Nota introduttiva

a «Storie» (frammenti)



Dopo la Congiura di Catilina e la Guerra contro Giugurta Sallustio passò ad un’opera di più ampio respiro, e non più monografica, ma storica. Purtroppo, delle sue Storie a noi è rimasto ben poco, ma quel poco è quanto basta a farci rimpiangere dolorosamente l’opera intera.

Questa partiva dall’anno 78 a.C. (morte di Silla) e giungeva al 67’-66. Probabilmente doveva proseguire almeno sino alla morte di Mitridate (63 a.C.), ma a quel punto fu probabilmente interrotta dalla morte dell’autore.

Sono anni densi di avvenimenti, sia in Italia e in Europa, sia in Asia Minore. Tra i principali si ricordano: il consolato di M. Emilio Lèpido e Q. Lutazio Cùtulo (anno 78); la guerra contro Sertòrio in Spagna e l’ardua vittoria di Pompeo; la guerra di Spàrtaco e dei suoi gladiatori (anni 73-71), conclusa vittoriosamente da M. Licinio Crasso, e un po’ anche da Pompeo; il consolato di Pompeo e Crasso (anno 70); la vittoria di Pompeo sui pirati (anno 67). Nel frattempo si aveva la cosiddetta seconda guerra mitridatica (anni 74-63), condotta da L. Licinio Lucullo e poi da Pompeo.

Delle Storie di Sallustio abbiamo frammenti sparsi, tratti dalle citazioni che ne hanno fatto gli scrittori successivi (in particolare i grammatici), ma anche e soprattutto degli estratti più ampi che qualcuno sul finire dell’antichità ha raccolto in una specie di antologia. Si tratta di discorsi e di lettere. Probabilmente chi ha messo insieme il florilegio (nel quale ha incluso anche discorsi e lettere tratti dal Catilina e dalla Giugurtina) si è reso ben conto non solo della loro importanza nell’economia della storia, ma anche della bellezza di quei brani. E ce li ha salvati.

Si tratta di sei squarci estremamente abili ed affascinanti, così come, del resto, sono abilissimi ed affascinanti le lettere e i discorsi inseriti nelle due monografie: basti pensare, per la Giugurtina, a quel capolavoro che è il discorso di Mario al popolo dopo la sua elezione al consolato. Ognuno dei sei protagonisti, grazie all’abilità dialettica che gli presta Sallustio, riesce a far apparire se stesso come l’unico portatore della verità e della giustizia.

Daremo qualche breve notizia su ciascuno degli estratti.

I. Discorso del console Lèpido al popolo. M. Emilio Lèpido, padre del futuro triumviro, arricchitosi all’epoca delle proscrizioni sillane con l’acquisto dei beni tolti ai proscritti, e poi anche durante la pretura in Sicilia (anno 81), dopo il ritiro di Silla passò al partito democratico e, console nel 78, attaccò violentemente la politica sillana. Il suo discorso al popolo è appunto uno di tali attacchi.

II. Discorso di L. Marcio Filippo in Senato. Lèpido (il Lèpido del discorso precedente), durante il suo consolato fece una politica rivoluzionaria: manovrò demagogicamente e sfacciatamente a favore della plebe, di cui voleva accattivarsi il favore, con l’ambizione di sostituire Silla nell’impadronirsi del potere assoluto. Quando una rivolta si scatenò nell’Etruria, i due consoli furono incaricati dal Senato di domarla. Ma, conclusa quella vicenda, Lèpido non volle congedare il suo esercito (che invece ingrossò con i proscritti di Silla e i resti del partito mariano), anzi, minacciò la città imponendo dure condizioni a tutto beneficio della plebe. Il senato, apatico, stava per cedere, quando L. Marcio Filippo, con un discorso che tenne contro Lèpido (e che è appunto questo, ricreato da Sallustio), riuscì a scuotere il senato e a farlo reagire. Lèpido fu dichiarato nemico dello Stato, e si ricorse al senatus consultum ultimum per restaurare la legalità. Lèpido, sconfitto, si rifugiò in Sardegna, dove poco dopo morì.

III. Discorso di Gaio Cotta al Popolo Romano. Siamo nel 75 a.C. La situazione in Roma e per Roma era assai grave. La rivolta di Sertòrio in Spagna, quella di Spàrtaco in Italia, l’attività demagogica del tribuno della plebe Gneo Licinio, erano tutti fattori che avevano portato un forte rincaro dei generi alimentari e quindi l’inquietudine della plebe pronta alla rivolta armata. Console (insieme con L. Ottavio) era Gaio Aurelio Cotta. In un suo discorso al popolo (appunto questo che gli attribuisce Sallustio) egli mette bene in chiaro che la grave contingenza economica non è colpa del governo attuale, il quale ha ereditato una situazione portata da diversi elementi indipendenti dalla sua volontà. Personalmente, però, egli si offre, in certo modo, come capro espiatorio: lo colpiscano pure, ma sappiano che egli è innocente, che ha sempre agito per il bene della Patria, e che ad essa si sacrifica come gli antichi condottieri offrivano la loro vita agli dèi inferi per averne in cambio la vittoria in una battaglia ormai compromessa.

Il discorso indusse il senato a emanare un decreto che alleviava la misera condizione della plebe affamata.

IV. Lettera di Gneo Pompeo al senato. Siamo nello stesso anno 75. Da più di due anni Pompeo era in Spagna a lottare duramente contro Sertòrio. Ma da Roma non gli giungevano né rinforzi, né viveri né denaro per pagare i soldati. Più volte Pompeo aveva inutilmente inviato messaggi e messaggeri al senato per sollecitare gli invii; ora, esasperato, scrive la lettera che Sallustio rielabora e ci riferisce. Il condottiero si richiama al suo passato e anche alle vittorie riportate inizialmente sulle forze nemiche nell’attuale guerra. Amaramente constata che peggio non potrebbe essere trattato dal senato se egli avesse rivolto le sue energie contro Roma anziché in sua difesa e per la sua gloria. La necessità lo ha costretto a dar fondo ai suoi beni privati per pagare l’esercito e sfamarlo. Ora non ha più nulla. Se il senato non provvede al più presto, c’è il rischio che l’esercito, demoralizzato, si rivolga contro Roma stessa.

La lettera ebbe l’effetto desiderato: finalmente quell’apatico senato, sollecitato anche dai nuovi consoli Lucullo e Cotta si decise a provvedere.

V. Discorso del tribuno Macro alla plebe. Anno 73 a.C. Sotto la pressione della plebe, ancora assillata dal bisogno di viveri a prezzo accessibile, il senato fece ad essa diverse concessioni. Tra l’altro ci fu la distribuzione gratuita di cinque moggi di grano a testa ogni mese. Ma anche questa assegnazione non soddisfece la plebe, e, per essa, i suoi agitatori: troppo tardiva e, soprattutto, volta ad asservire la plebe stessa, consentendole appena di non morire di fame. Questi sono gli argomenti che, nel discorso immaginato o ricostruito da Sallustio, sostiene il tribuno Gaio Licinio Macro. Dopo aver detto tutto il male possibile della classe dirigente, egli invita la plebe a ricorrere all’arma che più toccherà la nobiltà: il rifiuto del servizio militare finché non siano restaurati tutti i diritti della potestà tribunizia, infirmati da Silla e non ancóra ripristinati.

VI. Lettera di Mitridate. È la lettera che Mitridate, re del Ponto, dopo numerose sconfitte subite ad opera di Lucullo, avrebbe scritto ad Arsace XII, re dei Parti, per invitarlo a unirsi a lui nella lotta contro Roma. La lettera, che è da collocare nel 68 a.C., è interessante soprattutto perché Sallustio fa esprimere a Mitridate una durissima condanna dell’avidità e dell’imperialismo romano, che non sembra affatto tanto lontana dalle idee dello scrittore. È qualcosa di simile al discorso che Tacito nell’Agricola (cc. 30-32), mette in bocca al britanno Calgaco. In ogni caso, che Sallustio condividesse o non la condanna dell’imperialismo e soprattutto della insaziabile avidità di Roma, è chiaro che i Romani avevano ben precisa coscienza dell’impressione che il loro modo di agire faceva sui popoli via via affrontati.

FRANCESCO CASORATI

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
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