Libro primo
Il primo libro copre parte dell’anno 69 d.C. (822 di Roma). 69 d.C.: furono consoli Servio Sulpicio Galba (seconda volta) e Tito Vinio Rufino.
1. Inizia, questa mia opera, dall’anno in cui furono consoli Servio Galba (per lui era la seconda volta) e Tito Vinio. Infatti gli ottocentoventi anni trascorsi dalla fondazione di Roma sono stati già raccontati da molti storici che potevano scrivere con tutto il vigore espressivo che la loro grande libertà consentiva.
Ma la battaglia di Azio1 decise che alla pace si doveva pagare il prezzo della concentrazione di ogni potere nelle mani di un solo uomo: così quei grandi ingegni si eclissarono e la verità ne risultò avvilita. Il primo motivo fu il disinteresse per la vita pubblica minata dagli interessi particolari. Poi sopravvennero una vera e propria smania di adulazione e, di converso, l’odio verso chi comandava. E comunque a nessuno, ostile o sottomesso, stava a cuore la posterità.
Ma se il lettore prova evidente disagio per le parzialità dello storico, denigrazione e livore trovano orecchie compiacenti.
Infatti sulla parzialità pesa il vizio ignobile del servilismo, ma il malanimo può essere spacciato per spirito di indipendenza. Quanto a me, da Galba, Otone e Vitellio non ho ricevuto né favori né ingiustizie. E del resto non voglio negare che è stato Vespasiano a far iniziare la mia carriera politica, e che Tito l’ha fatta avanzare e che poi Domiziano l’ha portata al suo apice. Ma chi si dichiara incorrotto assertore della verità, deve riferire di ognuno, ugualmente lontano da simpatia e da odio.
Spero di vivere abbastanza, perché mi sono riservato per la vecchiaia la narrazione dei principati del divo Nerva e di Traiano. È una materia ben più ricca e che non mi dà soverchie preoccupazioni, grazie alla singolare condizione di benessere di questi tempi, in cui vi è libertà di pensiero e di espressione.
2. La storia che mi accingo a raccontare presenta grande intrico di vicende, atroci battaglie, congiure di ogni tipo. Perfino la pace è una pace insanguinata: quattro imperatori tutti uccisi dalla spada, tre guerre civili, molte guerre esterne (e spesso quelle civili e quelle esterne si confondevano tra loro)2.
Se le cose andavano bene in Oriente, la situazione era tragica in Occidente. E poi: l’Ulirico in fermento, le Gallie infide, la Britannia occupata e subito abbandonata.
Scoppiò insieme la ribellione dei Sarmati e degli Svevi; i Daci crescevano in prestigio per le stragi subite e inferte e non mancò l’inganno di un falso Nerone che quasi induceva i Parti a prendere le armi contro di noi. E inoltre: l’Italia devastata da stragi mai sperimentate o, almeno, non più viste da secoli; città inghiottite e sepolte sulla fertilissima costiera campana. Roma fu quasi distrutta da incendi: i suoi templi più antichi andarono in rovina e le fiamme, appiccate da cittadini, non risparmiarono nemmeno il Campidoglio3.
Ancora: riti profanati, adulteri scandalosi, il mare sempre più spesso solcato da esuli (e talora i rei venivano sgozzati sugli scogli). In Roma si è incrudelito anche più ferocemente: la nobiltà, le ricchezze, le cariche pubbliche (sia che uno le accettasse sia che le rifiutasse), tutto era pretesto di accusa. E in cambio di atti virtuosi era certa la morte.
La ricompensa ai delatori non era meno odiosa dei delitti stessi: per qualcuno il bottino era dato da cariche civili e religiose, per altri dal governo di province o da posti di prestigio nella stessa Roma. Insomma ogni settore della vita pubblica era sottoposto alle spinte e ai sovvertimenti che venivano dall'odio e dalla paura. Gli schiavi erano aizzati contro i loro padroni e i liberti perfino contro chi aveva concesso loro la libertà. E se uno non aveva nemici, ci pensavano gli amici a schiacciarlo.
3. Tuttavia quest’epoca non fu tanto povera di valore da non proporre anche esempi di nobiltà: madri che accompagnano figli profughi; mogli che seguono i mariti esuli; congiunti fedelissimi; generi di grande fermezza; schiavi leali anche se sottoposti a tortura; uomini di prestigio capaci di sopportare le più dure costrizioni e perfino la morte (al punto che è possibile il paragone con le più celebrate morti dell’antichità).
E oltre i casi umani, ecco, in cielo e in terra, prodigi, folgori minacciose, presagi di eventi futuri: lieti o tristi, misteriosi o evidenti. Comunque mai fu più palese, per disastri tanto atroci capitati al popolo romano o per indizi più chiari, che gli dèi sono animati dalla volontà di punirci, non certo di proteggerci.
4. In ogni caso, prima di mettermi a scrivere quanto mi sono proposto, devo esaminare le condizioni della città, lo spirito degli eserciti, l’atteggiamento delle province, ciò che, nei territori dell’impero, era valido e ciò che era corrotto. In tal modo saranno evidenti non solo il manifestarsi e lo svolgersi, per lo più casuali, dei fatti, ma anche le loro cause e i loro intrecci remoti. Se, al primo impatto, la morte di Nerone aveva recato gioia, aveva poi suscitato reazioni contrastanti non solo a Roma, nei senatori, nel popolo, nei soldati di guarnigione, ma anche lontano, nei legionari e nei comandanti, perché era stata di colpo svelata la segreta possibilità di eleggere l’imperatore anche distante da Roma.
I senatori erano tuttavia lieti per la libertà in un sol tratto riconquistata (e gioivano perfino sfacciatamente visto che il nuovo principe era lontano). Allo stesso modo si rallegravano i cavalieri di grado più alto4. Quelli, tra i cittadini, che si erano serbati incorrotti ed erano legati alle grandi famiglie, i clienti e i liberti dei condannati e degli esuli riaprirono di nuovo il cuore alla speranza.
Invece la plebaglia, frequentatrice abituale di circo e teatri, i peggiori tra gli schiavi e coloro che, divorato il loro patrimonio, vivevano di espedienti grazie alle nefandezze di Nerone, erano tristi e aspettavano avidamente il sopraggiungere delle notizie.
5. A questo punto iniziano le agitazioni dei soldati della guarnigione romana.
Essi, tradizionalmente legati al giuramento prestato ai Cesari e spinti ad abbandonare Nerone più per sobillazioni e intrighi esterni che per propria scelta, si resero conto ben presto che non avrebbero ricevuto il premio promesso nel nome di Galba e che, in tempo di pace, meriti e rispettive ricompense erano minori rispetto ai tempi di guerra. Inoltre essi, prevenuti nei favori del principe dalle legioni che lo avevano eletto, erano inclini a fomentar disordini anche per la scelleratezza del loro prefetto, Ninfidio Sabino, che preparava un colpo di stato in proprio. E anche se Ninfidio cadde nel tentativo e scomparve dunque il capo della congiura, permaneva nella maggior parte dei pretoriani la consapevolezza della situazione e non mancavano parole di biasimo per la vecchiaia e l’avarizia di Galba.
La sua severità, un tempo lodata e apprezzata in particolar modo dai soldati, in quel frangente pesava a militari insofferenti dell’antica disciplina e abituati da Nerone, per ben quattordici anni, ad amare nel principe i vizi esattamente come, per il passato, se ne stimava la virtù.
Tutti ripetevano inoltre una frase di Galba (lusinghiera con riferimento alla cosa pubblica, ma certo falsa in bocca sua) secondo la quale i soldati, lui, li arruolava, non li comperava. Ma i suoi atti smentivano le sue parole.
6. Screditavano poi del tutto quel vecchio già conciato male, Tito Vinio e Cornelio Lacone. Il primo era uomo spregevolissimo e il secondo vile come nessun altro: appesantivano l’immagine di Galba con l’odio che veniva dalle scelleratezze proprie e col disprezzo che veniva dall’ignavia.
Il viaggio di Galba fu lento e segnato dal sangue. Furono uccisi Cingonio Varrone, console designato, e Petronio Turpiliano, consolare. Il primo per essere stato complice di Ninfidio, il secondo per aver avuto responsabilità di comando sotto Nerone: ma l’uno e l’altro furono condannati senza potersi discolpare e senza difesa. E si diceva, per questo, che fossero innocenti5.
Quando entrò in Roma, molte migliaia di soldati inermi furono uccisi. E questo apparve presagio infausto e terribile perfino agli autori delle stragi.
La città era piena di un esercito ben stranamente commisto, per via dell’arrivo dei legionari spagnoli e della permanenza di quella legione che Nerone aveva arruolato dalla flotta. Inoltre vi erano molti reparti militari provenienti dalla Germania, dalla Britannia, dall’Illirico: li aveva arruolati lo stesso Nerone che li aveva poi mandati a presidiare i valichi del Caucaso e a combattere contro gli Albani; li aveva quindi richiamati per reprimere l’insurrezione di Vindice6. Il tutto forniva premesse per chissà quali rivolgimenti poiché nessuno era ancora orientato verso questo o quello, ma tutti erano disponibili verso il primo che osasse cose nuove.
7. Accadde per caso che arrivassero insieme le notizie della morte di Clodio Macro e Fonteio Capitone. Macro lo aveva ucciso, in Africa, Trebonio Garuziano per ordine di Galba: non vi era alcun dubbio che stesse preparando sedizioni. Capitone fu ucciso in Germania, mentre stava preparando a sua volta una ribellione, dai legati Cornelio Aquino e Fabio Valente7; essi non avevano ancora ricevuto un ordine in tal senso.
Erano in molti a credere che Capitone, benché avido e contaminato dalla lussuria, non avesse mai pensato a rivolgimenti politici ma che fossero stati proprio i legati a cercare di persuaderlo e, trovandolo irremovibile, a tessere l’inganno e ad accusarlo del crimine. Galba approvò, vuoi per la sua fragilità caratteriale vuoi per non voler indagare più a fondo quanto era stato in qualche modo fatto; tanto era ormai impossibile tornare indietro.
L’uno e l’altro delitto suscitarono ostilità. Ormai, qualunque cosa accadesse, buona o cattiva, tornava a danno del principe, una volta inviso. Ogni cosa aveva un prezzo; aumentava a dismisura il potere dei liberti; gli schiavi, impazienti perché si muovevano attorno ad un vecchio, avevano mani avide e pronte a cogliere qualsiasi occasione. Insomma nella nuova corte erano tornati gli antichi mali: ugualmente gravi, non altrettanto facilmente perdonati.
E allora la stessa avanzata età di Galba era oggetto di derisione e causa di fastidio per persone abituate alla giovinezza di Nerone e use a mettere a confronto chi comanda sulla base della prestanza fisica, esattamente come fa la gente comune.
8. Questa era dunque, in siffatta confusione, la disposizione degli animi in Roma.
Quanto alla situazione delle province, in Spagna comandava eluvio Rufo8, uomo di grande eloquenza e abile a sfruttare i periodi di pace, ma piuttosto inesperto di arte militare. Le Gallie erano legate a Galba non solo per l’eredità morale di Vindice ma anche per la cittadinanza romana da poco concessa. E per il tempo a venire avevano ottenuto sgravi fiscali.
Ma i popoli della Gallia che avevano stanza vicino agli eserciti germanici, non avevano avuto gli stessi benefici e, anzi, avevano perso parte dei loro territori. Dunque, con pari risentimento, confrontavano i privilegi altrui e le ingiustizie subite.
E gli stessi eserciti germanici9, con grande pericolo trattandosi di forze molto numerose, erano percorsi da inquietudine e ira: fieri della recente vittoria, temevano di essere sembrati favorevoli alla parte avversa. In effetti si erano staccati da Nerone con un certo ritardo e Verginio10 non si era dichiarato subito dalla parte di Galba. E, forse, aveva anche pensato a farsi proclamare imperatore: di certo, i soldati gli avevano offerto la corona.
Quanto alla morte di Fonteio Capitone ne erano sdegnati anche coloro che non avevano alcun motivo di dolersene11. I soldati non avevano un capo, dato che Verginio era stato allontanato simulando un atto d’amicizia: il fatto che egli non fosse rimesso in libertà e, anzi, che fosse incriminato, essi lo consideravano come un’accusa rivolta loro.
9. L’esercito stanziato in Germania superiore disprezzava il proprio comandante, Ordeonio Fiacco, vecchio e podagroso, instabile e poco autorevole: nemmeno in tempo di pace sarebbe stato in grado di reggere un comando e, d’altra parte, i suoi soldati diventavano sempre più furiosi proprio per la malattia di chi li teneva a freno.
Le legioni della Germania inferiore rimasero troppo a lungo senza un consolare, finché su incarico di Galba arrivò Aulo Vitellio12, figlio di quel Vitellio che era stato censore e console per tre volte: questo sembrava titolo sufficiente.
In Britannia, invece, l’esercito era del tutto tranquillo: e certo non ci fu legione, durante tutti i sommovimenti portati dalle guerre civili, che si comportasse con maggior correttezza vuoi per la lontananza e perché isolate dal mare, vuoi per le frequenti spedizioni che avevano insegnato a concentrare sul nemico ogni bellicosità.
Quieto era anche l’Illirico, anche se le legioni fatte giungere da Nerone, mentre erano di stanza in Italia, avevano più volte cercato contatti con Verginio. Ma gli eserciti, separati da grandi distanze (fattore, questo, decisivo per mantenere fedeli le truppe) non avevano modo di mutuare vizi e forze.
10. Assolutamente tranquillo era ancora l’Oriente. Reggeva la Siria, con quattro legioni, Licinio Muciano16, uomo famoso per le alterne vicende della sua vita. Da giovane aveva coltivato per ambizione prestigiose amicizie; poi, divorato il suo patrimonio, si era trovato in una situazione precaria anche per il sospetto di essere inviso a Claudio. Così fu relegato nella lontana Asia, tanto vicino alla condizione di esule quanto poi a quella di imperatore. La sua personalità era una mescolanza di lussuria e operosità, di cordialità e arroganza, di buone e cattive inclinazioni. Non aveva freno nella dissolutezza nei periodi di ozio, ma era di grande valentia quando si assumeva qualche incarico; meritevoli i comportamenti pubblici, deprecabile la sua vita privata.
Grazie al suo fascino aveva grande autorità presso i dipendenti, i familiari, i colleghi. Insomma a lui fu più facile aprire la strada dell’impero ad un altro piuttosto che ottenerlo per sé.
Conduceva la guerra giudaica14, con tre legioni, un comandante scelto da Nerone, Flavio Vespasiano. Egli non era animato né da gelosia né tantomeno da ostilità nei riguardi di Galba al punto che aveva mandato il figlio Tito per rendergli devoto omaggio, come a suo tempo dirò.
Noi abbiamo creduto alle imponderabili scelte del fato, pur rivelate da prodigi e oracoli, secondo cui l’impero era destinato a Vespasiano e ai suoi figli, solo dopo la sua salita al trono.
11. Già dai tempi del divo Augusto sono i cavalieri, in luogo di re, ad avere il potere sull’Egitto e sulle legioni che servono a tenerlo a freno. Parve questa la soluzione migliore al fine di mantenere legata alla casa imperiale quella provincia così difficile da raggiungere ma anche ricca di grano, irrequieta e mutevole per il suo fanatismo religioso e le sue dissolutezze, ignara di leggi e magistrature.
L’Egitto era governato allora da Tiberio Alessandro, nativo di quel paese15. L’Africa e le legioni lì stanziate, dopo l’uccisione di Clodio Macro, si accontentavano di un capo qualsiasi, avendo fatto prova di un padrone da poco16. Le due Mauritanie17, la Rezia, il Norico, la Tracia18 e le altre province governate da procuratori si dichiaravano favorevoli o contrarie a Galba, a seconda dell’esercito cui erano prossime, sotto la pressione di chi meglio sapeva farsi valere.
Il destino delle province disarmate e dunque esposte a diventare schiave del primo che sapesse profittarne (e l’Italia era la prima fra tutte) era quello di divenire bottino di guerra.
Tale era la situazione romana quando i consoli Servio Galba, eletto per la seconda volta, e Tito Vinio iniziarono l’anno destinato ad essere l’ultimo della loro vita. E poco mancò che non fosse l’ultimo anche per la repubblica.
12. Pochi giorni dopo il primo di gennaio19, arriva dalla Belgica una missiva del procuratore Pompeo Propinquo: vi si riferiva che le legioni della Germania superiore avevano rotto il giuramento di fedeltà, chiedevano un altro imperatore, affidavano al senato e al popolo romano ogni scelta (e questo perché la rivolta fosse considerata con maggior benevolenza).
Questo evento fece maturare la decisione di Galba che già da tempo meditava tra sé e discuteva coi suoi intimi circa una possibile adozione. Per mesi era stato questo l’argomento sulla bocca di tutti, sia per la smaniosa leggerezza con cui si parla di queste cose, sia perché Galba era effettivamente molto vecchio.
Discernimento e amore per la cosa pubblica abitavano in pochi. Molti, sulle ali di una sciocca speranza, a seconda che fossero amici o clienti di questo o di quello, lo designavano con tendenziose dicerie; non era estraneo l’odio per Tito Vinio che diventava ogni giorno più potente e dunque più inviso a tutti. In quei frangenti estremi gli intimi di Galba, spinti dalla sua debolezza, diedero sfogo alle loro cupidigie senza ritegno, simili a bocche spalancate: nei riguardi di un vecchio infermo e credulone si poteva trasgredire con minor paura e maggiore speranza di profitto.
13. Nella pratica, l’esercizio del potere imperiale era diviso tra il console Tito Vinio e Cornelio Lacone, prefetto del pretorio. Non minore era il prestigio di Icelo, liberto di Galba, che aveva ricevuto il dono dell’anello ed era da tutti chiamato Marciano, cioè con un nome da cavaliere20. Costoro erano di pareri discordanti e per di più badavano, ognuno per proprio conto, a faccende di minore importanza: in particolare, sul nome del successore, erano di due avvisi ben diversi.
Vinio era dalla parte di M. Otone. Lacone e Icelo non favorivano nessuno in particolare, ma erano d’accordo nell’opporsi a Otone. Lo stesso Galba conosceva le intese tra Otone e Tito Vinio. Inoltre, stando alle chiacchiere di chi nulla riesce a passare sotto silenzio, Otone, che era celibe, e Vinio, che aveva una figlia vedova, avrebbero dovuto diventare genero e suocero.
Galba, forse, si preoccupava anche dello stato che, se fosse finito nelle mani di Otone, inutilmente sarebbe stato sottratto a Nerone21. La fanciullezza di Otone era stata caratterizzata dalla mancanza di ogni interesse e dissoluta era stata la sua giovinezza: era gradito a Nerone cui lo univa una sorta di gara nel vizio.
Anzi era a tal punto complice dei vizi di Nerone che costui gli affidò Poppea Sabina, concubina imperiale, finché non fosse riuscito a liberarsi della moglie Ottavia. Poi Otone cadde in sospetto proprio a causa di Poppea e Nerone lo allontanò nella provincia della Lusitania, col pretesto di affidargliene il governo.
Otone, dopo aver amministrato con moderazione la Lusitania, fu il primo a passare, con grande prontezza, dalla parte di Galba e, finché durò la guerra, fu il più brillante dei suoi seguaci. Teneva ben stretta, e anzi di giorno in giorno più salda, la speranza, subito concepita, di essere adottato: la maggior parte dei soldati gli era favorevole ed erano favorevoli anche i cortigiani, che vedevano in lui un nuovo Nerone.
14. Ma Galba, dopo la notizia della rivolta germanica, sebbene nulla fosse assodato per quanto riguardava Vitellio, si chiedeva, ansioso, verso quale direzione sarebbe esplosa la violenza degli eserciti. Non aveva fiducia nemmeno della guarnigione urbana e pensò che l’unica strada sicura era la convocazione dei comizi imperiali22. Fece venire, oltre a Vinio e a Lacone, Mario Celso, console designato23, e Ducenio Gemino, prefetto urbano24. Disse poche parole attorno alla sua vecchiezza e comandò di far arrivare Pisone Liciniano25 forse di sua iniziativa o, forse, come pensaqualcuno, per le insistenze di Lacone che aveva stretto amiciziacon Pisone grazie alla comune frequentazione della casa di Rubellio Plauto26; astutamente, Lacone cercava di favorirlo, fingendo di non conoscerlo; così le buone cose che si dicevano su Pisone avevano finito col dar peso al suo consiglio. Pisone (figlio di M. Crasso e di Scribonia e dunque nobile per duplice ascendenza) aveva aspetto e portamento all’antica: era, a detta di buoni giudici, austero ma, secondo alcuni detrattori, piuttosto duro. Proprio questo duplice aspetto del suo carattere piaceva all’adottante e dispiaceva invece a chi non ne condivideva i progetti.
15. Si dice che Galba, allora, abbia preso la mano di Pisone e che gli abbia rivolto queste parole: «Se io, privato cittadino, ti accogliessi in adozione, secondo la prassi, seguendo la legge curiata e davanti ai pontefici, sarebbe motivo di gloria per me accogliere nella mia casa la discendenza di Cn. Pompeo e di M. Crasso. E avresti gloria anche tu dall’aver aggiunto alla tua nobiltà il lustro della gente Sulpicia e Lutazia27.
Ma è stata la tua nobile indole, congiunta all’amore di patria, a spingere me, chiamato al potere dal consenso degli dèi e degli uomini, ad offrirti quel principato per il quale i nostri antenati hanno preso le armi. Io stesso l’ho conquistato in guerra ma te lo affido in pace, seguendo l’esempio del divo Augusto il quale elevò ad una altezza pari alla sua, prima Marcello28, figlio della sorella, poi Agrippa29, suo genero, poi i suoi nipoti, e infine Tiberio Nerone30, suo figliastro.
Ma Augusto ha cercato un successore tra i parenti, io tra i cittadini: non mi mancano certo parenti o affidabili alleati, ma nemmeno io ho accettato l’impero per ambizione. Perché io abbia scelto in tal modo, lo dice il fatto che non solo ho posposto a te i miei parenti, ma anche i tuoi. Tuo fratello è più vecchio di te e nobile al pari tuo. E sarebbe degno di un destino imperiale se tu non ne fossi ancor più degno31.
Questa tua età si è ormai lasciata dietro gli ardenti desideri della giovinezza e la tua vita è tale da non aver nulla di cui provar vergogna. Fino ad oggi tu hai sperimentato solo fortune avverse. Ora la prosperità ben più duramente ti prova: infatti la miseria si può sopportare, la felicità corrompe.
Certo tu conserverai ben salde fedeltà, libertà, amicizia che sono i valori supremi dell’animo umano, ma l’altrui piaggeria le renderà vane: nella tua vita irromperanno adulazione, lusinghe e anche gli interessi di parte che sono la morte dei sentimenti più puri. Noi oggi stiamo qui parlando molto francamente, ma gli altri chiedono udienza alla nostra dignità imperiale, non alla nostra persona. È molto faticoso indurre il principe ad azioni davvero utili; applaudirlo, invece, costa nulla, a prescindere dal suo valore.
16. Se l’incommensurabile organismo dell’impero potesse equilibratamente sostenersi senza un reggitore, sarei stato degno di essere l’iniziatore di una nuova repubblica32, ma ormai si è giunti al punto che la mia vecchiaia null’altro può offrire al popolo romano se non un valente successore e la tua giovinezza null’altro che un buon principe.
Sotto Tiberio, Gaio33 e Claudio, siamo stati, per così dire, un patrimonio di un’unica famiglia da trasmettere in eredità. Il fatto che ora l’imperatore venga eletto, è l’unica contropartita della perduta libertà: estinta la casa giulio-claudia, l’adozione troverà di volta in volta il migliore. È casuale essere generati e nascere da principi (e il giudizio non si spinge oltre); è improntato alla libertà, invece, il criterio con cui si sceglie la persona da adottare. E se davvero vuoi scegliere, puoi accogliere le indicazioni dell’opinione pubblica.
Ricordi Nerone? Era gonfio d’orgoglio quando esibiva la lunga discendenza della sua stirpe. Così non è certo stato Vindice con una provincia inerme a toglierlo dalle spalle di tutto il popolo. E non sono stato io con una legione: piuttosto lo hanno sconfitto la sua stessa ferocia e la sua dissolutezza. E prima di lui non vi era mai stato un principe pubblicamente condannato34.
Noi, pur dando il meglio nel governo, saremo oggetto d’invidia anche se a portarci sul trono è stata la guerra assieme al consenso dei giusti. Non tremare, tuttavia, se due legioni, in questo disordine che squassa il mondo intero, sono ancora turbolente. Neppure io sono arrivato al potere a cose tranquille: del resto, appena verrà divulgata la notizia dell’adozione, sembrerò meno vecchio (che è l’unica critica che mi viene mossa).
Di Nerone, la feccia sentirà sempre la mancanza. Compito mio e tuo sarà non farlo rimpiangere anche dai buoni. Non voglio però perdermi più a lungo in ammonimenti; ogni mio progetto trova compimento se ho fatto, in te, una buona scelta. Il più efficace e pronto criterio per distinguere il bene e il male, sta nel chiedersi cosa avresti voluto o non voluto sotto un altro imperatore.
Questa in fondo non è una vera monarchia in cui una famiglia comanda e tutti gli altri sono schiavi: piuttosto sappi che dovrai comandare a uomini incapaci di sopportare una servitù assoluta ma anche di gestire un regime di piena libertà».
Galba così parlava: stava creando in Pisone il futuro imperatore, ma tutti si rivolgevano a lui come se già lo fosse.
17. Turbato o esultante che fosse, Pisone non tradì in alcun modo le reazioni del suo animo agli occhi di chi prese ad osservarlo in quel momento e nemmeno dopo, quando fu al centro dell’attenzione generale,. Per Galba, suo imperatore e suo padre, ebbe parole di grande rispetto. Quanto a se stesso disse qualcosa con grande moderazione. Nulla era cambiato nel suo volto e nel suo aspetto sicché sembrò che, pur avendo le capacità per comandare, non ne avesse gran desiderio.
Si passò a discutere se l’adozione dovesse essere annunciata nel Foro, nel senato o nel campo dei pretoriani. Piacque quest’ultima soluzione: avrebbe significato rendere onore ai soldati. Se infatti è scorretto procurarsene il favore con regalie e con intrighi, non è disprezzabile ingraziarseli con mezzi onesti.
La pubblica attesa si era come coagulata attorno al Palazzo: tutti volevano conoscere il grande segreto e proprio chi cercava di smentire la notizia già trapelata, finiva inevitabilmente per sottolinearne l’importanza.
18. Era il 10 di gennaio35: tuoni, fulmini e minacce celesti avevano sconvolto oltre il consueto un giorno carico di pioggia. Per il passato ciò avrebbe fornito motivo per sciogliere i comizi, ma non valse a distogliere Galba dal recarsi negli accampamenti; un po’ disprezzava questi eventi giudicandoli casuali, un po’ sapeva che quanto è destinato dal fato, pur se riconosciuto, non può essere evitato.
La folla dei soldati era immensa: a loro Galba annuncia, con la distaccata concisione che il suo ruolo esigeva, l’adozione di Pisone. Aveva seguito l’esempio del divo Augusto ma anche l’usanza militare per cui un uomo ne sceglie un altro36.
Poi, per non ingrandire l’importanza della rivolta in atto fingendo di volerla ignorare, dichiarò che la quarta e la ventiduesima legione erano venute meno al loro dovere; ma i promotori della rivolta erano pochi, mai si era andato oltre le grida e le proteste, e tutto sarebbe ritornato presto alla normalità.
Alle sue parole non seguirono né doni né lusinghe. Tuttavia i tribuni, i centurioni e i soldati più vicini gli risposero acclamandolo. Gli altri, però, erano mesti e silenziosi perché avevano perso, con la guerra alle porte, dei donativi che ormai si davano perfino in tempi di pace. Eppure quel vecchio troppo parsimonioso avrebbe potuto conciliarsi gli animi anche con una gratifica di minima entità. Gli fu fatale il severo rigore di stampo antico, che ormai male si concilia con la nostra epoca.
19. In senato Galba usò le stesse espressioni, disadorne e concise, che aveva usato con i soldati. Pisone fu invece più cordiale. Ed ecco subito il favore dei senatori: alcuni erano molto schietti, altri esageravano nelle manifestazioni di consenso essendogli stati prima contrari; chi precedentemente non si era compromesso (era la maggioranza) gli porse servile ossequio. A nessuno stava a cuore il pubblico interesse; tutti, piuttosto, coltivavano speranze particolari.
Nei quattro giorni che seguirono (cioè nell’intervallo tra la proclamata adozione e la morte37) Pisone non disse alcunché né compì alcun atto pubblico.
Di giorno in giorno crescevano le notizie della rivolta germanica. Lina città come Roma facilmente accoglie e crede vere le notizie soprattutto quando sono negative e così i senatori avevano deciso di inviare legati all’esercito di stanza in Germania.
In segreto si discusse se, per dar maggior prestigio all’ambasceria, non dovesse farne parte anche Pisone; i legati avrebbero recato l’autorità del senato, Pisone il prestigio della corona. Parve una buona idea mandare anche Lacone, prefetto del pretorio, ma egli rifiutò. Il senato delegò a Galba la scelta dei membri della legazione, ma scandalosa fu la leggerezza di costoro: nomine, esoneri, sostituzioni e intrallazzi per restare o andare a seconda che ognuno avesse concepito speranze e provasse paura.
20. Prima preoccupazione fu quella di reperire denaro. Dopo aver esaminato tutto il problema, parve che fosse giusto andarlo a cercare lì dove era stato speso causando l’attuale povertà. Nerone aveva dilapidato in largizioni, due miliardi e duecento milioni di sesterzi38. Galba diede disposizione che i beneficiari delle largizioni fossero chiamati a restituirle, tenendosene la decima parte. Ma costoro in qualche caso non possedevano più nemmeno quella decima parte perché avevano scialacquato il denaro altrui non meno del proprio. E ai più avidi e dissoluti non rimanevano né campi né capitale, ma, a malapena, gli strumenti del loro vizio.
Gli esattori furono trenta cavalieri romani; il loro ufficio era nuovo e gravoso sia per gli intrallazzi che consentiva sia per lo stesso numero dei chiamati a restituire: vendite all’asta, profittatori, processi che sconvolsero la città39. Tuttavia non mancò di manifestarsi in pieno la gioia di coloro che Nerone aveva derubato e che vedevano i destinatari delle largizioni diventare poveri come loro.
In quei giorni furono destituiti anche dei tribuni del pretorio, Antonio Tauro e Antonio Nasone; e poi Emilio Pacense delle coorti urbane e Giulio Frontone dei vigili40.
Il rimedio si rivelò poco efficace e generò anzi paura, perché tutti pensavano che, pur avvenendo, ad arte o per timore, gradualmente i licenziamenti, non vi era nessuno a non essere sospettato.
21. Nel frattempo grande era la pressione su Otone che non aveva nulla da sperare da una situazione pacificata e anzi fondava sul torbido ogni suo progetto: aveva un tenore di vita superiore a quello di un principe ed era povero quanto un privato difficilmente potrebbe sopportare. Provava astio nei confronti di Galba, invidia verso Pisone.
Si creava inoltre motivi di paura per sentirsi più stimolato a soddisfare le sue brame: si ricordava di essere stato odiato da Nerone e che non doveva certo stare ad aspettare un secondo viaggio in Lusitania e l’onore di un secondo esilio.
Per chi detiene il potere è sempre sospetta e odiosa la persona destinata a succedergli. Ciò gli era stato di danno presso il vecchio imperatore e ancor peggio sarebbe accaduto col giovane che aveva un carattere duro e inasprito da un lungo esilio: un Otone, insomma, si poteva sempre uccidere.
Era dunque necessario agire, e agire con coraggio finché l’autorità di Galba ancora traballava e quella di Pisone non si era del tutto consolidata. Le mutazioni di governo, egli si diceva, erano propizie ai grandi tentativi (e bisogna mettere al bando le esitazioni quando l’attesa presenta più pericoli della temerità!). La morte è comune legge naturale, ma presso i posteri sono l’oblio o la gloria a fare le distinzioni; una stessa fine attende l’innocente o il colpevole, ma solo un uomo più forte degli altri sa morire acquistandosi dei meriti.
22. Il corpo di Otone era infiacchito, ma non così il suo animo. I liberti e gli schiavi più vicini a lui, abituati ad una corruzione impossibile nella casa di un privato, gli facevano balenare davanti agli occhi avidi, i lussi della corte neroniana, i matrimoni, gli adulteri e ogni altra mollezza consentita ai re. Tutto alla sua portata, gli dicono, se osa; ma anche tutto destinato ad altri se rimane inerte.
Lo lusingavano anche gli astrologi, affermando di aver colto dall’osservazione degli astri nuovi movimenti annuncianti un anno fortunato per Otone. Gli astrologi: non esiste al mondo una genia più infida, pronta a ingannare le speranze della gente, nella nostra città sempre messa al bando e tuttavia sempre tollerata. Molti astrologi (erano loro i peggiori ruffiani del suo matrimonio principesco) frequentavano abitualmente le stanze più intime di Poppea. Tra essi vi era Tolomeo che era stato compagno di Otone in Spagna. Costui gli aveva predetto che sarebbe sopravvissuto a Nerone: forte dell’avverarsi della predizione, un po’ ricorrendo alle sue congetture, un po’ riferendo le dicerie di chi metteva a confronto la vecchiaia di Galba con la giovinezza di Otone, lo persuadeva che egli era chiamato alFimpero.
Ma Otone prendeva le predizioni come fatti scientifici e ammonimenti del fato, per quel desiderio, insito nell’animo umano, di aver fede in una cosa quanto più essa è oscura.
Tolomeo continuava ad insistere; ormai istigava apertamente al delitto cui è così facile passare quando lo si culla tanto a lungo nella mente41.
23. Non è possibile dire se l’idea del delitto si sia insinuata all’improvviso. Certo è che già da tempo Otone aveva iniziato a cattivarsi le simpatie dei soldati, forse avendo concepito la speranza di successione, forse già pensando al delitto. Durante i viaggi, le marce, le soste chiamava tutti i veterani per nome e faceva gran professione di cameratismo, nel ricordo della militanza sotto Nerone. I più li conosceva, di qualcuno si informava; li aiutava con denaro o con favori; e intanto buttava lì lamentele e allusioni ambigue su Galba: insomma quell’atteggiamento che più serve ad eccitare il popolo.
Le fatiche dei trasferimenti, la scarsezza delle vettovaglie, la durezza del comando in questo modo venivano sempre peggio sopportate: erano soldati abituati a navigare sui laghi della Campania e verso i porti dell’Acaia ed era per loro uno sforzo immane superare, armati, Pirenei, Alpi e distanze enormi42.
24. Gli animi dei soldati già bruciavano quando Mevio Pudente, intimo di Tigellino43, vi gettò sopra nuova esca. Costui adescava tutti coloro che avevano l’animo inquieto o erano bisognosi di denaro o erano comunque pronti a cacciarsi dentro ogni avventura.
Con questi sistemi giunse perfino, come se si trattasse di una mancia, a distribuire cento sesterzi a ognuna delle guardie della scorta militare, ogni volta che Galba si recava a pranzo da Otone. Era una sorta di elargizione pubblica e lo stesso Otone, di suo, ci metteva doni segreti e individuali: era un corruttore così sfrontato che regalò alla guardia del corpo Cocceio Proculo, in lite con un suo vicino per una questione di confini, tutto il campo (dopo averlo acquistato dal vicino stesso).
Questo fu possibile grazie all’inerzia del prefetto del pretorio, che non vedeva le cose evidenti e tanto meno quelle nascoste.
25. Alla fine Otone affidò l’esecuzione dell'imminente delitto a Onomasto. Costui gli condusse Barbio Proculo, tesserario delle guardie e l’aiutante Veturio44. Si assicurò con vari discorsi che fossero astuti e audaci; quindi li colmò di denaro e promesse e diede anche loro una somma perché tentassero l’animo di molti altri. Così due soldati semplici si assunsero il compito di trasferire il potere imperiale di Roma e riuscirono nel loro scopo.
Il progetto delittuoso fu propagato a pochi. Gli animi oscillanti di altre persone furono circuiti con varie arti. Ai graduati fu dato a intendere che i benefici ricevuti da Ninfidio li rendevano sospetti. Quanto alla gran massa dei soldati fu sfruttato il malcontento e l’esasperazione per il donativo troppe volte differito.
Non mancavano coloro che erano spinti dal ricordo di Nerone e della sfrenata licenza che costui aveva poco tempo prima resa possibile. Tutti erano poi terrorizzati dall’idea di cambiare corpo.
26. Quel contagio infettò gli animi dei legionari e degli ausiliari, già scossi dopo che si era saputo che la fedeltà dell’esercito germanico vacillava. I malvagi avevano così ben preparato la rivolta (tenendola, tra l’altro, perfettamente nascosta agli onesti) che il 14 di gennaio, quasi stavano per alzare sopra gli scudi Otone mentre tornava da cena.
Non lo fecero perché temevano gli equivoci provocati dal buio45, la dispersione per tutto il territorio urbano dei quartieri militari e anche la difficoltà di mettere in pochi istanti d’accordo degli ubriachi. Non si preoccupavano certo dello stato, visto che, una volta smaltito il vino, si accingevano a deturparlo con il sangue del loro principe.
Si preoccupavano invece che a causa delle tenebre, uno qualunque, parandosi davanti ai soldati dell’esercito pannonico o germanico, venisse proclamato imperatore come se fosse Otone (il cui volto era ai più sconosciuto).
Molti indizi della rivolta ormai in atto furono soffocati da coloro che ne erano a conoscenza. Alcune voci, giunte fino a Galba, rimasero inascoltate per colpa del prefetto Lacone che era all’oscuro delle intenzioni dei soldati. Lacone era ostile a qualsiasi idea, pur buona, che non avesse presentata lui stesso ed era testardo nell’ostacolare anche chi fosse particolarmente esperto.
27. Il 15 di gennaio46, Galba è intento a fare sacrifici davanti al tempio di Apollo, quando l’aruspice Umbricio gli annunzia che le viscere sono sfavorevoli e predicono agguati imminenti e un nemico già dentro le mura di casa. Lì vicino c’era Otone che ascoltava e interpretava gli stessi segni al contrario e cioè in maniera favorevole ai suoi progetti. Qualche istante dopo, il liberto Onomasto annuncia a Otone che è atteso dall’architetto e dagli appaltatori: è il segnale convenuto per dire dell’arrivo dei soldati e dell’insurrezione pronta a scoppiare.
Qualcuno chiede ad Otone i motivi della sua partenza ed egli finge di dover andare a vedere una casa che aveva in animo di acquistare ma che temeva essere troppo vecchia. Otone, appoggiatosi ad Onomasto, si dirige verso il Velabro, attraverso i palazzi tiberiani, e di là al miliario aureo, vicino al tempio di Saturno47. Qui un manipolo di ventitré guardie del corpo lo saluta imperatore. Egli si allarma per il loro scarso numero e allora in tutta fretta le guardie lo caricano su una lettiga e lo portano via stringendo le spade in pugno. Un numero pressappoco pari di soldati si unisce loro per via. Alcuni sono consapevoli di quanto accade, altri sono stupiti; qualcuno alza le armi e grida, qualcun altro rimane in silenzio riservandosi una decisione a seconda del corso degli eventi.
28. Il campo dei pretoriani era sotto il comando del tribuno Giulio Marziale. Costui offrì non pochi motivi di sospetto: forse spaventato dalla gravità dell’improvviso attentato, non seppe valutare quanto la rivolta fosse già diffusa nell’accampamento e, del resto, temeva che una sua resistenza gli potesse essere fatale.
E anche gli altri tribuni e i centurioni preferirono la situazione che si parava loro davanti ad un futuro onorevole ma molto incerto. Ecco perché un simile stato d’animo condusse pochi a tentare il delitto, molti a volerlo, tutti a subirlo.
29. Galba era all’oscuro di tutto. Con le sue preghiere importunava gli dèi per un impero che ormai non gli apparteneva più, quando arrivò la notizia che un senatore (dapprima non se ne conobbe il nome ma poi fu detto che si trattava di Otone) veniva condotto alla caserma dei pretoriani. Cominciarono ad accorrere da tutta la città quelli che lo avevano incontrato: alcuni esageravano per la paura, altri tendevano a sottovalutare la verità, nessuno si dimenticava, nemmeno in quell’occasione, di adulare.
Dopo rapide consultazioni, fu deciso di saggiare le intenzioni della coorte di guardia al Palazzo: si evitò, però, che lo facesse Galba, la cui autorità veniva riservata intatta per urgenze più gravi.
Pisone chiamò i soldati davanti alla scalinata del Palazzo e rivolse loro queste parole: «Miei commilitoni, appena cinque giorni fa sono stato chiamato col nome di Cesare: non sapevo cosa mi aspettasse e nemmeno se da quel nome io dovessi attendermi cose buone o cattive. Per quale destino della mia casa e dello stato? Questo ora dipende da voi. Io non temo sventure per me: mi sono trovato spesso in situazioni avverse e oggi imparo che non esistono minori rischi in quelle felici.
Soffro invece per mio padre, per il senato, per l’impero stesso, pensando che oggi vado incontro alla morte o sarò obbligato, a mia volta, a uccidere: agli onesti entrambe le cose recano ugual dolore. Mi confortava pensare che gli ultimi rivolgimenti politici non erano costati a Roma spargimento di sangue e che il potere si era trasmesso senza lotte. Lo strumento dell’adozione sembrava aver annullato, anche per la successione a Galba, ogni possibilità di conflitto civile.
30. Non serve che ora io mi vanti della mia nobiltà o della mia virtù mettendomi a confronto con Otone. Egli ha un solo motivo di vanto: gloriarsi dei vizi che hanno rovinato l’impero anche quando si fingeva amico dell’imperatore. Ma si merita l’impero uno che si comporta, si muove e si veste come una donna? Si ingannano coloro che si fanno abbagliare dallo spreco camuffato da liberalità: Otone non è un generoso, ma uno scialacquatore. In questo momento egli rivolge nel suo animo stupri, baldorie, frequentazioni di prostitute. Egli pensa che questi siano i vantaggi dell’essere principe: sfrenati piaceri per sé, disonorevole vergogna per gli altri. Infatti non si è mai visto esercitare onestamente un potere conquistato con l’infamia.
Il consenso universale ha riconosciuto Galba come imperatore. E io sono divenuto Cesare per una scelta di Galba da voi condivisa. Ma se repubblica, senato, popolo sono soltanto parole vuote, voi, commilitoni, dovete almeno fare in modo che non siano i peggiori a scegliere l’imperatore.
Certo: di tanto in tanto si sente notizia di qualche legione che si ribella ai suoi comandanti. Ma la fama della vostra fedeltà è fino ad oggi intatta: Nerone ha abbandonato voi, non voi Nerone.
Sarà una trentina di disertori e fuggiaschi, da cui non sarebbe possibile tirar fuori uno solo in grado di fare il centurione o il tribuno, ad assegnare l’impero? Se voi accettate, inerti, un simile precedente, vi farete complici del delitto. Questo arbitrio si trasferirà poi nelle province. Noi subiremo le conseguenze delle colpe, voi delle guerre. Per uccidere il principe non vi si offre nulla di più che per restare innocenti: riceverete il vostro donativo non come prezzo di un tradimento ma come premio della vostra fedeltà»48.
31. I soldati di guardia si dispersero. Il resto della coorte, cheaveva trovato convincenti le parole di Pisone, corse alle insegne: lo fece, come spesso avviene nei momenti di confusione, a caso e senza una precisa stratègia più che per mascherare l’insidia: fu questa l’opinione prevalente, dopo quegli eventi.
Intanto venne mandato Celso Mario ai distaccamenti dell’esercito illirico, accampati sotto il portico di Vipsanio49. I primipilari Amullio Sereno e Domizio Sabino ricevettero l’ordine di far venire dall’atrio della Libertà i distaccamenti germanici50.
Non si nutriva, invece, fiducia delle truppe marinare, ostili per la strage che, tra i loro ranghi, aveva fatto Galba appena entrato in Roma.
Verso il campo dei pretoriani si dirigono anche Cetrio Severo, Subrio Destro, Pompeo Longino per vedere di ricondurre i rivoltosi a migliori consigli, dato che la sedizione non aveva ancor preso vigore.
Dei tribuni, Subrio e Cetrio furono minacciati e aggrediti dai soldati; Longino fu immobilizzato e disarmato. Era infatti fedele a Galba non per il suo grado militare ma per amicizia personale e questo lo rendeva più sospetto ai rivoltosi.
Senza esitare, le truppe di marina si aggregarono ai pretoriani. I soldati scelti dell’esercito illirico respinsero Celso puntandogli contro le lance.
Esitarono invece a lungo i soldati germanici: erano affaticati ma avevano l’animo tranquillo perché Galba li faceva riposare con particolare cura dalla stanchezza della lunga navigazione dopo che erano stati mandati da Nerone ad Alessandria.
32. Già il popolo si accalcava nel Palazzo. Vi erano anche molti schiavi. Tutti, con grida confuse, reclamavano l’uccisione di Otone e la morte dei rivoltosi, con lo stesso tono con cui avrebbero chiesto uno spettacolo teatrale o circense. Non avevano discernimento o voglia di conoscere la verità dato che, con pari foga e nella stessa giornata, avrebbero poi chiesto esattamente il contrario. Seguivano solo l’inveterata abitudine di adulare qualsiasi principe con esagerate acclamazioni e sciocco zelo.
Frattanto Galba oscillava fra due opposti pareri. Tito Vinio pensava che fosse meglio asserragliarsi in casa, metterne alla difesa i servi, rinforzarne le porte. Contro gli scalmanati non era opportuno andare: doveva invece dare un po’ di tempo per pentirsi ai più esagitati e così sarebbe anche emerso il consenso dei più riflessivi. La precipitazione, infatti, peggiora le scelleratezze, la calma rafforza le sagge decisioni. Infine, se in seguito avesse dovuto affrontare il nemico ne avrebbe sempre avuta la possibilità; invece, tornare indietro dopo essersi pentito, non sarebbe più dipeso da lui.
33. Però l’opinione prevalente era che si dovesse fare presto, prima che prendesse vigore una rivolta che era ancora di pochi e dunque molto debole. Avrebbe tremato lo stesso Otone il quale era fuggito furtivamente ed era stato condotto presso uomini poco esperti ma avrebbe imparato dall'esitazione e dal ritardo di chi sprecava tempo, la parte di imperatore.
Non si poteva certo aspettare che, organizzato il campo dei pretoriani, invadesse il Foro e salisse al Campidoglio proprio sotto gli occhi di Galba mentre questo grande imperatore coi suoi eroici amici, si barricava dietro la porta di casa, certo pronto a sostenere un assedio!51 E avrebbe trovato un buon aiuto nei servi se appena il consenso di una così vasta moltitudine e il primo scoppio di sdegno (che è forse l’elemento decisivo in situazioni del genere) si fossero affievoliti. E poi non si potevano cercare sicurezze in una decisione disonorevole. Anche se era inevitabile cadere, bisognava affrontare il pericolo: ne sarebbero seguiti maggior risentimento nei riguardi di Otone, onore per loro.
Vinio continuava ad opporsi e allora Lacone (sostenuto da Icelo, ostinato nel suo odio personale a danno di tutti) lo investì minacciosamente.
34. Galba non esitò più a lungo e accolse il parere di chi lo incitava alla decisione più clamorosa. Tuttavia venne mandato innanzi, verso il campo, Pisone che era più giovane e godeva di buon nome; da poco era in grazia di Galba ed era ostile a Tito Vinio (forse lo era davvero o forse così volevano che fosse i più esagitati: è l’odio il sentimento cui si crede più facilmente).
Pisone era appena uscito quando prese a diffondersi la notizia, dapprima vaga e incerta, che Otone era stato ucciso negli accampamenti. Poi, come accade per le grandi montature, alcuni presero a dire di essere stati presenti al fatto e di averlo visto: la credulità trova terreno fertile tra chi gioisce di una notizia e chi non se ne cura affatto.
Molti ritenevano che la diceria fosse stata montata e fatta girare da fautori di Otone insinuatisi in mezzo alla folla per divulgare ad arte notizie liete in grado di stanare Galba dal suo rifugio.
35. Allora non solo il popolo e la plebaglia si abbandonarono agli applausi e agli entusiasmi, ma anche la maggior parte dei cavalieri e dei senatori, resa temeraria dal venir meno della paura, sfondò le porte del Palazzo. Essi si precipitarono dentro e si presentarono a Galba. Si lamentavano di essere stati preceduti da altri nel compiere la vendetta: quanto più erano vili e incapaci, come gli eventi dimostrarono, di affrontare il pericolo, tanto più erano esuberanti e feroci nel loro dire.
Nessuno sapeva, tutti enunciavano fatti certi, finché, per la mancanza di notizie assodate e coinvolto nell’errata valutazione generale, Galba indossò la corazza e salì su una portantina. Infatti, a causa della sua età e della sua debolezza, non era in grado di reggere l’urto della folla.
Nel Palazzo gli si fece incontro una guardia del corpo, Giulio Attico, che mostrava una spada insanguinata e affermava di essere lui l’autore dell’esecuzione di Otone. «Mio commilitone», gli disse Galba «chi ti ha ordinato di farlo?»
A tal punto era energico nel reprimere gli eccessi dei soldati, intrepido davanti alle minacce, incorruttibile davanti ad ogni lusinga.
36. Tra i pretoriani tutti avevano nel loro animo, preso una decisione: bruciavano di entusiasmo, al punto che, non accontentandosi di far ressa attorno a Otone e di innalzarlo sulle spalle, lo portarono sulla tribuna, dove fino a poco tempo prima c’era la statua aurea di Galba, in mezzo ad una selva di insegne e bandiere.
Ma né i tribuni né i centurioni potevano avvicinarlo; erano anzi i soldati semplici a mettere in guardia i commilitoni dai superiori.
Ogni luogo risuonava di clamori, di tumulti, di reciproche esortazioni. E non era il solito comportamento del popolino e della plebaglia che schiamazza confusamente e si effonde in vuote adulazioni: mano a mano che un soldato accorreva e veniva riconosciuto, gli altri lo prendevano per le mani, lo abbracciavano, lo portavano vicino alla tribuna, gli suggerivano il giuramento, raccomandavano, di volta in volta, l’imperatore ai soldati o i soldati all’imperatore.
Otone non si tirava indietro. A braccia protese si dichiarava devoto al popolo e mandava baci: per prendere il potere non esitava a comportarsi come uno schiavo. A questo punto anche tutta la legione di marina accettò di prestargli giuramento ed egli comprese che ormai aveva forze sufficienti: era ora di infiammare tutti insieme con quegli argomenti che fino ad allora aveva usato con singole persone. Salì sul terrapieno e prese a parlare.
37. «Miei commilitoni, non so bene dirvi in che veste mi sono presentato a voi: non posso definirmi privato cittadino perché voi mi avete chiamato principe, ma principe non posso esserlo finché un altro detiene il comando.
Nemmeno voi sapete bene cosa siete, finché nutrite il dubbio se colui che sta nei vostri accampamenti è l’imperatore del popolo romano o un nemico. Certo avete sentito che sono richieste insieme la mia morte e la vostra punizione.
Così è chiaro che o ci salviamo insieme o insieme andiamo incontro alla rovina. Del resto un uomo della mitezza di Galba, la morte per noi l’ha già decisa: lui che ha ammazzato migliaia di persone senza che nessuno glielo chiedesse. Il mio animo è invaso da orrore ogni volta che penso al suo ferale ingresso in città: fu la sua unica vittoria e consistette nel decimare, sotto gli occhi di tutti, coloro che gli si erano arresi supplicandolo. E lui aveva dato la sua parola di far salva la vita.
E dopo che fu entrato in Roma con questi auspici, seppe aggiungere al principato solo la gloria di aver ucciso Obultronio Sabino e Cornelio Marcello in Spagna, Betuo Cilone in Gallia, Fonteio Capitone in Germania, Clodio Macro in Africa, Cingonio durante il viaggio, Turpiliano in città, Ninfidio negli accampamenti52.
Non esiste una provincia, non esiste un accampamento che non siano macchiati di sangue e di disonore. O, come dice lui, che non siano purificati e ricondotti alla legalità. Gli altri parlano dei suoi delitti e lui dice che sono appropriati rimedi, la crudeltà viene chiamata severità, e l’avarizia è parsimonia. E i supplizi e le offese che voi ricevete? Lui li chiama disciplina.
Sono passati sette mesi dalla fine di Nerone e già Icelo ha rubato più di quanto hanno scialacquato tutti i Policliti, i Vatini, gli Egiali53 di questo mondo. Perfino Tito Vinio, se fosse stato imperatore, ci avrebbe rapinato con minor licenza e avarizia. Otone ci tiene soggiogati come suo possesso personale e ci disprezza come cosa d’altri. Soltanto il suo palazzo basterebbe a pagare il donativo che vi viene continuamente negato e rinfacciato.
38. Galba ha voluto che nemmeno sul suo successore noi nutrissimo speranze e così richiamò dall’esilio colui che giudicava più simile a sé per durezza e avarizia. Gli dèi stessi si sono detti contrari in quel giorno di tremendi temporali all’adozione. Senato e popolo la pensano allo stesso modo: si attende il vostro coraggio perché voi disponete di quella forza che serve a realizzare grandi progetti e perché senza di voi anche le più nobili imprese sono destinate a fallire.
Non vi chiamo ad affrontare una guerra densa di pericoli: le armi di tutti i soldati sono con noi. E quella sola coorte disarmata54 che sta ora attorno a Galba non lo difende, ma lo tiene prigioniero per noi. Quando la coorte vi avrà visto e avrà udito da me la parola d’ordine, si scatenerà la gara a chi sarà più sollecito nel rendermi omaggio.
Troppo abbiamo esitato: questa è un’impresa che sarà lodata solo al suo compimento.»
Otone diede ordine di aprire il deposito: le armi venivano afferrate a caso, senza tener conto delle abitudini e nemmeno delle gerarchie militari, sicché era impossibile distinguere, dai distintivi che ognuno avrebbe dovuto avere, tra pretoriani e legionari. Vengono confusi tra loro elmi e scudi tipici delle truppe ausiliarie; non c’è nessuno, tribuno o centurione, che impartisca direttive, ciascuno è guida e sprone a se stesso. E la feccia trovava di che eccitarsi soprattutto nella costernazione dei buoni.
39. Pisone, atterrito dal tumulto della rivolta che cresceva e dalle grida che echeggiavano fino in città, era ormai ritornato indietro eaveva seguito Galba che aveva deciso di dirigersi verso il Foro. Già Mario Celso aveva portato notizie poco liete. Alcuni erano dell’avviso di tornare nel Palazzo, altri di puntare sul Campidoglio; i più volevano invece occupare i rostri. Ognuno contraddiceva il parere del suo vicino e, come accade in situazioni disperate, le soluzioni migliori apparivano proprio quelle che il tempo impediva di attuare.
Si dice che Lacone, a insaputa di Galba, avesse pensato di uccidere Tito Vinio. Pensava che, passandolo per le armi, avrebbe placato l’animo dei soldati o forse lo credeva complice di Otone. Forse, più semplicemente, lo odiava. Ma la scelta del luogo e del momento lo fece ritardare perché una volta iniziata la strage sarebbe stato difficile controllarla. Inoltre disturbarono il suo piano le notizie poco rassicuranti e la fuga di coloro su cui più faceva affidamento. E intanto si affievolivano gli entusiasmi di chi in principio aveva, con baldanza, ostentato fedeltà e coraggio.
40. Galba era sballottato qua e là, spinto dal fluttuare della folla. I templi e le basiliche (ed era ben lugubre spettacolo) erano gremiti di folla.
Non un grido dalle bocche dei cittadini e della plebaglia, ma solo volti attoniti e orecchie tese a cogliere ogni notizia. Nessun tumulto ma nemmeno quiete: regnava piuttosto quel silenzio che è proprio della grande paura e del grande furore.
A Otone viene riferito che la plebe si sta armando contro di lui: ordina ai suoi di precipitarsi a prevenire i pericoli. Ed ecco allora i soldati romani irrompere contro il loro imperatore, un vecchio inerme, con la stessa foga con cui si sarebbero scagliati contro Vologese o Pacoro per strapparli dall’avito trono degli Arsacidi55. La plebe viene dispersa, i senatori sono calpestati ed essi, terribili nelle loro armi e fulminei coi loro cavalli, invadono il Foro.
Non furono intimoriti né dalla vista del Campidoglio né dalla sacralità dei templi sovrastanti né dal pensiero dei principi passati e futuri: nulla valse a distoglierli dal compiere un delitto di cui avrebbe fatto vendetta il successore, chiunque esso fosse stato.
41. Vistasi addosso la schiera degli armati, il portainsegne della coorte che accompagnava Galba (Atilio Vergilione56, secondo quanto si dice) strappò l’immagine di Galba e la gettò per terra. Fu chiaro a quel punto che tutti i soldati erano con Otone: la folla lasciò vuoto il Foro e coloro che ancora esitavano si videro minacciati dalle armi.
Vicino al lago Curzio57, il tremore dei portatori sbalzò Galba dalla lettiga e lo fece rotolare a terra. Le sue ultime parole sono state variamente tramandate da chi lo odiava e da chi invece provava ammirazione per lui. Qualcuno dice che, con voce supplichevole, chiedesse che male avesse mai fatto. E implorava anche un po’ di tempo per pagare il donativo. Molti però affermano che offrisse volontariamente il collo ai suoi boia: facessero pure, lo colpissero se pensavano di far cosa utile allo stato. Ma, per gli uccisori, cosa effettivamente abbia detto non ebbe alcuna importanza.
Chi sia stato l’esecutore, non si sa con sicurezza: per alcuni fu Terenzio, un veterano richiamato sotto le armi, per altri Lecanio. Ma la voce più diffusa parla di un Camurio, soldato della quindicesima legione, che gli puntò la spada alla gola e ve la affondò quanto era lunga58. Gli altri dilaniarono turpemente le gambe e le braccia mentre il petto era difeso dalla corazza. Molte ferite vennero inferte con bestialità efferata ad un corpo ormai ridotto ad un troncone.
42. Il successivo bersaglio degli aggressori fu Tito Vinio. Anchesui suoi ultimi momenti si discute: si dice che l’improvviso terrore gli abbia tolto la parola. Per qualcuno, invece, urlò che era impossibile che l’ordine di ucciderlo fosse partito da Otone.
Forse mentì per paura o forse in questo modo si dichiarò a conoscenza della congiura. Quello che si diceva del suo modo di vivere fa supporre piuttosto che fosse conscio del delitto di cui era la causa59.
Un primo colpo, inferto al garretto, lo abbatté davanti al tempio del divo Giulio60. Poi fu trapassato da parte a parte dal legionario Giulio Caro.
43. La nostra epoca, comunque, trovò in quel giorno un uomo degno di memoria, Sempronio Denso61.
Era un centurione della coorte pretoria, addetto da Galba alla difesa di Pisone. Con un pugnale stretto in mano, si parò contro gli armati rimproverandoli per il loro delitto: in questo modo, un po’ gridando un po’ gesticolando, riuscì ad attirare su di sé l’attenzione degli aggressori e a far scappare Pisone, pur ferito.
Pisone si introdusse nel tempio di Vesta dove fu accolto da un pietoso guardiano che lo nascose nel suo alloggio. Non era però grazie alla sacralità del luogo che poteva differire l’imminente rovina. Piuttosto stette acquattato, finché arrivarono Sulpicio Floro (un soldato delle coorti britanniche che da poco aveva ricevuto in dono da Galba la cittadinanza) e Stazio Murco, una guardia del corpo.
Li aveva mandati Otone, smanioso di sapere morto proprio lui. Pisone venne trascinato fuori e ucciso sulla soglia del tempio.
44. Si dice che nessuna morte recasse maggiore godimento a Otone e che nessuna delle teste mozzate fosse da lui tanto insaziabilmente rimirata come quella di Pisone. Forse solo allora il suo animo, sgravato di ogni apprensione, si era aperto davvero alla gioia. Forse il ricordo della regale maestà di Galba e dell’amicizia di Tito Vinio aveva popolato di cupi fantasmi il suo animo, per quanto malvagio fosse. Ma rallegrarsi della morte di Pisone, nemico e rivale, non era contrario, egli pensava, alle leggi umane e divine.
Infisse su lunghe aste, le teste mozzate venivano portate in giro tra le insegne delle coorti e vicino all’aquila della legione. Quelli che avevano ucciso, ostentavano a gara le mani macchiate di sangue; quelli che avevano in qualche modo partecipato, veritieri o falsi che fossero, esaltavano il delitto come una cosa bella e memorabile.
In seguito Vitellio avrebbe trovato più di centoventi domande di persone che reclamavano il premio per qualche atto significativo compiuto in quel giorno. E avrebbe ordinato che fossero tutti rintracciati e uccisi, non in onore di Galba, ma perché è tradizionale abitudine dei principi cercare nell’oggi una sicurezza e stabilire, per il domani, un pegno di vendetta.
45. Si sarebbe detto che il senato non fosse più quello di pochi giorni prima, e nemmeno il popolo: tutti accorrevano al campo. In gara con quelli che stavano davanti, si sorpassavano l’un l’altro, maledicevano Galba, esaltavano la scelta dei soldati, baciavano le mani di Otone: erano dimostrazioni menzognere e, dunque, a maggior ragione, sempre più frequenti.
Non c’era persona che fosse respinta da Otone. Egli, con la voce e con le smorfie del viso, cercava di moderare le ingorde e minacciose intenzioni dei soldati. Costoro reclamavano l’esecuzione di Mario Celso, console designato e soprattutto fidato amico di Galba fino all’ultimo. Erano irritati contro la sua solerzia e la sua integrità, come se queste fossero delle colpe. Era chiaro che si cercava solo il pretesto per dare il via alle stragi, alle spoliazioni e alla rovina di ogni onesto cittadino. Otone non aveva ancora l’autorità sufficiente a proibire un delitto, poteva solo comandarlo: così, fingendosi irato, ordinò che Celso fosse messo in catene e, promettendo di riservarlo a una punizione maggiore, lo sottrasse all’esecuzione ormai imminente62.
46. Ogni cosa ormai era affidata all’arbitrio dei soldati i quali arrivarono a scegliersi i prefetti del pretorio. Uno fu Plozio Fermo63, un tempo semplice legionario, attualmente capo dei vigili e schieratosi dalla parte di Otone, quando Galba era ancora vivo. Gli fu messo a fianco Licinio Proculo64, molto legato ad Otone tanto che era diffuso il sospetto che ne avesse favorito i progetti.
Flavio Sabino fu nominato prefetto di Roma: in questo ci si attenne al giudizio di Nerone sotto il quale egli aveva ricoperto la stessa carica; inoltre molti vedevano in lui suo fratello Vespasiano65.
Una richiesta pressante riguardava l’abolizione delle esenzioni dai servizi pagate ai centurioni, a causa delle quali i soldati semplici venivano ogni anno taglieggiati di parte del loro stipendio. Un quarto di ogni manipolo era sparpagliato qua e là in licenza o si aggirava senza far nulla per gli accampamenti: bastava aver pagato la mazzetta al centurione e nessuno stava a guardare quanto pesante essa fosse o cosa i soldati avessero dovuto fare per poterla pagare. Spesso ci si procurava quanto serviva con furti, rapine, prestazioni servili.
Succedeva anche che un soldato, se appena aveva un po’ di denaro, fosse angariato in tutti i modi per farglielo spendere al fine di ottenere le esenzioni. Quando aveva speso tutto e si era abituato ad una snervata apatia, tornava al suo manipolo: povero da ricco che era, e per di più invigliacchito, dopo essere stato un valoroso. In questo modo tutti i soldati venivano corrotti dalla stessa condizione di bisogno e dallo stesso arbitrio. Uno dopo l’altro, si abituavano all’idea della congiura, della discordia e perfino delle guerre civili.
Otone non volle alienarsi il consenso dei centurioni accontentando la truppa. Allora promise che lui in persona avrebbe pagato, dalla sua cassa privata, il prezzo dei congedi. Fu un provvedimento efficace e mantenuto in seguito dai principi avveduti con regola costante66.
Il prefetto Lacone fu inviato, si fece credere, al confino in un’isola. In realtà fu assassinato da un veterano richiamato in servizio e mandato da Otone a ucciderlo. L’esecuzione di Marciano Icelo, che era un liberto, fu invece pubblica.
47. Quella giornata fu segnata tutta da infiniti delitti. Sul tardi (e fu forse l’infamia peggiore) si prese a festeggiare.
Il pretore urbano convoca il senato, tutti i magistrati fanno a gara a chi lusinga di più il nuovo principe. E i senatori accorrono: decretano per Otone la potestà tribunizia e gli viene conferito, oltre al nome di Augusto, ogni altro attributo del principato.
Intanto tutti si danno da fare per cancellare il ricordo delle villanie e degli oltraggi di cui lo avevano coperto da ogni parte. Nessuno sapeva quanto profondamente le ingiurie si fossero confitte nel suo animo, ma la brevità del suo principato impedì di capire se se ne fosse dimenticato o se invece avesse solo differito la vendetta.
Il Foro era ancora coperto di sangue. Otone, mentre veniva condotto tra i cadaveri straziati verso il Campidoglio, e di lì al Palazzo, concesse che i corpi fossero sepolti e cremati. Il corpo di Pisone fu ricomposto dalla moglie Verania e dal fratello Scriboniano, quello di Tito Vinio dalla figlia Crispina. Ma prima fu necessario cercare e riscattare le teste che gli uccisori avevano tenuto per ricavarne qualche utile67.
48. Pisone, famoso più che fortunato, si avvicinava a compiere il suo trentunesimo anno di età. Dei suoi fratelli, Magno lo aveva ucciso Claudio e Crasso era caduto sotto Nerone68.
Fu a lungo esule e, per quattro giorni, Cesare grazie ad una adozione affrettata che lo fece preferire al fratello maggiore ed ebbe l’unica conseguenza di farlo ammazzare prima.
Tito Vinio, nei suoi cinquantasette anni, aveva mostrato condotta mutevole. Suo padre era stato di famiglia pretoria e l’avo materno risultava nelle liste di proscrizione69.
Brutta fama ebbe il primo periodo del suo servizio militare. Gli capitò di avere come comandante quel Calvisio Sabino70, la cui moglie, invasata dal malsano desiderio di vedere un accampamento notturno, vi era entrata vestita da soldato. Aveva perfino provato a fare la sentinella e ad esercitare altre mansioni militari e finì col prostituirsi proprio nel quartier generale. Tito Vinio fu probabilmente complice del fatto.
Allora, su ordine di Gaio Cesare71, fu gettato in catene e poi rilasciato, al mutare dei tempi. Percorse la carriera politica senza intralci e, dopo la pretura, gli fu affidata una legione. Svolse bene questo incarico ma in seguito si macchiò di un misfatto degno di uno schiavo. Infatti, invitato a pranzo da Claudio, gli rubò una coppa d’oro. Claudio, il giorno dopo, disse ai servi di far mangiare, lui solo, in vasellame d’argilla.
Ma come proconsole Vinio resse la Gallia Narbonense con austera onestà. Poi, quando già si avviava alla rovina per la sua amicizia verso Galba, seppe dimostrarsi audace, astuto, abile, pronto alle malvagità cui il suo animo lo inclinasse: e sempre con la stessa energia.
Il suo testamento fu invalidato perché si era arricchito troppo. Quello di Pisone fu invece rispettato, dato che era povero.
49. Il corpo di Galba rimase molte ore abbandonato e, grazie all’impunità che la notte concede, fu straziato in modo vergognoso. Poi Argio, un servo che era con lui da sempre e che era stato suo amministratore, riuscì a dargli un’umile sepoltura nei suoi giardini privati. La testa di Galba, che alcuni facchini e inservienti avevano innalzato sulle aste e sfregiato davanti al tumulo di Patrobio (costui era stato un liberto di Nerone, punito proprio da Galba), venne finalmente ritrovata il giorno dopo e ricongiunta alle ceneri del suo corpo già cremato.
Così abbandonò la vita Servio Galba: aveva settantré anni, aveva vissuto sotto cinque principi in buona fortuna, era stato più fortunato durante il principato altrui che durante il proprio.
La sua era una famiglia di antica nobiltà e grande era il suo patrimonio. Quanto a capacità, Galba era un mediocre che non possedeva grandi virtù ma era anche privo di vizi.
Il successo gli faceva gola, ma non era un fanfarone; non attentava ai patrimoni altrui e se era parsimonioso col suo denaro, sembrava addirittura avaro quando si trattava del denaro pubblico.
Trattava amici e liberti, se erano brave persone, con una indulgenza non biasimevole; se erano malvagi, fingeva, colpevolmente, di non accorgersene.
In ogni modo gli illustri natali e la paura che contrassegnava quei tempi, lo giustificarono e mascherarono col nome di saggezza quella che era invece apatia.
Nel fiore degli anni si conquistò buona gloria in Germania. Resse, da proconsole, con avvedutezza l’Africa e con ugual senso di giustizia la Spagna citeriore, quando già era vecchio: finché rimase un privato cittadino, sembrava a tutti che avrebbe meritato qualcosa di più e che forse sarebbe stato degno perfino del principato. Tutti dovettero ricredersi quando divenne imperatore davvero72.
50. Una nuova notizia, che riguardava Vitellio, seminò il terrore in una Roma già profondamente turbata e spaventata sia dall’atrocità degli eventi recenti sia dall’inguaribile malcostume di Otone; prima dell'uccisione di Galba non se ne era parlato per far credere che fosse stato solo l’esercito germanico a ribellarsi.
Non solo i senatori e i cavalieri, che hanno parte e interesse alle cose dello stato, ma perfino il popolino dava pubblica manifestazione di dolore: sembrava quasi che il destino avesse scelto, per mandare in rovina l’impero, i due peggiori uomini73 del mondo con tutta la loro impudenza, ignavia e depravazione.
Ritornavano su ogni bocca non tanto i recenti esempi di una pace insanguinata ma, nel recuperato ricordo delle guerre civili, la città tante volte occupata dai suoi stessi eserciti, la devastazione dell’Italia, i saccheggi delle province. E poi Farsalo, Filippi, Perugia e Modena: tutti nomi ben noti di stragi che avevano coinvolto un popolo intero74.
Anche quando in campo erano scesi uomini di grande statura morale, il mondo era stato vicino ad uno sconvolgimento totale, ma grazie alle vittorie di Giulio Cesare e di Cesare Augusto l’impero era rimasto saldamente in piedi. Ma la repubblica sarebbe rimasta in piedi anche se a vincere fossero stati Pompeo e Bruto. Ora si dovevano supplicare gli dèi per gente come Otone e Vitellio? Sarebbero, per quei due, state comunque preghiere empie e voti sacrileghi: della guerra tra loro, una sola cosa era sicura, che il vincitore sarebbe stato in ogni caso peggiore dello sconfitto.
Qualcuno vaticinava l’avvento di Vespasiano e dell’esercito orientale; Vespasiano era certo migliore sia di Otone che di Vitellio, ma facevano paura nuove guerre e nuove stragi. Vespasiano, del resto, godeva di fama ambigua, ma si deve dire che egli, unico tra tutti i suoi predecessori, migliorò quando acquisì il principato.
51. Ora passo a raccontare le origini e le cause della sollevazione di Vitellio. Sterminato Giulio Vindice con tutte le sue truppe, l’esercito era esaltato dal bottino e dal vanto di aver trionfato senza fatica e senza pericoli in una guerra tanto redditizia: aveva dunque preso a preferire spedizioni, combattimenti e bottino allo stipendio.
A lungo i soldati avevano sopportato un servizio militare infruttuoso e aspro per la natura del luogo e del clima. La disciplina era poi durissima: e la disciplina è inflessibile in tempi di pace ma tende ad allentarsi durante le guerre civili perché si fanno avanti corruttori da entrambe le parti e il tradimento rimane spesso impunito.
Uomini, armi e cavalli erano più di quanto necessità e bisogno di apparire richiedessero. Ma, prima della guerra, ogni soldato conosceva solo la propria centuria e il proprio squadrone; gli eserciti erano separati dai confini delle province. Ora, le legioni, unitesi insieme contro Vindice, avevano preso coscienza delle proprie forze e di quelle galliche; e dunque cercavano nuovi pretesti di guerra e nuove discordie. Quanto ai Galli, questi non erano più alleati, ma nemici sconfitti.
D’altra parte gli abitanti di quella regione gallica che s’affaccia sul Reno, avevano preso posizione a favore dei Romani ed erano i più feroci istigatori contro i Galbiani (con questo nomignolo avevano ribattezzato, in dispregio di Vindice, le sue truppe)75.
Questi legionari, ostili ai Sequani e agli Edui76 e poi anche alle altre popolazioni a seconda di quanto ricche erano, progettavano di espugnare città, di devastare territori, di saccheggiare case. Oltre all’avidità e all’arroganza (vizi che contraddistinguono chi si sente più forte) erano animati da rancore per l’insolenza dei Galli che si vantavano del fatto che Galba avesse loro condonato la quarta parte dei tributi e fatto pubblici donativi, in dispregio dell’esercito.
Si aggiunse la diceria, astutamente diffusa e ciecamente creduta, che le legioni dovessero venir decimate e fossero da congedare i più valorosi centurioni. Da ogni parte provenivano notizie spaventose, e voci sinistre giungevano anche da Roma. La colonia di Lugduno era ostile e fertile di voci allarmanti per la sua tenace fedeltà a Nerone77. Ma il terreno più propizio per far nascere illazioni tendenziose era proprio l’accampamento dove si manifestavano odio, paura e anche la spavalderia che nasceva dalla consapevolezza della propria forza.
52. Nei primi giorni di dicembre dell’anno precedente, Aulo Vitellio era entrato nella Germania inferiore e aveva meticolosamente visitato tutti gli accampamenti militari. Molti si videro restituire il loro grado, altri si videro condonare punizioni infamanti, altri ancora si videro mitigare le sanzioni. Era mosso da ambizione ma anche da senso di giustizia e, in ogni caso, riequilibrò correttamente l’infame venalità che Fonteio Capitone aveva dimostrato nel togliere o assegnare i gradi.
Ogni suo atto non sembrava venire da un legato consolare, ma da una autorità superiore. Il comportamento di Vitellio appariva poco decoroso ai più severi, ma i suoi fautori definivano segno di cordialità e di bontà il fatto che donasse i suoi averi ed elargisse quelli degli altri senza alcun senso della misura. E, per la gran voglia di conferirgli il potere, facevano passare per virtù i suoi stessi vizi.
In entrambi gli eserciti78 vi erano persone tranquille e moderate, ma non mancavano i malvagi e gli intemperanti.
Tra questi ultimi si segnalavano, per sfrenata ambizione e temerità, Alieno Cecina e Fabio Valente, legati delle legioni. Valente era ostile a Galba il quale non gli aveva riconosciuto di aver scoperto l’esitazione di Verginio e di aver sventato i piani di Capitone. E dunque istigava Vitellio dicendogli che i soldati fremevano.
E poi: la sua fama veniva celebrata dovunque, Fiacco Ordeonio non sarebbe stato un ostacolo, la Britannia non si sarebbe tirata indietro e lo avrebbero seguito gli ausiliari germanici, le province erano poco fidate e, oltre a tutto, era precario e fragile l’impero nelle mani di un vecchio. Con questi argomenti lo spingeva ad aprire il sacco alla Fortuna e a correrle incontro.
Gli diceva anche che aveva fatto bene Verginio ad esitare perché era di famiglia equestre e non sapeva nemmeno chi fosse suo padre. E sarebbe stato impari davanti alle difficoltà di governo, al sicuro se le avesse rifiutate. A Vitellio, invece, i tre consolati paterni, la censura, la colleganza con Claudio già prima imponevano la dignità imperiale e gli precludevano l’oscura sicurezza di un cittadino privato.
E l’indole fiacca di Vitellio veniva, in questo modo, scossa e agitata più dal desiderio che dalla speranza79.
53. Nella Germania superiore, Cecina, nello splendore dei suoi anni giovanili e del suo corpo gigantesco, si era guadagnato il consenso dei soldati: era di indole esuberante, aveva parola facile e portamento ardito. Galba gli aveva dato il comando di una legione anche se era molto giovane perché, ai tempi della sua questura nella Betica80, era prontamente passato dalla sua parte. Poi però aveva scoperto che si era appropriato di denaro pubblico e lo aveva fatto citare in giudizio come ladro.
Cecina aveva mal sopportato l’accusa e aveva deciso in cuor suo di perturbare ogni cosa e di nascondere le sue private ferite con la pubblica rovina. Non mancavano germi di discordia nell’esercito: aveva preso parte tutto intero alla guerra contro Vindice, non era passato a Galba se non dopo la morte di Nerone, e, anche al momento di prestare giuramento, era stato preceduto dai distaccamenti della Germania inferiore.
Inoltre Treviri, Lingoni81 e altre tribù, che Galba aveva colpito con aspri provvedimenti e con diminuzioni del territorio, si mescolavano sempre più con le legioni nei quartieri invernali. Da questa situazione nascevano discorsi su possibili congiure, mentre i militari si infiacchivano stando coi borghesi e si manifestava una simpatia verso Verginio, da cui chiunque avrebbe in seguito potuto trar vantaggi.
54. La tribù dei Lingoni, secondo una sua vecchia usanza, aveva mandato alle legioni il dono delle destre, che è un segno di ospitalità82.
I loro ambasciatori avevano però il volto corrucciato e triste. Accendevano gli animi, nel quartier generale e tra le tende, lamentando ora le ingiustizie patite, ora i premi concessi ai loro confinanti. Quando poi trovavano soldati che li stavano ad ascoltare, lamentavano anche i pericoli e le offese che lo stesso esercito subiva.
Ormai si respirava aria di sedizione. Ordeonio Fiacco, allora, ordinò ai legati di andarsene e, perché la partenza non fosse notata, di farlo durante le tenebre. Ne nacquero dicerie terribili: gli ambasciatori, secondo molti, sarebbero stati uccisi e se i soldati non avessero provveduto a se stessi, sarebbero stati a loro volta passati per le armi. Di notte e all’insaputa di tutti: sarebbero stati presi di mira i più valorosi e coloro che deploravano l’attuale situazione.
Allora le legioni si stringono in un muto patto e vengono aggregati gli ausiliari: costoro in un primo tempo davano adito al sospetto di voler attaccare le legioni, forti della loro posizione attorno alle coorti e alle ali.
Successivamente si capì che il loro animo era più esasperato degli altri. Mettersi d’accordo per fare la guerra è, tra i malvagi, più facile che cercare la concordia in tempo di pace.
55. Nonostante tutto, le legioni della Germania inferiore furono costrette a giurare fedeltà a Galba nella solenne occasione d’inizio anno83. Lo fecero con molta esitazione e con ben striminzite acclamazioni, nelle prime file; gli altri rimasero addirittura in silenzio attendendo un atto di audacia da parte di chi gli stava a fianco perché è tipico della natura umana accodarsi prontamente alle iniziative che non si vogliono prendere in proprio.
I legionari non avevano però animo concorde: quelli della prima e quelli della quinta erano così esagitati che alcuni tra loro scagliarono sassi contro le statue di Galba. Quelli della quindicesima e della sedicesima non osavano niente di più di un fremito minaccioso, ma aspettavano il pretesto per esplodere.
Al contrario, le legioni della Germania superiore (la quarta e la ventiduesima, che condividevano i quartieri invernali) proprio in quel primo gennaio frantumarono le statue di Galba. A dire il vero più pronta fu la quarta mentre la ventiduesima esitò un poco, ma poi furono tutti d’accordo.
I legionari non volevano sembrare irrispettosi dell’impero e allora giuravano fedeltà al senato e al popolo romano (nomi ormai senza alcun valore); non ci fu un solo centurione che tentasse qualcosa a favore di Galba e anzi, come accade nei tumulti, ve n’era qualcuno di particolarmente eccitato.
Nessuno però pronunciò arringhe o salì sulla tribuna: non c’era ancora nessuno presso cui acquistare merito.
56. Ordeonio Fiacco, il legato consolare, era stato spettatore impotente di quella vergogna. Era pavido e infingardo e l’apatia lo rendeva innocuo: impossibile, per lui, frenare gli irruenti, sostenere gli esitanti, esortare i ben disposti.
Quattro centurioni della ventiduesima legione cercarono di proteggere le statue di Galba, ma furono presi dai commilitoni infuriati e messi in catene: erano Nonio Recepto, Donazio Valente, Romilio Marcello, Calpurnio Repentino84. E da quel momento nessuno mantenne viva la fedeltà al giuramento e nemmeno memoria di esso. Come in tutte le rivoluzioni, la maggioranza divenne totalità.
Nella notte tra il primo e il due di gennaio, l’alfiere della quarta legione reca a Vitellio, che stava pranzando nella colonia Agrippinese85, la notizia che la quarta e la ventiduesima legione avevano abbattuto le statue di Galba e poi giurato nel nome del senato e del popolo romano.
Vitellio giudicò assurdo quel giuramento e decise di cogliere al volo la Fortuna e di offrirle un principe. Subito fu diramata, alle legioni e ai loro comandanti, la notizia della rivolta contro Galba dell’esercito stanziato in Germania superiore. Si doveva scegliere, dunque: o combattere contro i rivoltosi o eleggere un imperatore (questa la condizione per ottenere presto concordia e pace). E c’era minor rischio nel trovarselo già pronto, che nell’andarlo a cercare.
57. Il più vicino accampamento invernale era quello della prima legione86 e il più intraprendente tra i legati era Fabio Valente. Proprio lui, il giorno dopo, entrò nella colonia Agrippinese con la cavalleria della legione e delle truppe ausiliarie e salutò Vitellio chiamandolo imperatore. Fu presto imitato, a gara, dalle legioni di quella provincia. Il tre gennaio anche l’esercito della Germania superiore, accantonati gli altisonanti nomi di senato e popolo romano, passò dalla parte di Vitellio (e si capisce bene quanto sincera fosse la fedeltà alla repubblica di appena due giorni prima).
Pari a quello dell’esercito era l’entusiasmo degli abitanti di Colonia, dei Treviri e dei Lingoni che offrivano soldati ausiliari, cavalli, armi e denaro a seconda delle disponibilità di ognuno in forza fisica, in soldi, in capacità.
Non erano solo i capi delle colonie e degli accampamenti, già ricchi e con la speranza di diventarlo ancor di più dopo la vittoria, ad offrire, invece che denaro, bandoliere e falere (cioè gli splendidi ornamenti in argento delle armature): li imitavano anche i manipoli e i soldati semplici, chi per suggerimento altrui, chi per entusiasmo e chi per calcolo.
58. Dopo aver lodato l’entusiasmo dei soldati, Vitellio distribuì tra i cavalieri i diversi incarichi di corte, che di solito erano affidati a dei liberti87. Di tasca sua pagò le esenzioni ai centurioni e concesse soddisfazione alla crudeltà dei soldati che chiedevano castighi per un gran numero di persone; con molta difficoltà, invece, riuscì a sottrarre qualcuno con il trucco di gettarlo in catene.
Il primo ad essere ucciso fu Pompeo Propinquo, procuratore della Belgica, ma Giulio Burdone, prefetto della flotta germanica, grazie all’astuzia di Vitellio, scampò alla morte88. L’esercito aveva particolari motivi di risentimento contro di lui perché aveva tramato prima accuse e poi insidie contro Fonteio Capitone. Il ricordo di Capitone era particolarmente caro ai soldati: e dunque salvare qualcuno era possibile solo di nascosto dato che, sotto la pressione di una turba inferocita, le esecuzioni dovevano essere palesi. Fu dunque messo in prigione e poi, a vittoria ottenuta e ad animi rabboniti, rilasciato. Intanto, come capro espiatorio, venne offerto il centurione Crispino che aveva le mani ancor sporche del sangue di Capitone: per chi reclamava vendetta era il bersaglio più evidente e, per chi doveva punire, quello di minor importanza.
59. Fu poi strappato al pericolo Giulio Civile, persona particolarmente influente tra i Batavi89, per non alienare con la sua esecuzione le simpatie di quel popolo fiero. In effetti nella città dei Lingoni vi erano otto coorti di Batavi, impiegate come truppe ausiliarie della quattordicesima legione. Nel clima di discordia che caratterizzava quei giorni, si erano staccate dalla legione stessa: grande importanza avrebbe avuto il loro accordarsi con una parte o con l’altra e l’averle alleate o nemiche90.
Vitellio fece uccidere i centurioni Nonio, Donazio, Romilio e Calpurnio, della cui vicenda già si è fatto cenno. Erano colpevoli di un delitto gravissimo agli occhi dei rivoltosi: il crimine di fedeltà. Si schierò dalla sua parte Valerio Asiatico, legato della provincia Belgica che ben presto Vitellio avrebbe fatto suo genero. Poi Giunio Bleso, governatore della Gallia Lugdunese con la legione Italica e l’ala di cavalleria Tauriana, tutte accampate a Lugduno.
Non esitarono a congiungersi a Vitellio neanche le truppe della Rezia e nemmeno in Britannia vi fu alcun indugio91.
60. Reggeva la Britannia Trebellio Massimo, disprezzato e inviso all’esercito per la sua sordida avarizia. Fomentava quei sentimenti di odio Roseo Celio, legato della ventesima legione che già da tempo era in disaccordo con lui ma che aveva più violentemente manifestato il suo dissenso in occasione delle discordie civili92.
Trebellio rimproverava a Celio lo spirito di rivolta e l’affievolirsi della disciplina, ma Celio aveva da rinfacciare a Trebellio la spoliazione e la conseguente povertà delle legioni. A causa di questi indecorosi contrasti tra i capi, l’obbedienza dell’esercito veniva meno e si era anzi arrivati ad un tal livello di disaccordo che Trebellio aveva cercato rifugio presso Vitellio dopo che era stato insultato perfino dai soldati ausiliari ed era stato abbandonato dalle coorti e dalla cavalleria ormai dichiaratasi a favore di Celio.
Nonostante la fuga del consolare, la provincia rimase tranquilla. Tutti i legati delle legioni, infatti, tennero il comando con parità di diritto anche se Celio prevaleva sugli altri per la sua animosità.
61. Vitellio, più forte e potente dopo aver aggregato l’esercito britannico, scelse due comandanti e indicò loro due tragitti diversi. Fabio Valente doveva precipitarsi in Italia attraverso le Alpi Cozie dopo aver cercato di attirare dalla sua parte le Gallie (o averle devastate, se si fossero dimostrate renitenti). Cecina doveva invece percorrere una strada più breve attraverso i gioghi Pennini93.
Valente ebbe il comando dei distaccamenti dell’esercito inferiore con l’aquila della quinta e le coorti e la cavalleria degli ausiliari: in tutto circa quarantamila uomini. Cecina ne comandava invece trentamila (il loro nerbo era la ventunesima legione) provenienti dall’esercito della Germania superiore.
L’uno e l’altro si videro assegnare ausiliari germanici grazie ai quali anche Vitellio potè riempire i vuoti apertisi nelle file delle sue truppe e progettare di seguire Valente e Cecina col grosso dell’esercito.
62. Incredibile era il contrasto tra l’esercito e il suo capo. I soldati chiedevano con insistenza di combattere, data l’instabilità della Gallia e le esitazioni della Spagna. L’inverno non era un ostacolo e non c’erano gli indugi di una pace indolente; bisognava invadere l’Italia e occupare Roma. Il modo più sicuro per avere la meglio nelle discordie civili risiede nella velocità di azione, nel momento in cui serve più agire che pensare.
Vitellio invece si intorpidiva nell’ozio e godeva in anticipo la fortunata condizione del principe in mezzo ad un lusso imbelle e a interminabili libagioni: a mezzogiorno era già ubriaco e appesantito dal cibo. Grazie al loro entusiasmo e alla loro energia, i soldati supplivano spontaneamente alle funzioni di comando, come se l’imperatore fosse sempre presente tra loro a infondere speranza ai valorosi e coraggio ai vili.
In armi e già schierati, chiedevano il segnale di partenza. Siccome Vitellio aveva proibito, anche dopo la vittoria, di chiamarlo Cesare, lo avevano soprannominato Germanico.
Fabio Valente e gli uomini al suo comando, ebbero, proprio nel giorno della loro partenza, un felice presagio: un’aquila, con tranquille evoluzioni, precedeva l’esercito nella sua marcia e sembrava quasi voler indicare la via. Per un lungo tratto di strada, grandi furono le grida di gioia dei soldati e grande fu la tranquillità di queirimperturbabile uccello. Così Valente ne trasse l’augurio di una impresa destinata a grande successo.
63. L’ingresso nel territorio di una tribù alleata, quella dei Treviri, fu tranquillo. Ma quando i soldati giunsero a Divoduro, cittadella dei Mediomatrici94, pur essendo stati accolti con molta cordialità, furono presi da immotivata paura: afferrate rapidamente le armi, si diedero a far strage di una popolazione inoffensiva. Non avevano obiettivi di bottino o spoliazioni, ma erano animati da furore, da rabbia e da sentimenti non definibili e dunque ancor più difficili da controllare. Finalmente le preghiere di Valente posero fine allo sterminio, ma intanto ben quattromila uomini erano caduti.
Un tale terrore invase le Gallie che, appena l’esercito si avvicinava ad una città, subito la popolazione gli correva incontro tutta intera: la gente aveva davanti i suoi magistrati e pregava; le donne ed i fanciulli si prostravano per via e veniva offerto tutto quello che poteva placare l’ira nemica. E non si era in guerra e si stava, anzi, lavorando per la pace.
64. Fabio Valente apprese nel territorio dei Leuci95 la morte di Galba e la salita al potere di Otone. Nel cuore dei soldati non c’erano gioia o paura, ma solo voglia di combattere. I popoli della Gallia posero fine alle loro incertezze visto che odiavano tanto Otone quanto Vitellio. E di Vitellio avevano anche paura.
La tribù più vicina era quella dei Lingoni, fedele al partito di Vitellio. Cordialmente accolti, i soldati gareggiavano in senso della misura, ma la convivenza pacifica durò poco per le intemperanze delle coorti che Fabio Valente aveva aggregato al suo esercito dopo che queste si erano separate, come è già stato riferito, dalla quattordicesima legione.
I primi litigi degenerarono ben presto in risse tra Datavi e legionari, con i soldati che parteggiavano ora per gli uni ora per gli altri. Si stava per arrivare ad una vera e propria battaglia, quando Valente, distribuendo qualche castigo, ricordò ai Batavi quella disciplina che essi avevano cancellato dalla memoria.
Contro gli Edui fu invano cercato un pretesto per arrivare alla guerra: questa tribù, ricevuto l’ordine di mettere a disposizione denaro e armamenti, offrì anche vettovaglie senza voler nulla in cambio. Quello che gli Edui avevano fatto per paura, i Lugdunesi fecero con gioia. Ma la legione Italica e l’ala di cavalleria Tauriana furono allontanate. E si decise anche di lasciare la diciottesima coorte a Lugduno, che era abitualmente il suo quartiere invernale.
Manlio Valente96, legato della legione Italica, per quanto benemerito della causa di Vitellio, non ebbe da questi alcun riconoscimento. Vitellio lo aveva, anzi, infamato con segrete accuse. Ma di ogni cosa Fabio era all’oscuro anche perché, per meglio ingannarlo, Vitellio lo ricolmava di pubbliche lodi.
65. Gli abitanti di Lugduno e quelli di Vienna97 avevano inasprito l’antica discordia in occasione dell’ultima guerra. Molte uccisioni erano avvenute dall’una e dall’alta parte ed erano state più frequenti e crudeli di quanto comportasse il solo fatto di parteggiare per Nerone o per Galba. Quest’ultimo poi, per sfogare il suo risentimento contro Lugduno, aveva dirottato nella sua cassa personale le rendite di quella città. Di contro, rendeva grande onore agli abitanti di Vienna: ed ecco nascere rivalità, invidia e una catena di odio tra due popoli divisi soltanto da un fiume.
I Lugdunesi presero a sobillare i singoli soldati e a spingerli alla distruzione di Vienna. Dicevano che i Viennesi avevano assediato una colonia romana, che avevano favorito i tentativi di Vindice, che avevano da poco tempo arruolato intere legioni per difendere Galba. E dopo aver ben motivato le cause di tanto rancore, facevano balenare anche la prospettiva di una ricca preda. Dalle esortazioni clandestine si era ormai passati a pubbliche preghiere: avanzassero come vendicatori e spazzassero via il focolaio della rivolta gallica.
Lì tutto era straniero ed ostile. Essi erano invece una colonia romana, parte dell’esercito, partecipi delle fortune e delle avversità: se le cose erano destinate ad andar male, non li lasciassero alle ire del nemico.
66. In tal misura, con molti discorsi di questo genere, i Lugdunesi avevano acceso gli animi che nemmeno i legati e i capi del partito pensavano che fosse possibile ammansire l’esercito ormai infuriato. Ma a questo punto, i Viennesi, che erano ben consapevoli del pericolo che correvano, andavano incontro ai soldati esibendo le sacre infule e ramoscelli d’ulivo avvolti in bende. Poi, abbracciando le armi, le ginocchia e i piedi dei nemici, riuscirono a piegarne l’animo. Valente aggiunse un dono di trecento sesterzi per ogni soldato.
Finalmente l’antica dignità della colonia riacquistò il suo prestigio e le parole, con cui Fabio raccomandò la salvezza e l’incolumità dei Viennesi, furono accolte di buon animo. I Viennesi dovettero tuttavia accettare, con pubblico provvedimento, di essere disarmati e inoltre molti privati furono costretti a sostenere l’esercito con beni di ogni genere.
Ma era particolarmente insistente la diceria secondo cui i favori dello stesso Valente fossero stati comperati con una forte somma di denaro.
Costui aveva trascorso in modo miserabile tutta la sua vita. Poi di colpo era diventato ricco. Non si curava nemmeno di mascherare la sua mutata fortuna, smodato com’era nei suoi desideri, acuiti da una lunga miseria: lui, vecchio scialacquatore con alle spalle una sordida giovinezza.
Prese a condurre il suo esercito attraverso i territori degli Allobrogi e dei Voconzi98 con esasperante lentezza; di volta in volta mercanteggiava la lunghezza delle tappe e il programma delle fermate. Era un indecoroso commercio condotto sulla pelle di possidenti e magistrati: le minacce erano così indecenti che a Luco, municipio dei Voconzi, avvicinò le torce incendiarie alla città finché fu indotto a più miti consigli con una elargizione. E quando non c’era denaro, bisognava placarlo a forza di stupri e adulteri. Questo fu il viaggio che lo condusse fino alle Alpi.
67. Cecina fu anche più ingordo di sangue e bottino. Gli Elvezi99, popolo gallico famoso un tempo per il numero di bellicosi guerrieri che riusciva a mettere in campo e ora per il ricordo di tale tradizione guerriera, avevano infiammato il suo torbido animo. Gli Elvezi non erano venuti a sapere della morte di Galba e si rifiutavano dunque di riconoscere in Vitellio il nuovo imperatore.
Il conflitto scoppiò per la impaziente avidità della ventunesima legione100 che aveva rapinato le paghe della guarnigione di una fortezza da sempre tenuta dagli Elvezi con loro soldati e a loro spese.
Gli Elvezi non sopportarono l’affronto. Intercettarono una corrispondenza tra l’esercito germanico e le legioni della Pannonia e trattennero un centurione e alcuni soldati.
Cecina voleva combattere ad ogni costo e, poiché era solito andare a vendicarsi di ogni offesa ricevuta senza dare a nessuno la possibilità di pentirsi, mosse gli accampamenti, devastò i territori, distrusse un centro abitato che, grazie alla pace in cui era sempre vissuto, aveva assunto l’importanza di municipio ed era intensamente popolato per le virtù terapeutiche delle sue acque termali e per la bellezza del paesaggio101. Furono anche mandati dei messaggeri agli ausiliari della Rezia, perché aggredissero alle spalle gli Elvezi, mentre questi erano impegnati su un altro fronte con la ventunesima legione.
68. Gli Elvezi, spavaldi prima del pericolo, furono presi dalla paura quando si trattò di affrontare sul serio la situazione. Per quanto, al primo scontro, si fossero scelti un capo nella persona di Claudio Severo102, non conoscevano le armi, non sapevano eseguire le manovre, non erano uniti nell’azione. La battaglia contro soldati ben addestrati li avrebbe portati alla rovina, ma anche sostenere un assedio tra mura vecchie e cadenti non offriva alcuna garanzia: di qui Cecina con un forte esercito, di là le truppe e le coorti della Rezia. C’erano anche i migliori giovani dei Reti, abituati alle armi e addestrati alla disciplina. In ogni luogo avvenivano devastazioni e stragi. Gli Elvezi, presi in mezzo, cominciarono a sbandarsi, a gettare le armi. Quasi tutti feriti o comunque non più collegati ai compagni, cercarono rifugio sul monte Vocezio103.
Da lì li respinse immediatamente una coorte di Traci, mandata ad aggredirli. Invano cercarono scampo nei boschi o in qualche nascondiglio: Germani e Reti li scovavano e li uccidevano. Gli Elvezi vennero trucidati a migliaia, e migliaia di loro furono venduti come schiavi. La rovina fu assoluta e Cecina avanzò con l’esercito schierato contro la capitale, Aventico. La resa fu offerta e accettata: ugualmente Cecina punì Giulio Alpino, uno dei capi e fomentatore di quella guerra. Gli altri li lasciò al perdono o alla crudeltà di Vitellio.
69. Non è facile dire se i messi degli Elvezi abbiano trovato maggior spietatezza nel comandante o nei soldati. Questi chiedono che la città sia rasa al suolo e alzano minacciosamente sul volto dei legati le mani armate. Lo stesso Vitellio si lasciava andare a parole ostili, ma Claudio Cosso, uno degli inviati, noto per la sua eloquenza ma capace di mascherare l’abilità oratoria con una ben atteggiata (e quindi più efficace) trepidazione, riuscì ad ammansire i soldati.
Succede sempre così: la massa cambia umore quando si trova di fronte ad un evento inatteso e si dimostra disponibile alla misericordia come un istante prima era stata pronta ad una crudeltà senza limiti. I soldati si mettono a piangere e chiedono con insistenza una sorte migliore: sono proprio loro ad ottenere impunità e salvezza per quella gente.
70. Cecina si trattenne nel territorio degli Elvezi alcuni giorni, per conoscere la decisione di Vitellio e per preparare il passaggiodelle Alpi. Lì fu raggiunto dalla buona notizia che l’ala di cavalleria Siliana104, acquartierata lungo il Po, aveva giurato fedeltà a Vitellio. I Siliani avevano sperimentato Vitellio in Africa, al tempo del suo proconsolato. Poi erano stati richiamati da Nerone che intendeva mandarli in Egitto. Anche da lì erano stati richiamati a causa della guerra contro Vindice e da allora erano di stanza in Italia. Per rincitamento dei decurioni (i quali non conoscevano Otone ed esaltavano Vitellio cui erano legati, la forza delle legioni in arrivo e la fama dell’esercito germanico) passarono dalla parte di Vitellio e consegnarono in dono al nuovo principe i più stabili municipi della regione transpadana: Mediolano, Novaria, Eporedia e Vercelli105.
Cecina venne a sapere tutto ciò dagli stessi legati. Poiché quella vastissima regione d’Italia non poteva essere difesa da un solo corpo di cavalleria, mandò avanti coorti di Galli, Lusitani e Britanni e squadroni germanici coi cavalieri della Petriana106. Poi indugiò un poco, assalito dal dubbio di dover deviare, attraverso i monti della Rezia, verso il Norico per dare battaglia al procuratore Petronio Urbico il quale aveva raccolto milizie ausiliarie e distrutto alcuni ponti ed era dunque considerato un fidato fautore di Otone107.
Ma per timore di perdere le coorti e la cavalleria già mandate avanti e anche per la convinzione che gloria maggiore gli sarebbe venuta dall’aver mantenuto il possesso dell’Italia, fece passare per il valico delle Pennine108 i soldati di riserva e i legionari gravati di tutti i carichi, mentre le Alpi erano ancora coperte di neve. Il Norico, pensava, gli sarebbe comunque toccato in premio della vittoria, qualunque fosse stato il teatro della guerra.
71. In quei frangenti Otone, contro la speranza di tutti, non si intorpidiva nelle mollezze e nell’inerzia: i piaceri se li sarebbe goduti in seguito, la lussuria doveva essere dissimulata e ogni atteggiamento andava adeguato alla dignità dell’impero. Naturalmente quella falsa mostra di virtù aumentava le paure per un futuro in cui i vizi sarebbero certo ricomparsi.
Fa chiamare in Campidoglio il console designato Mario Celso, sottratto alla crudeltà dèi soldati con il trucco di metterlo in catene. Otone voleva guadagnarsi la fama di uomo clemente salvando uno che era inviso perfino al suo partito. Celso confessò il crimine della sua incorrotta fedeltà a Galba e rivendicò anche il vanto di essere stato di esempio ad altri. Otone, senza aver l’aria di concedere il perdono, chiamò gli dèi a testimoni della mutua riconciliazione. Elesse anzi Mario Celso tra i più intimi amici e in seguito gli diede un prestigioso comando militare. Fu quasi una fatalità che Celso serbasse una fedeltà integra ma sfortunata anche ad Otone.
La grazia ricevuta da Celso fu ben accolta dai maggiorenti della città ed esaltata dal popolo. Nemmeno i soldati la accolsero negativamente, disposti com’erano ad ammirare quella stessa virtù che aveva eccitato il loro furore.
72. Diverse furono le cause (ma uguale la gioia) per l’ottenuta condanna di Tigellino109. Ofonio Tigellino, di oscuri natali, aveva vissuto una turpe infanzia e una vergognosa vecchiaia. Era giunto alla prefettura dei vigili e del pretorio (e anche ad altri premi che di solito sono le virtù a far conseguire) grazie ai suoi vizi, vale a dire per la via più rapida. Aveva dimostrato le perversioni tipiche degli uomini: dapprima crudeltà, poi avarizia; aveva corrotto Nerone a tutte le scelleratezze e qualcuna ne aveva tentata anche di nascosto a lui. Infine lo aveva abbandonato e tradito. E dunque di nessun altro fu richiesta la condanna con maggior foga, anche se con opposti sentimenti, sia da parte di chi odiava Nerone e sia di chi ne avvertiva invece la mancanza.
Presso Galba, Tigellino era stato autorevolmente difeso da Tito Vinio, che si scusava dicendo che gli aveva salvato la figlia. Certo, l’aveva salvata: ma sicuramente non per clemenza (quanto numerose erano già le sue vittime!), ma per procurarsi una via di fuga per il futuro. I più malvagi sono abituati a diffidare del presente e a temere il mutare delle situazioni; e dunque si procurano privati favori contro il pubblico odio. Dunque, nessuna preoccupazione per l’innocenza, ma solo uno scambio di impunità.
Il popolo era ancora più ostile perché all’antico odio contro Tigellino si aggiungeva la recente impopolarità di Tito Vinio. Da ogni parte della città ci fu un concorso di persone verso il Palazzo e le piazze. Il popolino si riversò soprattutto nel circo e nei teatri, dove meglio può sfogarsi l’arbitrio generale, con grida di rivolta. Alla fine, Tigellino, ricevuto presso i bagni di Sinuessa110 l’annuncio dell’inevitabile fine, si tagliò la gola con un rasoio, macchiando una vita già infame con una morte tardiva e indecorosa. A Sinuessa viveva in mezzo alle seduzioni delle prostitute, ai loro baci, a vergognosi indugi.
73. In quei giorni si reclamò il supplizio anche di Calvia Crispinilla111. Essa tuttavia sfuggì al pericolo con vari sotterfugi ma anche con danno per il buon nome del principe che fingeva di non vedere nulla. Era stata maestra di libidini per Nerone; poi era passata in Africa per indurre alla rivolta Clodio Macro e, come tutti sapevano, aveva cercato di affamare il popolo romano. Poi però aveva ottenuto il favore di tutta la città, grazie ad un matrimonio consolare. Visse tranquilla sotto Galba, Otone, Vitellio; era potente perché ricca e senza eredi: vantaggi preziosi sia nei tempi buoni che in quelli contrari.
74. Otone intanto mandava a Vitellio lettere sempre più frequenti e infarcite di lusinghe molto poco virili: gli offriva denaro, favori e un luogo a sua scelta per trascorrervi una vita tranquilla e agiata. Vitellio, dal canto suo, offriva uguali favori. In un primo tempo furono quasi dolci con una scambievole e indecorosa simulazione, poi divennero perfino rissosi rinfacciandosi stupri e vergogne. E nessuno dei due diceva il falso.
Otone richiamò gli ambasciatori inviati da Galba e ne mandò altri, in nome del senato, ad entrambi gli eserciti germanici, alla legione italica, alle milizie di stanza a Lugduno. Gli ambasciatori rimasero presso Vitellio con troppa prontezza per sembrare trattenuti a forza. I pretoriani che Otone aveva inviato assieme agli ambasciatori, almeno in apparenza, come scorta d’onore, furono rimandati indietro prima di potersi mescolare alle legioni.
Fabio Valente affidò loro, a nome dell’esercito germanico, delle lettere per le coorti pretorie e urbane in cui esaltava la forza del partito e offriva pacificazione. E le rimproverava inoltre per aver trasferito ad Otone il potere già affidato a Vitellio molto tempo prima112.
75. In questo modo esse venivano tentate con promesse e con minacce: erano troppo deboli per combattere e, di contro, nulla avrebbero perso accettando la pace; non per questo la fedeltà dei pretoriani venne intaccata. Intanto però Otone mandava sicari in Germania e Vitellio a Roma. Ma furono due tentativi vani: i Vitelliani non corsero rischi perché sfuggivano, in quel mare di folla, all’attenzione, essendo sconosciuti gli uni agli altri; invece gli Otoniani erano traditi dalla loro strana fisionomia (e si conoscevano bene tra loro).
Vitellio mandò delle lettere a Tiziano, fratello di Otone minacciando morte per lui e per suo figlio113, se non fossero rimasti incolumi sua madre e i suoi figli114. Comunque si salvarono entrambe le famiglie: per quanto riguarda Otone, forse, per paura; quanto a Vitellio, egli, dopo la vittoria, vi trovò motivo per ostentare la sua clemenza.
76. La prima notizia che accrebbe la fiducia di Otone venne dall?illirico: le legioni della Dalmazia, della Pannonia e della Mesia avevano giurato nel suo nome115.
Uguale notizia gli venne recata dalla Spagna e Cluvio Rufo ne ebbe lode in un editto; subito dopo però si venne a sapere che la Spagna era passata dalla parte di Vitellio. Nemmeno l’Aquitania116, sebbene obbligata da Giulio Cordo117 a giurare fedeltà a Otone, gli rimase fedele a lungo.
In nessun luogo si agiva per amore o fedeltà; ovunque paura e bisogno determinavano le scelte. Ugual timore (è facile consegnarsi a chi è più vicino e più forte) fece volgere a Vitellio la Gallia Narbonese.
Le province lontane e le forze d’oltremare rimasero con Otone, non per scelta di parte, ma perché avevano ancora grande peso il nome di Roma e l’autorità del senato; inoltre era di Otone che si era parlato per primo e per questo egli si era insediato negli animi. Vespasiano indusse a prestar giuramento ad Otone le legioni della Giudea, Muciano compì lo stesso atto con quelle della Siria118. Parimenti in nome suo erano governati l’Egitto e tutte le province d’Oriente. Anche l’Africa fece pari atto di sottomissione: l’iniziativa fu di Cartagine che non attese nemmeno l’autorizzazione del proconsole Vipstano Aproniano119. Crescente, un liberto di Nerone (infatti negli anni bui anche personaggi del genere si intromettono nella cosa pubblica) aveva offerto alla plebaglia un banchetto per festeggiare il nuovo imperatore; il popolo, privo di senso della misura, affrettò ogni cosa. Le altre città seguirono Cartagine.
77. Poiché erano tanto disperse le forze degli eserciti e delle province, Vitellio doveva per forza ricorrere ad una guerra per arrivare al principato. Otone invece assolveva alle funzioni del principato come se la pace fosse assoluta. Alcune cose erano fatte secondo la dignità che la gestione dello stato esigeva, ma la maggior parte degli incarichi era improntata ad una fretta indecorosa e a decisioni prese al momento.
Fu console egli stesso fino al primo marzo col fratello Tiziano. I mesi successivi li aveva destinati a Verginio, quasi a voler accontentare l’esercito della Germania120. A Verginio viene imposto come collega Pompeo Vopisco121, col pretesto di una consolidata amicizia, ma in realtà, secondo la convinzione di molti, per rendere omaggio alla città di Vienna. Gli altri consolati seguirono le designazioni già fatte da Nerone o Galba: Celio e Flavio Sabino fino al primo di luglio, Arrio Antonino e Mario Celso fino al primo di settembre. Nemmeno Vitellio, una volta vincitore, interferì in questa distribuzione delle cariche122.
Auguri e pontefici divennero, per opera di Otone, vecchi magistrati che in tal modo videro ulteriormente aumentata la loro dignità; reintegrò poi, a titolo di riparazione, nei sacerdozi aviti e paterni, dei giovani nobili da poco ritornati dall’esilio. Cadio Rufo, Pedio Bleso e Scevino Paquio si videro restituire il loro seggio senatorio. Sotto Claudio e Nerone erano stati condannati per concussione, ma a chi perdonò loro piacque cambiare il nome del reato: non rapina, come in verità era, ma lesa maestà. In odio a questa parola cadevano nel dimenticatoio perfino le buone leggi123.
78. Con la stessa generosità cercò di cattivarsi anche il favore di città e province. Per Ispali ed Emerita consentì l’invio di nuove famiglie; a tutti i Lingoni concesse la cittadinanza romana; decretò l’annessione alla provincia Betica di alcune città della Mauritania. Poi, nuovi diritti per Cappadocia e Africa: concessioni appariscenti più che stabili124.
Erano atti, questi, che trovavano giustificazione nelle necessità e nelle assillanti preoccupazioni del momento. Ma Otone non fu immemore nemmeno dei suoi amori e, mediante senatoconsulto, fece rialzare le statue di Poppea125; girava perfino la voce che egli, con la speranza di catturare le simpatie del popolo, pensasse di riabilitare la memoria di Nerone. Non mancò chi espose in pubblico immagini di Nerone; popolani e soldati, quasi a voler accrescere nobiltà e decoro, per alcuni giorni lo acclamarono col nome di Nerone Otone. Egli tenne un comportamento ambiguo, tra paura di vietare quella manifestazione e vergogna di riconoscerla.
79. Poiché tutti gli animi erano rivolti alla guerra civile, la politica estera era del tutto dimenticata. Un popolo della Sarmazia, i Rossolani126, fattisi perciò più arditi, avevano invaso con grandi speranze la Mesia, visto che nel precedente inverno avevano distrutto due coorti: circa novemila cavalieri portati da quel successo e dalla loro ferocia più a predare che a combattere. La terza legione127, rinforzata dei suoi ausiliari, li attaccò mentre erano dispersi e non si aspettavano di essere attaccati.
Tutto, nella situazione strategica, era favorevole ai Romani: i Sarmati erano sparpagliati a far bottino, appesantiti dai loro bagagli, privati della possibilità di lanciare al galoppo i cavalli dato che la strada era scivolosa. Così si facevano ammazzare come fossero legati.
È singolare come tutto il valore dei Sarmati risieda, se così si può dire, fuori della loro persona. Nessuno è più inetto di loro a combattere a piedi, ma se caricano in formazione serrata, nessuna schiera, anche la più compatta, riesce a resistergli.
Quello era inoltre un giorno molto umido per via del disgelo in atto ed essi non riuscivano ad utilizzare le lance e le spade che sono così lunghe da dover essere usate a due mani. I cavalli scivolavano e il peso delle loro armature era opprimente. Le armature dei principi e dei nobili sono costruite intrecciando lamine di ferro o lacci di cuoio molto duro: sono impenetrabili ai colpi, è vero, ma impediscono di rialzarsi quando uno cade sotto l’impeto di un attacco. Così la neve molle e profonda finiva con l’inghiottirli.
I soldati romani erano invece molto agili, grazie alla loro corazza leggera, e saltavano dove più serviva impugnando giavellotti e piccole lance. Con il gladio corto trapassavano i Sarmati praticamente inermi, visto che costoro non sono soliti portare scudi. Furono pochi i superstiti che riuscirono a nascondersi nelle paludi dove morirono per il rigore invernale o per le ferite riportate.
Quando a Roma si seppe di questa vittoria, M. Aponio, che reggeva la Mesia, ebbe la statua trionfale128; Fulvo Aurelio, Giuliano Teli io, Numisio Lupo, legati delle legioni, ricevettero le insegne consolari129. Otone ne fu lietissimo e cercava di usurpare la gloria della vittoria, quasi fosse stato lui a riportare quel successo e ad accrescere la repubblica con i suoi generali e i suoi soldati.
80. Ma proprio in quei giorni da una causa insignificante e che in sé non aveva nulla di minaccioso, nacque una rivolta che fu quasi esiziale a Roma. Otone aveva fatto venire in città la diciassettesima coorte dalla colonia di Ostia. L’incarico di equipaggiarla fu dato a Vario Crispino130, tribuno dei pretoriani. Egli per eseguire con miglior agio gli ordini (cioè mentre la caserma era tranquilla), ordina che i veicoli della coorte, una volta aperto il deposito delle armi, siano caricati sul far della notte. La scelta dell’ora si ingigantì fino a diventare sospetto, il motivo divenne un delitto, la ricerca di un momento tranquillo si trasformò in tumulto. Come succede sempre tra ubriachi, la vista delle armi destò la voglia di impadronirsene.
I soldati furono percorsi da una nuova apprensione e accusarono tribuni e centurioni di tradimento come se le famiglie dei senatori si preparassero in armi a far fuori Otone. Alcuni non sapevano bene cosa stessero facendo perché erano ubriachi, ma tutti i peggiori erano attirati dalla prospettiva di bottino. La gente, come sempre accade, era vogliosa di rivolgimenti e la notte aveva vanificato il tentativo di riportare disciplina da parte dei meglio disposti.
I soldati ammazzano il tribuno che cerca di sedare la rivolta e i centurioni più severi, rapinano le armi, snudano le spade. Saltano a cavallo e si dirigono verso Roma e verso il Palazzo.
81. Otone era intento ad un sontuoso banchetto assieme a uomini e donne eminenti in Roma. Costoro furono presi da grande paura: si trattava di uno degli abituali schiamazzi dei soldati o di un tradimento dell’imperatore? Era più rischioso rimanere e farsi prendere oppure fuggire e disperdersi? Ostentavano coraggio ma, a tratti, tradivano grande paura. Intanto osservavano l’espressione di Otone; come sempre succede quando nell’anima si annida il sospetto, Otone incuteva paura ed era invece, a sua volta, impaurito.
Atterrito dal pericolo del senato non meno che dal proprio, aveva subito mandato i prefetti del pretorio ad ammansire il furore dei soldati. Aveva poi imposto ai suoi ospiti di andarsene tutti e in fretta. I magistrati gettarono i distintivi della loro carica e si dispersero qua e là, dopo aver perfino congedato il seguito di schiavi e clienti; allo stesso modo i vecchi e le donne, percorrendo al buio i vicoli più solitari della città, tornarono a casa. Furono i meno: la maggior parte cercò un nascondiglio, comunque insicuro, presso un amico o presso il più umile dei clienti.
82. Nemmeno le porte del Palazzo valsero a frenare il furore dei soldati e ad impedir loro di entrare. Chiesero che Otone si facesse vedere, mentre ormai il tribuno Giulio Marziale e il prefetto della legione Vitellio Saturnino131 erano stati feriti nel tentativo di opporsi agli invasori. Armi e minacce da ogni parte, ora contro i centurioni e i tribuni, ora contro l’intero senato: un cieco terrore aveva ormai travolto gli animi; gli assalitori cercavano in ogni persona un bersaglio per il loro furore poiché non esisteva nessuno contro cui singolarmente scagliarsi.
Alla fine Otone, dimentico della sua dignità imperiale, salì su un triclinio e con preghiere e lacrime riuscì a fatica a ristabilire la calma. Di malavoglia e certamente non incolpevoli, i soldati tornarono alla caserma.
Il giorno dopo sembrava che la città fosse stata invasa dal nemico: case sbarrate, radi passanti per strada, tristezza diffusa tra la gente. I soldati avevano la testa bassa e, più che pentiti, erano scontenti. I prefetti Licinio Proculo e Plozio Firmo li arringarono manipolo per manipolo, in modo più cordiale o più aspro a seconda del carattere di ognuno. Il loro discorso si concludeva con la concessione di cinquemila sesterzi ad ogni soldato. Solo allora Otone osò entrare nell’accampamento.
Subito fu circondato da tribuni e centurioni che, dopo aver gettato via le insegne del loro grado132, implorarono vita e congedo. I soldati compresero allora quanto male si erano comportati e, atteggiati a sottomissione, chiedevano spontaneamente la punizione per i sobillatori.
83. La situazione era ancora profondamente perturbata e gli animi dei soldati erano discordi. Ogni buon cittadino chiedeva un freno alla licenza di quei tempi, ma quella maggioranza del popolo che aveva tutto da guadagnare dalle sedizioni e da un impero in mano ai profittatori, era, tra torbidi e rapine, più facilmente indotta alla guerra civile. Otone riteneva che un impero ottenuto con il crimine non potesse essere mantenuto con un repentino ritorno alla disciplina e all’antica severità; nel contempo era preoccupato per la critica situazione della città e per i pericoli che il senato correva.
Allora si rivolse così ai soldati: «Miei commilitoni, mi presento a voi non per accendere, nel vostro animo, amore verso di me e nemmeno per esortarvi all’ardimento perché l’una e l’altra cosa voi possedete in abbondanza. Chiedo invece un freno al vostro valore e di dimostrare in modo meno violento l’amore verso di me. I recenti tumulti non hanno avuto inizio dalla cupidigia e dall’odio (che sono spesso la causa delle discordie degli eserciti) e nemmeno dalla paura di affrontare i pericoli: essi sono stati originati dall’amore, ma il vostro entusiasmo doveva essere frenato dalla riflessione. Spesso motivazioni oneste generano conseguenze disastrose, se non sono giudiziosamente sorvegliate.
Andiamo alla guerra. Vi pare ragionevole e adeguato alla velocità con cui certe situazioni devono essere affrontate che tutti i messaggi siano riferiti in pubblico o che ogni piano sia studiato alla presenza di tutti? È giusto che i soldati alcune cose le sappiano, altre no. Se vogliamo che i capi siano autorevoli e la disciplina rigorosa, perfino ai centurioni e ai tribuni si devono dare soltanto ordini. Se ogni subalterno che riceve un ordine lo dovesse mettere in discussione, non ne risentirebbe solo la disciplina ma lo stesso principio di autorità.
Anche in tempo di guerra voi pensate di poter rapinare armi nel cuore della notte? Uno o due delinquenti ubriachi (perché io credo che non più di tanti siano impazziti fino a far nascere la rivolta della notte scorsa) immergeranno le mani nel sangue di un centurione o di un tribuno e magari irromperanno anche nella tenda del loro imperatore?
84. Certo voi avete fatto ogni cosa per me. Ma da questo compiere scorrerie nel buio e dalla confusione generale, può venire la mia rovina. Se Vitellio e i suoi manutengoli potessero scegliere, quale stato d’animo, quali intenzioni potrebbero augurarci, che altro desiderare per noi se non la rivolta e la discordia? Certo vorrebbero che i soldati non seguissero più i loro centurioni e i centurioni disobbedissero ai tribuni. In tal modo, con i soldati confusi ai cavalieri, andremmo tutti in rovina.
Miei commilitoni, le istituzioni militari rimangono salde solo grazie all’obbedienza, non discutendo gli ordini. E l’esercito più forte nel pericolo è proprio quello che sta ordinato e tranquillo in tempo di pace.
A voi le armi e il coraggio. E lasciate a me le decisioni e la disciplina del vostro valore. La colpa è stata di pochi, la punizione colpirà due soltanto. Tutti gli altri cancellino dalla mente il ricordo di una notte piena di vergogne.
E nessun esercito, in nessun luogo, senta mai le parole che voi avete pronunciato contro il senato. Invocare punizioni sulla testa dell’impero e sull’ornamento di ogni provincia, per Ercole, non oserebbero nemmeno coloro che Vitellio ci sta scagliando contro, i Germani. Una gioventù autenticamente romana e persone cresciute in Italia avranno davvero il coraggio di chiedere una sanguinosa punizione per quell’ordine senatorio grazie al cui splendore e gloria ci accingiamo ad eclissare la torbida oscurità dei Vitelliani? Vitellio ha attirato dalla sua qualche popolazione, ha perfino messo insieme un fantasma di esercito: ma noi abbiamo il senato dalla nostra parte. Dunque di qua c’è lo stato, di là chi ad esso si oppone.
Cosa debbo dire ancora? Voi pensate che questa bellissima città sia fatta solo di case, di palazzi, di pietre messe l’una sopra l’altra? Queste cose mute e senz’anima possono indifferentemente essere distrutte e ricostruite. Di contro, l’eternità dell’impero, la pace delle genti, la mia come la vostra salvezza sono garantite dall’integrità del senato.
Questo istituto, che il padre e fondatore della vostra città creò dopo aver tratto gli auspici, consegnamolo ai posteri come lo abbiamo ricevuto dagli avi: esso è durato immortale nei secoli dal tempo dei re al tempo dei principi. Come dalle vostre file provengono i senatori, così dai senatori nascono i principi».
85. Queste parole avevano insieme biasimato e ammansito gli animi dei soldati. Dunque furono bene accolte (anche perché apparve non troppo severa l’intenzione di punire due soli colpevoli) e valsero anche a tenere a bada, almeno per il momento, quelli che non potevano essere costretti a forza. Tuttavia la città non tornò tranquilla: si udiva rumore di armi e si respirava atmosfera di guerra. I soldati, impediti a tumultuare compatti nelle piazze, si sparpagliavano travestiti per le case e spiavano subdolamente tutti quelli di cui si parlava o per la loro nobiltà o per le loro ricchezze o per qualche atto significativo che avessero compiuto.
Erano poi in molti a credere che anche i Vitelliani fossero entrati in città per conoscere le simpatie verso il loro partito. Così il sospetto allignava ovunque e nemmeno l’intimità della famiglia era risparmiata dalla paura. Però il massimo dell’inquietudine si rivelava nelle situazioni pubbliche: l’animo e l’espressione di tutti erano inevitabilmente influenzati da qualunque notizia la fama portasse. Tutti si preoccupavano di non rivelare scoramento alle notizie incerte; ma se le notizie erano buone, la gioia non doveva sembrare scarsa.
I senatori furono radunati tutti nella curia. Per loro non era facile mantenere equilibrio in ogni situazione: il silenzio non doveva essere interpretato come arroganza e la franchezza non doveva destare sospetti. Otone stesso, che da privato cittadino aveva assunto i medesimi atteggiamenti, conosceva bene l’adulazione.
Eccoli allora i senatori a rimescolare i propri pareri e a stiracchiarli di qua e di là. Vitellio lo definivano nemico e parricida: le accuse lanciate dai senatori prudenti erano generiche, mentre altre sembravano ben fondate. Ma tuttavia anche queste venivano proferite in mezzo al clamore, dove più fitte erano le voci. E qualcuno, perfino, le mascherava gridando in modo esagitato e confuso.
86. Alcuni prodigi, che trovo citati in più fonti, appesantivano il clima di paura. Nel vestibolo del Campidoglio le redini della biga erano cadute di mano alla Vittoria che la guidava. E dal sacrario di Giunone si era materializzato un fantasma di proporzioni superiori a quelle umane133. La statua del divo Giulio, che sorgeva nell’isola Tiberina, si era girata da occidente verso oriente anche se il tempo era buono e non soffiava vento134; in Etruria un bue aveva parlato e si erano visti animali che partorivano mostri. Non mancarono molti altri prodigi cui, in tempo di barbarie, si dava importanza anche durante la pace e ai quali ora si presta attenzione solo in situazioni di paura generale.
Ma il più grande timore di future calamità, oltre a quelle presenti, fu originato da una improvvisa inondazione del Tevere. Le acque del fiume, oltremisura cresciute, distrussero il ponte Sublicio135 e poi, trovando la strada ostruita dalla gran quantità di macerie, invasero non solo le zone basse e pianeggianti di Roma, ma anche quelle non abituate a subire tali disastri. Molte persone vennero spazzate via mentre camminavano per strada, ma ancora maggiore fu il numero di coloro che vennero sorpresi nelle case e nelle botteghe. Il cibo mancava e vennero meno anche i guadagni: il popolo era alla fame. Le acque stagnanti compromisero la stabilità delle fondamenta di molti isolati che, quando il fiume si ritirò, crollarono.
Poi, appena gli animi furono sgombri dalla paura, il fatto stesso che Otone trovasse sbarrata, al campo Marzio e sulla via Flaminia136, la sua marcia verso i posti in cui si combatteva, veniva interpretato come un prodigio che annunciava imminenti stragi (anche se era dovuto a cause fortuite e naturali).
87. Otone purificò la città e compì un ultimo esame dei piani di guerra. Poiché le Alpi Pennine e Cozie e anche ogni altro accesso alle Gallie era presidiato dai Vitelliani, stabilì di portare il suo attacco alla Gallia Narbonese137 facendo affidamento sul valore della flotta fedele al suo partito, dato che lui aveva ordinato in reparti di legione coloro che erano scampati alle stragi di ponte Milvio ed erano poi stati buttati in prigione per la crudeltà di Galba. Agli altri fu fatta balenare, per il futuro, la speranza di una brillante carriera militare. Rinforzò la flotta con coorti urbane e gran numero di pretoriani; erano costoro il fior fiore deiresercito, consiglieri e custodi dei comandanti stessi.
Il comando della spedizione fu affidato a due primipilari, Antonio Novello e Suedio Clemente, e ad Emilio Pacense cui aveva restituito il tribunato toltogli da Galba.
La sovraintendenza alle navi fu conservata dal liberto Mosco, lasciato al suo posto da Otone; egli, dunque, sorvegliava persone di grado superiore al suo. Alla cavalleria e alla fanteria furono destinati come comandanti Suetonio Paolino, Mario Celso e Annio Gallo; ma la fiducia massima era riposta in Licinio Proculo, prefetto del pretorio. Egli era un elemento molto attivo della milizia urbana, ma non capiva nulla di guerra; metteva in discussione il prestigio di Paolino, il rigore di Celso, l’esperienza di Gallo (cioè le doti migliori di ognuno) e in questo modo, con grande facilità, sopravanzava i buoni e i moderati, lui, astuto e malvagio138.
88. In quei giorni fu relegato nella colonia di Aquino, Cornelio Dolabella. La custodia cui era sottoposto non era troppo stretta ma nemmeno dissimulata; del resto non era accusato di nulla ma bastavano a renderlo sospetto l’antico nome e la parentela con Galba139. Otone ordina che si tengano pronti a partire assieme a lui molti magistrati e moltissimi consolari: non dovevano prendere parte alla guerra o assumere qualche incarico, ma semplicemente fargli da seguito. Tra loro era Lucio Vitellio140, trattato esattamente come gli altri: né fratello di un imperatore né nemico.
Roma era preda dell’apprensione. Nessuna classe sociale poteva dirsi lontana dal pericolo o senza paure. I più influenti senatori indeboliti dagli anni e imbelli per la lunga pace, i nobili impigriti e dimentichi dello spirito guerriero, i cavalieri inesperti del servizio militare quanto più si sforzavano di occultare e mascherare la paura tanto più apparivano spaventati.
Di contro, c’erano anche quelli che, per sciocca vanità, comperavano armi appariscenti e splendidi cavalli. Alcuni arrivarono a procacciarsi lussuosi arredi da convito e raffinati moltiplicatori della loro libidine, quasi fossero strumenti utili a combattere.
I più saggi avevano a cuore la pace e la sorte della repubblica, ma prevalevano la superficialità e la leggerezza di chi si gonfiava di vane speranze. Molti che in pace erano inquieti avendo perduto ogni credito, godevano della perturbazione generale e si sentivano sicuri in mezzo all’incertezza altrui.
89. La plebe e il popolo, una moltitudine enorme e dunque esclusa dalla partecipazione alla cosa pubblica, cominciarono ad avvertire gli effetti negativi della guerra: i capitali pubblici erano assorbiti dalle spese militari e i prezzi del cibo aumentavano. Nemmeno durante la rivolta di Vindice malanni simili avevano oppresso la gente anche perché allora la città non era stata nemmeno sfiorata dalle angustie e la guerra tra legioni e Gallie, combattuta nelle province, era rimasta, per così dire, fuori portata.
E in effetti da quando il divo Augusto aveva instaurato il potere dei Cesari, ai Romani era toccato di combattere solo lontano da casa e per il rischio o la gloria di una sola persona. Sotto Tiberio e Gaio lo stato patì solo i mali che caratterizzano ogni periodo di pace; del tentativo sedizioso di Scriboniano contro Claudio si ebbe notizia e immediatamente scattò la repressione141. E Nerone era caduto più per notizie artatamente contraffatte che per azioni militari. Ma ora le legioni, le flotte e, cosa inusitata in altri tempi, perfino le coorti pretorie e le milizie urbane sono condotte a fare la guerra. L’Oriente e l’Occidente con tutte le forze di rincalzo dall'una e dall’altra parte, avrebbero offerto di che guerreggiare a lungo, se solo si fosse combattuto sotto altri capi.
Mentre Otone partiva qualcuno gli obiettò che forse si imponeva un ritardo per motivi religiosi, visto che gli ancili non erano ancora stati riposti142. Otone ricordava bene come le esitazioni fossero state fatali a Nerone e rifiutò ogni indugio, anche perché lo preoccupava la notizia che Cecina aveva già passato le Alpi.
90. Il 14 marzo, dopo aver affidato la repubblica ai senatori, concesse a quelli che aveva richiamato dall’esilio ciò che restava delle spoliazioni neroniane. Era un dono che spettava di diritto ed era anche apparentemente grandioso; in pratica esso avrebbe portato ben pochi vantaggi perché da tempo ne era stata sollecitata la confisca.
Convocata l’assemblea del popolo, esaltò la maestà di Roma e il consenso del senato e di tutti i cittadini verso la sua persona. Parlò poi contro Vitellio, ma con grande moderazione, e deplorando più la superficialità dei legionari che la loro tracotanza. Di Vitellio non citò mai il nome sia per discrezione sia perché chi gli aveva scritto il discorso, temendo per sé, si era ben guardato da lanciare troppi insulti. Si pensava infatti che Otone, come si serviva di Suetonio Paolino e Mario Celso per le consulenze militari, impiegasse l’abilità di Galerio Tracalo per quelle civili143. Qualcuno riconosceva il suo stile, famoso perché spesso ascoltato nel Foro dove risuonava solenne ed efficace a riempire le orecchie del popolo.
Le grida e le voci del popolo furono false ed eccessive (come sempre succede quando lo scopo è quello di adulare), quasi salutassero il dittatore Cesare o l’imperatore Augusto. La gente gareggiava nelle manifestazioni di entusiasmo e devozione, non per paura o amore, ma per istinto servile. E proprio come accade tra i servi, ognuno pensava al proprio utile e non faceva alcun conto del decoro della repubblica.
Otone partì, affidando al fratello Salvio Tiziano la tranquillità della città e il governo dell’impero.