Libro terzo

 

Il terzo libro continua la narrazione degli eventi dell'anno 69 d.C. (822 di Roma).

69 d.C.: furono consoli Gaio Fabio Valente e Aulo Alieno Cecina. Consoli aggiunti: Rosio Regolo, Gneo Cecilio Semplice, Gaio Quinzio Attico.

 

1. Sotto migliori auspici e con più sincera lealtà, i capi del partito flaviano discutevano le strategie. Erano convenuti a Petovia1 negli accampamenti invernali della tredicesima legione. Era in discussione se fosse meglio chiudere le Alpi Pannoniche (in questo caso si sarebbe atteso che tutte le loro forze si levassero insieme a tergo) o se fosse più coraggioso entrare direttamente in Italia e combattere per conquistarla.

Coloro i quali pensavano che si dovessero aspettare rinforzi e protrarre la guerra, esaltavano la forza e la fama delle legioni germaniche alle quali si era congiunto non solo Vitellio ma anche il nerbo dell’esercito britannico. Loro erano inferiori per numero di legioni (tra l’altro di recente sbaragliate) e anche se si facevano discorsi fierissimi, si sa bene che il coraggio è minore negli sconfitti. Se avessero consolidato il loro presidio sulle Alpi, nel frattempo sarebbe arrivato Muciano con le truppe orientali; a Vespasiano restavano le flotte che gli garantivano il possesso del mare e il favore delle province con cui avrebbe potuto organizzare una seconda imponente guerra. Nuove forze potevano affluire durante quella opportuna attesa, senza nulla perdere delle forze già presenti.

 

2. Contro queste argomentazioni, parlò Antonio Primo, il più acceso tra i fautori della guerra: dalla rapidità delle operazioni avevano tutto da guadagnare loro e tutto da perdere Vitellio2. Ben lungi dal prendere fiducia dei propri mezzi, i vincitori si erano impigriti; non erano stati tenuti né in assetto di guerra né radunati negli accampamenti. Si erano sparsi per tutti i municipi d’Italia: oziosi, temibili solo per chi li ospitava, tanto più pronti ad abbandonarsi ad ogni piacere, quanto più fieramente si erano comportati in precedenza.

Erano infiacchiti anche dagli spettacoli circensi e teatrali e da ogni altro piacere che la città poteva offrire; oppure erano indeboliti dalle malattie. Ma se si concedeva loro tempo, sotto la minaccia della guerra, avrebbero recuperato ogni forza. Non era lontana la Germania da cui potevano attingere forze, erano separati dalla Britannia solo da un braccio di mare, avevano vicine le Spagne e le Gallie, potevano ricevere dall’una e dall’altra parte uomini, cavalli, tributi, e l’Italia stessa e le ricchezze di Roma. Se avessero deciso di prendere le armi avevano a disposizione due flotte3 e completamente libero il mare tra Illiria e Italia. E allora a che sarebbero servite le Alpi presidiate? A che scopo differire ad un’altra estate la guerra? Dove si sarebbero trovati denaro e vettovaglie?

Bisognava invece profittare del fatto che le legioni della Pannonia (più ingannate che sconfitte) avevano smania di risorgere e vendicarsi. E inoltre gli eserciti della Mesia avevano portato forze intatte. Se si calcolava il numero degli uomini e non quello delle legioni, si sarebbe constatato che dalla loro parte vi erano più nerbo e sicura disciplina, alla quale, anzi, proprio la vergogna della sconfitta aveva giovato. E in quell’occasione nemmeno i cavalieri erano stati davvero sconfitti, se era vero che, pur in una battaglia andata male, erano riusciti a sconvolgere lo schieramento di Vitellio.

«Allora bastarono due distaccamenti della cavalleria di Pannonia e di Mesia per far breccia nello schieramento nemico: ora le insegne congiunte di sedici formazioni, col loro impeto, il loro strepito e perfino con la nube di polvere alzata, travolgeranno e sommergeranno cavalli e cavalieri non più abituati a combattere. Spero che non ci sia opposizione, perché io voglio essere il fautore del piano e il suo esecutore. Voi, la cui sorte non è ancora compromessa agli occhi di Vitellio, restate qui con le legioni; a me basteranno le coorti leggere. E presto avrete notizia che le porte d’Italia sono spalancate e respinte le forze di Vitellio. Avrete l’onore di seguirmi e di mettere i vostri piedi sulle orme del vincitore.»

 

3. Propagò questo suo sentire con lo sguardo acceso e con voce tonante per essere sentito da tutti (infatti si erano frammischiati all’assemblea centurioni e alcuni soldati). Riuscì a smuovere perfino i cauti e i guardinghi: la massa e tutti gli altri lo riempivano di lodi come unico capo e comandante, mentre invece disprezzavano l’indolenza degli altri. Antonio Primo si era creata tale fama in quell’assemblea in cui aveva letto i messaggi di Vespasiano e non li aveva commentati, come quasi tutti avevano fatto, in maniera ambigua e in modo di essere inteso in questo o quel senso secondo il volgere degli eventi: egli aveva preso posizione chiara e questo avvalorava, presso i soldati, la sua decisione di essere associato sia nella colpa che nella gloria.

 

4. Subito dopo la sua autorità, veniva quella del procuratore Cornelio Fusco. Era anche lui abituato a scagliarsi contro Vitellio al punto che non si era riservata alcuna speranza in caso di rovescio del suo partito. Tampio Flaviano, portato a temporeggiare dalla sua indole naturale e dalla sua vecchiaia, dava adito, nei soldati, al sospetto che non avesse dimenticato la sua parentela con Vitellio: in effetti era fuggito alla prima sedizione delle legioni, poi era tornato di sua volontà e si pensava che avesse cercato il modo di attuare un tradimento.

In realtà era stato il desiderio di rivolgimenti politici a spingere Flaviano a riassumere il titolo di legato e a rientrare nel vivo della guerra civile abbandonando la Pannonia e ritornando in Italia per sottrarsi ai rischi. A spingerlo era Cornelio Fusco, non perché avesse bisogno della sua opera ma affinché il titolo consolare desse una parvenza di onorabilità al partito che nasceva proprio in quei tempi.

 

5. Ad ogni buon conto fu scritto ad Aponio Saturnino di far presto a giungere con l’esercito della Mesia per portare le ostilità in Italia in tempi utili e in modo sicuro. Per non lasciare poi le province disarmate in balia delle popolazioni barbare, furono chiamati a partecipare al conflitto i principi dei Sarmati Iazigi4, che governavano quella regione. Essi offrivano anche la gran massa dei loro sudditi e la cavalleria (che è il loro vero, unico punto di forza): questa offerta non fu accettata per paura che, profittando delle discordie, pensassero a qualche macchinazione ostile o, magari, attirati da una maggiore ricompensa da parte degli avversari, andassero contro ogni diritto umano e divino. Sono attratti al partito di Vespasiano anche Sidone e Italico5, re degli Svevi, la cui sottomissione a Roma era antica e con i quali esisteva un rapporto basato più sulla fiducia che sulle imposizioni.

Furono poste al loro fianco milizie ausiliarie per la ostilità della Rezia il cui procuratore era Porcio Settimino6, fedelissimo di Vitellio. Pertanto Sestilio Felice, con il distaccamento di cavalleria Auriana, otto coorti e la gioventù norica, fu mandato ad occupare la sponda del fiume Eno7, che divide la Rezia dal Norico. Ma né dall’una né dall’altra parte si attaccò battaglia e la sorte delle parti fu decisa altrove.

 

6. Ad Antonio che, con distaccamenti delle coorti e parte della cavalleria correva a invadere l’Italia, fu compagno Arrio Varo8, il quale aveva fama di grande valore, accresciuta anche dall’aver avuto Corbulone come comandante e dai successi riportati in Armenia. Si raccontava che, sulla base di accordi segreti con Nerone, avesse messo sotto accusa proprio le virtù di Corbulone, ottenendo, con un ignobile raggiro, il grado di primipilo: grande onore, al momento, anche se ottenuto grazie a questa infamia, ma destinato a trasformarsi nella sua rovina.

Comunque, Primo e Varo, reso stabile il possesso di Aquileia, sono favorevolmente accolti in tutte le località vicine e poi a Oderzo e ad Aitino9; proprio ad Aitino lasciarono un presidio, per prevenire i movimenti della flotta ravennate di cui non si era ancora conosciuta la rivolta.

Acquisirono quindi al partito di Vespasiano, Padova ed Este. Lì si venne a sapere che le tre coorti di Vitellio e il distaccamento di cavalleria chiamato Sebosiano si erano fermati presso Foro d’Alieno, dopo aver costruito un ponte di barche. Quella parve l’occasione per assalirli mentre erano impreparati (anche questa notizia veniva riferita); e infatti all’alba ne sorpresero la maggior parte disarmati. C’era l’ordine di ucciderne pochi e di impaurire gli altri fino a costringerli a prestare nuovo giuramento. Qualcuno si arrese immediatamente, ma i più tagliarono il ponte e impedirono al nemico che incalzava di avanzare.

 

7. Non appena questa vittoria fu conosciuta e l’inizio della guerra parve subito favorevole al partito flaviano, la legione settima Galbiana e la tredicesima Gemina giungono a Padova piene di baldanza col legato Vedio Aquila: lì fu speso qualche giorno per il riposo. Minucio Giusto, un prefetto di campo della settima, fu sottratto all’ira dei soldati e mandato a Vespasiano, poiché esercitava il comando più severamente di quanto fosse conveniente durante una guerra civile.

Un atto, di cui da tempo si avvertiva il bisogno, assunse una importanza eccessiva per come Antonio lo interpretò in funzione della propria personale ambizione: Antonio ordinò infatti che le statue di Galba, abbattute in tempi di grandi discordie, fossero nuovamente innalzate in tutti i municipi; pensava infatti che la sua causa sarebbe cresciuta nella considerazione generale se si fosse diffusa l’idea che il suo modello era rappresentato dal principato di Galba e che era anzi il partito galbiano, quello che stava riprendendo vigore.

 

8. Successivamente si cercò il luogo dove fissare la base per la guerra. Parve preferibile Verona che sorge in mezzo ad una pianura utile alle cariche della cavalleria, in cui essi si ritenevano superiori: inoltre sembrava utile alla guerra in generale – ma anche al prestigio – strappare a Vitellio una colonia tanto ricca. Fu occupata, di passaggio, Vicenza: fatto di per sé irrilevante (si tratta infatti di un municipio dalle limitate risorse) ma che fu da loro giudicato di grande importanza perché lì era nato Cecina e dunque si trattava di strappare la patria a un comandante nemico. Prezioso fu l’apporto dei Veronesi che aiutarono il partito con l’esempio e con le loro risorse; l’esercito schierato tra Rezia e Alpi Giulie aveva formato una sorta di muraglia utile a impedire l’accesso alle forze germaniche da quella parte.

Vespasiano queste cose le ignorava o addirittura le vietava: il suo ordine era quello di stare fermi in Aquileia ad aspettare Muciano. Al comando aggiungeva questa considerazione: siccome controllavano l’Egitto, chiave degli approvvigionamenti, e le province più ricche e generose di tributi, potevano costringere l’esercito di Vitellio alla resa per mancanza di denaro e di vettovaglie. Gli stessi avvertimenti dava, in lettere sempre più frequenti, Muciano, col pretesto di auspicare una vittoria incruenta e senza pianti e altre cose del genere; in realtà a lui premeva una gloria personale da non spartire con nessuno. Ma c’è da dire che, per le enormi distanze, i consigli arrivavano a eventi ormai accaduti.

 

9. Antonio, con un attacco improvviso, piombò sugli avamposti nemici e dopo un combattimento di scarso rilievo che aveva l’unico scopo di provare gli animi, si ritirò senza aver acquisito un vantaggio decisivo. Subito dopo Cecina fortificò il suo accampamento tra Ostiglia, un sobborgo vicino a Verona, e le paludi formate dal fiume Tartaro10. La conformazione del luogo lo lasciava tranquillo, avendo il fiume alle spalle e le paludi ai fianchi.

Se fosse stato davvero fedele, le forze vitelliane unite avrebbero potuto schiacciare le due legioni, cui non si era ancora congiunto l’esercito della Mesia, o, respingendole indietro, costringerle a lasciare l’Italia in vergognosa fuga. Ma Cecina, con vari indugi, lasciò agli avversari i vantaggi dei primi momenti del conflitto e intanto si limitava a rimproverare con delle lettere quei nemici che avrebbe potuto tranquillamente cacciar via con le armi, in attesa che i suoi intermediari consolidassero gli accordi per il tradimento.

Nel frattempo giunse Aponio Saturnino assieme alla legione settima Claudiana. La comandava il tribuno Vipstano Messalla, uomo di illustri natali, ottima persona egli stesso e unico ad affrontare la guerra con un atteggiamento di onestà.

Cecina mandò delle lettere a queste truppe, per nulla pari a quelle vitelliane (in quel momento, infatti, non più di tre legioni): deprecava la temerità di chi brandiva armi già sconfitte. Poi esaltava il valore dell’esercito germanico; di Vitellio parlava poco e male; non rivolgeva alcuna offesa a Vespasiano: nulla vi era che sembrasse voler attirare dalla sua parte il nemico o incutergli paura.

I comandanti del partito flaviano non si curarono affatto di giustificare le loro vicende precedenti e risposero con un magnifico elogio di Vespasiano; dimostravano fiducia nella loro causa, sicurezza nei riguardi dell’esercito, aperta inimicizia contro Vitellio.

Fecero balenare a tribuni e centurioni la speranza di mantenere le concessioni fatte da Vitellio e infine esortavano apertamente Cecina stesso a passare dalla loro parte. La lettura pubblica delle lettere diede fiducia alle truppe perché era evidente che Cecina aveva scritto in tono sommesso quasi per paura di offendere Vespasiano mentre i loro comandanti si erano espressi con insulti sprezzanti nei riguardi di Vitellio.

 

10. Con l’arrivo di due legioni (la terza comandata da Dillio Aponiano11, l’ottava da Numisio Lupo) fu deciso di esibire le forze e di circondare con un vallo Verona. Per un caso fortuito la legione Galbiana ebbe l’incarico di eseguire i lavori sul lato che fronteggiava il nemico e, quando apparve da distante la cavalleria alleata, questa, scambiata per nemica, produsse un ingiustificato terrore.

Subito la paura di un tradimento spinge ad impugnare le armi. L’ira dei soldati si riversò su Tampio Flaviano: non c’era nemmeno una prova della sua colpevolezza, ma egli era odiato da molto tempo. Dunque se ne chiedeva la morte con tempestoso furore: i soldati urlavano che era un parente di Vitellio, che aveva già tradito Otone, che aveva rubato i donativi loro destinati. Flaviano non aveva alcuno spazio di difesa, sebbene tendesse le mani in gesto di supplica e si gettasse a terra, stracciandosi la veste mentre petto e bocca erano scossi dai singhozzi. Proprio questo atteggiamento eccitava ancor di più gli uomini inferociti, perché quella sua eccessiva paura sembrava una ammissione di colpevolezza.

Quando Aponio cercava di aprir bocca, la sua voce veniva coperta da quella dei soldati. E nemmeno gli altri capi venivano ascoltati in mezzo a quei clamori minacciosi. Soltanto Antonio i soldati erano disposti ad ascoltare: era l’unico abile nel parlare ed esperto dell’arte di ammansire il popolo (ed era anche l’unico a possedere l’autorità per farlo). Quando la rivolta assunse toni aspri e già si stava passando dagli insulti e dagli improperi alle armi e alle vie di fatto, Antonio ordinò che Flaviano fosse gettato in catene. I soldati capirono che si cercava di sottrarlo alla loro ira e, dopo aver disperso la guardia che proteggeva la tribuna del comandante, preparavano la violenza estrema.

Antonio oppose il petto, brandendo la spada e giurando che sarebbe morto o di sua stessa mano o per mano dei soldati; e intanto chiamava per nome ad aiutarlo chiunque conoscesse o vedesse esibire una qualche decorazione. Voltosi poi verso le insegne e i simulacri delle divinità guerriere, pregava che quel dissennato furore e quella discordia andassero a colpire piuttosto gli eserciti nemici. Alla fine la sedizione si calmò e, poiché era quasi sera, ognuno si ritirò nella sua tenda. Nella notte stessa Flaviano partì e fortuna volle che incontrasse un messaggero che recava una lettera di Vespasiano in grado di discolparlo.

 

11. Ma le legioni sembravano quasi preda di un contagio. Aggrediscono Aponio Saturnino, legato dell’esercito di Mesia, con tanta più ferocia in quanto il loro furore si era infiammato non per la stanchezza accumulata dopo un faticoso lavoro, ma a metà del giorno. Erano state infatti divulgate delle lettere che, si pensava, erano state scritte da Saturnino a Vitellio.

Una volta si gareggiava in virtù e modestia; in quell’occasione i soldati facevano invece a gara in insolenza e sfrontatezza per reclamare il supplizio di Aponio non meno violentemente di quanto avessero cercato quello di Flaviano. A dire il vero le legioni della Mesia ricordavano ai Pannonici di averli aiutati nella loro vendetta e i Pannonici, quasi sentendosi assolti dalla rivolta altrui, erano tranquilli nel commettere a loro volta quel crimine12.

Si dirigono allora nei giardini della villa dove viveva Saturnino. La salvezza non gli venne né da Primo né da Aponiano né da Messalla che pure si dettero da fare in tutti i modi. Lo salvò invece l’oscurità di un nascondiglio perché riuscì a sottrarsi alle ricerche rintanandosi nel forno di uno stabilimento di bagni casualmente non in funzione. Poi, senza scorta di littori, riparò a Padova.

Fuggiti i due consolari, il potere effettivo su entrambi gli eserciti si ridusse nelle mani del solo Antonio; i colleghi gli obbedivano e le simpatie dei soldati erano tutte per lui. E non mancò chi pensava che tutte e due le rivolte fossero state ordite dagli inganni di Antonio, che voleva essere il solo a trarre vantaggi dalla guerra.

 

12. Nemmeno dalla parte di Vitellio gli animi erano tranquilli: qui le discordie erano ancor più rovinose perché nascevano non da sospetti della truppa ma dalla slealtà dei comandanti. Lucilio Basso, prefetto della flotta ravennate, aveva attirato verso il partito di Vespasiano gli animi fino ad allora incerti dei soldati che erano per la maggior parte Dalmati o Pannonici cioè provenivano dalle province occupate da Vespasiano. Per attuare il tradimento fu scelto il buio della notte onde consentire ai rivoltosi di radunarsi nella piazza del campo, mentre gli altri ignoravano tutto.

Basso, per vergogna o per paura, se ne stava chiuso in casa ad attendere l’esito dell’evento. I trierarchi, con grande tumulto, abbattono le statue di Vitellio: uccisi i pochi che fanno resistenza, tutta la moltitudine, desiderosa di rivolgimenti, è ormai incline verso Vespasiano. Solo a questo punto Lucilio si fa innanzi e si dichiara promotore della rivolta.

La flotta sceglie come proprio prefetto Cornelio Fusco che accorre prontamente. Basso, con guardia d’onore e scortato dalle navi liburniche, è condotto ad Adria13 e lì viene gettato in catene da Vibennio Rufino14, prefetto di cavalleria e comandante del presidio locale. Gli furono però subito sciolti i ceppi per intervento di Ormo, liberto di Vespasiano: perfino uno della sua razza era influente in seno al comando15.

 

13. Cecina, appena la defezione della flotta fu nota, aspettò l’occasione in cui tutti fossero impegnati nei diversi incarichi e dunque nel campo si aggirassero poche persone. Chiama nel luogo delle adunanze i centurioni del primo ordine assieme a pochi soldati e prende ad esaltare il valore di Vespasiano e la forza del suo partito: la flotta ha defezionato, ci sono difficoltà per i vettovagliamenti, le Gallie e le Spagne sono ostili, nulla in Roma è più sicuro. In una parola: tutto volge al peggio per Vitellio. Fa poi giurare per Vespasiano cominciando con quelli che erano a parte degli eventi e poi tutti gli altri, sbalorditi per la novità. Le immagini di Vitellio vengono abbattute e vengono mandati messaggeri ad Antonio per annunciare l’accaduto.

Ma, appena il tradimento fu divulgato in tutto il campo, i soldati accorsero nel luogo delle adunate. Videro il nome di Vespasiano scritto sulle insegne e le statue di Vitellio abbattute e rimasero dapprima in silenzio. Poi di colpo presero a sfogarsi. Così in basso era dunque caduta la gloria dell’esercito germanico da dover mostrare le mani già legate e consegnare le armi senza combattere e senza versare una goccia di sangue? Ma che razza di legioni erano, alla fine, quelle avversarie? Erano legioni sconfitte, e tra loro non c’erano neanche la prima e la quattordicesima, unica forza dell’esercito otoniano, che peraltro proprio su quelle piane essi avevano disperso e sgominato.

Forse si doveva fare un regalo di migliaia di soldati – quasi fossero un gregge di schiavi – ad un bandito come Antonio. Come era possibile che otto legioni si dovessero accodare alla ciurmaglia di una sola flotta? L’avevano pensata davvero bella Basso e Cecina: portar via il principe ai suoi soldati e i soldati al loro principe, dopo che si erano impadroniti dei palazzi imperiali con tutti i giardini e tutte le ricchezze. E che mai avrebbero potuto raccontare a chi gli avesse domandato delle loro fortune e delle loro avversità, se non avessero versato una goccia di sangue e non avessero perso nemmeno un uomo? Perfino da parte dei Flaviani si sarebbero meritati il disprezzo.

 

14. Erano preda del dolore e queste cose prima le dicevano singolarmente, poi presero ad urlarle tutti assieme. Su iniziativa della quinta legione vengono riinnalzate le statue di Vitellio e Cecina viene messo in catene. Si scelgono come capi Fabio Fabullo, legato della quinta legione, e Cassio Longo, prefetto degli accampamenti16. Poi, imbattutisi per caso nell’equipaggio di tre navi liburniche, ignaro e incolpevole, lo passano per le armi. Lasciano l’accampamento, distruggono il ponte, ritornano a Ostiglia e di lì a Cremona. Vogliono ricongiungersi con la prima Italica e la ventunesima Rapace che Cecina aveva mandato avanti ad occupare Cremona assieme ad una parte della cavalleria.

 

15. Quando Antonio conobbe la situazione, decise di attaccare i nemici i cui animi erano ancora preda della discordia e le cui forze erano disorganizzate; voleva evitare che i comandanti recuperassero la loro autorità, i soldati la disciplina e le legioni, finalmente riunite, la fiducia. Congetturava infatti che Fabio Valente, già partito da Roma, avrebbe accelerato la marcia una volta conosciuto il tradimento di Cecina. E Fabio era fedele a Vitellio e certo non inesperto di arte militare. Si temeva anche l’arrivo di un forte contingente germanico attraverso la Rezia; Vitellio aveva poi chiamato rinforzi dalla Britannia, dalla Gallia e dalla Spagna: che terribile flagello sarebbe stata quella guerra, se Antonio, proprio per questo timore, non fosse sceso subito a battaglia e non si fosse procurato una vittoria preventiva! Con l’esercito al completo si trasferì, marciando per due giorni, da Verona a Bedriaco. Il giorno seguente le legioni vennero trattenute in lavori di rafforzamento mentre le coorti ausiliarie furono mandate nelle campagne cremonesi per abituarsi, sotto il pretesto di procurare vettovaglie, a depredare la popolazione civile. Egli, dal canto suo, con quattromila soldati avanzò fino a otto miglia da Bedriaco, perché il saccheggio avvenisse più liberamente. Gli esploratori, come è normale, operavano più distante.

 

16. Attorno alle undici del mattino, una staffetta a cavallo annunciò che il nemico si stava avvicinando: l’avanguardia era abbastanza sparuta ma intorno si avvertiva un diffuso rumore di truppe in movimento. Antonio rifletteva su! da farsi e in quell’attimo Arrio Varo, desideroso di mettersi in evidenza, tentò un assalto coi cavalieri più audaci. Riuscì a respingere i Vitelliani, ma senza arrecare loro grande danno; infatti, essendo accorso un gruppo più numeroso, le sorti della scaramuccia girarono e quelli che erano stati i primi inseguitori divennero anche i primi ad essere inseguiti.

Questa precipitazione non rispondeva certo al volere di Antonio il quale, anzi, ne prevedeva l’esito negativo. Esortò i suoi ad affrontare con grande coraggio la battaglia e poi dispose gli squadroni di cavalleria sui lati lasciando uno spazio vuoto al centro, utile ad accogliere Varo e i suoi cavalieri in ritirata. Le legioni ebbero l’ordine di armarsi e, per le campagne, fu dato il segnale che tutti abbandonassero il saccheggio e si recassero al combattimento per la via più breve. Intanto Varo, terrorizzato, si inserisce nel gruppo dei suoi e comunica loro il suo stesso spavento. Ne furono respinti gli illesi assieme ai feriti: e tutti erano angustiati dalla loro stessa paura e dalle difficoltà delle strade17.

 

17. In quello scompiglio, Antonio non venne meno a nessuno dei compiti di un comandante perseverante e di un forte soldato; andava incontro a chi era spaventato, tratteneva quelli che si ritiravano. Dove c’erano una fatica da affrontare e qualche speranza da alimentare, si faceva vivo con un consiglio, con un gesto, con un richiamo: riconoscibile ai nemici, ben visibile ai suoi. Arrivò, alla fine, a tale ardimento da trapassare con un’asta un portainsegne in fuga e poi, afferrato il vessillo, lo girò contro il nemico. Saranno stati un centinaio i cavalieri che, presi da vergogna a quel gesto di Antonio, si arrestarono. Invece giocò a suo favore la conformazione del luogo, dato che lì la via era più stretta ed era interrotto il ponte sul canale che, col fondo infido e le rive scoscese, impediva la fuga.

Questa pericolosa situazione (o la fortuna, se si preferisce) rinsaldò le sorti del partito già vacillanti. I Flaviani si stringono in file serrate e sostengono l’urto dei Vitelliani imprudenti nell’avanzare in ordine sparso e subito presi dal panico. Antonio incalza gli sgomenti e abbatte quelli che gli si parano davanti. Gli altri, intanto, facevano ogni cosa che balzava loro in mente: rapinavano, rubavano, portavano via armi e cavalli. Richiamati dalle grida di esultanza, quelli che poco prima vagavano dispersi e in fuga per la campagna, si mescolavano alla vittoria.

 

18. A quattro miglia da Cremona, brillarono ad un tratto le insegne delle legioni Rapace e Italica, richiamate dalla città fin lì dal felice esito (o almeno così faceva pensare l’esordio della battaglia) dello scontro vinto dai loro cavalieri. Ma quando la fortuna si girò, non aprivano varchi nello schieramento per accogliervi i respinti dallo scontro, non andavano incontro al nemico e men che meno lo contrattaccavano, sebbene gli avversari fossero stanchi per la grande corsa e per il lungo combattimento. Guidati dal caso, fino a quando le cose erano andate bene, nemmeno si erano accorti della mancanza di un capo, ma ne avvertirono il bisogno quando le sorti si capovolsero.

Piomba sulle loro file già vacillanti la cavalleria vittoriosa. Sopraggiunge anche il tribuno Vipstano Messalla con gli ausiliari di Mesia cui molti legionari tenevano dietro nonostante la velocità con cui erano condotti. Così fanti e cavalieri, frammisti fra loro, frantumarono le due legioni che avanzavano ordinatamente. La vicinanza delle mura di Cremona, se offriva qualche speranza di scampo, proprio per questo diminuiva la volontà di opporre resistenza. Antonio, però, non tentò altre iniziative, consapevole che la fatica e le ferite avevano prostrato cavalli e cavalieri in una battaglia a lungo incerta anche se, alla fine, vittoriosa.

 

19. Scese la sera e arrivò il grosso dell’esercito flaviano18. I soldati camminavano sopra mucchi di cadaveri e sulle tracce della strage appena compiuta. Quasi sembrava loro che la guerra fosse già finita: chiedono dunque di marciare su Cremona. Avrebbero accettato la resa dei cittadini o l’avrebbero espugnata. Belle parole, buone per essere pronunciate in pubblico: ciascuno sentiva in cuor suo che quella colonia19, che sorgeva in mezzo ad una pianura, poteva essere presa con un colpo di mano.

Se si attacca di notte l’ardimento richiesto è uguale, ma c’è maggiore libertà di rapina. Aspettare la luce del giorno equivaleva a subire le suppliche di pace e a doversi accontentare della fama di clemenza e di gloria in cambio dei disagi subiti e del sangue versato. Tutte cose inutili e intanto le ricchezze di Cremona sarebbero finite nelle tasche di prefetti e legati. La regola era che le città espugnate diventavano preda dei soldati, quelle che si arrendevano spettavano ai comandanti. Centurioni e tribuni non vengono ascoltati e, perché la loro voce non sia udita, i soldati sbattono rumorosamente le armi: se non vengono condotti all’assalto, sono pronti alla disobbedienza.

 

20. Antonio allora si fece strada fra i manipoli, ottenendo il silenzio con l’autorevolezza della sua presenza. Disse che non voleva che soldati tanto meritevoli perdessero la loro gloria e il loro premio. Ma compiti e responsabilità di soldati e comandanti sono ben distinti tra loro: ai primi si addice l’ardore nel combattere, ai secondi riflettere e prevedere, perché spesso un indugio fatto a ragion veduta, è più utile di un atto temerario.

Per quanto le sue forze gli avevano consentito, aveva contribuito alla vittoria impugnando le armi; ora voleva essere utile con i suoi ponderati consigli, che più propriamente rispondevano alle caratteristiche di un capo. Non potevano nascondersi le incertezze cui andavano incontro: la notte, una scarsa conoscenza della conformazione della città, la presenza dei nemici, la possibilità di cadere in agguati. Neanche di giorno e con le porte aperte si doveva entrare senza aver fatto le opportune esplorazioni. O volevano iniziare l’assalto senza vederci, senza aver individuato il luogo più accessibile, senza conoscere l’altezza delle mura o se la città dovesse essere aggredita con catapulte20 e proiettili oppure sfruttando valli e vinee?

Poi rivolse la parola ad ognuno chiedendo se avessero portato scuri e zappe e tutti gli arnesi necessari per espugnare una città. Tutti rispondevano di no ed egli li incalzava: «Le vostre mani, armate di spade e giavellotti, potrebbero abbattere o scalzare le muraglie? E se si presentasse la necessità di costruire un terrapieno o di essere protetti da plutei e graticci, ce ne staremo lì, impotenti come la gente stupida, guardando quanto è alta la torre e le altre difese? Perché non aspettiamo di essere più forti e dunque più certi della vittoria, attendendo tutte le macchine per l’assedio? E sufficiente l’attesa di una sola notte». Contemporaneamente manda facchini e vivandieri con le forze più fresche della cavalleria a Bedriaco perché portino viveri e tutto ciò che serve.

 

21. I soldati erano scontenti e già pronti a ribellarsi, quando alcuni cavalieri, che si erano spinti fin sotto le mura di Cremona, catturarono alcuni cittadini dispersi. Dalle loro indicazioni si viene a sapere che sei legioni vitelliane e tutte le forze che erano ad Ostiglia, proprio in quel giorno avevano percorso trenta miglia: sapevano del disastro subito dal loro partito e si avvicinavano per combattere. Solo allora quelle menti offuscate si lasciarono persuadere dal loro comandante.

Egli ordina di fermarsi sull’argine della via Postumia alla tredicesima legione cui, sul fianco sinistro, si era congiunta la settima Galbiana, in campo aperto; poi la settima Claudiana protetta da un canale di irrigazione (questa era la conformazione del luogo); sul fianco destro l’ottava, lungo un sentiero scoperto; infine la terza protetta da una fitta vegetazione di arbusti. Questo era l’ordine delle aquile e delle insegne, ma i soldati si erano mescolati tra loro nel buio, come capitava: il distaccamento dei pretoriani era vicino ai legionari della terza; le coorti degli ausiliari alle ali; i fianchi e le spalle erano circondati dalla cavalleria. Gli svevi Sidone e Italico, con i loro migliori sudditi, si trovavano in prima linea.

 

22. A rigor di logica l’esercito vitelliano avrebbe dovuto riposare a Cremona per recuperare le forze rifocillandosi e dormendo; così il giorno dopo avrebbe sconfitto e distrutto il nemico sfinito dalla fame e dal freddo21. Ma, siccome non hanno un capo e non obbediscono ad un piano preordinato, alle nove di sera vanno a sbattere contro i Flaviani già pronti alla battaglia e schierati.

Non sono in grado di descrivere la disposizione delle schiere disorganizzate a causa del furore e del buio, anche se alcune fonti hanno tramandato che la quarta Macedonica occupava l’ala destra; il centro era tenuto dalla quinta e dalla quindicesima coi contingenti della nona, della seconda, della ventesima britannica mentre all’ala sinistra stavano la sedicesima, la ventiduesima e la prima. Gli uomini della Rapace e dell’Italica22 si erano frammischiati a tutti i manipoli; i cavalieri e gli ausiliari erano costretti a scegliersi da soli il posto.

La battaglia durò tutta la notte: alterna, incerta, atroce, rovinosa ora agli uni ora agli altri. Non servivano né forza né ardimento e anche gli occhi più di tanto non riuscivano a distinguere. Entrambi gli eserciti combattevano con le stesse armi, e, a forza di ripeterla, tutti conoscevano la parola d’ordine; anche le insegne non aiutavano ad orizzontarsi perché succedeva spesso che un gruppo di combattenti ne strappasse una al nemico e la portasse qua e là.

Fu la settima legione, da poco arruolata da Galba, a subire la massima pressione. Ebbe uccisi sei centurioni del primo ordine e le furono anche strappate alcune insegne. Solo l’aquila si salvò grazie ad Attilio Vero23, centurione primipilo, che dopo aver fatto gran strage di nemici, aveva pagato con la vita.

 

23. Antonio chiamò i pretoriani e in questo modo riuscì a sostenere la schiera che stava cedendo; essi entrarono nel combattimento, respinsero il nemico, furono a loro volta respinti. I Vitelliani, infatti, avevano portato sul terrapieno delle catapulte per poter vibrare i loro colpi da un luogo libero e scoperto, visto che i primi proiettili erano andati a schiantarsi sugli alberi senza recar alcun danno ai nemici.

Una balista di notevoli proporzioni appartenente alla quindicesima legione scagliava enormi macigni e menava gran strage fra i nemici. E l’eccidio sarebbe stato ancor più grande se due soldati, osando una azione che avrebbe recato loro gloria e mimetizzandosi24 grazie a due scudi presi da un mucchio di cadaveri, non fossero riusciti a recidere le corde che reggevano i contrappesi delle macchine. Il fatto è sicuro, ma poiché essi furono subito trafitti, non se ne sono saputi i nomi.

Le sorti della battaglia rimasero incerte, finché, a notte inoltrata, non spuntò la luna a illuminare le due schiere ma anche a trarle in inganno. Furono più fortunati i Flaviani che ebbero la luna alle spalle: in questo modo uomini e cavalli proiettavano ombre più lunghe e i proiettili dei nemici, indirizzati verso i corpi, cadevano prima di raggiungere il bersaglio e andavano dunque a vuoto. I Vitelliani, invece, illuminati di fronte, erano del tutto senza difesa: i Flaviani li prendevano comodamente di mira come se stessero dietro un riparo.

 

24. Antonio, dove poteva riconoscere i suoi ed essere a sua volta riconosciuto, rinfocolava gli entusiasmi: a qualcuno rimproverava le sue vergogne, molti li lodava e li esortava, a tutti faceva balenare speranze e promesse. Alle legioni della Pannonia chiedeva perché avessero preso le armi: quella era la spianata su cui potevano cancellare la macchia della precedente ignominia e recuperare il loro onore.

Poi si girò verso i soldati della Mesia chiamandoli capi e promotori della guerra: inutilmente avevano minacciato e ingiuriato i Vitelliani, se poi non sapevano resistere ai loro colpi e alla loro vista. Avvicinandosi ai vari corpi, usava questi argomenti. Più lungamente parlò a quelli della terza, ricordando loro imprese più o meno recenti: sotto il comando di Marco Antonio avevano sconfitto i Parti, sotto Corbulone gli Armeni. Ed erano anche recenti vincitori dei Sarmati25. Poi, con tono duro, si rivolse ai pretoriani, chiamandoli borghesi26. Li apostrofò così: «Se non riuscirete vincitori, chi vi vorrà comandare? dove troverete un accampamento che vi accolga? Lì ci sono le vostre insegne e le vostre armi. A tutte le ignominie avete dato fondo e quindi solo la morte resta agli sconfitti».

Da ogni parte sorsero clamori e quelli della terza salutarono il sorgere del sole, come avevano appreso a fare in Siria.

 

25. Subito dopo si sparse la voce (forse fu lo stesso Antonio a metterla in giro ad arte) che Muciano era giunto e gli eserciti si erano scambiati il saluto. Sentendosi quasi sostenuti da forze fresche, i Flaviani si buttarono airattacco mentre nella schiera dei Vitelliani si aprivano dei vuoti perché i soldati, non avendo un capo, ora si stringevano ora si allargavano trasportati dalla foga o dalla paura. Quando Antonio capì che il nemico ormai cedeva, prese ad attaccarlo con le file serrate. Le file, ormai scollegate fra loro, venivano stravolte e non era possibile trovare un minimo di ordine perché ad impedirlo c’erano i veicoli e le catapulte. I vincitori, spinti dalla foga di inseguire, si spargono lungo i margini della strada.

Quella strage è da ricordare in modo particolare perché un figlio uccise suo padre. La mia fonte per il nome e per il fatto è Vipstano Messalla27. Giulio Mansueto, oriundo dalla Spagna, appartenente alla legione Rapace, aveva lasciato a casa un figlio ancora ragazzo. Questi, diventato adulto, fu arruolato nella settima da Galba.

Si trova casualmente di fronte al padre e lo stende a terra con un colpo mortale; prende a frugarlo mentre è in agonia, viene riconosciuto e a sua volta riconosce. Allora lo afferra tra le braccia ormai morente e con voce rotta dal pianto prega i mani paterni di placarsi e di non rinnegarlo come parricida. Ma quello era un delitto commesso da tutti e quasi nulla contava la responsabilità di un singolo soldato.

Tiene sollevato il corpo, scava la fossa e, insieme, rende al padre le estreme onoranze funebri. I vicini e poi molti altri se ne accorgono: allora su tutto il campo di battaglia grandi sono la meraviglia, i lamenti, l’esecrazione per una guerra crudelissima. Ma non basta questo a frenare i massacri e le spoliazioni tra parenti, tra consanguinei, tra fratelli. Tutti definiscono scellerato un evento del genere e tutti lo commettono in proprio.

 

26. Appena giunsero a Cremona, si presentò ai loro occhi unarealtà inattesa e di difficile valutazione. Durante la guerra contro Otone, i soldati germanici avevano circondato le mura di Cremona con i loro accampamenti e attorno a questi avevano costruito un vallo, rinforzandolo, per di più, con altre opere, I soldati vincitori a quella vista si arrestarono e anche i loro comandanti erano incerti sugli ordini da dare.

Era difficile organizzare un attacco con l’esercito esausto per le fatiche del giorno e della notte precedente; ed era anche rischioso, non essendoci vicino alcun aiuto. Se fossero ritornati a Bedriaco, la fatica di una marcia tanto lunga non sarebbe stata sopportata e c’era il pericolo di perdere tutto il vantaggio acquisito con la vittoria. Anche costruire trincee per difendere il campo presentava dei rischi per la vicinanza del nemico che in ogni istante poteva tentare una sortita contro soldati dispersi e intenti al lavoro.

Soprattutto era temibile l’atteggiamento dei soldati più disposti ad affrontare pericoli che a sopportare indugi. Essi riponevano le loro speranze solo in un atto temerario perché a quel punto sdegnavano ogni prudenza. Soltanto la voglia di far bottino compensava ormai le stragi, le ferite, il sangue.

 

27. Antonio dovette far sua questa disposizione d’animo e ordinò di assediare il vallo. Nelle prime fasi del combattimento venivano scagliati dardi e macigni da lontano e ne facevano le spese i Flaviani che subivano i proiettili dall’alto. Poi Antonio assegnò ad ogni legione una parte del vallo e una delle porte in maniera che lo sforzo, opportunamente diviso, permettesse di distinguere i coraggiosi dai vili. Inoltre lo spirito di emulazione e il desiderio di gloria avrebbero infiammato tutti.

Quelli della terza e della settima occuparono la strada verso Bedriaco; l’ottava e la settima Claudiana il lato destro del vallo; quelli della tredicesima raggiunsero di slancio la porta rivolta nella direzione di Brescia. Poi vi fu un piccolo intervallo, giusto il tempo di far affluire dai campi vicini zappe ed asce ed anche falci e scale: i Flaviani formano con gli scudi levati sopra le teste una compatta testuggine e vanno all’attacco.

Da entrambe le parti, si combatte come sono soliti fare i Romani: i Vitelliani scagliano macigni pesantissimi e disturbano con lance e pertiche la testuggine, scompaginandola e facendola ondeggiare. Alla fine riuscirono a compromettere del tutto la compattezza degli scudi e ad abbattere con grave strage i nemici dissanguati e straziati. L’azione degli assalitori stava già rallentando quando i comandanti mostrarono Cremona ai soldati stanchi: ormai ogni altra esortazione era del tutto inutile28.

 

28. Messalla riferisce che questo fu uno stratagemma di Ormo; Gaio Plinio29, invece, ne ritiene responsabile Antonio; non saprei a chi dar ragione ma è sicuro che né Ormo né Antonio smentirono con questo misfatto, esecrabile quanto si voglia, la loro fama e la loro vita. Ormai né il sangue né le ferite potevano distogliere i soldati dall’abbattere il vallo e squassare le porte. Salendo uno sulle spalle dell’altro e anche sulla testuggine di nuovo compattata, afferrarono armi e braccia dei nemici. Illesi e feriti, tramortiti e agonizzanti formavano un unico groviglio: si moriva in tanti modi diversi e la morte prendeva mille volti.

 

29. Lo scontro era più accanito dove combattevano la terza e la settima, e fu lì che Antonio concentrò lo sforzo con un gruppo di ausiliari scelti, in gara fra loro a chi era più determinato; i Vitelliani non riuscivano più a sostenere il loro attacco e anche i colpi vibrati dall’alto scivolavano via dalla testuggine; alla fine rovesciarono perfino una balista sugli attaccanti. Questa scompaginò e schiacciò coloro sui quali era precipitata, ma trascinò nella sua rovinosa caduta tutta la parte superiore e la merlatura del vallo. Contemporaneamente crollò sotto i lanci dei sassi una torre contigua: nel varco aperto si spingono quelli della settima in formazione a cuneo, mentre i legionari della terza divelgono la porta con le scuri e con le spade.

Le fonti sono concordi nel riferire che il primo ad entrare fu Gaio Volusio, uno della terza. Egli salì in cima al vallo e spazzò via chi resisteva: era in vista di tutti e, gesticolando e gridando, annunciò che gli accampamenti erano presi. L’irruzione fu totale: i Vitelliani, sgomenti, si precipitavano fuori del vallo. Tutto lo spazio tra gli accampamenti e le mura di Cremona si riempì di cadaveri.

 

30. A questo punto si presentarono difficoltà diverse: le alte mura della città, le torri di pietra, i rinforzi metallici alle porte, i soldati che scagliavano proiettili, il popolo di Cremona numeroso e fedelissimo a Vitellio, la gran parte dei commercianti d’Italia convenuti lì per la fiera che cadeva proprio in quei giorni. Tutta quella moltitudine aiutava i difensori, ma era anche uno stimolo per la voglia di bottino degli assedianti.

Antonio dispone che si appicchi il fuoco agli edifici più vicini alle mura, per vedere di indurre i Cremonesi a cambiar partito alla vista di così grave danno alle loro cose. I Flaviani più intraprendenti riempiono le case vicine alle mura (e soprattutto quelle che superavano in altezza le mura stesse); da lì gettano lo scompiglio tra i difensori scagliando travi, tegole, torce accese.

 

31. Già i legionari si serravano a formare la testuggine mentre dall’alto piovevano dardi e sassi, quando il partito di Vitellio cominciò a perdere coraggio e determinazione. I maggiorenti andavano via via rassegnandosi alla sorte avversa: temevano che, caduta anche Cremona, non vi sarebbe stata più alcuna misericordia e che l’ira del vincitore si sarebbe riversata non sul popolo privo di mezzi, ma sui tribuni e sui centurioni cui si poteva estorcere il premio della strage.

I soldati semplici rimanevano indifferenti al futuro perché si sentivano protetti dalla loro bassa condizione: vagavano per le strade, si nascondevano nelle case, non si curavano di chiedere la pace pur avendo ormai rinunciato a combattere. Gli ufficiali più importanti fanno sparire il nome e le statue di Vitellio. Sciolgono dalle catene Cecina che ancora era tenuto prigioniero e lo pregano di farsi patrono della loro causa: lo assediano – lui, gonfio di orgoglio e di disprezzo – con le lacrime agli occhi. Nulla è più avvilente che vedere tanti eroi invocare l’aiuto di un traditore. Poi mostrano dalle mura ramoscelli d’olivo e bende propiziatorie.

Antonio fa segno che cessi il lancio di proiettili e ordina che siano portate fuori aquile e insegne; seguiva la mesta schiera di gente inerme e con gli occhi fissi a terra. I vincitori incombevano su di loro, insultandoli e minacciando violenze. Poi, siccome i vinti offrivano il viso agli oltraggi e, deposta ogni fierezza, sopportavano tutto, si fece strada il ricordo che quegli sconfitti erano coloro che poco tempo prima avevano dimostrato moderazione, dopo aver vinto a Bedriaco.

Ma quando avanzò Cecina, in apparato consolare, con la pretesta e con i littori che gli toglievano di torno la folla, i vincitori arsero di sdegno: gli rinfacciavano la sua superbia, la sua crudeltà (a tal punto questi misfatti sono odiosi) e anche il suo tradimento. Si mise in mezzo Antonio e, dopo avergli concesso una scorta, lo mandò da Vespasiano.

 

32. Intanto la gente di Cremona era in balia dei vincitori in armi: la strage incombeva ma le preghiere dei comandanti valsero a mitigare i soldati. Antonio convoca l’assemblea e parla di magnifica vittoria e di clemenza verso i vinti. Nemmeno un cenno su Cremona, ma l’esercito, sia per connaturata propensione alla rapina sia per antico rancore, si diede a menar strage tra i Cremonesi.

Era opinione diffusa che avessero favorito Vitellio anche nella lotta contro Otone; i Cremonesi poi, con la petulanza tipica delle plebi cittadine, avevano deriso e offeso i legionari della tredicesima, incaricati della costruzione di un anfiteatro. Molte cause accrebbero il malanimo: Cecina aveva organizzato lì uno spettacolo gladiatorio; quella città era stata nuovamente base delle operazioni belliche e aveva fornito vettovaglie ai Vitelliani durante la giornata campale. Inoltre alcune donne che erano avanzate fino alla zona della battaglia, spinte dalla passione di parte, erano state uccise; infine l’occasione della fiera offriva, di una colonia già ricca, una immagine di ancor maggiore floridezza.

Gli altri comandanti poco contavano: fama e fortuna avevano esibito la persona di Antonio davanti agli occhi di tutti. Egli, per lavarsi via il sangue, si recò frettolosamente ai bagni; ebbe a lagnarsi che l’acqua era appena tiepida e una voce gli rispose che sarebbe divenuta subito caldissima. Le parole di uno schiavo gettarono su di lui tutto il malanimo, come se avesse dato l’ordine di incendiare Cremona, che già bruciava tutta.

 

33. Irruppero quarantamila uomini in armi. Anche superiore era il numero di uomini di fatica e vivandieri, pronti più di ogni altro a sfrenati atti di ferocia. Non valeva il grado sociale e non valeva l’età a scongiurare che gli stupri si congiungessero con i delitti e i delitti con gli stupri. Uomini di età avanzatissima e anche donne anziane (cioè persone che, come bottino, non valevano nulla) diventavano oggetti di scherno. Quando quei predoni si imbattevano in una fanciulla nel fior degli anni o in un bel ragazzo, se li strappavano l’un l’altro con le loro mani violente e subito era rissa mortale per contendersi la preda. Qualcuno entra nei luoghi sacri, rapina denaro ed ex-voto d’oro, ma finisce massacrato da altri più violenti di lui.

Alcuni non si accontentano di ciò che trovano; allora battono e torturano i padroni di casa per trovare anche denari nascosti. Così scavano tesori sepolti e poi, per spregio, scagliano le torce che recano in mano contro quelle stesse case che avevano spogliato e contro i templi ormai vuoti. In quell’esercito si mescolavano parlate e abitudini differenti; ne facevano parte cittadini, alleati, stranieri e ognuno di loro aveva passioni e comportamenti diversi. Ma nessuno aveva il senso della moderazione. Cremona diede di che saccheggiare per quattro giorni. Alla fine ogni luogo sacro e profano era invaso dalle fiamme. Resistette solo il tempio di Mefite30, lì, davanti alle mura salvato dal dio o forse dal luogo stesso.

 

34. Così finì Cremona, a duecentottantasei anni dalle sue origini. Era stata fondata sotto il consolato di Tito Sempronio e Publio Cornelio31, durante l’avanzata in Italia di Annibaie e come difesa dai Galli stanziati oltre il Po e da ogni altra minaccia che potesse venire da oltralpe. Poi grazie al numero dei coloni, all’abbondanza delle acque, alla fertilità del terreno, alle alleanze e ai matrimoni con altri popoli, crebbe e divenne fiorente: guerre esterne non la toccarono, anche se subì le infelici conseguenze di quelle civili32.

Antonio si vergognava del misfatto e sentiva crescere attorno a sé il risentimento; bandì dunque un editto che nessuno potesse detenere come prigioniero un cremonese; del resto quel tipo di bottino era stato reso, per i soldati, inutile dall’accordo intercorso tra tutti gli Italici di non comperare alcuno schiavo cremonese. Allora si passò ad ucciderli, ma quando questo fu risaputo, parenti e congiunti riscattavano di nascosto i prigionieri. La popolazione superstite fece poi ritorno a Cremona: piazze e templi vennero ricostruiti grazie alla generosità dei municipi vicini e con l’incoraggiamento di Vespasiano.

 

35. Il terreno, inquinato dal sangue corrotto, non consentì di tenere l’accampamento a lungo sulle rovine della città sepolta. I Flaviani, allontanatisi oltre tre miglia, raccolgono i Vitelliani dispersi e impauriti e li riordinano ciascuno intorno alle proprie insegne. Le legioni sconfitte, perché non inducessero elementi di incertezza nel prosieguo della guerra civile, furono dislocate in diversi luoghi dell’Illirico.

In Britannia e nelle Spagne furono poi spediti dei messi per divulgare notizie dell’accaduto; in Gallia fu mandato il tribuno Giulio Caleno (che era eduo) e in Germania il prefetto di coorte Alpinio Montano (che era di Treviri): entrambi erano stati dalla parte di Vitellio e dovevano servire da testimoni degli eventi. Contemporaneamente furono occupati con presidi i valichi alpini perché si sospettava che la Germania si armasse per correre in aiuto di Vitellio.

 

36. Questi, pochi giorni dopo la partenza di Cecina, aveva spinto Fabio Vaiente ad iniziare la campagna di guerra. Lui, dal canto suo, affogava ogni preoccupazione con una condotta di vita ignobile: non preparava armamenti, non rafforzava il suo esercito con le esortazioni e con l’allenamento, non si faceva vedere in pubblico. Se ne stava invece rintanato, come un torpido animale, negli angoli ombrosi dei suoi giardini: bastava buttargli del cibo per vederlo giacere impigrito. E lui aveva avviluppato, in un unico oblio, passato, presente e futuro.

Lo scosse nel bosco di Arida33, mentre giaceva in una inerzia simile alla putrescenza, la notizia del tradimento di Lucilio Basso e della defezione della flotta ravennate. Poi seppe anche di Cecina e la notizia gli provocò gioia e dolore insieme: era stato da lui tradito ma l’esercito lo aveva gettato in catene. E in quell’animo intorpidito la gioia prevalse sulla preoccupazione. Tutto allegro ritorna a Roma e in una pubblica assemblea loda la devozione dei soldati. Fa mettere in prigione Publilio Sabino, colpevole di essere amico di Cecina, e lo sostituisce con Alieno Varo.

 

37. Subito dopo rivolse ai senatori un discorso splendidamente composto e ne ebbe in cambio raffinatissime adulazioni. Su iniziativa di Lucio Vitellio fu votata una sentenza severissima nei riguardi di Cecina. Gli altri ostentavano indignazione perché un console aveva tradito lo stato, un comandante aveva tradito il suo principe, un amico aveva tradito chi lo aveva beneficato con tante ricchezze e tanti onori: sembravano partecipare al dolore di Vitellio ma in realtà sfogavano i loro rancori personali.

Non vi fu nessuno, però, che si lasciasse andare nel suo discorso a qualche rimprovero nei riguardi dei capi flaviani; mettevano sotto accusa gli sbagli e l’imprudenza degli eserciti, evitavano il nome di Vespasiano e lo citavano con una perifrasi. E ci fu perfino uno che mendicò l’unico giorno di consolato che era avanzato dal periodo previsto per Cecina34: davvero ridicolo per chi concedeva e anche per chi richiedeva. Così, il 31 di ottobre, Rosio Regolo entrò in carica e ne uscì. Gli esperti fecero notare che mai, prima di allora, era avvenuta la sostituzione di un console senza che si fosse proceduto alla destituzione del console in carica e senza una specifica deliberazione di legge. Quanto al consolato di un giorno solo c’era un precedente: quello di Caninio Rebilo, sotto la dittatura di Cesare, quando si distribuivano frettolosamente le ricompense per la guerra civile.

 

38. Si seppe in quei giorni della morte di Giunio Bleso. Molti furono i commenti cui diede luogo e io ne accolgo questa versione. Vitellio se ne stava afflitto da una grave malattia nei giardini Serviliani35; durante la notte vide su una torre vicina muoversi molte luci. Chiese di cosa si trattasse: gli rispondono che un folto gruppo banchettava presso Cecina Tusco36 e il festeggiato era Giunio Bleso; il tutto con esagerazioni circa lo splendore della festa e le licenziosità che i convitati si erano concesse. Naturalmente qualcuno pensò a mettere in cattiva luce Tusco e gli altri (e in modo particolare Bleso) che se la spassavano mentre l’imperatore stava male.

Fu evidente che l’imperatore era esasperato e che quella era l’occasione per rovinare Bleso. Quelli che erano abituati a cogliere i malumori del principe, incaricarono Lucio Vitellio della delazione. Egli era ostile a Bleso per meschine rivalità: Bleso infatti superava di gran lunga in onorabilità lui, sporco di ogni vergogna. Lucio irrompe nella camera dell’imperatore, gli si butta alle ginocchia e intanto tiene abbracciato il figlio di questi.

L’imperatore gli chiede la causa di quel trambusto. Lucio gli risponde di non essere inquieto o impaurito per sé: le sue preghiere e le sue lacrime sono per il fratello e per i figli del fratello. Era sciocco aver paura di Vespasiano che era tenuto lontano da tante legioni germaniche, dal valore e dalla devozione di tante province, da spazi enormi per terra e per mare. Lì, in città e anzi nel suo stesso seno, doveva guardarsi da un nemico che vantava i Giunii e gli Antonii come avi, che diceva di essere di stirpe imperiale e che si dimostrava generoso e cordiale con i soldati.

Tutti gli animi erano ormai rivolti a Bleso, aggiungeva, mentre Vitellio, senza star a distinguere gli amici dai nemici, si scaldava in seno un rivale che, nelle gioie di un banchetto, guardava da lontano le sofferenze del principe. Quella allegrezza era sicuramente fuori posto e Bleso doveva pagarla con una notte di morte e di dolore. E doveva anche apprendere che Vitellio era vivo, deteneva ben saldo il potere e aveva un figlio, se il fato gli avesse riservato qualcosa di doloroso.

 

39. Vitellio trepidava, combattuto tra l’idea del delitto e la paura che differire la morte di Bleso affrettasse la sua rovina; però, se avesse scopertamente dato l’ordine dell’esecuzione, si sarebbe procurato un odio feroce. Allora decise di agire col veleno, ma il sospetto del crimine fu avvalorato dalla sua evidente contentezza nel visitare Bleso. Anzi qualcuno potè udire una atroce frase di Vitellio il quale si vantò (per usare proprio le sue parole) di aver saziato gli occhi con la vista di un nemico morto.

Bleso non era solo nobile di nascita e raffinato nei costumi: in quell’occasione denotò anche perseveranza nella fedeltà. Quando la situazione ancora non era compromessa37, egli era stato circuito da Cecina e dai maggiorenti del partito vitelliano che già pensavano alla defezione e aveva perseverato nel rifiuto. Puro, alieno da qualsiasi disordine, sprezzante delle cariche distribuite con faciloneria: per questa sua mentalità, non gli interessava il principato, ma non aveva saputo evitare di sembrarne degno.

 

40. Frattanto Fabio Valente, seguito da un folto ed effeminato stuolo di prostitute e castrati, avanzava troppo lentamente per uno che deve affrontare con decisione un conflitto: portata da messaggeri veloci, lo raggiunse la notizia che Lucilio Basso aveva proditoriamente consegnato la flotta ravennate al nemico. Se avesse affrettato la marcia, avrebbe potuto prevenire le esitazioni di Cecina o almeno raggiungere le legioni prima della battaglia decisiva. Qualcuno lo ammoniva a non recarsi a Ravenna e, evitando le strade battute, a dirigersi con i più fidi verso Ostiglia o Cremona.

Altri ritenevano più opportuno far venire delle coorti di pretoriani da Roma e usarle per aprirsi un varco. Ma egli buttò via il momento buono in ripensamenti e in inutili esitazioni. Al momento non seguì nessuno dei due consigli e finì con lo scegliere una via di mezzo, che è la cosa peggiore nei momenti decisivi: non seppe essere né abbastanza audace né abbastanza prudente.

 

41. Manda una lettera a Vitellio per chiedere aiuto: si vede arrivare tre coorti e un distaccamento di cavalleria britannica: troppi per passare inosservati, troppo pochi per riuscire a far breccia. Valente, anche in un momento così delicato, non venne meno alla sua abituale infamia: godette di piaceri illeciti e macchiò le case di chi lo ospitava con adulteri e stupri. Aveva dalla sua la forza, il denaro e la disperata libidine di una fortuna ormai al tramonto.

Con l’arrivo della cavalleria e della fanteria gli fu evidente l’assurdità della sua strategia, poiché non poteva forzare le linee nemiche con una schiera tanto sparuta anche se fosse stata fedelissima. I rinforzi non si portavano certo dietro una fama di fedeltà assoluta, ma un certo senso di vergogna e il timore che derivava dalla presenza del comandante, in qualche modo li trattenevano: ma non erano vincoli stabili, trattandosi di gente che temeva i pericoli e non si curava del disonore.

Per questo timore, Valente manda innanzi le coorti verso Rimini38 e comanda ai cavalieri di proteggergli le spalle. Egli, in compagnia di quei pochi che gli erano rimasti fedelissimi nonostante le avversità, piegò alla volta dell'Umbria e di lì verso l’Etruria, dove fu raggiunto dall’esito della battaglia di Cremona.

Concepì allora un piano certamente valido e, se fosse andato in porto, dalle terribili conseguenze. Pensava di impadronirsi della flotta e di sbarcare in un punto qualunque della provincia Narbonese: là avrebbe riacceso il conflitto, sollevando le Gallie assieme agli eserciti e alle popolazioni della Germania.

 

42. La partenza di Valente demoralizzò le truppe che presidiavano Rimini e Cornelio Fusco colse l’occasione per assediarle da terra e da mare, dopo aver condotto lì il suo esercito e aver distribuito le liburniche lungo le coste vicine. Vengono occupate le piane umbre e la costiera del Piceno: l’Italia è divisa, in quasi tutta la sua lunghezza, tra Vespasiano e Vitellio dalla dorsale appenninica.

Fabio Valente si imbarcò a Pisa e dovette approdare per via del mare calmo o, forse, dei venti contrari nel porto di Ercole Moneco39. Mario Maturo, procuratore delle Alpi Marittime, era non lontano da là. Era ancora fedele a Vitellio e non aveva rinnegato il giuramento anche se tutto, lì intorno, era ormai ostile; accolse cordialmente Valente ma lo ammonì a non essere tanto temerario da entrare nella Gallia Narbonese. In quei frangenti paurosi si spezzò la fedeltà degli altri.

 

43. Il procuratore Valerio Paolino40, soldato di grande valore e amico di Vespasiano fin da prima dei suoi successi, aveva attirato al suo partito le città circostanti. Aveva chiamato a raccolta tutti i congedati da Vitellio che ben volentieri riprendevano servizio e provvedeva a munire di un presidio la colonia Forogiuliese, di grande importanza strategica per le vie di mare. Egli aveva tanto maggiore autorità in quanto era nato proprio a Foro Giulio ed era molto popolare presso i pretoriani dei quali era stato tribuno. E gli stessi abitanti, per simpatia verso un compaesano e anche per la speranza del suo potere futuro, cercavano in tutti i modi di favorirne il partito.

Queste manovre erano davvero importanti e, poiché la fama contribuiva ad ingrandirle ancor di più, produssero notevole impressione nelle menti dei Vitelliani: Fabio Valente con quattro guardie del corpo, tre amici e altrettanti centurioni tornò ad imbarcarsi. Maturo e gli altri presero volontariamente le decisioni di restare e di prestar giuramento a Vitellio. Valente, dal canto suo, giudicava il mare per lui più sicuro dei litorali o delle città, ma non sapeva cosa attendersi dal futuro, consapevole di cosa evitare ma non di chi fidarsi. Alla fine fu sbattuto dalla tempesta sulle Stecadi41, isole dei Marsigliesi, e lì fu sopraffatto dalle liburniche mandate da Paolino.

 

44. Con la cattura di Valente, tutti si volsero alle fortune di Vespasiano. L’iniziativa fu presa in Spagna dalla legione prima Adiutrice che, memore di Otone e ostile a Vitellio, trascinò anche la decima e la sesta. Nemmeno le Gallie esitarono. La popolarità acquisita da Vespasiano in Britannia, gli conciliò poi il favore di quella regione perché là egli, messo da Claudio a capo della seconda legione, si era distinto in guerra42. Qualche resistenza venne dalle altre legioni, nelle quali i più, tra centurioni e soldati, dovevano a Vitellio la loro promozione ed erano inquieti per l’avvicendamento di un principe che già avevano esperimentato.

 

45. Questo contrasto e le insistenti voci di guerra civile rinfocolarono gli ardori dei Britanni, istigati da Venuzio43. Costui era spinto da personali motivi di rancore nei riguardi della regina Cartimandua, oltre che dalla sua connaturata fierezza e dall’odio verso i Romani. Cartimandua, potente e nobile, dominava sui Briganti e aveva aumentato la sua influenza dai tempi in cui, con la proditoria cattura di Carataco, sembrava aver determinato il trionfo di Claudio Cesare: era diventata ancor più ricca e si era lasciata andare a quella corruzione che accompagna la fortuna favorevole. Ripudiò suo marito Venuzio, e associò nel matrimonio e nel regno il suo scudiero Vellocato. La dinastia fu fortemente scossa dallo scandalo: il favore della popolazione era per il marito, la crudeltà e la libidine della regina erano per l’adultero. Venuzio si diede a mettere insieme alleanze e, sostenuto anche dalla defezione degli stessi Briganti, ridusse Cartimandua allo stremo. Essa fece appello all’aiuto romano: le nostre coorti e la nostra cavalleria, dopo varie battaglie, tirarono la regina fuori dal pericolo. A Venuzio rimase il regno, a noi la guerra.

 

46. In quegli stessi giorni si sollevò anche la Germania: poco mancò che la potenza di Roma crollasse per la negligenza dei comandanti, per la turbolenza sediziosa delle legioni, per la pressione dei popoli stranieri, per il tradimento degli alleati44. Mi riservo di parlare in seguito di questa guerra (che durò a lungo), delle sue cause, di come si sia svolta.

Si sollevò anche la popolazione dei Daci, gente sempre infida e, in quei tempi, non più tenuta a freno dalla paura dell’esercito, che era stato allontanato dalla Mesia. Comunque essi erano stati tranquilli a vedere gli inizi di quella guerra; poi quando seppero che l’Italia ardeva tutta e che era lì iniziata la guerra di tutti contro tutti, assaltarono gli accampamenti invernali delle coorti e della cavalleria, riuscendo ad impadronirsi di entrambe le rive del Danubio. Già si preparavano a distruggere il campo delle legioni, quando Muciano, a conoscenza della vittoria di Cremona, contrappose loro la sesta legione: voleva evitare che l’impero fosse oppresso da due lati, come sarebbe accaduto se Daci e Germani avessero attaccato ciascuno dalla propria parte.

Come altre volte la fortuna assistette il popolo romano: Muciano portò lì le forze d’Oriente e a Cremona avevano sistemato le cose. Fonteio Agrippa45 fu trasferito in Mesia dall’Asia, provincia di cui era stato proconsole per un anno; gli furono date anche truppe dell’esercito vitelliano (perché era saggio consiglio e garanzia di pace distribuirle nelle province e impegnarle in una guerra esterna).

 

47. Ma anche le altre popolazioni si facevano sentire. Nel Ponto si manifestò un improvviso moto sedizioso ad opera di uno schiavo barbaro, un tempo prefetto della flotta dei re di quella regione. Costui era Aniceto, liberto di Polemone46, un tempo potentissimo e assai insofferente del cambiamento, quando quel regno era diventato provincia romana.

Chiamò a raccolta le popolazioni del Ponto nel nome di Vitellio facendo balenare ai più miserabili speranze di rapina. Divenuto capo di una banda di ragguardevoli proporzioni, assaltò Trapezunte47, città di antica fama, fondata dai Greci nella parte più meridionale del Ponto. Lì distrusse una coorte formata da soldati che un tempo erano stati ausiliari forniti dal re; costoro avevano poi ricevuto in dono la cittadinanza romana e portavano armi e insegne alla nostra foggia, ma conservavano l’inerzia e l’indisciplina tipica dei Greci.

Aniceto arrivò ad appiccare fuoco alla flotta: il colpo gli riuscì perché il mare non era sorvegliato avendo dovuto Muciano mandare a Bisanzio le liburniche scelte e tutti i soldati. Anzi, quei barbari facevano impunemente delle scorrerie, con navi costruite al momento. Le chiamano camare: hanno i fianchi stretti, il ventre largo e stanno insieme senza connessioni di bronzo o di ferro. Quando il mare è grosso, a seconda dell’altezza delle onde, alzano con assi il ponte delle navi, fino a ottenere una specie di cabinatura. Siccome sono costruite in modo da avere due prore e si avvalgono di remi che si possono spostare a piacere, si destreggiano in mezzo alle onde e, quando devono attraccare, lo possono fare indifferentemente e senza rischio, dall’una e dall’altra parte.

 

48. Queste vicende indussero Vespasiano48 a mandare un reparto scelto di legionari sotto il comando di Virdio Gemino49, uomo di grande esperienza militare. Egli aggredì i nemici disorganizzati e sbandati per l’avidità di preda e li costrinse a risalire sulle navi; costruì poi, con grande rapidità, delle navi liburniche e inseguì Aniceto fino alle foci del fiume Cobo50, dove godeva della protezione del re dei Sedochezi, diventato suo alleato grazie a elargizioni di denaro e di doni.

In un primo tempo, in effetti, il re voleva difendere Aniceto che lo supplicava, minacciando anche di armarsi, ma, dopo che gli fu fatto intuire un premio per il suo tradimento o, in alternativa, la guerra, egli patteggiò la rovina di Aniceto e consegnò i fuggiaschi. Così instabile è la lealtà dei barbari: in questo modo la guerra servile ebbe fine.

Vespasiano era lieto di quella vittoria: le cose gli andavano meglio di quanto avesse osato sperare e fu anche raggiunto, mentre era in Egitto, dalla notizia della vittoria di Cremona. Perciò con grande celerità si diresse su Alessandria, per aumentare, con la fame, la pressione sugli eserciti di Vitellio già in rotta e su Roma sempre bisognosa di apporti esterni. In questa logica si preparava a invadere per terra e per mare anche la provincia d’Africa, situata dalla stessa parte51, volendo provocare carestia e disordini tra i nemici chiudendo i rifornimenti di grano.

 

49. Era questo, dunque, uno sconvolgimento di tutto il mondo e la fortuna dell’impero stava passando di mano. Primo Antonio,dopo la vittoria di Cremona, non si comportava più con la stessa lealtà convinto di aver fatto molto per la guerra e che tutto il resto sarebbe stato facile. O, forse, il successo aveva messo a nudo, in un carattere come il suo, l’avarizia, la superbia e tutti i suoi vizi più riposti: percorreva l’Italia come fosse terra di conquista, blandiva le legioni come fossero sue, si preparava la scalata al potere con ogni sua parola e ogni suo atto.

Voleva che i soldati si abituassero alla disobbedienza e delegava alle legioni la sostituzione dei centurioni uccisi: con questo tipo di designazione, venivano eletti i peggiori elementi e così non erano i soldati a dovere obbedienza ai capi ma i capi erano trascinati dalla violenza dei soldati. Egli sfruttava a fini personali questo atteggiamento sedizioso teso a corrompere la disciplina: non si preoccupava dell’arrivo di Muciano, cosa più dannosa che spregiare l’autorità di Vespasiano.

 

50. In ogni modo, poiché l’inverno si avvicinava e la pianura era inondata dal Po, l’esercito si mise in marcia senza bagagli. Le insegne e le aquile delle legioni vittoriose, i soldati feriti o troppo vecchi e anche parecchi di quelli in buone condizioni furono lasciati a Verona: le coorti, la cavalleria ausiliaria, i distaccamenti di legionari venivano giudicati sufficienti per una guerra già vinta.

Si era aggregata anche l’undicesima che all’inizio aveva esitato ma, quando le cose si erano messe bene, era stata presa dall’inquietudine per non essere intervenuta; c’erano anche seimila Dalmati, truppe arruolate di recente. A capo era il consolare Pompeo Silvano, ma chi in realtà decideva era il legato della legione, Annio Basso52. Questi era apparentemente sottomesso a Silvano che però era inetto a combattere e gran perdigiorno e chiacchierone: in realtà Annio Basso, presente con tranquillo zelo a tutte le situazioni e a tutte le evenienze, dominava Silvano.

A queste truppe vennero aggregati i migliori marinai della flotta ravennate che facevano richiesta di prestar servizio nelle legioni: i vuoti che essi lasciavano nella flotta venivano colmati dai Dalmati. L’esercito coi suoi comandanti si ferma a Tempio della Fortuna53; c’erano dubbi sulla situazione generale perché era arrivata notizia che da Roma si erano mosse le coorti pretorie e si pensava anche che gli Appennini fossero presidiati. Causavano poi grande apprensione, in una regione devastata dalla guerra, la carestia e le notizie della turbolenza di quei soldati che chiedevano il clavario (con questo nome si chiama un particolare donativo)54. Non avevano provveduto né a denaro né a granaglie e l’avidità e la fretta aggravavano la situazione perché le truppe rubavano ciò che potevano ricevere in distribuzione.

 

51. A questo punto devo appoggiarmi alle mie fonti più autorevoli: tale fu il disprezzo di ogni comportamento etico che un soldato semplice chiese ai suoi capi un premio dichiarando di avere ucciso il fratello nell’ultima battaglia. Il diritto naturale non consentiva di compensare quell’atto, ma la logica militare impediva di vendicarlo: i capi differirono quel premio promettendone uno maggiore di quanto potesse essere attribuito al momento. Non si sa come sia andata a finire la vicenda (e del resto anche nelle precedenti guerre civili si erano verificati delitti di tal fatta).

Infatti, durante la battaglia che si combattè sul Gianicolo contro Cinna, un soldato pompeiano uccise suo fratello e, a quanto riferisce Sisenna, si diede la morte dopo aver compreso quello che aveva fatto55: i nostri antenati avevano ben più acuta coscienza del merito da annettere al valore e della punizione da attribuire ai delitti. Non creda il lettore che sia inutile ricordare questa e altre vicende riferite dagli antichi: ogni qual volta il fatto e il luogo lo richiederanno io citerò esempi di buon agire o di consolazioni dal male.

 

52. Antonio e i capi del partito decisero di mandare avanti la cavalleria e di esplorare tutta l’Umbria: forse qualche valico appenninico era di più facile accesso. Fu deciso anche di far venire aquile e insegne da Verona assieme a tutti soldati; quanto al resto, il Po e il mare dovevano essere riempiti di rifornimenti. Qualcuno dei capi cercava di rallentare l’azione: Antonio ormai controllava ogni cosa e forse da Muciano sarebbero venuti compensi più sicuri.

Muciano, infatti, era inquieto per una vittoria così veloce: non avrebbe partecipato in alcun modo alla guerra e alla ricompensa che ne sarebbe seguita se non si fosse personalmente impadronito di Roma. Allora prese a scrivere a Primo e a Varo56: una volta diceva loro di insistere nell’azione e la volta successiva indicava i vantaggi del temporeggiare; insomma si regolava in modo da non assumersi le responsabilità dei rovesci e da attribuirsi, a seconda di come andavano le cose, il merito dei successi.

Parlò invece più chiaro a Plozio Gripo57, accolto da poco per opera di Vespasiano nell’ordine senatorio e messo a capo di una legione, e a tutti quelli che gli erano più fedeli. Questi, tutti assieme, espressero un giudizio negativo sulla fretta di Primo e Varo, esattamente come Muciano voleva: egli, forte di questi rapporti mandati a Vespasiano, aveva ottenuto che strategie e azioni di Antonio non fossero valutate come Antonio stesso sperava.

 

53. Antonio non accettò e gettò anzi la colpa su Muciano dalle cui denigrazioni i pericoli che lui aveva corso erano stati sviliti:non misurava le parole, parlava con molta franchezza, si dimostrava alieno da ogni ossequio. Scrisse a Vespasiano una lettera chenon era rispettosa quanto era dovuto ad un principe e in cui non mancavano frecciate all’indirizzo di Muciano: era stato lui, Antonio, a spingere le legioni pannoniche a prendere le armi; lui aveva incitato i comandanti della Mesia; lui, con la sua determinazione, aveva forzato le Alpi Pannoniche. Poi ricordava l’occupazione dell’Italia e l’ostacolo decisivo imposto agli aiuti provenienti da Germania e Rezia.

Se le legioni di Vitellio, discordi e sbandate, erano state sbaragliate prima dal turbine della cavalleria e poi dall’inseguimento che i fanti avevano portato avanti di giorno e di notte, tutto questo era un suo personale e splendido merito. Quello che era successo a Cremona era nella logica della guerra: le antiche discordie civili erano costate allo stato danni ben più gravi e la rovina di molte città.

Lui non combatteva per il suo principe con corrieri e lettere, ma impugnando le armi; e non intendeva svilire il merito di coloro che, frattanto, avevano messo a posto le cose in Mesia; erano coloro cui premeva la pace di quella regione, mentre lui invece voleva la salvezza e la tranquillità d’Italia. Era stato lui, poi, ad esortare le Gallie e le Spagne (cioè le regioni più importanti della terra) a mettersi dalla parte di Vespasiano. Non voleva che le sue fatiche risultassero vane, come sarebbe accaduto se i vantaggi dei pericoli corsi fossero andati solo a chi non vi aveva partecipato. Questa presa di posizione fu subito nota a Muciano; e di qui nacquero grandi rivalità che Antonio e Muciano tennero ben deste: il primo con maggior correttezza, il secondo con astuzie che lo rendevano più implacabile.

 

54. Vitellio, dopo il disastro di Cremona, teneva nascoste le notizie della sconfitta e con questa sciocca finzione differiva i rimedi, non il malanno incombente. Non gli sarebbero mancate forze e speranze, se solo avesse preso atto della realtà e avesse adottato le decisioni opportune, ma fingeva che tutto andasse per il meglio e con queste menzogne aggravava di giorno in giorno la sua situazione. Incredibile come, nel suo seguito, nessuno aprisse bocca su questo argomento; a Roma erano proibiti i conciliaboli e così molti cittadini esageravano quei fatti che, se avessero potuto parlare liberamente, avrebbero riferito correttamente.

I comandanti nemici davano il loro contributo ad aumentare queste dicerie: quando catturavano gli esploratori di Vitellio, li portavano in giro per gli accampamenti per far loro vedere la forza dell’esercito vincitore e poi li rimandavano indietro. Vitellio li sentì tutti in gran segreto e poi li fece uccidere. Il centurione Giulio Agreste58, con ammirevole fermezza, cercava invano, in lunghi colloqui, di ravvivare il coraggio di Vitellio. E alla fine lo persuase a mandare lui stesso ad osservare le forze dei nemici e ciò che davvero era accaduto a Cremona. Non gli passò neanche per la mente di eludere Antonio con una missione segreta, ma professò apertamente l’incarico ricevuto dall’imperatore e le sue intenzioni: così potè vedere ogni cosa, Lo accompagnarono persone che gli mostrarono il luogo della battaglia, ciò che restava di Cremona, le legioni prigioniere.

Agreste ritornò da Vitellio ma questi si rifiutava di credere che fossero vere le cose riferite e per di più lo accusava di essersi fatto corrompere. Allora Agreste gli disse: «Tu hai bisogno di una prova che ti convinca del tutto e siccome la mia vita non ti serve ormai più della mia morte, ti darò motivo di credere». Si allontanò e confermò la verità delle sue parole uccidendosi. Alcuni dicono che sia stato ammazzato per ordine di Vitellio, ma sulla sua fedeltà e sulla sua fermezza tutte le fonti concordano.

 

55. Per Vitellio fu quasi un risveglio dal sonno. Mandò Giulio Prisco e Alieno Varo con quattordici coorti pretorie e tutti i reparti di cavalleria a bloccare l’Appennino; tenne loro dietro una legione formata da militari di marina. Tante migliaia di armati, il fior fiore degli uomini e dei cavalli, avrebbero avuto forza bastante per sferrare una controffensiva: ma sarebbe servito un altro comandante.

Le altre coorti Vitellio le affidò a suo fratello Lucio per difendere Roma; dal canto suo egli non rinunciava a nulla del suo lusso e, siccome la diffidenza determinava in lui la fretta, precipitava lo svolgimento delle operazioni elettorali59, con le quali designava i consoli per molti anni a seguire. Poi elargiva concessioni di ogni tipo agli alleati e il diritto latino a popoli forestieri; a qualcuno condonava tributi, ad altri concedeva delle immunità. Insomma straziava l’impero senza alcuna preoccupazione per il futuro. Ma il popolo pareva istupidito da quella pioggia di benefici e i meno accorti erano disposti a pagargli belle somme di denaro. Chi era più saggio si rendeva conto che non valevano nulla perché non si potevano né dare né ricevere senza rovinare lo stato.

Alla fine, su richiesta delle truppe di stanza a Mevania60, Vitellio giunse negli accampamenti con un grande codazzo di senatori, molti trascinati dall’ambizione, i più dalla paura: il suo animo era oscillante e alla mercé di consigli interessati.

 

56. Mentre stava tenendo un discorso – fatto prodigioso – uno stormo di uccelli di malaugurio gli volò davanti: erano tanto numerosi da velare con una nube nera la luce del giorno. Un altro sinistro presagio si aggiunse: un toro scappò dall’altare e sconvolse tutto ciò che era stato disposto per il sacrificio; per questo fu abbattuto lontano e non secondo il rituale.

Ma a richiamare l’attenzione di tutti era Vitellio in persona: non sapeva nulla di arte militare ed era incapace di decidere qualsiasi cosa. Così andava chiedendo in giro come dovesse marciare l’esercito, come si dovessero organizzare le missioni d’esplorazione, in che misura la guerra dovesse essere affrettata o dilazionata. Ad ogni notizia che arrivava, prima si mostrava ansioso nel volto e nell’incedere, poi finiva con l’ubriacarsi. Alla fine, disgustato dalla vita di caserma e dalla notizia che la flotta del Miseno era passata al nemico, tornò a Roma; e a ogni nuovo insuccesso che gli veniva annunziato, il suo terrore cresceva. Non per questo aveva nozione dell’insuccesso ultimo ormai vicino.

Infatti, pur avendo la possibilità di passare TAppennino con un esercito dalle forze integre (e pur essendo il nemico afflitto dalla fame e dal freddo), prese a disperdere le forze e ad esporre i suoi più coraggiosi soldati, quelli che lo avrebbero seguito fino alla fine, alla cattura e alla morte. Non ascoltava nemmeno i più esperti centurioni: sarebbe stato sufficiente interrogarli per sapere la verità. Ma a tenerli lontani ci pensavano i più intimi amici di Vitellio, perché le orecchie del principe ormai erano sorde a tutto ciò che poteva suonare sgradevole, anche se utile. Vitellio ascoltava solo le piaggerie che lo stavano trascinando alla rovina.

 

57. Ma intanto (poiché grandissimo è, nelle discordie civili, il valore anche dei singoli atti di audacia) il centurione Claudio Paventino61, a suo tempo licenziato con infamia da Galba, convinse la flotta del Miseno alla defezione, esibendo false lettere in cui Vespasiano prometteva ricompense per il tradimento. Comandava la flotta Claudio Apollinare62, un uomo non solo incapace di incondizionata lealtà ma anche irresoluto nel tradimento. Apinio Tirone63, ex pretore e casualmente presente a Minturno, si propose come capo dei disertori. Costoro trascinarono municipi e colonie: Pozzuoli fu la principale città che passò a Vespasiano, mentre Capua rimase fedele a Vitellio (e così accadeva che rivalità municipali si mescolassero al conflitto civile).

Vitellio scelse Claudio Giuliano64 con l’intento di blandire l’animo dei soldati, visto che costui era stato poco prima capo della flotta del Miseno e non aveva calcato la mano in fatto di disciplina; gli fu data in aiuto una coorte urbana e quei gladiatori di cui Giuliano stesso era a capo. Quando le forze rivali vennero a contatto65, Giuliano non ci mise molto a decidersi e passò dalla parte di Vespasiano; insieme occuparono Terracina, protetta più dalle sue mura e dalla conformazione del luogo che dal talento militare dei suoi difensori.

 

58. Quando Vitellio venne a sapere queste cose, lasciata a Narni66 una parte delle truppe con dei prefetti del pretorio, mandò suo fratello Lucio con sei coorti e cinquecento cavalieri ad opporsi ai nemici che stavano piombando su di loro attraverso la Campania. Profondamente depresso, si rianimava un po’ alle dimostrazioni di favore dei soldati e alle voci del popolo che chiedeva le armi: illudendosi, dava il nome di esercito e di legioni a quella massa di vigliacchi, brava a combattere solo a parole.

I suoi liberti (tra gli amici, i più famosi erano i meno fidati) lo esortarono a convocare le tribù e ad arruolare degli uomini che subito prestarono giuramento. L’afflusso di gente fu grande ed allora egli ripartì tra i consoli l’incarico di scegliere le reclute; poi impose ai senatori un tributo in argento e in schiavi. I cavalieri romani offrirono aiuto e denaro, mentre i liberti chiedevano quello stesso obbligo di loro spontanea iniziativa. Quella simulazione di buona volontà, che in realtà nasceva dalla paura, egli la interpretava come simpatia nei propri riguardi. I più compiangevano non tanto Vitellio quanto quella situazione che a tal punto avviliva il principato.

Vitellio, da parte sua, cercava di suscitare commiserazione atteggiando il volto, implorando, piangendo; largheggiava in promesse perfino esagerate, come succede sempre a chi è pavido di carattere. Anzi: arrivò perfino a voler essere chiamato Cesare, titolo che, in precedenza, aveva sempre rifiutato; ora, però, lo aveva preso la superstizione del nome: quando si è colti dal terrore, si ascoltano tanto i consigli dei saggi che le chiacchiere della gente.

Del resto (come in tutte le azioni che, intraprese con tanto slancio e poca riflessione, all’inizio vanno bene, ma poi, col tempo, perdono vigore) senatori e cavalieri presero a defilarsi poco a poco, dapprima esitanti e profittando delle sue assenze, poi senza riguardo e senza badare al sottile. Poi Vitellio, vergognandosi di aver chiesto dei tributi che nessuno gli pagava, finì col condonarli.

 

59. L’occupazione di Mevania e la guerra che sembrava riardere di colpo, avevano terrorizzato l’Italia, ma la pavida ritirata di Vitellio aveva più decisamente convogliato le simpatie sul partito flaviano.

I Sanniti, i Peligni e i Marsi, stimolati dalla competizione con la Campania che li aveva prevenuti, erano sempre pronti a tutte le incombenze della guerra, come di solito accade quando si cambia padrone.

Ma quell’inverno era particolarmente rigido e l’esercito incontrò grandi difficoltà nell’attraversare l’Appennino: pur in assenza di azioni di disturbo nemiche, la neve rappresentò un notevole ostacolo e se non ci avesse pensato la fortuna a far indietreggiare Vitellio era chiaro che si sarebbe dovuto affrontare una prova durissima: del resto la fortuna intervenne a favore dei capi flaviani non meno spesso della loro abilità.

In questa occasione avvenne l’incontro con Petilio Ceriale67, che aveva eluso la custodia di Vitellio travestendosi da contadino e grazie alla conoscenza della regione. Ceriale era parente stretto di Vespasiano e siccome godeva di una qualche fama in campo militare, fu accolto tra i comandanti.

Molti hanno raccontato che anche a Flavio Sabino e Domiziano68 si aprì una possibilità di fuga e davvero messaggeri di Antonio riuscirono a mettersi in contatto con loro grazie a diversi stratagemmi e a indicare l’occasione e anche la scorta. Ma Sabino trovò la scusa di una malattia che lo rendeva inabile alla fatica e agli atti di ardimento.

A Domiziano non mancava il coraggio ma temeva il tradimento delle guardie che Vitellio gli aveva messo a fianco, anche se queste promettevano che gli si sarebbero associate nella fuga.

C’è da dire che Vitellio non preparava alcuna crudeltà nei riguardi di Domiziano usando nei suoi confronti lo stesso rispetto che aveva per i propri congiunti.

 

60. I capi del partito arrivarono a Carsule69 e si presero qualche giorno di riposo nell’attesa che arrivassero le legioni con aquile e insegne. Particolarmente amena era la località dove sorgeva l’accampamento : si poteva sorvegliare tutto il territorio circostante, c’era sicurezza nei rifornimenti e alle spalle sorgevano fiorenti municipi. E inoltre si nutriva la speranza di poter avere dei colloqui coi Vitelliani, separati da appena dieci miglia, e di poterli indurre al tradimento. Non erano d’accordo i soldati che preferivano una vittoria sul campo alla pace, al punto da non voler neanche aspettare le loro legioni che avrebbero avuto come compagne, più che nei pericoli, nella spartizione del bottino. Antonio li convocò e disse loro che Vitellio aveva ancora delle forze: irresolute se si andava a delle trattative, temibili se costrette alla disperazione. Se gli inizi di una guerra civile sono legati alla fortuna, la vittoria deve essere conquistata anche con la prudenza e col calcolo. Già la flotta del Miseno e la stupenda costiera campana si erano staccate da Vitellio: a lui restava, di tutto il mondo, nulla più che il territorio tra Terracina e Narni.

Abbastanza gloria si erano procurati con la vittoria di Cremona, ma, distruggendola, si erano attirati anche grande odio: non dovevano desiderare di conquistare Roma, che invece andava salvata. Ben maggiori compensi avrebbero avuto e anche gloria assai superiore se, senza spargere sangue, avessero assicurato l’incolumità al senato e al popolo romano. Con queste e simili considerazioni Antonio riuscì a placare l’animo dei soldati.

 

61. Le legioni non tardarono molto ad arrivare. Le coorti di Vitellio erano ormai preda dell’incertezza a causa della paurosa notizia che l’esercito flaviano si era notevolmente rafforzato; nessuno esortava a combattere e piuttosto si pensava alla diserzione da parte di quelli che gareggiavano nel consegnare centurie e squadroni al nemico: un dono per il vincitore, una ricompensa per sé in un immediato futuro. Da costoro si seppe che Terni, nella campagna vicina, era presidiata da appena quattrocento cavalieri.

Fu mandato immediatamente Varo con soldati armati alla leggera: uccise i pochi che resistevano, mentre tutti gli altri gettavano le armi e chiedevano misericordia. Alcuni riuscirono a fuggire negli accampamenti, riempendoli di terrore perché nelle loro parole venivano ingigantiti il valore e il numero dei nemici: in questo modo diminuiva il disonore per aver abbandonato la difesa.

I Vitelliani non pensavano nemmeno a punire quell’atto indecoroso: la loro fedeltà era venuta meno in considerazione dei premi promessi ai disertori e ormai si faceva a gara a chi tradiva prima. Le diserzioni di tribuni e centurioni erano sempre più frequenti. Rimanevano invece ostinatamente fedeli a Vitellio i soldati semplici, fino a quando Prisco e Alieno scappando dal campo e ritornando da Vitellio, tolsero a tutti le remore che potevano avere a tradire.

 

62. In quegli stessi giorni Fabio Valente, che si trovava imprigionato ad Urbino, venne giustiziato. La sua testa fu mostrata alle coorti di Vitellio, per togliere loro ogni speranza: infatti tutti credevano che Valente fosse riuscito a scappare in Germania e che lì stesse chiamando a raccolta vecchi e nuovi eserciti: la prova dell’avvenuta esecuzione li gettò nella disperazione. Dal canto suo l’esercito flaviano accolse con straordinario entusiasmo la notizia della morte di Valente, come se fosse la fine della guerra.

Valente era nato ad Anagni70 da famiglia equestre: dissoluto nei costumi, di ingegno non spregevole, aveva cercato sempre di crearsi la nomea di eleganza attraverso la dissipatezza. Ai ludi Giovenali71 recitò dei mimi quasi per obbligo, poi ci prese gusto e, più mestierante che artista, lo fece di sua spontanea volontà. Divenuto comandante di legione prima favorì, poi calunniò Verginio; uccise Fonteio Capitone dopo averlo corrotto o forse perché non era riuscito a corromperlo. Tradì Galba e fu fedele a Vitellio: fu nobilitato dal fatto che la sua slealtà scompariva di fronte a quella di altri.

 

63. Da nessuna parte provenivano motivi di speranza e allora i soldati di Vitellio, ormai disponibili a cambiar partito ma decisi a farlo con decoro, scesero nella pianura sottostante a Narni con insegne e bandiere. L’esercito flaviano, pronto ed equipaggiato come se fosse imminente la battaglia, stava in formazione serrata tutto intorno alla strada. I Vitelliani furono accolti nel mezzo dell’esercito flaviano: quando li vide del tutto circondati, Primo Antonio parlò loro in termini di clemenza, ordinando che alcuni si fermassero a Narni e parte a Terni. Furono lasciate con loro alcune delle legioni vincitrici; non opprimenti se stavano tranquilli, sufficienti a reprimerli se si fossero ribellati.

In quei giorni Primo e Varo offersero più volte a Vitellio salvezza, denaro e un appartato rifugio in Campania: doveva deporre le armi e consegnarsi con i figli a Vespasiano. Muciano scriveva lettere dello stesso tenore: Vitellio, tutto sommato, se ne fidava e discuteva anche del numero dei servi e su quale parte del litorale sarebbe caduta la sua scelta. Una tale torpidezza si era impadronita del suo animo che si sarebbe perfino dimenticato di essere stato imperatore se non se ne fossero ricordati gli altri.

 

64. I maggiorenti della città, badando a non scoprirsi, incitavano Flavio Sabino, prefetto di Roma, a prendersi la sua parte di vittoria e di gloria: egli controllava i soldati delle coorti urbane e non gli sarebbe mancato l’appoggio delle coorti di vigili e dei loro schiavi; aveva con sé la fortuna del partito e il favore generale inclina sempre dalla parte di chi vince. Non poteva rimanere indietro, sul piano dei meriti, né ad Antonio né a Varo.

A Vitellio non erano rimaste che poche coorti e tutte inquiete per le cattive notizie che arrivavano da ogni parte; il popolo aveva animo mutevole e, se si fosse proposto come capo, le stesse adulazioni sarebbero andate a Vespasiano. Quanto a Vitellio, già impari alla buona fortuna, stava precipitando nell’abisso di quella avversa. Occupasse Flavio Sabino la città e così gli sarebbe spettato il merito di aver concluso la guerra. Il compito di Sabino era chiaro: custodire il principato per il fratello (e Vespasiano si sarebbe preoccupato di far passare tutti gli altri dietro a Sabino).

 

65. Vecchio e debole com’era, non riusciva a sentirsi rincuorato da quelle parole. Qualcuno nutriva il segreto sospetto che egli ritardasse il successo del fratello per invidia e gelosia. A dire il vero, quando entrambi erano privati cittadini, Flavio Sabino, che tra i due era il più anziano, superava Vespasiano in autorevolezza e patrimonio. Si dice anzi che egli avesse sostenuto con metodi da usuraio il credito traballante di Vespasiano, concedendogli una ipoteca sulla sua casa e sui suoi terreni. Dunque ufficialmente andavano d’accordo ma forse vi erano dissapori nascosti.

Secondo una interpretazione più benevola, Flavio Sabino era uomo mite e alieno da qualsiasi spargimento di sangue: per questo aveva sempre più frequentemente parlato con Vitellio della pace e di come deporre, con un onorevole accordo, le armi. Ebbero parecchi incontri in privato e alla fine, come si racconta, strinsero un patto nel tempio di Apollo72. Cluvio Rufo e Silio Italico73 furono testimoni dei termini dell’accordo e di ogni parola che i due si scambiarono; ma anche a chi guardava da lontano erano evidenti le espressioni dei volti: avvilito e senza alcun decoro Vitellio, non insolente e anzi atteggiato a pietà Sabino.

 

66. Se Vitellio avesse potuto piegare l’animo dei suoi con la stessa facilità con cui egli stesso aveva ceduto, l’esercito di Vespasiano sarebbe entrato in Roma senza alcuno spargimento di sangue. Del resto i più fedeli a Vitellio rifiutavano patteggiamenti e condizioni di pace: ne sottolineavano, anzi, il pericolo e il disonore (senza contare che gli sconfitti sono sempre in balia del vincitore).

Vespasiano non sapeva se la sua superiorità gli consentiva di tollerare un Vitellio privato cittadino, ma nemmeno gli sconfitti lo avrebbero sopportato: troppo pericolo da un atto di misericordia. Certo, Vitellio era un vecchio che in vita sua si era saziato di ogni prosperità e di ogni avversità, ma a suo figlio Germanico quale nome sarebbe spettato, quale condizione? In quel momento si ricevevano promesse di denaro, di mantenimento del seguito, di un sereno soggiorno sulle coste della Campania. Ma quando Vespasiano avesse preso pieno possesso dell’impero, non sarebbe tornata tranquillità per sé, per i suoi amici, per i suoi eserciti se non dopo aver eliminato il rivale.

Fabio Valente, in catene e per di più tenuto in serbo per le situazioni difficili, era risultato troppo molesto; a più forte ragione Primo, Fusco e il campione del partito, Muciano non avevano che una sola possibilità: eliminare Vitellio. Cesare non potè lasciar scampo a Pompeo, né Augusto ad Antonio. Ed era improbabile che Vespasiano nutrisse un più eletto spirito di riconoscenza per i benefici ricevuti da Vitellio, quando questi era collega di Claudio74.

Almeno la censura del padre, i suoi tre consolati, i tanti titoli onorifici di un casato illustre spingessero Vitellio, se non altro per disperazione, ad un gesto di audacia! I soldati gli rimanevano fedeli, non gli mancava il favore popolare: nessun disastro poteva essere peggiore di quello al quale stavano andando spontaneamente incontro. Morte sarebbe toccata nella sconfitta, morte nella resa; vi era una sola differenza: esalare l’ultimo respiro tra scherni e insulti, oppure compiendo un atto di valore.

 

67. Ma Vitellio era sordo a ogni esortazione al coraggio. Il suo animo si deprimeva sempre di più nell’autocommiserazione e nella preoccupazione che, persistendo la resistenza armata, il vincitore sarebbe stato implacabile verso sua moglie e i suoi figli. Vitellio aveva anche una madre, donna vecchissima, che tuttavia, con una morte tempestiva, prevenne di pochi giorni lo sterminio della casata; dal principato del figlio non aveva ottenuto nulla, se non pianto e una personale fama di bontà.

Il 18 dicembre Vitellio seppe della defezione della legione e delle coorti che si erano arrese a Narni; vestito a lutto, esce dal Palazzo, attorniato dai servi in lacrime. Lo segue, su una piccola lettiga, il figlioletto, abbigliato come per una cerimonia funebre: piene di lusinghe, ma del tutto fuori luogo, erano le grida della gente, minaccioso il silenzio dei soldati.

 

68. Quello spettacolo avrebbe commosso anche la persona più insensibile davanti ai drammi umani: un principe romano, fino a poco tempo prima signore di tutti gli uomini della terra, lasciava la sede della sua fortuna e usciva dall’impero, passando in mezzo al popolo e per le vie di Roma. Mai si era visto o sentito raccontare qualcosa del genere. Un improvviso atto di violenza aveva ucciso il dittatore Cesare e Caligola era rimasto vittima di un complotto segreto; la fuga di Nerone si era perduta nel buio della notte e in una sconosciuta campagna; Pisone e Galba erano morti come durante un combattimento.

A Vitellio invece accadeva durante un’assemblea da lui convocata, tra i suoi soldati, anche sotto gli occhi delle donne; fu capace di dire solo poche parole che si accordavano al clima di generale tristezza: egli si ritirava avendo di mira la pace e il bene dello stato; implorava anche che si conservasse memoria di lui e si usasse pietà nei riguardi del fratello, della moglie, dell’età innocente dei figli. Poi alzava tra le braccia il figlioletto raccomandandolo ora a qualcuno in particolare ora a tutti i convenuti. Il pianto gli impedì di continuare e allora si sfilò dal fianco il pugnale, simbolo del diritto di vita o di morte sui suoi concittadini, e cercò di consegnarlo al console che gli stava a fianco, Cecilio Semplice.

Il console rifiutò, ma anche tutti i presenti protestavano. Allora egli si mosse per deporre le insegne imperiali nel tempio della Concordia75 e per raggiungere la casa del fratello. Si alzarono più forti le grida della folla che si ribellava nel vederlo entrare in una casa privata e voleva che tornasse al Palazzo. Ogni altro accesso gli era precluso: poteva passare solo andando nella direzione della via Sacra76. Allora, incapace di prendere qualsiasi decisione, tornò al Palazzo.

 

69. La notizia della sua abdicazione all’impero si era già diffusa e Flavio Sabino aveva già scritto ai tribuni delle coorti di tenere a bada i soldati. Così, dunque, come se già Vespasiano stringesse in pugno tutto l’impero, i più influenti esponenti del senato, la maggior parte dei cavalieri, le milizie urbane e i vigili riempirono la casa di Flavio Sabino. Qui vengono rese note le intenzioni della folla e le minacce delle coorti germaniche.

Troppo avanti si era spinto Sabino, per poter tornare indietro. Tutti gli altri temevano che i Vitelliani li sorprendessero disorganizzati e perciò ancora più indifesi; così spingevano ad armarsi lui che a sua volta esitava. Come spesso accade in situazioni di questo tipo, tutti erano bravi a dar consigli, ma pochi erano disposti ad affrontare personalmente il pericolo. Alcuni fedelissimi di Vitellio si imbatterono nella scorta armata di Sabino, mentre scendeva verso il lago Fundanio77: ne nacque una zuffa, più che una battaglia, e i Vitelliani ebbero la meglio.

Sabino, vista la cattiva parata, prese la decisione in quel momento più sicura e si rifugiò sulla rocca capitolina78, con un gruppo dei suoi soldati a cui erano frammisti alcuni senatori e cavalieri: non mi sarebbe facile ricordarne il nome perché, dopo la vittoria di Vespasiano, furono in molti ad arrogarsi falsamente quel merito verso il partito. Subirono l’assedio anche alcune donne, la più famosa delle quali era Verulana Gradila79 che non seguiva in quella vicenda né figli né parenti, ma semplicemente la guerra.

I soldati di Vitellio strinsero un assedio a maglie molto larghe tanto che, a notte inoltrata, Sabino riuscì a far salire sul Campidoglio i suoi figli e il figlio di suo fratello, Domiziano. Gli riuscì anche, per vie non custodite, di mandare ai comandanti flaviani un messaggio in cui annunciava che erano assediati e che, se non avessero ricevuto aiuto, la situazione sarebbe diventata insostenibile. Trascorse la notte in modo tanto tranquillo che avrebbe potuto allontanarsi senza rischio: i soldati di Vitellio erano certo gran combattenti, ma poco inclini alle fatiche e alle veglie di guardia. Per di più un rovescio di pioggia gelida chiuse occhi e orecchie a tutti quanti.

 

70. All’alba, prima che iniziassero le reciproche ostilità, Sabino mandò a Vitellio il primipilare Cornelio Marziale: questi doveva fare le rimostranze per il tradimento dei patti. Evidentemente l’abdicazione era stata una messa in scena, una farsa tesa a imbrogliare tanti uomini illustri. Perché, muovendo dai rostri80, si era recato alla casa del fratello che sovrastava il Campidoglio e dunque aveva attirato la malevola attenzione di tutti? Perché invece non si era recato sull’Aventino, a casa di sua moglie? Questa sarebbe stata una buona soluzione per un privato che volesse rendere evidente la sua rinuncia al potere.

Invece Vitellio era tornato al Palazzo, cioè proprio nella roccaforte dell'impero. Di lì aveva sguinzagliato un manipolo di armati e aveva disseminato di cadaveri di innocenti il quartiere più popoloso della città, e nemmeno il Campidoglio era stato risparmiato. Sabino continuava dicendo di essere un semplice cittadino e uno fra i tanti senatori: mentre tra Vespasiano e Vitellio si stava disputando il potere sull’impero con battaglie che coinvolgevano eserciti interi, con la cattura di città, con la resa di coorti; mentre le Spagne, le Germanie e la Britannia erano in pieno sommovimento, lui (che di Vespasiano era solo il fratello) era rimasto fedele, finché, e non certo per sua iniziativa, era stato chiamato a trattare.

La pace e la concordia sono utili ai vinti, per i vincitori possono diventare soltanto belle parole. Se si era pentito dell’accordo, non doveva attentare alla sua vita, a prezzo di un tradimento, e a quella del figlio di Vespasiano che era appena un ragazzo81. Che vantaggio poteva venire dall’assassinio di un vecchio e di un adolescente? Piuttosto doveva andare incontro alle legioni nemiche e contro di loro combattere per il potere: tutto il resto sarebbe stato conseguente all’esito della battaglia.

Vitellio ne rimase sconvolto. Rispose poche parole per giustificarsi, dando la colpa di quanto era avvenuto ai soldati, il cui ardore era stato eccessivo rispetto alla sua capacità di tenerli a freno. Consigliò a Marziale di andarsene attraverso una porta segreta del palazzo per non essere individuato dai soldati come intermediario di una pace impopolare e ucciso. Lui ormai non era più in grado né di dare ordini né di impedire qualcosa: non più principe, ma solo pretesto di guerra.

 

71. Marziale era appena tornato sul Campidoglio, quando arrivarono i soldati furibondi: non li comandava nessuno, tutti erano lì di loro iniziativa82. Gli assalitori superano di slancio il Foro e i templi che lo dominano; in ordine di battaglia salgono il pendio antistante fino al primo ingresso della rocca capitolina. Su un lato del pendio (a destra di chi sale) sorgeva dai tempi più antichi un porticato: salendo sui tetti di questo, i difensori colpivano con sassi e tegole i Vitelliani.

Costoro erano armati solo di spade e far venire macchine o armi da lancio sembrava richiedere troppo tempo; allora scagliarono torce contro la parte anteriore del portico. Seguendo il fuoco sarebbero entrati attraverso le porte del Campidoglio bruciate, se Sabino non avesse innalzato una sorta di muro, proprio in quell’accesso, dopo aver abbattutto ovunque le statue, monumento delle glorie degli avi.

Allora gli assalitori si riversarono sugli altri accessi, l’uno opposto all’altro, del Campidoglio: si tratta dell’asilo e dei cento gradini per cui si sale alla rupe Tarpea. L’uno e l’altro attacco furono improvvisi, ma quello dalla parte dell’asilo portava una minaccia più vicina e temibile. Non c’era modo di fermare quelli che salivano lungo gli edifici contigui l’uno all’altro, edifici molto alti (come solo in tempo di pace si possono costruire) e tali da arrivare al livello della spianata capitolina.

Qui si discute se ad appiccare fuoco ai tetti siano stati gli assalitori o, come si dice da più parti, i difensori, nello sforzo di respingere quelli che, con grande fatica, riuscivano ad avanzare. Di là le fiamme si comunicarono ai portici che sorgevano a ridosso del tempio83; quindi presero a bruciare le aquile di legno vecchissimo che sostenevano il frontone e anche questo contribuì ad alimentare l’incendio. Così bruciò il Campidoglio: aveva le porte chiuse, non c’era nessuno che lo difendesse e nessuno che volesse saccheggiarlo.

 

72. Da quando la città era stata fondata, fu questo l’evento più doloroso e deplorevole che accadde allo stato romano: ciò avvenne non ad opera di un nemico esterno e in un momento in cui gli dèi ci sarebbero stati propizi, se solo i nostri costumi lo avessero consentito. La sede di Giove Ottimo Massimo, innalzata con ottimi auspici dai nostri antenati come pegno dell’impero84, era stata distrutta dalla pazzia dei principi quando nemmeno la resa cui Porsenna aveva costretto Roma e la presa della città da parte dei Galli avevano potuto violarla. A dire il vero il Campidoglio era bruciato anche in una precedente occasione, durante una guerra civile, ma per una frode tra privati85. Ora veniva assediato e incendiato sotto gli occhi di tutti; e con quali scopi, se non la guerra stessa? Cosa avrebbe potuto riscattare una tale sciagura? Fino a che le nostre guerre erano a difesa della patria, il Campidoglio fu saldo.

Era nato per un voto del re Tarquinio Prisco in guerra contro i Sabini: egli ne aveva gettato le fondamenta più nella previsione della futura grandezza di Roma che in proporzione alle ancora modeste risorse del popolo romano. Poi Servio Tullio col favore degli alleati e Tarquinio il Superbo dopo la presa di Suessa Pomezia86, continuarono la costruzione grazie al bottino catturato ai nemici. Ma il merito di aver completato l’opera spetta ai tempi della libertà: scacciati i re, Orazio Pulvillo87, console per la seconda volta, lo consacrò con tale magnificenza che, in seguito, le immense ricchezze del popolo romano non riuscirono a farlo più grande ma solo ad abbellirlo.

Di nuovo fu fatto sorgere sulle sue rovine, quando bruciò quattrocentoquindici anni dopo, sotto il consolato di Lucio Scipione e Gaio Norbano. Silla, vincitore, si prese l’incarico della ricostruzione ma non arrivò al giorno della consacrazione: solo questo fu negato al buon esito del suo lavoro. In mezzo a tanti abbellimenti da parte dei Cesari, il nome di Lutazio Catulo rimase fino a Vitellio. Questa la storia del tempio che le fiamme andavano distruggendo.

 

73. La situazione spaventò più gli assediati che gli assalitori. Pur in condizioni di pericolo, i soldati vitelliani evidenziarono astuzia e fermezza. Sul fronte opposto i Flaviani erano preda della paura: il loro comandante88, inerte e quasi soggiogato, non riusciva più né a parlare né ad ascoltare. Ormai non era in grado né di dar retta ai consigli altrui né di decidere in proprio; si aggirava di qua e di là a seconda dei clamori dei nemici: la stessa cosa prima la ordinava, poi la proibiva. Infine, come accade nei casi disperati, tutti comandavano e nessuno obbediva. Alla fine tutti gettarono le armi cercando una via di fuga e uno stratagemma per sottrarsi alle ricerche.

I Vitelliani irrompono e rimescolano ogni cosa in un turbine di sangue, ferro e fuoco. Pochi valorosi guerrieri, tra i quali merita sommamente ricordare Cornelio Marziale, Emilio Pacense, Casperio Nigro, Didio Sceva89, osarono resistere e furono trucidati. Flavio Sabino, inerme e incapace perfino di tentare la fuga, fu circondato assieme al console Quinzio Attico90 (segnalato da quella mascherata di magistratura e dalla sua vanità) che aveva rivolto al popolo editti magnificamente favorevoli a Vespasiano e molto ostili a Vitellio.

Gli altri fuggirono profittando di diverse circostanze, alcuni travestiti da servi, altri grazie alla protezione di fedeli clienti e nascosti tra i bagagli» Vi furono di quelli che, scoperta la parola d’ordine con cui i Vitelliani si riconoscevano tra loro, la richiesero o la diedero in risposta. In questo modo trovarono rifugio in un loro atto d’audacia.

 

74. Domiziano, fin dal primo assalto, era riuscito a nascondersi presso il custode del tempio, indossando una veste di lino e mescolandosi, grazie all’intervento di un liberto, alla turba degli addetti al culto. Passò inosservato e si nascose al Velabro presso Cornelio Primo, cliente del padre. Quando in seguito suo padre si impadronì del potere, egli fece abbattere l’abitazione del custode e vi sostituì un tempietto dedicato a Giove Salvatore e un altare che raffigurava, riprodotte in marmo, le sue vicende. Arrivato a sua volta al principato consacrò un grande tempio a Giove Custode e rappresentò se stesso in grembo al dio.

Sabino e Attico, carichi di catene, furono condotti a Vitellio ma egli non li accolse affatto con volto e parole ostili, mentre rumoreggiavano tutti quelli che reclamavano il diritto di ucciderli e chiedevano il premio del servizio reso. Da quelli che erano vicini si fece più insistente il clamore e la feccia del popolo invocò, tra minacce e adulazioni, il supplizio di Sabino. Vitellio se ne stava in piedi sulla gradinata del Palazzo e si preparava a intercedere, ma soverchiarono e dovette desistere. Sabino fu trafitto e straziato; suo corpo, senza testa, fu trascinato alle Gemonie91.

 

75. Era un uomo non certo disprezzabile e morì in questo modo. Aveva servito lo stato per trentacinque anni procurandosi buona fama in pace e in guerra. Impossibile non dargli atto di onestà e di giustizia; però parlava troppo e questa fu Tunica colpa che gli ascrisse la voce popolare nei sette anni di governo della Mesia e nei dodici in cui fu prefetto di Roma. Nell’ultimo periodo della sua vita, vi fu chi lo giudicò pigro e chi invece valutò che avesse grande senso della misura e non fosse assetato del sangue dei suoi concittadini. E comunque un fatto dovrebbe essere riconosciuto da tutti: che prima del principato di Vespasiano era lui a rappresentare tutto l’onore dei Flavi.

Posso dare per certo che la sua morte fu molto gradita a Muciano. E comunque essa giovò alla pace, perché tolse di mezzo una rivalità tra due persone che si facevano vanto, il primo di essere fratello dell’imperatore, il secondo di essere partecipe della sorte stessa dell’impero.

Il popolo chiese anche il supplizio del console Quinzio Attico, ma qui Vitellio riuscì ad opporsi, forse perché era ormai placato e forse perché voleva restituirgli un favore. Infatti Attico, a chi lo interrogava, si era confessato colpevole dell’incendio del Campidoglio. Con quella confessione (ma forse fu solo una menzogna in quel momento assai opportuna) sembrava essersi assunto l’infamia di quel crimine e di averla pertanto allontanata da Vitellio e dal suo partito.

 

76. Nei medesimi giorni Lucio Vitellio pose gli accampamenti presso Feronia92 e si preparava a distruggere Terracina, dove stavano asserragliati gladiatori e ciurme, che non osavano uscire dalle mura ed esporsi al pericolo su terreno aperto. Ho già ricordato che Giuliano comandava i gladiatori e Apollinare i marinai, entrambi molto più somiglianti, per licenza e trascuratezza, proprio a dei gladiatori che a dei capi.

Trascuravano i turni di guardia, non si curavano di fortificare i punti deboli delle mura; giorno e notte si perdevano in mollezze e riempivano di baccano quello splendido litorale. Quanto alla guerra, ne parlavano solo mentre erano seduti a banchetto e mentre i loro soldati si disperdevano inseguendo unicamente i loro piaceri. Pochi giorni prima si era allontanato Apinio Tirone che andava confiscando, in tutti i municipi, beni in natura e in denaro con tanta durezza che il partito flaviano si attirava odio invece che rafforzarsi.

 

77. Frattanto trovò rifugio presso Lucio Vitellio uno schiavo di Vergilio Capitone93 il quale promise, se avesse avuto una scorta, di consegnare la rocca sprovvista di difensori. A notte fonda egli pose delle coorti armate alla leggera sulla cresta dei monti, sopra la testa dei nemici. Da lì i soldati calarono più verso un massacro che verso una battaglia: abbattono uomini inermi o nell’atto di prendere le armi. Alcuni difensori si erano appena scossi dal sonno e grande era il disordine indotto dalle tenebre, dalla paura, dal suono delle trombe, dalle urla guerresche.

Pochi gladiatori opposero resistenza e furono uccisi, non senza essere vendicati, ma gli altri si precipitavano alle navi dove ogni cosa era coinvolta in un uguale terrore. Ai fuggitivi si mescolavano gli abitanti di Terracina che i Vitelliani uccidevano senza alcuna distinzione. Nel primo tumulto sei liburniche riuscirono a fuggire (su una di queste vi era il prefetto della flotta, Apollinare), le altre furono prese sulla spiaggia o si inabissarono nel mare per l’eccessivo peso di coloro che cercavano di salirvi.

Giuliano, condotto davanti a Lucio Vitellio, fu turpemente ferito e poi sgozzato. Alcuni hanno messo sotto accusa Triaria, la moglie di Lucio Vitellio, perché, recando alla cintola un gladio, si comportava con crudele superbia nel dolore e nello sterminio di Terracina catturata. Lucio Vitellio mandò al fratello una lettera ornata di lauro in cui lo informava del successo e gli chiedeva se doveva tornare indietro o persistere nella sua azione di conquista della Campania.

Questo dubbio significò salvezza non solo per il partito di Vespasiano ma perfino per lo stato. Infatti se i soldati, esaltati dal recente successo e dalla buona fortuna, avessero assecondato la loro naturale prepotenza e avessero marciato su Roma, la lotta sarebbe stata totale ed esiziale per la città. Lucio Vitellio era individuo spregevole, ma dotato di talento, anche se poggiava sui vizi, come succede a tutti i cattivi soggetti, e non sul valore, come nel caso degli onesti.

 

78. Mentre i partigiani di Vitellio riuscivano ad espugnare Terracina, l’esercito di Vespasiano aveva abbandonato Narni e stava, in tutta tranquillità, celebrando i Saturnali ad Ocricoli94. Bisognava attendere Muciano e questo spiega un così deplorevole ritardo. Non mancarono i sospetti su Antonio, il quale avrebbe temporeggiato di proposito, dopo che Vitellio gli ebbe inviato segretamente una lettera in cui gli offriva, come premio del tradimento, il consolato e sua figlia, che era nubile e godeva di una ricca dote.

Altri sostengono che questa storia sia stata inventata da qualcuno che voleva ingraziarsi Muciano; e alcuni dicono anche che si trattasse di una strategia concordata fra tutti i comandanti: fingere di portare guerra a Roma, senza poi farlo davvero, dal momento che le più valide coorti avevano abbandonato Vitellio, il quale appariva ormai senza difesa e in procinto di abbandonare il principato.

Secondo questa tesi il piano sarebbe fallito per la fretta e l’inettitudine di Sabino che aveva temerariamente preso le armi ma non aveva poi saputo difendere da tre coorti la rocca capitolina, sicuramente inespugnabile anche da parte di eserciti immensi.

Impossibile attribuire a questo o a quello una colpa che fu di tutti. È infatti vero che Muciano con messaggi ambigui frenava i vincitori, ma è anche vero che Antonio, a sua volta, si macchiò di una intempestiva arrendevolezza95, forse per attirare odio contro Muciano. Quanto agli altri comandanti, nel momento in cui considerarono chiusa la guerra, resero ingloriosa la sua fine. Nemmeno Petilio Cedale, mandato avanti con mille cavalieri, nel tentativo di raggiungere per vie traverse, in territorio sabino, prima la Salaria96 e poi Roma, si era mosso con sufficiente tempestività.

Alla fine, la notizia dell’assalto al Campidoglio scosse tutti.

 

79. Antonio giunse, attraverso la Flaminia, a Saxarubra97, ma era notte inoltrata e il soccorso risultò tardivo. Lì apprese che Sabino era stato giustiziato, che il Campidoglio era stato devastato dal fuoco, che la città era in subbuglio; tutte notizie poco confortanti, insomma. Gli dissero anche che plebei e schiavi si stavano armando a favore di Vitellio. Petilio Ceriale aveva poi avuto la peggio in uno scontro di cavalleria: era stato infatti affrontato dai Vitelliani con una schiera di fanti frammista a cavalieri, mentre si buttava senza cautele su nemici che reputava già sconfitti.

Si combattè non lontano dalla città tra costruzioni, giardini e stradine tortuose che erano note ai Vitelliani ma sconosciute ai nemici e quindi causa di paura. Inoltre non vi era grande concordia nello squadrone di cavalleria che aveva al suo interno alcuni di quelli che si erano arresi a Narni98 e ora aspettavano di vedere quale dei due partiti avesse la meglio. Fu catturato il prefetto di cavalleria Giulio Flaviano99 mentre gli altri si davano a fuga vergognosa. Ma i vincitori non li seguirono oltre Fidene100.

 

80. Quel successo accrebbe l’entusiasmo del popolo; la plebaglia cittadina si diede da fare per procurarsi un qualche armamento. Pochi possiedono scudi militari; i più afferrano le armi che capitano in mano e chiedono il segnale di battaglia. Vitellio li ringrazia e ordina loro di correre a difendere la città. Poi convoca il senato e sceglie dei legati da mandare agli eserciti per persuaderli, nel nome del bene comune, alla concordia e alla pace. Vario fu il destino dei legati.

Quelli che erano andati incontro a Petilio Ceriale corsero un gravissimo pericolo perché i soldati rifiutavano qualsiasi prospettiva di accordo. Il pretore Aruleno Rustico fu ferito e ciò aumentò l’infamia perché in lui non era stato violato solo il legato o il pretore ma anche un uomo di grande dignità personale. Il suo seguito fu cacciato e fu anzi ucciso il littore che gli stava vicino per aver osato allontanare la folla: se non fossero stati protetti dalla scorta concessa da Ceriale, il diritto degli ambasciatori, intangibile persino tra i barbari, sarebbe stato violato fino al massacro dal furore di quella guerra civile proprio davanti alle mura patrie. Più tranquilli furono quelli che si recarono da Antonio, non perché fossero più disciplinati i soldati, ma perché il comandante sapeva tener meglio la disciplina.

 

81. Si trovava in mezzo agli ambasciatori Musonio Rufo101, membro dell’ordine equestre, studioso di filosofia e zelante assertore dei precetti stoici. Egli si intrufolava nei manipoli e cercava di ammaestrare i soldati, dimostrando la bontà della pace e i pericoli della guerra. Molti lo deridevano, molti altri ne provavano fastidio. Qualcuno stava già per cacciarlo via a suon di bastonate, ma provvide egli stesso ad accogliere i consigli dei più moderati (ma anche le minacce di molti altri). Così diede un taglio a quell’intempestivo sfoggio di saggezza.

Vennero incontro anche le vergini Vestali con delle lettere per Antonio in cui Vitellio chiedeva un giorno di tempo prima di andare allo scontro decisivo; grazie a quella tregua, più facilmente si sarebbe trovato un compromesso. Le vergini furono rispettate e congedate ma a Vitellio fu risposto che l’esecuzione di Sabino e l’incendio del Campidoglio avevano troncato qualsiasi possibilità di accordo.

 

82. Tuttavia Antonio convocò un’assemblea per cercare di mitigare l’animo dei legionari: la sua idea era quella di porre il campo presso ponte Milvio ed entrare in città il giorno dopo. Si era deciso a quella tregua perché temeva che i soldati, travolti dalla foga del combattimento, non risparmiassero i popolani e i senatori e nemmeno i templi e i sacrari degli dèi. Ma i legionari scorgevano in ogni indugio un ostacolo alla vittoria; inoltre avevano visto brillare sui colli102 le insegne: dietro ad esse si muoveva un popolo imbelle, ma ai loro occhi era pur sempre un esercito nemico.

L’esercito si divise in tre colonne: una avanzò lungo la via Flaminia (dove già si trovava); la seconda lungo la sponda del Tevere; la terza si avvicinava, per la Salaria, alla porta Collina103. La plebaglia fu dispersa al primo urto della cavalleria e i Vitelliani dovettero correre alla difesa dividendosi anche loro su tre fronti. Numerosi e incerti furono gli scontri davanti alla città, ma nel complesso risultarono favorevoli ai Flaviani che avevano comandanti più accorti.

Si trovarono in difficoltà solo quelli che avevano dovuto ripiegare verso la zona sinistra dell’abitato, presso i giardini Sallustiani104, attraverso vie strette e scivolose. I Vitelliani, appostati sui muri di cinta, respinsero gli assalitori, scagliando dardi e sassi, fino a sera. Poi furono circondati dalla cavalleria che irrompeva attraverso la porta Collina105. Uno scontro avvenne anche nel campo Marzio106. I Flaviani ebbero dalla loro la fortuna ma anche l’esperienza e l’abitudine a vincere. I Vitelliani, invece, erano ormai spinti ad attaccare solo dalla forza della disperazione e, pur respinti, tornavano a riorganizzarsi all’interno della città.

 

83. Il popolo osservava il combattimento, come se si trattasse di uno spettacolo circense incitando or questi or quelli con acclamazioni e applausi. Ogni volta che uno dei due contendenti sembrava cedere, gli spettatori chiedevano che quelli che si erano nascosti nelle botteghe o che avevano trovato rifugio nelle case, fossero tirati fuori e sgozzati. Poi si prendevano la parte maggiore del bottino: infatti siccome i soldati erano intenti al massacro, il bottino andava a finire alla plebaglia.

La città offriva uno spettacolo atroce e ripugnante: da una parte battaglie sanguinose, dall’altra gente che si godeva le terme e le taverne. E allora si potevano vedere nello stesso momento mucchi di corpi sanguinanti e, vicino a questi, prostitute e gente della stessa risma. Ogni libidine di una pace licenziosa, ogni scelleratezza tipica della più selvaggia delle conquiste inducevano a credere che la stessa città, nello stesso frangente, si lasciasse andare al delirio e al vizio.

In altre occasioni, prima di allora, due eserciti in armi si erano scontrati entro le mura: due volte quando aveva vinto Silla107 e una volta quando aveva vinto Cinna108 e nemmeno allora era mancata efferata crudeltà. Ma ora regnava un mostruoso cinismo e i piaceri neppure per un attimo si interruppero. Sembrava che a delle giornate festive si fosse aggiunto un altro motivo di godimento: esaltazione generale, nessuna preoccupazione per i partiti, gioia per il pubblico disastro.

 

84. Ma l’impresa più ardua fu l’assalto al campo dei pretoriani109, che era presidiato da quegli ostinati che avevano lì riposto l’estrema speranza. I vincitori qui si accanirono con ogni loro sforzo, spinti soprattutto dalle coorti di veterani; recarono ogni cosa utile ad espugnare la città meglio fortificata: testuggini, macchine da getto, terrazze mobili, torce da lanciare. E intanto gridavano che in quell’impresa dovevano trovare coronamento ogni fatica e ogni pericolo incontrati in quella guerra.

Dicevano che stavano restituendo la città al senato e al popolo e i templi agli dèi; che nel campo risiedeva il vero onore dei soldati; lì era la patria, lì i penati. E se non lo avessero espugnato subito, avrebbero trascorso in armi tutta la notte. Di contro ai Vitelliani, ormai impari per numero e anche per fortuna, non rimaneva che rendere meno splendida la vittoria degli avversari, ritardare la pace, insozzare di sangue case e altari: si aggrappavano insomma ai miserabili espedienti della sconfitta.

Molti erano già colpiti a morte ed esalarono l’ultimo respiro sulle torri e sui bastioni delle mura. Quando le porte furono abbattute, si parò davanti ai vincitori il manipolo dei sopravvissuti: caddero tutti con la faccia rivolta al nemico e colpiti al petto. L’unico conforto loro rimasto risiedeva in una morte onorevole.

Caduta la città, Vitellio, uscendo dalla parte posteriore del Palazzo, si fece portare in lettiga a casa della moglie, sull’Aventino. Pensava che se fosse riuscito a rimaner nascosto per quel giorno, poi avrebbe potuto trovar scampo a Terracina presso le coorti del fratello. Ma il suo carattere era fragile e, come accade a chi è pauroso, egli temeva ogni cosa ma era affranto soprattutto dalle preoccupazioni di quei momenti: ritornò al Palazzo che era deserto e abbandonato. Perfino gli schiavi più infimi si erano eclissati o, se lo incontravano, cercavano di evitarlo. La solitudine e le stanze silenziose lo atterriscono, prova ad aprire le porte, il vuoto lo riempie di orrore. Ormai stremato da quel miserabile vagare, si caccia in un ignobile nascondiglio110. Ne viene tirato fuori da Giulio Placido111, un tribuno di coorte.

Gli furono legate le mani dietro la schiena, la veste fu lacerata. Era un ben tristo spettacolo vederlo condotto via tra gli insulti (e nessuno che spargesse una lacrima per lui): una fine tanto indecorosa non lasciava spazio ad alcuna pietà. Un soldato germanico gli si fece incontro e vibrò un colpo; forse fu un atto d’ira, forse voleva strapparlo all’umiliazione di un ulteriore scherno, forse voleva colpire il tribuno. Nessuno potrebbe dire; è comunque certo che mozzò un orecchio al tribuno e subito fu passato da parte a parte.

 

85. Vitellio veniva costretto con le punte dei pugnali a tenere alto il volto e ad offrirlo agli insulti. Dovette guardare le sue statue mentre venivano abbattute, poi in modo particolare i rostri, poi il luogo dove era stato ucciso Galba112; infine fu sospinto alle Gemonie, dove era stato abbattuto Flavio Sabino. Qualcuno udì dalle sue labbra una sola espressione per cui si capì che non ogni dignità era scomparsa dal suo animo: a un tribuno che lo insultava ricordò di essere pur sempre stato il suo imperatore. A questo punto cadde, crivellato di colpi. Il popolo lo oltraggiò da morto con la stessa viltà con cui lo aveva adulato da vivo.

 

86. Ho già ricordato che suo padre fu Lucio Vitellio e che Luceria fu la sua patria113. Stava per compiere i 57 anni; aveva ottenuto consolato e sacerdozi, fama e posizione tra le più eminenti non per meriti personali ma grazie al credito che riscuoteva il nome paterno114. Il principato glielo consegnò chi non lo conosceva a fondo; ed è raro che uno si acquisti grazie alle buone qualità il favore dell’esercito nella stessa misura in cui lui se lo seppe conquistare grazie alla sua ignavia.

Non gli mancavano del resto una certa franchezza e generosità, qualità che, se non sono impiegate con moderazione, finiscono per diventare rovinose. Le amicizie, lui, le comperava e dunque di amici veri non ne ebbe, poiché pensava che i rapporti amichevoli potessero basarsi sulla distribuzione di favori, non sulla fermezza del carattere. La sconfitta di Vitellio fu indubbiamente vantaggiosa per lo stato, ma non poteva diventare un vanto per quegli infami che lo avevano consegnato nelle mani di Vespasiano, dopo aver tradito anche Galba.

Fu presto sera. Il senato non potè essere convocato perché magistrati e senatori erano, per il terrore, o fuggiti dalla città o in cerca di nascondigli nelle case dei clienti. Domiziano, venuto meno ogni motivo di paura, fu condotto ai capi del partito flaviano. Tutti lo salutavano chiamandolo Cesare e una moltitudine di soldati (impugnavano ancora le armi con cui avevano fino a poco prima combattuto!) lo scortò fino alla casa paterna.

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
Storici Latini
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