ribellarsi e tutte le altre truppe gli rimanevano fedeli.

In questo senso lo stesso Vitellio parlò ai soldati: ebbe parole dure contro i pretoriani di recente congedati perché erano loro a spargere notizie tendenziose. Non vi era poi alcun timore di una nuova guerra civile; si ebbe cura di non far comparire mai il nome di Vespasiano e anzi furono mandati per la città dei soldati per tenere sotto controllo le chiacchiere della gente. Ma questo si rivelò il miglior sistema per alimentare le dicerie.

 

97. Tuttavia Vitellio fece venire le truppe ausiliarie dalla Germania, dalla Britannia e dalle Spagne, senza fretta e cercando di dissimulare lo stato di necessità. Allo stesso modo indugiavano legati e province: Ordeonio Fiacco non si fidava fino in fondo dei Batavi ed era preoccupato di una guerra che lo riguardava da vicino; Vettio Bolano non aveva mai la Britannia completamente pacifica (e nessuno dei due era del tutto affidabile). Nemmeno dalla Spagna si accorreva con prontezza, non essendovi alcun legato consolare118: i tre legati consolari, di pari diritto e pronti a far gara nell’ossequiare Vitellio nella sua buona fortuna, ora rifiutavano di condividerne il destino di sconfitto.

In Africa la legione e le coorti arruolate da Godio Macro e poi congedate da Galba, furono richiamate su ordine di Vitellio e intanto tutti gli altri giovani si arruolavano senza esitare. Il fatto si spiega con l’onestà e la popolarità che Vitellio aveva acquisito durante il suo proconsolato, mentre Vespasiano si era lasciato dietro cattivo nome e malanimo. Dal confronto gli alleati potevano congetturare quale tipo di potere i due avrebbero esercitato, ma alle prove dei fatti si dimostrò vero il contrario di quanto si poteva supporre.

 

98. In un primo tempo il legato Valerio Festo119, assecondò con entusiasmo lo zelo dei provinciali. In seguito si mise a fare il doppio gioco: ufficialmente si dimostrava favorevole a Vitellio con lettere ed editti, di nascosto scriveva a Vespasiano, pronto a prendere partito per chi avesse finito col prevalere. Alcuni soldati e centurioni, presi mentre stavano attraversando la Rezia e le Gallie con lettere ed editti di Vespasiano, furono mandati a Vitellio e uccisi. Parecchi, però, riuscirono a sfuggire, nascondendosi grazie ad amici fidati o con un atto di furberia.

Grazie a questi scampati, i preparativi di Vitellio venivano conosciuti, mentre la maggior parte dei progetti di Vespasiano era segreta: in primo luogo per l’inerzia di Vitellio poi perché le Alpi Pannoniche, fortemente presidiate, non lasciavano passare messaggeri. Anche i venti etesii120, favorevoli a chi navigava verso Oriente, ostacolavano il cammino di chi cercava di venire di lì.

 

99. Finalmente l’irrompere dei nemici e le terribili notizie che venivano da ogni parte scossero Vitellio che subito ordinò a Cecina e Valente di prepararsi alla guerra. Cecina andò avanti mentre Valente era attardato dalla fresca convalescenza di una grave malattia. L’esercito germanico, partendo da Roma, offriva uno spettacolo ben diverso da quello di poco tempo prima: senza vigore, senza entusiasmo, in schiere lente e scompaginate, con le armi che quasi cadevano di mano e con i cavalli snervati. Non erano più in grado di sopportare il sole, la polvere, il maltempo: incapaci di sostenere qualsiasi fatica e dunque pronti alla sedizione.

Bisogna tener conto anche dell’inveterata accondiscendenza e della recente pigrizia di Cecina, trascinato alla gozzoviglia da una fortuna eccessivamente benigna. Può anche essere, però, che avesse pensato di tradire, spezzando il vigore dell’esercito per calcolo.

Secondo l’opinione di molti erano stati i consigli di Flavio Sabino a scuotere l’animo di Cecina. L’intermediario era forse stato Rubrio Gallo da cui sarebbe venuta l’assicurazione della ratifica del patto da parte di Vespasiano. Nel contempo venivano ricordati a Cecina il suo odio e il suo risentimento contro Fabio Valente. Di qui l’invito a procurarsi favore e influenza presso il nuovo principe, dato che presso Vitellio ne aveva avuto meno di Fabio Valente.

 

100. Vitellio onorò con un abbraccio la partenza di Cecina. Questi mandò avanti una parte dei cavalieri per occupare Cremona. Immediatamente seguirono i distaccamenti della prima, della quarta, della quindicesima e della sedicesima legione, poi la quinta e la ventiduesima. In retroguardia marciavano la ventunesima Rapace e la prima Italica coi distaccamenti delle tre legioni di Britannia121 e con ausiliari scelti.

Partito Cecina, Fabio Valente scrisse a quelle truppe delle quali egli stesso era stato al comando, che lo aspettassero per via: erano in tal senso d’accordo lui e Cecina. Cecina profittò della sua presenza che lo rendeva più autorevole e disse che il piano strategico era cambiato: si doveva far fronte al primo urto bellico con tutta la massa dell’esercito.

Così ordinò alle legioni di affrettarsi a Cremona, mentre una parte doveva dirigersi su Ostiglia; egli si diresse verso Ravenna col pretesto di dover parlare alla flotta, ma, giunto a Padova, cercò un contatto segreto per preparare il tradimento. Infatti Lucilio Basso122, dopo essere stato prefetto di cavalleria, era stato da Vitellio messo a capo contemporaneamente delle flotte di Ravenna e del Miseno, ma voleva, con un vergognoso tradimento, prendersi la rivincita per non aver subito conseguito la prefettura del pretorio, cosa questa che gli causava un ingiustificato rancore.

Non si può dire se sia stato lui a trascinare Cecina o se sia stata la stessa inclinazione alla perversità a spingere entrambi (visto che i malvagi trovano naturali corrispondenze tra loro).

 

101. Gli storici di quel tempo, che scrissero le memorie di questa guerra quando la dinastia Flavia era in auge, tramandarono, con un travisamento certo dovuto all’adulazione, che Cecina e Basso tradirono per desiderio di pace e amore della cosa pubblica.

A me pare che (oltre alla naturale superficialità e alla lealtà che, dopo aver tradito Galba, era ridotta a puro nome) essi abbiano procurato la rovina di Vitellio per rivalità e gelosia di essere preceduti da qualcuno nei suoi favori.

Cecina, raggiunte le legioni, cercava di scalzare la fedeltà a Vitellio ancora ben salda negli animi dei centurioni e dei soldati. Basso faceva identici tentativi ma trovava più facile via al successo perché la flotta era incline a mutare atteggiamento nel ricordo del servizio recentemente prestato a Otone123.

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
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