Libro quarto

 

Il quarto libro conclude la narrazione degli eventi dell’anno 69 d.C. (822 di Roma) e racconta i primi mesi dell’anno 70 d.C. (823 di Roma).

69 d.C. e 70 d.C.: furono consoli Flavio Vespasiano Augusto (seconda volta) e Tito Flavio Vespasiano.

 

1. La morte di Vitellio segnò la fine della guerra, non l’inizio della pace1. I vincitori in armi braccavano con odio implacabile i vinti attraverso tutta la città. Le strade erano luogo di massacro, nei fori e nei templi scorreva il sangue di quelli che venivano trucidati qua e là, come il caso li offriva alla strage. Il disordine aumentava: chi si nascondeva, veniva scovato e tirato fuori. Appena si trovava uno alto e giovane, lo si uccideva senza stare a guardare se era un soldato o un privato cittadino2.

La ferocia, alimentata da odio recente, si saziava di sangue; poi era diventata avidità di bottino. Col pretesto che ovunque poteva nascondersi un vitelliano, non vi era luogo che restasse segreto e inviolato. Cominciò così la forzatura delle porte delle case; e se si trovava resistenza, questo era un pretesto per uccidere. Naturalmente abbondavano gli straccioni e gli schiavi miserabili che tradivano i ricchi padroni, ma altri furono denunciati perfino dagli amici.

Lamenti ovunque, grida di dolore, il tragico destino di una città conquistata: si arrivò a rimpiangere la prepotenza, fino a quel momento tanto odiosa, dei soldati di Otone e di Vitellio. I comandanti del partito flaviano erano stati accaniti nell’accendere la guerra civile, ma ora si dimostravano incapaci di imporre moderazione nella vittoria. Il fatto è che negli sconvolgimenti e nei disordini è la feccia ad avere più influenza, mentre pace e concordia esigono persone di grandi qualità morali.

 

2. Domiziano si era visti assegnare il nome di Cesare e la sede imperiale; ancora non si dedicava agli affari di stato, ma, tra stupri e adulteri, faceva bene la parte del figlio del principe.

La prefettura del pretorio era nella mani di Arrio Varo; l’autorità suprema in quelle di Primo Antonio. Costui sottraeva denaro e servi alla casa del principe come se si trattasse del bottino di Cremona. Tutti gli altri, modesti o di bassa condizione sociale, erano rimasti oscuri in guerra e non partecipavano alla distribuzione dei premi.

La città era impaurita e pronta a darsi ai nuovi padroni; chiedeva che si prevenisse Lucio Vitellio che stava venendo da Terracina con le coorti e che fossero estinti gli ultimi focolai di guerra. Furono mandati ad Arida dei cavalieri, mentre le legioni furono schierate al di qua di Roville3. Vitellio non esitò: consegnò se stesso e le coorti all’arbitrio del vincitore; i soldati, dal canto loro, gettarono via le armi sfortunate per ira non meno che per paura.

La lunga teoria dei soldati arresi attraversò la città tra due siepi di nemici in armi; nessuno aveva il viso supplice; erano atteggiati piuttosto a una minacciosa severità e procedevano indifferenti agli applausi di scherno che la folla insolente indirizzava loro. Pochi tentarono di aprirsi un varco e furono schiacciati da chi li attorniava; gli altri furono chiusi in carcere. Nessuno disse qualcosa che diminuisse la sua dignità o svilisse la fama di valore, pur in avversa fortuna. Fu ucciso poi Lucio Vitellio: i suoi vizi avevano uguagliato quelli del fratello, ma, durante il principato di questi, egli era stato più guardingo. Partecipò in minima misura alla prosperità del fratello ma fu travolto dalla sua rovina.

 

3. In quegli stessi giorni Lucilio Basso viene mandato con la cavalleria leggera a ristabilire l’ordine in Campania, scossa più dai disaccordi tra municipi che da ostilità verso il principe. Bastò l’apparizione dei soldati per riportare pace: alle colonie minori fu concessa l’impunità; a Capua venne dislocata la terza legione per farla svernare4 e furono duramente colpite le famiglie più in vista; quanto agli abitanti di Terracina, essi non furono risarciti in alcun modo.

È davvero più facile ricambiare un’ingiustizia che un beneficio, perché la gratitudine è un peso, la vendetta un guadagno. Così fu motivo di consolazione vedere lo schiavo di Vergilio Capitone (era colui che, come ho già raccontato, consegnò Terracina ai Vitelliani) messo in croce: portava ancora gli anelli che gli aveva regalato Vitellio.

A Roma i senatori, felici per la conferma che le loro speranze avevano avuto, decretarono a Vespasiano tutte le consuete prerogative del principe5: sembrava quasi che il mondo intero fosse stato purificato perché stavano finendo le guerre civili che, dopo essere scoppiate nelle Gallie e nelle Spagne, avevano spinto alle armi le Germanie e l’Illirico, per poi infine percorrere l’Egitto, la Giudea, la Siria e tutte le province e tutti gli eserciti6.

L’entusiasmo crebbe quando arrivò una lettera di Vespasiano, scritta come se la guerra fosse ancora in corso. Almeno così apparve ad una prima lettura, ma per il resto Vespasiano parlava da principe: con grande misura intorno alla sua persona, con parole nobilissime intorno allo stato. Aveva poi espressioni di ossequio per il senato; gli viene decretato il consolato con il figlio Tito come collega. A Domiziano vengono decretate la pretura e la potestà consolare7.

 

4. Anche Muciano aveva provveduto a mandare al senato delle lettere che diedero adito a diversi commenti. Se era un privato cittadino che titolo aveva per parlare in veste ufficiale? Le stesse cose avrebbe potuto dirle di lì a pochi giorni quando fosse toccato a lui di esprimere le sue opinioni. Anche gli attacchi contro Vitellio erano tardivi e poco sinceri. Ma ciò che appariva più arrogante nei confronti dello Stato e offensivo nei riguardi del principe, era la sua superba affermazione di avere avuto in mano l’impero e di averne fatto dono a Vespasiano.

Aveva tuttavia avuto l’accortezza di mascherare un po’ questo suo malanimo; erano ben evidenti, invece, le adulazioni: tra grandi elogi gli furono concesse le insegne trionfali. E perché non si poteva far vedere che questo accadeva per il successo in una guerra civile, si finse di concedergliele per la spedizione contro i Sarmati8. Primo Antonio ebbe i privilegi consolari, Cornelio Fusco e Arrio Varo le insegne pretorie. Poi si pensò agli dèi e si decise di ricostruire il Campidoglio.

Tutte queste decisioni vennero prese su proposta di Valerio Asiatico, console designato; gli altri assentivano con cenni del capo o della mano. Alcuni, più alti in grado e abituati all’adulazione, aggiungevano eleganti discorsi. Quando toccò al pretore designato Elvidio Prisco9 esprimere il suo parere, egli pronunciò parole che erano onorevoli per il principe, pur non facendo ricorso a menzogne10. I senatori lo accolsero con entusiasmo ma proprio quel giorno doveva segnare per lui l’inizio della disgrazia personale e di una grande gloria11.

 

5. È già la seconda volta che cito questo personaggio e in seguito mi capiterà di farlo ancora. Ciò sembra esigere che io riferisca brevemente della sua vita, dei suoi interessi, del suo destino. Elvidio Prisco, originario della regione d’Italia Carecina e per la precisione del municipio di Cluvie, ebbe per padre un centurione primipilare dei triarii. Ancor molto giovane rivolse le sue brillanti capacità a studi superiori, non come fanno i più per nascondere, con un nome altisonante, un ozio improduttivo, ma per seguire la carriera politica più preparato ai colpi della sorte12.

Ascoltò quei maestri di saggezza secondo i quali il buono coincide con l’onesto, il male con ciò che disonora l’uomo. E inoltre potenza, nobiltà e tutto quello che non appartiene profondamente all’animo umano non sono di per sé né bene né male13. Non era che un ex questore, quando Peto Trasea se lo scelse come genero: e dalle virtù del suocero egli nulla mutuò in così grande misura come lo spirito di indipendenza. Come cittadino, come senatore, come marito, genero e amico ebbe grande coerenza nell’adempimento di ogni dovere. Disprezzo le ricchezze, fu tenace assertore della giustizia, non si fece intimidire in nessuna occasione.

 

6. A qualcuno poteva sembrare troppo desideroso di mettersi in mostra, perché la smania di gloria è l’ultima cosa di cui persino i saggi riescono a spogliarsi. Coinvolto nella rovina del suocero, eraandato in esilio, ma era tornato appena Galba aveva ottenuto il principato: subito si diede da fare per mettere sotto accusa il delatore di Trasea, Marcello Eprio. Nessuno può dire se quella vendetta fu legittima o soltanto clamorosa, ma certo aveva spaccato in due il senato: se cadeva Marcello, cadeva anche uno stuolo di suoi complici.

Gli esordi della contesa furono minacciosi, come attestano le splendide arringhe pronunciate dall’uno e dall’altro. Poi si vide che Galba teneva un atteggiamento ambiguo e, siccome in questo senso andavano le istanze di molti senatori, Prisco lasciò cadere il processo. I commenti furono diversi (come è nella natura umana) perché qualcuno lodava il suo senso di moderazione, mentre qualcun altro avrebbe voluto da lui maggiore coerenza.

Per tornare all’adunanza in cui i senatori votavano l’assegnazione dell’impero a Vespasiano, si decise di mandare a lui una delegazione.

La cosa fece nascere un aspro diverbio tra Elvidio ed Eprio: Prisco voleva che i legati fossero scelti ad uno ad uno da magistrati legati da un giuramento, Marcello voleva il sorteggio. Era questo anche il parere di Valerio Asiatico, console designato.

 

7. Era un intimo senso di vergogna ad eccitare le insistenze di Marcello, che non voleva essere considerato di minor importanza rispetto a quelli che fossero stati scelti. L’alterco poco a poco si trasformò in veri e propri discorsi intrisi di reciproche ostilità. Elvidio era curioso di sapere perché Marcello temesse tanto il giudizio dei magistrati: era così ricco ed eloquente che poteva tranquillamente considerarsi superiore a tanti altri se non fosse stato tormentato dal ricordo delle sue scelleratezze. L’estrazione a sorte non faceva distinzioni tra i costumi dell’uno e i costumi dell’altro. Il sistema dei voti e della valutazione da parte dei senatori era stato adottato per consentire un esame approfondito della vita e della reputazione di ognuno.

Era significativo per lo stato e l’onore di Vespasiano che ad andargli incontro fossero coloro che il senato reputava i più irreprensibili e in grado dunque di dare consigli onesti al principe. Vespasiano era stato amico di Trasea, Sorano, Senzio14; chi aveva accusato costoro forse non doveva essere punito, ma nemmeno esibito.

Il giudizio del senato era una sorta di consiglio al principe su chi stimare e su chi tenere lontano: i buoni amici sono i migliori strumenti di un buon governo. Che Marcello si accontentasse di aver indotto Nerone a rovinare tanti innocenti: godesse delle ricompense ricevute15 e dell’impunità. Vespasiano doveva essere lasciato a persone migliori.

 

8. Marcello replicava che in questo modo non si andava contro lasua opinione, ma contro il parere del console designato che eraconforme alla tradizione secondo la quale i membri di una delegazione dovevano essere estratti a sorte per evitare intrighi o rivalsepersonali. Non vi era motivo per venir meno ad un tradizionaleistituto o per trasformare l’onore da rendere ad un principe in una occasione di offesa privata. Per un atto d’omaggio qualsiasi senatore andava bene.

Piuttosto la cosa da evitare con maggior cura era il mettere in apprensione l’animo del principe, assillato dai dubbi per la novità della situazione e portato a studiare i volti e le parole di ognuno. Si ricordava bene dei tempi in cui era nato e delle forme di governo istituite dai padri e dagli avi; ammirava gli antichi istituti repubblicani ma si adeguava a quelli presenti. Il suo voto era quello di avere buoni imperatori, ma sapeva di doverli accettare comunque fossero.

Trasea era stato colpito da un giudizio del senato più che da un suo discorso e Nerone ordiva inganni crudeli per mezzo di una parvenza di processo. Lui dal canto suo aveva patito l’amicizia di un tal principe come altri l’esilio. Elvidio cercasse pure di gareggiare in costanza e fortezza con i Catoni e i Bruti; quanto a sé era solo un membro di quel senato in cui tutti avevano dovuto servilmente sottostare.

Piuttosto era meglio che Prisco non volesse dimostrarsi superiore al principe e non cercasse di limitarlo con regole: Vespasiano aveva l’esperienza di un vecchio, l’abitudine ai trionfi, due figli già adulti. Se ai peggiori principi piace esercitare il potere senza alcun limite, anche gli altri, per quanto grandi siano le loro qualità, amano un uso misurato della libertà.

Queste due tesi venivano sostenute con grande veemenza e venivano accolte con opposte reazioni. Alla fine vinse il partito del sorteggio, poiché anche i senatori che si erano tenuti fuori dalla disputa erano comunque dell’idea di mantenere l’usanza. E quelli che avevano più titoli di merito temevano di essere oggetto di risentimento, nel caso fossero stati scelti16.

 

9. Si passò poi a discutere un secondo argomento. I pretori dell’erario17 (in quel tempo l’erario era amministrato infatti da pretori) lamentavano che le casse erano vuote e chiedevano maggior misura nelle spese. Valerio Asiatico, console designato, pensava di riservare quel compito al principe, tenuto conto della imponenza del debito e della difficoltà di sanarlo: Elvidio pensava invece che la soluzione da adottare dovesse essere decisa dal senato.

Mentre i consoli raccoglievano i pareri, Vulcacio Tertullino18, tribuno della plebe, oppose il veto, perché non si poteva decidere cosa di tale importanza senza la presenza del principe. Elvidio aveva invece proposto che la ricostruzione del Campidoglio avvenisse a spese dello stato, ma vi contribuisse anche Vespasiano. Tutti i senatori particolarmente prudenti tacquero su quella proposta, e poi la lasciarono cadere nell’oblio. Ma vi fu chi, a tempo debito, se ne ricordò19.

 

10. A questo punto ci fu il violento attacco di Musonio Rufo a Publio Celere20: l’accusa era di aver rovinato con una falsa testimonianza Barea Sorano. Quel processo sembrava rinfocolare l’odio derivante dalle accuse, ma un imputato di così bassa condizione e certamente colpevole non poteva trovare protezione21. E certo il ricordo di Sorano era sacro, mentre Celere (che a Barea aveva insegnato filosofia e poi era diventato testimone a suo carico) aveva tradito e violato proprio quell’amicizia di cui pretendeva di essere maestro. Il dibattito venne aggiornato ad una successiva seduta: l’attesa era grande, certamente non per Musonio e Publio, ma per Prisco, Marcello e tutti gli altri, poiché gli animi erano ormai eccitati alla vendetta.

 

11. La situazione era dunque questa: i senatori discordi tra loro, pieni di malanimo gli sconfitti, nessuna autorità nei vincitori, la città senza leggi e senza capo. Con queste premesse Muciano potè entrare in città e concentrare tutto il potere nelle sue mani. Il risentimento di Muciano (anche se nulla traspariva dall’espressione del suo volto) contro Primo Antonio e Arrio Varo non rimase nascosto a lungo e il loro potere ne fu presto abbattuto. Ma i Romani erano molto abili nel percepire i malumori: così si volsero a Muciano, passarono dalla sua parte, solo lui presero a riverire e a colmare di attenzioni. Egli, dal canto suo, si circondava di armati, cambiava continuamente case e giardini, faceva sua l’autorità del principe. Non ne assumeva il titolo, ma tali erano il suo magnifico stile di vita, il suo incedere, la sua abitudine ad avere sempre una scorta.

Grandissima fu l’angoscia per l’assassinio di Calpurnio Galeriano. Era figlio di Gaio Pisone e non aveva mai preso iniziative personali. Ma il suo nome era famoso e le dicerie del popolino insistevano sulla sua splendida gioventù. Così fu facile, in una cittadinanza sconvolta e felice ogni volta che si trovava un nuovo oggetto di maldicenza, far nascere la diceria (certo infondata) che lui aspirasse al regno. Su ordine di Muciano fu circondato da un manipolo di armati e perché l’esecuzione non avvenisse sotto gli occhi di tutti, fu portato sulla via Appia, a quaranta miglia dalla città, e lì fatto morire dissanguato.

Giulio Prisco, prefetto delle coorti pretoriane sotto Vitellio, si suicidò, più per vergogna personale che per costrizione. Alieno Varo invece sopravvisse alla sua infamia e alla sua vigliaccheria. Asiatico, che era un liberto, pagò il suo malvagio potere con il supplizio degli schiavi22.

 

12. Nello stesso periodo23, Roma accoglieva senza alcuna preoccupazione la notizia sempre più insistente di un disastro accaduto in Germania: si parlava di eserciti distrutti, di quartieri invernali occupati dal nemico, della defezione delle Gallie ma non sembrava affatto che si trattasse di eventi dolorosi. Ora risalirò molto indietro nel tempo per esaminare le cause della guerra e lo sconvolgimento di popoli stranieri e alleati. I Batavi, fino a quando avevano abitato al di là del Reno, facevano parte dei Catti. Poi, per una rivolta interna, furono spinti ad occupare il litorale settentrionale della Gallia, che era disabitato, e un’isola sita lì vicino24: di fronte avevano l’oceano, ai fianchi e alle spalle il Reno. È raro per dei popoli che si associano ad alleati più forti di loro, ma i Batavi riuscirono a non dar fondo alle loro risorse concedendo all’impero soltanto uomini e armi. Per lungo tempo furono messi alla prova dalle guerre germaniche25; successivamente la loro fama crebbe grazie alle campagne britanniche, quando furono trasferite lì le coorti che, in ossequio ad un antico istituto, erano al comando della più alta nobiltà locale26. Nel loro territorio era stanziato un corpo di cavalleria scelta, particolarmente addestrato al nuoto e in grado di attraversare il Reno, con le armi e i cavalli, senza scompaginare le schiere.

 

13. Giulio Civile e Claudio Paolo27, di stirpe regale, si imponevano di gran lunga su tutti. Fonteio Capitone fece uccidere Paolo sotto la falsa accusa di ribellione. Civile era stato mandato in catene a Nerone; Galba lo aveva liberato ma la sua situazione vacillò di nuovo quando l’esercito di Vitellio ne chiese il supplizio. Grande era dunque il suo risentimento e ogni sua speranza si fondava sulle nostre disgrazie.

Civile, di ingegno straordinario per essere un barbaro, si proponeva come un Sertorio o come un Annibaie, sfruttando anche la somiglianza che gli veniva da uno sfregio al volto. Sapeva che sarebbe andato incontro ad una scoperta ostilità se si fosse separato dal popolo romano: allora simulò amicizia per Vespasiano e inclinazione verso il suo partito. Infatti Primo Antonio gli aveva mandato delle lettere in cui chiedeva di stornare gli aiuti che Vitellio aveva richiesto e di trattenere le legioni col pretesto delle sollevazioni in Germania.

Erano le stesse cose che gli aveva personalmente ricordato Ordeonio Fiacco, sia per la sua simpatia nel confronti di Vespasiano sia perché gli stavano a cuore le sorti dello stato, destinato al disastro se la guerra fosse ripresa e se tante migliaia di uomini in armi avessero invaso l’Italia.

 

14. Civile era dunque risoluto alla defezione. Teneva per il momento ben celato il suo progetto e si proponeva di prendere le decisioni a seconda di come andavano le cose. Intanto preparava la rivolta nel modo che mi accingo a raccontare. Per ordine di Vitellio la gioventù baiava era chiamata alla leva: era questa, di per sé, una imposizione pesante soprattutto per la sfrenata avidità degli incaricati che arruolavano vecchi e invalidi per guadagnarci sopra quando li esoneravano. Quanto ai ragazzi (che presso quei popoli sono presto vigorosi) erano di grande bellezza e venivano arruolati solo per usare loro violenza.

Grande malanimo, dunque; e chi già stava organizzando la rivolta, istigava a sottrarsi alla leva.

Civile imbandisce un banchetto in un bosco sacro e con questa scusa fa venire i maggiorenti del suo popolo e tutti coloro che sembravano particolarmente vogliosi di agire. Quando si accorge che sono accalorati per l’euforia che l’inoltrarsi della notte porta con sé, comincia ad esaltare il nome glorioso dei Batavi e poi prende ad elencare le ingiustizie e le rapine patite; inoltre erano ormai trattati da schiavi. Proprio così: non erano più considerati alleati, come un tempo, ma schiavi.

Quando mai si era visto da loro il governatore, pur con tutto il suo superbo e costoso codazzo, ma pur sempre investito dell’autorità sovrana?28 Ormai erano nelle mani di prefetti e centurioni: quando erano sazi di bottino e violenza, si davano il cambio e allora c’erano nuove tasche da riempire e nuove parole con cui chiamare le rapine che subivano. Ora pativano il peso del reclutamento che divideva, quasi come morissero, i figli dai genitori, i fratelli dai fratelli.

Le condizioni dello stato romano non erano mai cadute tanto in basso; i quartieri invernali erano pieni di vecchi e di bottino: bastava alzare lo sguardo e non avere paura delle legioni ridotte, del resto, a puro nome. Loro avevano invece forte fanteria e forte cavalleria; i Germani avevano lo stesso loro sangue e le Gallie nutrivano gli stessi desideri. Neppure ai Romani quella guerra sarebbe stata sgradita. Se l’esito fosse stato incerto la colpa sarebbe ricaduta su Vespasiano; in caso di vittoria, sarebbero stati nella condizione di non rendere conto a nessuno29.

 

15. Le parole di Civile riscossero generale approvazione. E allora lui stringe tutti nel rito barbarico e nel giuramento appreso dai padri. Furono mandati dei messi ai Canninefati30 per associarli alla loro impresa. Questo popolo abita una parte dell’isola e, pur inferiore di numero, ha in comune coi Batavi origine, lingua e valore. Poi, con missive segrete, attirò dalla sua parte le truppe ausiliarie della Britannia e le coorti di Batavi mandate in Germania, come ho precedentemente riferito, e in quel momento di stanza a Magonza.

Tra i Canninefati c’era un tal Brinnone, di nobili natali, ma di una audacia che sconfinava nella stolidità. Suo padre, che era stato protagonista di molte imprese contro i Romani, si era impunemente fatto gioco delle ridicole spedizioni di Caligola31. Fu di colpo popolare grazie al nome della sua famiglia ribelle; fatto salire sugli scudi (come è uso tra quelle genti) e passato di spalla in spalla da quelli che lo sostenevano, fu scelto come capo. Fatti venire anche i Frisii32, popolazione transrenana, Brinnone aggredì i quartieri invernali di due coorti che sorgevano proprio in riva all’oceano33. I soldati non avevano potuto prevedere l’attacco nemico, ma anche se l’avessero previsto non avevano le forze sufficienti a contrastarlo: gli accampamenti furono presi e distrutti.

I nemici aggredirono anche vivandieri e mercanti dispersi qua e là come se fosse tempo di pace. Poi portarono la minaccia ad alcuni nostri fortini, che, non potendo essere difesi, furono incendiati dai prefetti delle coorti. Le insegne, i vessilli e tutte le truppe di stanza sul territorio si radunarono nella parte settentrionale dell’isola34, sotto il comando del primipilare Aquilio. Ma dell’esercito c’era solo il nome, non la sostanza. Il fatto è che, portato via il fior fiore delle coorti, Vitellio aveva messo in armi una massa di imbelli attinta dai vicini villaggi dei Nervii35 e dei Germani.

 

16. Civile pensò che era il caso di agire di astuzia e, di sua iniziativa, rimproverò i prefetti per aver lasciato i fortini. Ci avrebbe pensato lui, con la coorte che era ai suoi ordini, a domare il tumulto dei Canninefati; che i Romani tornassero pure ai loro quartieri invernali. Ma era chiaro che quel consiglio nascondeva l’inganno e che le coorti, una volta disperse, più facilmente sarebbero state sconfitte. Ed era anche evidente che il capo di quella ribellione non era Brinnone ma lo stesso Civile: se ne ebbero ben presto gli indizi che i Germani, i quali smaniano quando si deve fare la guerra, non erano riusciti a tenere nascosti.

Poiché le insidie non portavano agli effetti sperati, Civile decise di passare all’azione schierando Canninefati, Frisii e Batavi nella formazione a cuneo che è tipica di quei popoli. Di contro, i Romani schierarono il loro esercito non distante dal Reno e volsero contro i nemici le prue delle navi che, dopo gli incendi dei fortini, erano state condotte là. Le ostilità non erano iniziate da molto che una coorte di Tungri passò con le insegne dalla parte di Civile e tra i soldati, scossi da quell’inatteso tradimento, grande era la strage ad opera dei nemici e degli alleati.

Uguale tradimento sulle navi: i rematori erano, in parte, di origine batava; fingendo imperizia essi ostacolavano le manovre dei marinai e dei combattenti. Alla fine si misero a remare in senso contrario, volgendo le poppe verso la riva nemica. Massacrarono piloti e centurioni, a meno che non passassero dalla loro parte, fino a quando l’intera flotta di ventiquattro navi o si diede al nemico o fu catturata.

 

17. La vittoria, di notevole risonanza al momento, portò grandi vantaggi anche successivamente. I Batavi non solo erano venuti in possesso delle armi e delle navi di cui avevano bisogno, ma venivano anche esaltati nelle Germanie e nelle Gallie come restauratori della libertà. Le Germanie mandarono ambasciatori per offrire aiuti; Civile cercava di ottenere con abili doni l’alleanza delle Gallie: restituiva alle singole nazioni galliche i prefetti delle coorti che aveva catturato36 e dava alle coorti stesse la possibilità di scegliere tra l’andarsene e il restare. A chi restava offriva un decoroso servizio nell’esercito, a chi se ne andava concedeva parte del bottino strappato ai Romani.

Intanto, sotterraneamente, Civile ricordava a tutti le angherie patite in tanti anni e quella miserabile schiavitù che avevano chiamato pace37. I Batavi, anche se mai avevano pagato tributi, avevano preso le armi contro i comuni tiranni. Già al primo scontro i Romani erano stati sbaragliati. Cosa sarebbe successo se anche le Gallie avessero scosso il loro giogo? Cosa sarebbe rimasto in Italia ai Romani, abituati a soffocare le sedizioni delle province col sangue di altre province?

Dovevano cancellare dalla memoria la battaglia di Vindice38; Edui e Arverni erano stati sconfitti dalla cavalleria batava; tra le truppe ausiliarie di Verginio c’erano dei Belgi e a chi rifletteva con mente sgombra, era chiaro che la Gallia era stata sottomessa per mezzo delle sue stesse forze. Ora il partito era uno solo e bisognava aggiungere anche la conoscenza di quella disciplina militare che pure continuava ad esistere negli accampamenti romani. Infine erano con loro quelle coorti di veterani, di fronte alle quali avevano dovuto cedere le legioni di Otone39.

Accettassero pure il giogo della servitù la Siria e l’Asia e tutto l’Oriente, abituato ad essere governato da monarchi. In Gallia vivevano molti che erano nati prima dei tributi40. Da poco, con la sconfitta di Quintilio Varo, la Germania si era scossa di dosso la schiavitù41 e ad essere sfidato a battaglia non era stato un principe come Vitellio ma lo stesso Cesare Augusto.

Il senso della libertà lo possiedono anche gli esseri che non parlano, ma il coraggio è un patrimonio degli uomini e gli dèi assistono i più forti. Loro erano liberi da ogni preoccupazione e vigorosi; aggredissero dunque i Romani ormai con l’acqua alla gola e stanchi. Mentre qualcuno stava dalla parte di Vespasiano e qualcun altro da quella di Vitellio, loro avevano la possibilità di marciare contro entrambi.

Civile dunque guardava alle Germanie e alle Gallie. Se i suoi progetti si fossero realizzati, sarebbe stato lui il dominatore di quelle nazioni fortissime e ricchissime.

 

18. Ordeonio Fiacco finse di ignorare i primi tentativi di Civile, ma in questo modo finì con l’incoraggiarli. Poi dei messeggeri pieni di angoscia gli portarono la notizia degli accampamenti espugnati, delle coorti distrutte, del nome romano cancellato dall’isola dei Batavi. Allora ordina al legato Munio Luperco42 (che comandava due legioni negli accampamenti invernali) di marciare contro il nemico. Munio Luperco, senza perdere tempo, traghetta al di là del fiume43 i legionari che aveva sotto mano, gli Ubii44 che erano nelle vicinanze, e i cavalieri Treviri accampati a breve distanza. C’era anche un distaccamento di cavalleria batava, che da tempo si era accordata coi ribelli, ma che fingeva di essere fedele, in modo tale che, tradendo i Romani proprio nell’infuriare della battaglia, la loro diserzione conseguisse un premio maggiore.

Civile si circondò delle insegne delle coorti catturate perché voleva che i suoi soldati avessero sotto gli occhi la testimonianza della recente vittoria e i nemici fossero atterriti dal ricordo della sconfitta. Ordina poi che sua madre e le sue sorelle e anche le mogli e i figlioletti di tutti i Batavi si pongano alle spalle dei combattenti: incitamento alla vittoria e motivo di vergogna a chi si ritirava.

Appena il campo di battaglia risuonò dei canti degli uomini e delle urla delle donne, si capì che le legioni e le coorti non potevano rispondere con uguale clamore. La nostra ala sinistra si era trovata prima scoperta e poi attaccata dai cavalieri batavi disertori, ma i legionari, anche se scossi nel morale, mantenevano le armi ben salde e gli schieramenti serrati. Gli ausiliari Ubii e Treviri, sparpagliati in fuga vergognosa, si dispersero per tutta la pianura. Su di essi si gettarono i Germanici e questo diede il tempo alle legioni di ripiegare negli accampamenti chiamati Vetera.

Claudio Labeone45, prefetto della cavalleria batava, era rivale di Civile, a causa di contrasti locali. E Civile decise di deportarlo tra i Frisii per evitare sia il malanimo degli altri membri della sua gente (se lo avesse ucciso) sia i semi di discordia (se lo avesse trattenuto con sé).

 

19. Nei medesimi giorni le coorti dei Batavi e dei Canninefati che, obbedendo all’ordine di Vitellio, si stanno dirigendo a Roma vengono raggiunte da un messaggero di Civile. Subito l’animo di tutti si gonfiò di superba fierezza: cominciarono a chiedere come ricompensa di quel viaggio tutto quello che Vitellio aveva promesso: il donativo, lo stipendio raddoppiato, l’aumento del numero dei cavalieri46. Erano richieste che non si potevano esaudire, ma essi cercavano un pretesto per ribellarsi.

Ordeonio Fiacco largheggiava in concessioni, ma in questo modo non faceva che aumentare l’intransigenza con cui si richiedeva ciò che si sapeva in partenza che non poteva essere concesso. Fiacco fu alla fine del tutto ignorato e le coorti presero la direzione della Germania inferiore, dove si sarebbero ricongiunte con Civile. Ordeonio chiamò a consiglio centurioni e tribuni per decidere se era opportuno usare la forza e reprimere quella disobbedienza. Ma la sua connaturata ignavia e le perplessità dei collaboratori (che temevano le intenzioni ambigue degli ausiliari e anche le legioni in cui le defezioni erano state colmate con arruolamenti frettolosi) lo spinsero a trattenere i soldati entro il campo. Ma poi si pentì anche perché lo mettevano sotto accusa proprio quelli che lo avevano consigliato. Diede l’impressione di voler incominciare l’inseguimento e intanto scrisse ad Erennio Gallo, legato della prima legione di stanza a Bonna, che sbarrasse la strada ai Batavi. Dal canto suo, egli li avrebbe incalzati alle spalle.

E davvero poteva risultare una manovra vittoriosa se da una parte Ordeonio e dall’altra Gallo li avessero presi in mezzo mobilitando i rispettivi eserciti. Ma Fiacco venne poi meno al suo proposito e, in successivi messaggi, ammonì Gallo a non interferire con le truppe in transito. Nacque così il sospetto che fossero i legati ad avere tutto l’interesse a non lasciar estinguere il conflitto. Tutto quello che era accaduto o che si temeva accadesse, era dunque da imputare al tradimento dei capi e non all’inettitudine dei soldati o alla forza del nemico.

 

20. Avvicinandosi al campo di Bonna, i Batavi mandarono avanti messaggeri per esporre ad Erennio Gallo il pensiero delle coorti. Non erano in guerra contro i Romani, sostenevano, per i quali tante volte avevano combattuto; erano stanchi e desideravano soltanto il ritorno in patria e un po’ di tranquillità dopo quel servizio militare lungo e poco remunerativo. Se nessuno li contrastava, il loro passaggio sarebbe stato incruento; se si fossero visti opporre le armi, si sarebbero tracciati la via con la spada.

Il comandante esitava, ma i soldati lo spinsero a tentare la sorte della battaglia. Tremila legionari, le coorti dei Belgi, piuttosto raccogliticce, e una schiera formata da gente del posto e da vivandieri (tutta gente inetta ma assai insolente quando il pericolo era lontano) vanno all’assalto irrompendo da tutte le porte, per prendere in mezzo i Batavi, che erano di numero inferiore.

Ma questi erano esperti di combattimento e si schierarono a cuneo: compatti in ogni parte e protetti davanti, dietro e sui lati. Per loro fu un gioco spezzare Tesile schiera dei nostri. I Belgi cedettero e la legione fu a sua volta respinta: tutti erano terrorizzati e correvano verso il vallo e le porte. Lì la carneficina fu totale: le fosse si riempivano di corpi e non solo per le morti e per le ferite, ma anche per lo stesso scompiglio. E alcuni finirono per essere trafitti dai loro commilitoni.

I vincitori aggirarono la colonia Agrippinese e conclusero il viaggio senza più venire a battaglia. Si scusavano dello scontro di Bonna, dicendo che avevano chiesto la pace, che questa era stata loro negata e che dunque avevano dovuto arrangiarsi.

 

21. Con l’arrivo di coorti tanto esperte, Civile era ormai il comandante di un vero esercito. Era tuttavia perplesso sul da farsi e aveva sempre grande considerazione della forza romana: allora fa giurare fedeltà a Vespasiano da parte di tutti i presenti. Poi manda dei messi alle due legioni che, sconfitte nella precedente battaglia, avevano dovuto ritirarsi nel campo di Vetera per far loro accettare lo stesso giuramento.

Questa fu la risposta dei Romani: essi non erano abituati ad ascoltare i consigli di un traditore o dei nemici; erano fedeli a Vitellio; per lui avrebbero mantenute salde lealtà e armi fino all’ultimo soffio di vita. E aggiungevano: un disertore batavo non poteva ergersi ad arbitro della politica romana. Anzi, doveva solo aspettarsi il castigo dovuto alla sua colpa. A questa risposta, Civile si adirò molto: trascinò alla guerra aperta tutto il popolo batavo e si associò i Bructeri, i Tencteri47 e anche tutta la Germania, sobillata da emissari a grandi prospettive di gloria e bottino.

 

22. Dunque da ogni parte incombevano minacce di guerra. Contro di queste, i legati delle legioni Munio Luperco e Numisio Rufo48 rinforzavano il vallo e le mura. Poi vennero distrutte, perché non fossero usate dai nemici, le costruzioni circostanti che erano sorte durante il lungo periodo di pace e che formavano una vera e propria città. Però poco si era provveduto ai rifornimenti e dunque si diede il via al saccheggio; nel disordine che ne nacque furono dissipate in pochi giorni provviste che avrebbero sopperito al bisogno per lungo tempo.

Civile, col nerbo dei Batavi, tiene il centro dello schieramento; riempie poi con gruppi di Germani entrambe le rive del Reno per offrire uno spettacolo terribile e pauroso. Intanto la cavalleria compie evoluzioni sulla spianata e le navi risalgono la corrente. Ecco lì le insegne delle coorti veterane, ecco i simulacri delle belve, uscite da quei boschi e da quelle selve (è questa una usanza locale quando si comincia la battaglia): era lo spettacolo di una guerra allo stesso tempo interna ed esterna. E grande era lo sgomento degli assediati.

La speranza degli assalitori poggiava sulla lunghezza del vallo che, costruito per due legioni, era difeso appena da cinquemila uomini. Ma vi era, comunque, fin dallo scoppio delle ostilità una gran turba di vivandieri, fatta affluire lungo il vallo, per adempiere ai servizi di guerra.

 

23. Una parte del campo assecondava il leggero pendio del luogo, mentre una parte si poteva raggiungere senza bisogno di salire: queiraccampamento doveva servire, nelle previsioni di Augusto, per bloccare e tenere sotto controllo i Germani. Mai Augusto avrebbe pensato che un giorno potessero essere proprio loro ad attaccare le nostre legioni. E dunque mai si era provveduto ad aggiungere rinforzi particolari alla conformazione del luogo e alle fortificazioni già esistenti: erano sufficienti l’energia e le armi dei Romani.

Le schiere dei Batavi e dei Transrenani volevano che fossero ben chiari i meriti spettanti al valore di ciascuno, e si disposero dunque sulle rispettive posizioni cominciando da lontano i loro attacchi. Quasi tutti i loro proiettili mancavano però il bersaglio e andavano a schiantarsi sulle torri e sulle merlature, mentre gran danno facevano i sassi che piovevano dall’alto. Allora aggredirono con grandi urla il vallo, alcuni appoggiando scale ai muri, altri usando la testuggine formata dai compagni. E c’erano quelli che già stavano arrampicandosi, ma vennero buttati giù a colpi di spada e di scudo fino ad essere sepolti sotto i pali e i giavellotti. Troppo baldanzosi erano stati all’inizio e troppo si erano esaltati per l’esito favorevole.

Ma, assetati di preda, accettavano anche i rovesci e arrivarono perfino ad usare macchine da guerra, cosa che di solito non fanno mai. Non ne conoscevano, però, il corretto uso e allora traditori e prigionieri insegnavano a mettere insieme del materiale e a costruire una specie di ponte: mettendovi sotto le ruote si poteva farlo avanzare. Quelli che vi stavano sopra combattevano come dall’alto di un bastione e quelli che si celavano al suo interno potevano lavorare a scalzare le mura. Ma quei rozzi apparecchi venivano distrutti dai sassi lanciati dalle baliste.

Contro quelli che preparavano graticci e ripari furono lanciate, per mezzo di catapulte, delle aste infuocate e toccò proprio agli assalitori di essere avvolti dalle fiamme. Alla fine disperarono di avere la meglio con la forza e ripiegarono sulla decisione di prendere tempo: sapevano che c’erano scorte per pochi giorni e che queste dovevano soddisfare anche una grande folla di non combattenti. Speravano che dalla mancanza di viveri potesse nascere il tradimento e si indebolisse la fedeltà degli schiavi. E c’erano sempre gli imprevisti della guerra.

 

24. Quando Fiacco seppe che il campo di Vetera era sottoposto ad assedio, mandò ambasciatori a raccogliere soccorsi nelle Gallie. Sceglie alcuni legionari e li affida a Dillio Vocula49, legato della ventiduesima legione: doveva seguire la riva del Reno a marce forzate. Egli stesso lo avrebbe seguito con le navi, di salute malferma e inviso ai soldati com’era. E i soldati mostravano chiaramente il loro malanimo: era stato lui a far uscire le coorti dei Batavi da Magonza50, a nascondere i tentativi di Civile mentre venivano accolti in alleanza i Germani. Nemmeno grazie a Primo Antonio e a Muciano, le cose di Vespasiano si erano messe tanto bene. Dagli odi palesi e dalle armi ci si può difendere a viso aperto, mentre frode e inganno vivono nell’ombra e dunque non ammettono difesa. Civile si ergeva come un terribile nemico e organizzava il suo esercito, Ordeonio impartiva dal suo letto ordini che si risolvevano tutti in vantaggi per il nemico. Com’era possibile che così numerose e valorose schiere di uomini dipendessero dalla malattia di un solo vecchio? Forse era meglio ammazzare quel traditore e liberare la propria fortuna e il proprio valore dal suo malvagio influsso.

Con queste mormorazioni si istigavano l’un altro, quando, come se non bastasse, arrivò una lettera da parte di Vespasiano che Fiacco non potè nascondere e dovette dunque leggere pubblicamente. I messi furono incatenati e mandati a Vitellio.

 

25. In questo modo, con gli animi un po’ placati, si arrivò a Bonna, quartiere invernale della prima legione. Ma qui i soldati con ancor maggiore ostilità incolpavano Ordeonio della sconfitta subita: era stato suo l’ordine che li aveva spinti a battaglia con i Batavi, nella convinzione che da Magonza stessero arrivando delle legioni; era per suo tradimento, visto che nessun rinforzo era giunto, che erano stati sconfitti. E tutto ciò era ignoto agli altri eserciti e nemmeno l’imperatore51 ne era informato. E pensare che col concorso di tante province quel tradimento si sarebbe potuto soffocare sul nascere.

Ordeonio lesse all’esercito copie di tutte le lettere con cui invocava aiuti nelle Gallie, in Britannia, nelle Spagne. Fu questo un precedente rovinoso perché consegnare le lettere agli aquiliferi delle legioni, significava farle conoscere prima ai soldati che ai comandanti. Poi Ordeonio ordina che uno dei rivoltosi sia messo in catene più per ribadire il suo diritto di comandante che per il fatto che a uno solo si potesse ascrivere ogni colpa.

L’esercito fu trasferito da Bonna alla colonia Agrippinese, dove affluivano da ogni parte i rinforzi dei Galli. Essi, in un primo tempo diedero un valido aiuto ai Romani; poi però, mano a mano che le forze dei Germani crescevano, molte popolazioni impugnarono le armi contro di noi. Le spingeva la speranza di libertà e, una volta liberate dalla servitù, perfino la voglia di comandare.

La rabbia delle legioni cresceva e non era certo stato sufficiente imprigionare un solo uomo per spaventare tutti. Anzi era proprio il prigioniero ad accusare il comandante di essere a conoscenza di tutto; sosteneva di essere stato intermediario tra Ordeonio e Civile: ora veniva tolto di mezzo con una falsa accusa perché non testimoniasse la verità. Salì allora sulla tribuna del comando Vocula che, con ammirabile determinazione, ordinò che il soldato catturato fosse condotto al supplizio, anche se continuava ad urlare le sue accuse. I cattivi se ne spaventarono, i più prudenti ripresero ad obbedire agli ordini. Tutti erano d’accordo nel reclamare Vocula come capo e Fiacco cedette a lui il comando supremo.

 

26. Molte cause esasperavano gli animi già eccitati: la paga e le granaglie scarseggiavano; le Gallie non volevano saperne di arruolare soldati e pagare tributi; il Reno, a causa di una siccità davvero straordinaria in quel clima, era scarsamente navigabile; i viveri erano insufficienti. Inoltre, il fatto che fossero stati disposti dei presidi lungo tutta la riva del Reno per impedire il guado ai Germani, aumentava le bocche da sfamare e faceva diminuire il cibo.

Gli ignoranti interpretavano la scarsità d’acqua come un prodigio: era come se perfino i fiumi e le antiche difese dell’impero ci stessero abbandonando. In tempi tranquilli tutto si può spiegare col caso o con un fenomeno naturale, ma in quel frangente si usava il nome di fatalità e di ira celeste.

La legione sedicesima si unì ai soldati entrati in Novesio52. A Vocula fu assegnato come aiutante, il legato Erennio Gallo; non osando marciare contro i nemici ** (il luogo è chiamato Gelduba) posero il campo53. Cercavano di rafforzare i soldati con manovre ed esercitazioni, con la costruzione di fortificazioni e trincee e con tutti gli altri lavori militari. Poiché solo la speranza di bottino poteva stimolare la voglia di combattere, Vocula condusse l’esercito contro i vicini villaggi dei Cugerni54, che erano entrati in alleanza con Civile. Una parte delle truppe rimase sul posto, agli ordini di Erennio Gallo.

 

27. Per caso un nave carica di frumento si incagliò nelle secche, non lontano dall’accampamento. I Germani cercavano di trascinarla verso la loro riva ma Gallo non lo tollerò e mandò una coorte di rinforzo. Anche il numero dei Germani crebbe e siccome poco a poco si aggiungevano altri aiuti, si venne ad una battaglia vera e propria. I Germani menarono gran strage fra i nostri e si impadronirono della nave.

Gli sconfitti non davano la colpa alla loro inettitudine, ma (e ciò era diventato ormai consueto) al tradimento del legato. Lo tirano fuori dalla tenda, gli strappano la veste, lo picchiano e cercano di fargli dire che compenso abbia ricevuto e chi abbia avuto per complici nel tradire l'esercito. Si rinfocola anche l’ostilità contro Ordeonio: era lui il mandante di quel tradimento e Gallo ne era stato l’esecutore. Alla fine proprio Gallo, atterrito dalle minacce di morte, rinfacciò ad Ordeonio il tradimento. Gallo era ormai in catene quando giunse Vocula a liberarlo.

Il giorno dopo egli punì con la morte gli autori della rivolta: tanto facilmente, in quell’esercito, si passava dall’insubordinazione alla più supina obbedienza. Senza dubbio i soldati semplici erano fedeli a Vitellio; molto più inclini a Vespasiano erano invece tutti gli alti ranghi dell’esercito: nasceva da questo contrasto l’alternanza di delitti e di punizioni. Il furore si mescolava all’obbedienza ed era evidente che i soldati potevano essere puniti, ma non tenuti a freno.

 

28. Tutta la Germania contribuiva ad accrescere la forza di Civile con immensi aiuti e l’alleanza era stata consolidata con lo scambio di ostaggi nobilissimi. Civile ordina di devastare, partendo dalle posizioni più vicine ad ognuno, i territori degli Ubii e dei Treviri. Un’altra schiera riceve disposizione di passare la Mosa per far insorgere i Menapi, i Morini55 e il settentrione della Gallia. Entrambe le regioni furono messe a ferro e fuoco; particolare fu l’accanimento contro gli Ubii perché, pur essendo di origine germanica, avevano rinnegato la loro patria e si facevano chiamare, con nome romano, Agrippinesi.

Le loro coorti furono sbaragliate nel borgo di Marcoduro56, dove erano accampate senza alcuna precauzione, visto che erano lontane dal fiume. Ma gli Ubii non desistettero dall’entrare in Germania a far preda: dapprima ebbero successo, ma poi furono circondati e in quella guerra finirono per essere più fedeli che fortunati.

La vittoria sugli Ubii rese Civile ancor più potente e orgoglioso del successo; strinse ulteriormente il cerchio attorno alle legioni. Aveva anche posto delle sentinelle per impedire che gli assediati fossero infermati di nascosto dell’eventuale arrivo di soccorsi. Affida ai Batavi le macchine da guerra e le opere d’assedio. I Transrenani, che ardevano dal desiderio di combattere, ebbero l’ordine di andare a distruggere il vallo: se fossero stati respinti che facessero altri tentativi poiché erano in molti e potevano rimpiazzare facilmente i caduti.

 

29. La notte non pose fine a quello sconvolgimento57. Gli assalitori innalzarono grandi cataste di legna e le accesero; poi sedettero insieme a banchettare e più il vino li riscaldava più si sentivano trascinati con stolida temerità alla battaglia. I proiettili che lanciavano attraverso il buio sbagliavano il bersaglio. I Romani vedevano invece molto bene lo schieramento dei barbari e se qualcuno tra loro si segnalava per qualche atto d’audacia o per i suoi ornamenti militari, lo facevano bersaglio dei loro tiri.

Civile se ne accorse e, fatto spegnere il fuoco, diede ordine che ogni luogo si confondesse nelle tenebre e nello strepito delle armi. Vi furono allora frastuoni discordanti, eventi indecifrabili, nessuna possibilità di vibrare i colpi o di vederli arrivare. I combattenti si volgevano dove sentivano qualche rumore e lì tendevano le braccia. Il valore non serviva a nulla; era il caso a sconvolgere ogni cosa e spesso accadeva che i più valorosi cadessero sotto i colpi dei più vili.

I Germani erano preda di un’ira incontrollabile; i soldati romani, invece, erano esperti di queste situazioni di grande pericolo e lanciavano pali con punte di ferro e sassi pesanti badando a mirare bene. Qua e là il rumore prodotto da chi cercava di abbattere la palizzata o appoggiare le scale rivelava la presenza dei nemici: i Romani li cacciavano via, spingendoli con gli scudi o incalzandoli con i giavellotti. Molti che erano riusciti ad issarsi fino in cima al muro furono trafitti coi pugnali. Così finì la notte e il giorno illuminò un ben diverso campo di battaglia.

 

30. I Batavi avevano costruito una torre a due piani e l’avevano avvicinata alla porta pretoria, profittando del fatto che quel luogo è completamente piano. I difensori la indebolivano con robusti pali e finirono col distruggerla urtandola con delle travi: grave fu il danno tra quelli che vi stavano sopra e i difensori colsero l’occasione per aggredire gli attaccanti sbigottiti con una improvvisa e fortunata sortita. Intanto molti altri mezzi di difesa venivano approntati dai legionari più esperti ed abili.

Grande fu il terrore tra gli assalitori per un marchingegno sospeso e oscillante58: veniva calato all’improvviso e afferrava uno o più nemici, sotto gli occhi dei compagni; poi, con un opportuno contrappeso dalla parte opposta, li sollevava in alto e li scagliava addirittura dentro il campo. Civile perse la speranza di espugnare l’accampamento e allora tornò all’idea di un lungo assedio (e nel frattempo cercava di scuotere la fedeltà delle legioni con messaggi pieni di promesse).

 

31. Questi gli eventi accaduti in Germania, prima della battaglia di Cremona59: l’esito si conobbe prima da una lettera di Primo Antonio, poi da un editto di Cecina. Alpinio Montano, prefetto di una delle coorti sconfitte, confermava di persona la mala sorte del suo partito. Ne nacquero reazioni diverse: gli ausiliari galli, che non erano animati né da amore né da odio di parte, prestavano servizio militare senza un coinvolgimento profondo e bastò una esortazione dei prefetti per convincerli ad abbandonare Vitellio. I veterani, invece, esitavano. Su insistenza di Ordeonio Fiacco e su pressione dei tribuni pronunciarono il giuramento; ma, dall’espressione del volto e nell’animo, erano tutt’altro che convinti. Mentre ripetevano chiaramente tutte le altre parole della formula di giuramento, esitavano sul nome di Vespasiano: qualcuno lo riduceva ad un indistinto mormorio, i più lo tacevano del tutto.

 

32. Il messaggio di Antonio a Civile, poi letto davanti all’assemblea, eccitò i sospetti dei soldati: sembrava scritto ad un alleato del proprio partito e ostile all’esercito germanico. Quando poi le notizie raggiunsero anche il campo di Gelduba60 si ripeterono le stesse parole e le stesse scene. Montano fu inviato a Civile col mandato di fargli deporre le armi e di non mascherare da guerra civile quella che era in realtà una guerra esterna; se era entrato in guerra per aiutare Vespasiano, quello che aveva fatto, ormai bastava.

Civile fu, all’inizio, guardingo nella sua risposta; poi capì che Montano era di carattere impetuoso e disponibile al sovvertimento della situazione presente. Allora cominciò a lamentarsi dei pericoli che aveva corso per venticinque anni negli accampamenti romani. Poi continuò: «Davvero una gran ricompensa ho ricevuto per le mie fatiche: l’assassinio di mio fratello, la prigione per me, questo esercito61 che reclama con tutta la sua ferocia la mia morte. Io invece, in nome del diritto delle genti, chiedo soddisfazione. E voi, Treviri, e voi, anime di schiavi, che premio vi attendete per tutto il sangue che avete versato se non un pesante servizio militare, tributi che non si finiscono mai di pagare, verghe, scuri e infine l’arbitrio dei padroni? Ecco: io, prefetto di una sola coorte coi Canninefati e i Batavi (ben pochi uomini rispetto a quelli che potrebbero mettere in campo le Gallie!), sono riuscito a distruggere quel campo inutilmente grande e adesso ne stringo il presidio con una muraglia di armi e di fame. Alla fine ci ritroveremo liberi grazie alle nostre imprese. E se saremo sconfitti non potremo trovarci in condizioni peggiori». Montano fu infiammato da queste parole ma Civile, congedandolo, gli raccomandò di riferire ogni cosa in modo attenuato. Montano, al suo ritorno, si comportò come uno che avesse fallito la propria missione, ma teneva nascosti gli altri suoi pensieri (che non tardarono, però, a farsi evidenti).

 

33. Civile trattiene con sé una parte delle truppe e manda contro Vocula e il suo esercito le coorti veterane e i migliori soldati germanici al comando di Giulio Massimo e di Claudio Vittore62, figlio di sua sorella. Durante la marcia occupano i quartieri invernali della cavalleria ausiliaria, siti ad Asciburgio63; l’attacco al campo fu poi così repentino che Vocula non riuscì né a parlare ai suoi soldati né tanto meno a schierarli. Un solo ordine riuscì a dare in un tumulto così diffuso: che i legionari rinforzassero il centro. Le milizie ausiliarie si sparsero un po’ ovunque sui fianchi.

La cavalleria andò all’assalto ma trovò ad accoglierla le schiere ben ordinate dei nemici; dovette dunque fare una conversione e tornare verso il proprio esercito. Allora la battaglia divenne un massacro. Le coorti dei Nervii, o per paura o per tradimento, lasciarono scoperti sui fianchi i nostri. In questo modo i nemici arrivarono a contatto dei legionari che persero le insegne e vennero trucidati dentro al vallo. All’improvviso, però, sopraggiunse un inatteso aiuto che valse a mutare le sorti della battaglia.

Le coorti dei Vasconi64, arruolate da Galba e chiamate in soccorso in quel frangente, si avvicinano agli accampamenti e sentono il rumore del combattimento; aggrediscono alle spalle i nemici tutti presi dalla lotta e incutono un terrore più grande di quanto il loro numero potesse far pensare. Infatti alcuni credettero che fossero arrivate tutte le truppe da Novesio, altri da Magonza. L’equivoco diede coraggio ai nostri che ritrovarono sicurezza nelle proprie forze dopo aver preso fiducia da quelle altrui.

Il nerbo della fanteria batava viene sbaragliato; i cavalieri riuscirono ad abbandonare il campo di battaglia con le insegne e i prigionieri che avevano catturato alFinizio della battaglia. Quel giorno i Romani ebbero un numero più alto di Vittime (ma era tutta gente inetta a combattere); i Germani lasciarono invece sul terreno i loro uomini migliori.

 

34. Vocula e Civile avevano avuto pari colpe per gli insuccessi subiti e allo stesso modo non seppero profittare del momento favorevole ad ognuno. Infatti se Civile avesse schierato un numero maggiore di armati non sarebbe stato possibile circondarlo con così poche coorti ed egli avrebbe prima forzato e poi raso al suolo il campo. Vocula, dal canto suo, non seppe valutare esattamente ravvicinarsi dei nemici e per lui uscire equivalse a subire una sconfitta. Ebbe anche il torto di confidare poco nella vittoria e di perdere troppi giorni, prima di marciare contro il nemico; se invece avesse capito di doverlo incalzare e che il momento era favorevole, avrebbe potuto con quel solo attacco liberare le legioni dall’assedio.

Intanto Civile aveva messo alla prova il morale degli assediati: cercava di dare l’impressione di essere lui il vincitore e che la situazione dei Romani era compromessa. Venivano portati in giro insegne e vessilli ed erano esibiti anche i prigionieri. Uno di questi, con uno straordinario atto di coraggio, proclamò ad alta voce come erano davvero andate le cose e subito fu trafitto da uno dei Germani: ciò rafforzò la credibilità delle sue affermazioni. Contemporaneamente la devastazione e gli incendi dei villaggi indicavano l’avvicinarsi dell’esercito vincitore.

Arrivato davanti agli accampamenti, Vocula ordina di piantare le insegne e di costruirvi attorno una fossa e un vallo: avrebbero combattuto senza impacci una volta deposti bagagli e salmerie. Allora i soldati, che ormai avevano preso l’abitudine di formulare minacce, levarono clamori contro il loro comandante, chiedendo di essere portati a combattere. Non si presero neanche il tempo per mettere a posto gli schieramenti e attaccarono a combattere, disordinati e stanchi. E infatti Civile era lì, fiducioso nel valore dei suoi ma anche nei passi falsi del nemico.

L’esito fu a lungo incerto per i Romani e i più esagitati nel fomentare disordini erano anche i più vili. Alcuni, forti dell’esperienza della vittoria appena ottenuta, mantenevano la posizione, colpivano i nemici, esortavano se stessi e i commilitoni vicini. In questo modo tenevano vivo il combattimento e facevano ampi gesti di approfittare dell’occasione agli assediati. Questi vedono ogni cosa dalle mura e si lanciano fuori delle porte.

Caso volle che Civile fosse coinvolto nella caduta del suo cavallo: in entrambi gli eserciti si diffuse la voce che era stato ferito o ucciso ed è incredibile in che misura questa notizia abbia aumentato le apprensioni dei Batavi e l’entusiamo dei Romani. Ma Vocula non volle mettersi all’inseguimento e preferì fortificare il vallo e le torri, come se ci fosse la minaccia di un nuovo assedio: sprecò tante volte la possibilità di vincere da autorizzare i sospetti di volere il prolungarsi del conflitto.

 

35. Ma il problema più grande del nostro esercito era la scarsezza dei viveri. I carri delle legioni furono mandati a Novesio con la grande massa degli addetti ai servizi perché da lì riportassero, per via di terra, un carico di frumento; il fiume era infatti presidiato dai nemici. Il primo convoglio passò senza preoccupazioni, non essendosi ancora Civile ripreso dalla caduta.

Però, quando venne a sapere che i foraggiatori erano stati di nuovo mandati a Novesio e che erano difesi da coorti che marciavano come se non ci fossero attorno i pericoli di una guerra, li aggredì: lui aveva l’esercito ben ordinato e i soldati messi a difesa delle salmerie erano invece poco compatti attorno alle insegne, tenevano le armi sui carri e se ne allontanavano a loro piacimento. Civile aveva anche provveduto ad occupare i ponti e a presidiare le strettoie del percorso. Si combattè su un fronte allungato e con esito incerto; solo il buio della notte pose fine al combattimento.

Le coorti si diressero a Gelduba65 dove l’accampamento era rimasto tale e quale, presidiato dai soldati lasciati lì. Era chiaro che, durante il ritorno, gravissimo sarebbe stato il rischio corso dai foraggiatori, gravati dal carico e scoraggiati. Vocula aumentò il numero dei suoi effettivi prelevando mille legionari dalla quinta e dalla quindicesima legione che erano assediate presso Castra Vetera; erano soldati indomabili e ostili ai propri comandanti.

Il numero di coloro che erano partiti risultò superiore a quanto era stato disposto; durante la marcia protestavano apertamente perché non erano più disposti a sopportare la fame e gli imbrogli dei legati. Quelli che erano dovuti rimanere si lamentavano di essere abbandonati dopo che era stata portata via una parte della legione. Dunque vi erano due contrapposti motivi di rivolta: gli uni volevano richiamare Vocula, gli altri non volevano ritornare nell’accampamento.

 

36. Intanto Civile mette sotto assedio Vetera66. Vocula dovette ripiegare su Gelduba e di là su Novesio. Civile occupa Gelduba; poi, non lontano da Novesio, combattè con esito favorevole in uno scontro equestre67. Ma i soldati, favorevoli o contrari che fossero gli esiti delle battaglie, volevano comunque la rovina dei loro comandanti. Le legioni, forti del loro aumento numerico con l’arrivo dei commilitoni della quinta e della quindicesima, chiedono il donativo, essendosi sparsa la voce che Vitellio aveva mandato denaro.

Ordeonio non perse tempo e concesse il donativo, facendolo però, nel nome di Vespasiano: questo fu il principale alimento della rivolta. I soldati si diedero alla lussuria, ai banchetti, ai convegni notturni: e riesplose anche l’antica ira contro Ordeonio. Nessuno tra i legati o i tribuni osò in qualche modo fermarli perché la notte aveva spazzato via ogni ritegno: lo tirano giù dal letto e lo ammazzano. Per Vocula si preparava la stessa sorte, ma egli, travestito da schiavo, riuscì a nascondersi nel buio e a eclissarsi.

 

37. Poi il furore si calmò e subentrò di nuovo la paura. I soldati mandarono centurioni provvisti di lettere alle popolazioni delle Gallie per implorare aiuti e denaro. Essi, dal canto loro, dopo esser corsi tumultuosamente alle armi all’arrivo di Civile, le abbandonarono e si diedero alla fuga: succede così al popolo che, quando rimane senza capo, prende decisioni inconsulte e si dimostra pavido e privo di iniziativa.

La situazione difficile generò discordia: quelli che provenivano dall’esercito della Germania superiore68 rifiutavano di unire la propria causa agli altri. Tuttavia le statue di Vitellio vennero innalzate di nuovo negli accampamenti e nelle vicine città dei Belgi. E Vitellio era ormai morto69. Quelli della prima, della quarta e della ventiduesima rividero il loro atteggiamento e seguirono Vocula. Nelle sue mani rinnovarono il giuramento a Vespasiano e si lasciarono condurre a liberare Magonza dall’assedio.

Ma gli assedianti se ne erano già andati; era un esercito un po’ composito, formato da Catti, Usipi e Mattiaci70: si erano ritirati ormai sazi di bottino ma anche con gravi perdite perché i nostri soldati li avevano sorpresi quando erano dispersi e incuranti dei pericoli. Inoltre i Treviri costruirono lungo i loro confini un vallo rinforzato da un parapetto: guerreggiavano contro i Germani e le perdite erano ingenti dall’una e dall’altra parte. Ad un certo punto, però, si ribellarono e macchiarono in questo modo i grandi meriti che avevano acquisito presso il popolo romano.

 

38. Frattanto assunsero il consolato, anche se assenti, Vespasiano (per lui si trattava della seconda volta) e Tito71. In Roma dominavano tristezza e, per diversi motivi, paura: oltre ai mali presenti si erano sparsi anche terrori senza fondamento. Per esempio si credeva che l’Africa si fosse separata dall’impero: il rivolgimento sarebbe stato da imputare all’azione sediziosa di Lucio Pisone72.

Pisone era proconsole di quella provincia ma il suo carattere non era affatto incline ai torbidi; però succedeva che il clima particolarmente inclemente impedisse il transito delle navi e la gente (abituata a fare gli acquisti giorno per giorno e preoccupata di un solo affare pubblico: gli approvvigionamenti) temeva – e finiva con Tesserne convinta – che gli imbarchi fossero chiusi e che le provviste fossero tenute ferme. I Vitelliani provvedevano ad alimentare queste dicerie perché non si era ancora affievolito in loro Tamore di parte; e neppure ai vincitori quella chiacchiera era sgradita perché la loro avidità, lungi dal saziarsi con le guerre esterne, non aveva trovato di che appagarsi nemmeno nel successo della guerra civile.

 

39. Il primo di gennaio il senato, convocato dal pretore urbano Giulio Frontino73, decretò lodi e ringraziamenti ai legati, agli eserciti, ai re74. A Tettio Giuliano fu tolta la pretura perché aveva abbandonato la sua legione quando questa era passata al partito di Vespasiano; la carica fu trasferita a Plozio Gripo; a Ormo venne concessa la dignità equestre.

Cesare Domiziano fu poi successore di Frontino che deponeva la pretura. Il suo nome veniva posto nelle intestazioni delle lettere e degli editti, ma il potere effettivo risiedeva nelle mani di Muciano, senonché Domiziano tentava spesso delle imprese coraggiose o per l’istigazione degli amici o per proprio piacere.

Ma Muciano era, sopra ogni altra cosa, preoccupato per Primo Antonio e Varo Arrio che splendevano ancora di gloria recente, erano nelle simpatie dei soldati e per di più godevano del favore popolare perché, appena cessato lo stato di guerra, non avevano infierito contro nessuno. Si diceva anche che Antonio avesse cercato di persuadere Scriboniano Crasso75, illustre per i suoi nobilissimi natali e anche per riflesso del fratello, ad impadronirsi del potere. Non gli sarebbero venuti certo meno numerosi complici, se Scriboniano, che non era facile a lasciarsi coinvolgere dalle imprese progettate in ogni particolare e dunque temeva quelle incerte, non avesse rifiutato.

Allora, visto che Antonio non si poteva togliere di mezzo in modo scoperto, Muciano lo ricolma di pubbliche lodi in senato, mentre segretamente gli promette la Spagna citeriore, lasciata vacante dalla partenza di Cluvio Rufo; nello stesso tempo elargisce tribunati e prefetture ai suoi amici. Riesce dunque a colmare di speranze e di desideri l’ambizioso animo di Antonio: ma subito lo priva della sua forza mandando nei quartieri invernali la settima legione, da cui Antonio era amatissimo. La terza poi, i cui soldati simpatizzavano per Arrio Varo, fu rimandata in Siria76; un’altra parte dell’esercito veniva condotta nelle Germanie. Roma si trovò così libera da ogni motivo di turbolenza e recuperò la sua immagine usuale, la sua legalità, le prerogative dei suoi magistrati.

 

40. Domiziano, nel giorno del suo ingresso in senato, pronunciò poche e misurate parole sull’assenza del padre e del fratello. Disse qualcosa anche sulla sua giovane età: il suo atteggiamento era improntato al decoro e, poiché ancora il suo carattere non era noto, i frequenti rossori del suo volto venivano colti come indizi di modestia. Propose che si restituissero gli onori a Galba e Curzio Montano77, espresse il parere che anche la memoria di Pisone78 andasse riabilitata. I senatori sancirono l’una e l’altra proposta (ma quella relativa a Pisone non ebbe alcun seguito).

Furono poi sorteggiati i membri di una commissione incaricata di risarcire chi aveva subito furti a causa della guerra; un’altra commissione doveva provvedere a decifrare il testo e a ripristinare le tavole bronzee delle leggi cadute per la loro antichità. Bisognava anche togliere il peso della vergogna ai fasti contaminati dall’adulazione79 e porre un limite alle spese pubbliche. A Tettio Giuliano venne restituita la pretura quando si seppe che si era rifugiato presso Vespasiano; a Gripo fu mantenuto il titolo onorifico.

Fu deciso di riproporre la vertenza tra Musonio Rufo e Publio Celere: Publio80 fu condannato e ai mani di Sorano fu data soddisfazione. Insomma, una giornata rimasta famosa per la pubblica severità riservò spazio anche ai meriti di un privato. Era avviso generale che Musonio avesse finalmente vinto una giusta causa; del tutto opposta fu la fama che si procurò il filosofo cinico Demetrio81 per aver difeso più per ambizione personale che per amore di verità un condannato manifestamente colpevole. Quanto a Publio, né il coraggio né la parola gli bastarono a giustificarsi. Ed era stato ormai lanciato il segnale di vendetta contro gli accusatori; Giunio Maurico82 chiese a Cesare che fosse concesso ai senatori di consultare gli archivi imperiali: da lì si poteva conoscere chi ciascun accusatore avesse cercato di incriminare. Domiziano rispose che su una questione tanto importante bisognava sentire l’imperatore.

 

41. Il senato, su iniziativa dei suoi membri più autorevoli, formulò un giuramento, secondo il quale tutti i magistrati a gara e poi tutti gli altri mano a mano che venivano interpellati, invocavano la testimonianza degli dèi: mai per loro opera era stato fatto qualcosa contro l’incolumità di qualcuno, mai avevano ricevuto una ricompensa o una carica pubblica in cambio della rovina di qualche cittadino. Quelli che erano consapevoli di aver commesso gravi colpe, tremavano e cercavano di cambiare con qualche sotterfugio le parole del giuramento.

I senatori approvavano la lealtà, mettevano sotto accusa lo spergiuro: quella sorta di censura si abbatté duramente su Sarioleno Vocula, Nonio Attiano, Cestio Severo83, turpemente famosi per le sempre più frequenti denunce a Nerone. L’accusa per Sarioleno era resa più attuale dal fatto che egli si era comportato allo stesso modo sotto Vitellio; i senatori alzarono le mani in segno di minaccia contro Vocula e non le abbassarono fino a quando non fu uscito dall’aula.

Poi fu la volta di Paccio Africano: anche lui fu scacciato dalla curia per aver causato la morte dei fratelli Scribonii84, famosi per le loro ricchezze e per l’affetto che regnava tra loro. Africano non osava confessare ma nemmeno poteva negare; ad accalorarsi in modo particolare contro di lui era Vibio Crispo85 con le sue accuse; Africano lo aggredì e cercò di stornare un po’ di malanimo dalla propria persona, associandolo alla sua colpa e coinvolgendolo nelle accuse da cui non poteva difendersi.

 

42. In quello stesso giorno Vipstano Messalla conseguì una grande fama di eloquenza e di amore fraterno, avendo trovato il coraggio di intercedere per il fratello Aquilio Regolo86, pur non avendo ancora l’età per parlare in senato87. Le case dei Crassi e di Orfito erano state da lui rovinate e ciò gli aveva suscitato contro un odio tremendo. Si diceva che, ancora giovanissimo, si fosse assunto la parte di accusatore e non per allontanare da sé qualche pericolo ma per bramosia di potere. Se il senato avesse istruito il processo erano pronti a rivendicare il loro diritto Sulpicia Pretestata, moglie di Crasso, e i suoi quattro figli.

Dunque Messalla non aveva grande spazio per sostenere la causa o difendere il colpevole, ma aveva quasi opposto il suo corpo tra il fratello e i pericoli che lo minacciavano e questo aveva commosso qualcuno. Ma trovò durissima opposizione nella parole di Curzio Montano che arrivò al punto di rinfacciare a Regolo di aver dato un premio, dopo la morte di Galba, all’uccisore di Pisone e di averne preso a morsi la testa.

Parlò in questo modo: «Almeno a questo non eri stato obbligato da Nerone88 e quel tuo atto crudelissimo non ti servava a riscattare né la tua dignità né la tua vita. Io posso anche sopportare le scuse di quelli che hanno preferito rovinare gli altri piuttosto che se stessi. Tu eri tranquillo e niente da te Nerone poteva pretendere o temere: tuo padre era in esilio, i tuoi beni erano divisi tra i creditori, non eri ancora in età da cariche pubbliche.

Nessuno ancora conosceva il tuo talento né tu lo avevi sperimentato in alcuna difesa: tu hai voluto sporcarlo con sangue nobile per saziarti di strage e di denaro; tu hai rubato sulla tomba della repubblica le spoglie consolari89; ti sei ingrassato con sette milioni di sesterzi; hai fatto uso del prestigio del tuo sacerdozio per travolgere nella stessa rovina fanciulli innocenti, vecchi illustri, donne nobili. Sei arrivato a rimproverare la lentezza di Nerone che, procedendo contro le singole famiglie, affaticava se stesso e i delatori quando con una sola parola poteva disperdere tutto il senato.

Senatori, voi dovete avere caro e difendere un uomo così abile nel concepire i suoi piani che ogni età avrebbe da imparare da lui. E se i nostri vecchi hanno avuto come modelli Marcello e Crispo90, i giovani non possono che imitare Regolo. La malvagità trova seguaci anche quando non approda a esiti felici, immaginarsi quando prospera e sale in auge! E se non abbiamo il coraggio di perseguirlo ora che è appena stato questore, lo faremo quando sarà pretore e console? O forse voi pensate che Nerone sia l’ultimo dei tiranni? Avevano creduto esattamente la stessa cosa quelli che erano sopravvissuti a Tiberio e a Caligola, fino a quando non ne è venuto uno ancora più detestabile e crudele.

Noi non temiamo Vespasiano, data la sua età e la sua moderazione, ma gli esempi hanno vita più lunga della buona condotta di un singolo principe91. Noi stiamo perdendo le nostre forze, senatori, e già non siamo più quel senato che, dopo la morte di Nerone, chiedeva di punire i delatori e i loro complici secondo l’usanza avita92. Quando arriva la fine di un principe malvagio, il giorno più bello è il primo93».

 

43. Le parole di Montano furono accolte con tale consenso dal senato che Elvidio Prisco sperò che quella fosse l’occasione buona per abbattere anche Eprio Marcello. Cominciò con l’elogiare eluvio Rufo che, altrettanto ricco e valido oratore, non aveva mai creato pericoli per nessuno sotto Nerone. Quando vide che l’animo dei senatori era eccitato, allora cercò di schiacciare Eprio sotto le sue stesse colpe e con gli esempi dell’altrui lealtà.

Udito ciò, Marcello fece l’atto di uscire dalla curia. «Ce ne andiamo», disse, «Prisco, e ti lasciamo il tuo senato: atteggiati pure a re, in presenza di Cesare94.» Vibio Crispo lo seguiva; entrambi avevano atteggiamento ostile, ma con espressione diversa: Marcello aveva occhi minacciosi, Crispo sogghignava. Alla fine alcuni amici accorsero e li riportarono dentro. Ma la vertenza si aggravava; da una parte c’era il gruppo più numeroso, quello degli onesti, mentre dall’altra erano in pochi, ma molto influenti: il loro odio era tenace e spesero tutto il giorno contrapposti nel dissenso.

 

44. Nella successiva seduta del senato, Domiziano aperse i lavori parlando dell’opportunità di far venir meno il dolore, il malanimo e le conseguenze dei tempi passati; allora Muciano fece un lungo intervento a favore degli accusatori. Poi, ricorrendo a espressioni blande e quasi pregando, ammonì quelli che volevano riprendere un’azione giudiziaria già una prima volta intrapresa e poi abbandonata95. I senatori avevano cercato di conquistarsi un po’ di libertà, ma al primo cenno di opposizione, vi rinunciarono.

Muciano non volle che l’opinione dei senatori sembrasse in scarsa considerazione e che si avesse l’idea che per tutti i crimini commessi sotto Nerone fosse concessa l’impunità. Allora fece rimandare nelle stesse isole da cui erano appena tornati, Ottavio Sagitta96 e Antistio Sosiano97, dell’ordine senatorio, proprio allora rientrati dall’esilio. Ottavio, incapace di por freno alla propria passione, aveva ucciso Ponzia Postumina, che rifiutava di sposarlo dopo aver subito uno stupro da lui; Sosiano aveva con la sua slealtà rovinato molti.

Entrambi condannati ed espulsi per un severo giudizio del senato, continuarono dunque a scontare la loro pena, nonostante il ritorno fosse stato concesso ad altri. Muciano, ugualmente, non riuscì a scongiurare il malanimo nei suoi riguardi: Sosiano e Sagitta erano uomini da poco e il loro ritorno non avrebbe cambiato nulla. Ad essere davvero temibili erano invece i delatori di grandi intelligenza e ricchezza, capaci di esercitare con male arti il loro potere.

 

45. Muciano riuscì a riconciliarsi per qualche tempo il favore dei senatori con un processo celebrato secondo la prassi tradizionale. Il senatore Manlio Patruito98 aveva intentato causa per essere stato malmenato nella colonia Senese99 durante un tumulto popolare e per ordine dei magistrati. Ma il torto subito non si era concluso in quel modo: lo avevano circondato, lui ben vivo e presente, levando lamentazioni funebri e inscenando il suo funerale; e poi insulti e offese che finivano per colpire la dignità di tutto il senato. Gli accusati furono chiamati in giudizio e fu istruito il processo. I colpevoli, se riconosciuti tali, furono puniti. Il senato aggiunse anche una deliberazione in cui si richiamava il popolo senese a un comportamento più misurato. In quegli stessi giorni Antonio Fiamma100, su accusa degli abitanti di Cirene, fu condannato in base alla legge sulla concussione e mandato in esilio per atti di crudeltà.

 

46. Durante il corso di tali eventi ci fu quasi una sommossa militare. I congedati da Vitellio avevano ripreso servizio per Vespasiano e chiedevano di essere riammessi al servizio nelle coorti pretoriane. Inoltre i soldati scelti delle legioni, attratti dalla stessa prospettiva, chiedevano insistentemente il compenso pattuito. Neppure i Vitelliani potevano essere mandati via senza spargimento di sangue: se si fossero voluti mantenere tutti quegli uomini in armi la somma da spendere sarebbe stata enorme. Muciano si recò all’accampamento per valutare gli anni di servizio di ciascuno: fece schierare i vincitori, con le decorazioni e con le armi, a brevi intervalli l’uno dall’altro. Poi i Vitelliani (di cui ho già raccontato di come si fossero arresi a Boville) e anche tutti gli altri raccolti per la città e nella periferia, vengono fatti avanzare disarmati e quasi nudi. Muciano li fa separare e ordina che i soldati germanici e britannici e di altri eserciti si dispongano a gruppi. Già al primo colpo d’occhio, costoro erano stati presi dallo sgomento perché si vedevano davanti quasi un esercito minaccioso e armato di tutto punto. E loro erano circondati, nudi, bruttati di sudiciume. Quando poi si cominciò a distribuirli da una parte e dall’altra, tutti ebbero paura, e in modo particolare i soldati germanici convinti che quella separazione preludesse al loro massacro. Allora cominciarono a stringersi al petto dei commilitoni, ad avvinghiarsi al loro collo, a chiedere l’ultimo bacio: non volevano essere lasciati soli, non volevano avere una sorte diversa dopo essersi battuti per la stessa causa. Presero a chiamare a testimone ora Muciano, ora l’imperatore assente, infine il cielo e gli dèi; alla fine Muciano li definì tutti obbligati dallo stesso giuramento e li chiamò tutti soldati dello stesso imperatore e in questo modo dissipò quell’infondato timore. L’esercito vittorioso gridava e, in questo modo, assecondava le loro lacrime.

Così finì quella giornata. Non passarono che pochi giorni e già, rassicurati, ascoltavano una allocuzione di Domiziano: rifiutavano le terre che erano state promesse, imploravano un servizio ben retribuito. Formalmente erano preghiere, ma sarebbe stato impensabile non esaudirle: quindi .furono accolti nella guardia pretoriana.

Alla fine quelli che avevano l’età e gli anni di servizio richiesti101 furono congedati con onore. Altri vennero mandati via per punizione, ma pochi alla volta se non addirittura uno a uno: è questo il rimedio più sicuro per togliere vigore alla solidarietà della massa.

 

47. Difficile dire se quella mancanza di mezzi fosse vera o soltanto un pretesto; in ogni caso il senato decise di prendere a prestito da privati seicento milioni di sesterzi. L’incarico fu dato a Pompeo Silvano102. Non molto dopo quel bisogno scomparve (o forse si smise di fingere che tale bisogno esistesse). Vennero revocati, con una legge proposta da Domiziano, i consolati distribuiti da Vitellio. Fu anche decretato il funerale censorio per Flavio Sabino103: prova suprema della instabilità della fortuna che mischia vette e abissi.

 

48. Sempre nei primi giorni dell’anno viene ucciso il proconsole Lucio Pisone104. Racconterò di questa uccisione attenendomi ai fatti quanto più sarà possibile e rifacendomi a circostanze precedenti e certo non estranee agli inizi e alle cause di tali delitti. Durante il principato del divo Augusto e di Tiberio, la legione di stanza in Africa105 e le milizie ausiliarie che avevano il compito di proteggere il confine dell’impero, erano agli ordini di un proconsole. Più tardi Caligola, che per via del suo carattere inquieto temeva Marco Silano106 di fatto padrone dell’Africa, tolse la legione al proconsole e la affidò ad un legato espressamente inviato per quello scopo.

I due comandanti potevano procedere ad ugual numero di promozioni e, non essendo chiarite le competenze di ognuno, ne nacque una contrapposizione aggravata da una meschina rivalità. A causa della lunga durata dell'incarico il potere dei legati crebbe (o forse il motivo va cercato nel fatto che chi è di grado inferiore è animato da maggior voglia di emulazione107). Invece tutti i proconsoli di alto lignaggio pensavano alla sicurezza personale più che a esercitare il potere.

 

49. Comandava allora la legione in Africa Valerio Festo: giovane, scialacquatore, ambizioso, inquieto per la sua parentela con Vitellio. Non saprei dire se sia stato lui in ripetuti discorsi a tentare Pisone ad un rivolgimento o se invece i ruoli fossero invertiti: nessuno fu presente ai loro segreti colloqui e, una volta ucciso Pisone, i più cercavano il favore del suo assassino. È invece assodato che la provincia e i soldati erano ostili a Vespasiano. Alcuni membri del partito vitelliano, in fuga da Roma, indicavano a Pisone le Gallie indecise, la Germania pronta alla ribellione, i pericoli che lui correva, la maggior sicurezza che offriva la guerra a chi è sospetto in periodo di pace.

Durante questi eventi, Claudio Sagitta, prefetto dello squadrone di cavalleria petriana108, navigando senza incontrare intoppi, riuscì a precedere il centurione Papirio inviato da Muciano; egli assicurò che il centurione aveva il compito di uccidere Pisone: Galeriano, suo cugino e genero, già era stato trucidato. L’unica speranza di salvezza era in un atto di coraggio. Due strade aveva davanti: prendere le armi immediatamente o proporsi come comandante agli eserciti vitelliani dopo aver raggiunto la Gallia via mare. Pisone non fu minimamente turbato da tutto ciò. Appena il centurione mandato da Muciano sbarcò a Cartagine, cominciò a gridare frasi augurali all’indirizzo di Pisone, come se fosse imperatore; esortava poi tutti quelli che trovava per strada, increduli per l’improvvisa novità, ad urlare le stesse parole. La gente credulona si precipitò nel foro chiedendo che Pisone si facesse vivo. Quel che davvero stava accadendo poco contava: la voglia di adulare rimescolava ogni cosa tra manifestazioni di gioia e clamore. Pisone, o per l’avvertimento di Sagitta o per sua naturale modestia, non uscì in pubblico e non si fece coinvolgere dall’entusiasmo della folla. Interrogò il centurione e da lui venne a sapere che si cercava un pretesto per sopprimerlo109. Lo fece giustiziare non tanto perché si illudesse davvero di aver salva la vita, ma per lo sdegno contro quel sicario. Era, costui, uno degli uccisori di Clodio Macro110 ed ora veniva ad uccidere il proconsole con le mani ancora sporche del sangue del legato. Rimproverò i Cartaginesi con un editto da cui traspariva tutta la sua preoccupazione e si chiuse in casa: non adempieva nemmeno ai consueti offici del suo ruolo affinché, nemmeno per caso, ci fosse qualche motivo di nuovi sommovimenti.

 

50. Ma quando Pesto fu informato dello sdegno popolare e dell’esecuzione del centurione (le verità e le menzogne passando di bocca in bocca, come al solito, si ingigantiscono), mandò dei cavalieri ad uccidere Pisone. Quelli partono immediatamente e, ancora nel chiaroscuro del giorno incipiente, irrompono nella casa del proconsole con le spade sguainate. La maggior parte di loro non conosceva Pisone, perché Festo aveva mandato in quella missione di morte ausiliari cartaginesi e mauri.

Vicino alla camera da letto, chiesero al primo servo che trovarono chi e dove fosse Pisone. Costui, con una generosa menzogna, rispose che Pisone era lui: subito lo trucidarono. Ma Pisone non sfuggì per molto tempo alla morte: infatti c’era uno che lo conosceva ed era Bebio Massa111, uno dei procuratori d’Africa, già allora causa di rovina per i migliori cittadini e destinato ad essere ancora citato da me, tra le cause dei mali che dopo quel periodo abbiamo patito112.

Festo si mosse da Adrumeto113, dove si era trattenuto ad aspettare lo svolgersi degli eventi, e raggiunse la sua legione. Diede subito ordine che Cetronio Pisano, prefetto del campo, fosse gettato in catene a causa di una personale inimicizia. Però lo chiamava complice di Pisone; poi punì alcuni soldati e centurioni, altri ne premiò: in realtà non teneva conto di meriti o demeriti, ma voleva semplicemente dare l’impressione di essere riuscito a domare una rivolta.

Poi pose fine alle discordie tra gli abitanti di Oea e quelli di Leptis114 che da principio sembravano trascurabili, limitandosi a qualche furto di granaglie e pecore tra contadini, ma erano ormai diventate vere battaglie con eserciti in armi. Infatti il popolo di Oea, meno numeroso, aveva chiamato in soccorso i Garamanti115, gente indomabile e sempre intenta a rapinare i propri vicini. I Lepcitani erano ridotti a mal partito da questa alleanza: le loro campagne erano devastate per largo tratto ed essi temevano fortemente fin dentro le proprie mura. L’intervento delle coorti e della cavalleria valse a disperdere i Garamanti e a recuperare tutto il bottino, tranne quello che ormai avevano venduto, nelle loro scorribande, tra le irraggiungibili capanne116 degli abitanti dell’interno.

 

51. Dopo la battaglia di Cremona e le notizie liete che giungevano da ogni parte, uomini di tutti i gradi sociali sfidarono il mare invernale con fortuna pari alla loro audacia, per portare a Vespasiano l’annuncio della fine di Vitellio. C’erano anche gli ambasciatori del re Vologese che offrivano un contingente di quarantamila cavalieri parti.

Davvero straordinario e confortante vedersi offrire così imponenti aiuti dagli alleati e non averne bisogno! A Vologese furono rese grazie; gli fu anche comunicato che mandasse i suoi ambasciatori al senato e che ormai si era in pace. Vespasiano seguiva attentamente la situazione d’Italia e di Roma; colse alcune voci negative sul comportamento di Domiziano, che, per così dire, usciva dai confini della sua età e dei privilegi di un figlio. Allora affidò la parte più valida dell’esercito a Tito per portare a termine la guerra di Giudea117.

 

52. Si racconta che Tito, prima di partire, abbia avuto un lungo colloquio con suo padre: lo pregava di non adirarsi prestando fede, con troppa facilità, ai rapporti che mettevano in cattiva luce Domiziano. Nei suoi riguardi doveva dimostrarsi non prevenuto e indulgente: né legioni né flotte sono, per l’impero, difese valide come il numero dei figli, proseguiva Tito. Le amicizie possono affievolirsi, spostarsi, spegnersi del tutto col passare del tempo, col volgere della fortuna e talvolta a causa di passioni od errori: il vincolo del sangue è invece indissolubile per tutti e soprattutto per i principi della cui buona fortuna godono in molti, mentre le avversità ricadono sui congiunti più stretti. E la concordia non potrebbe certo durare tra fratelli se proprio il padre non ne avesse già dato l’esempio.

Vespasiano non depose ogni risentimento nei confronti di Domiziano ma si rallegrò molto dell’amore fraterno dimostrato da Tito; esorta il figlio a stare tranquillo e a tenere alto il nome di Roma con una guerra accortamente combattuta; lui, dal canto suo, avrebbe provveduto alla pace domestica. Poi affida al mare ancora in tempesta le navi più veloci cariche di frumento; davvero Roma si dibatteva in una situazione gravissima: nei granai non c’erano scorte per più di dieci giorni al momento in cui arrivarono le vettovaglie inviate da Vespasiano.

 

53. L’incarico di ricostruire il Campidoglio fu affidato a Lucio Vestino118, membro dell’ordine equestre, ma autorevole e famoso come i personaggi più influenti. Gli aruspici da lui convocati consigliarono di buttare nelle paludi le rovine del tempio distrutto. Il tempio nuovo doveva sorgere sulla medesima base perché gli dèi non consentivano che se ne cambiasse l’antica conformazione.

Il 21 giugno era una giornata limpidissima. Tutto lo spazio dedicato al tempio venne cinto con bende sacre e corone. Furono fatti entrare dei soldati con nomi bene auguranti e che agitavano rami di alberi fruttiferi; poi le vergini Vestali con fanciulli e fanciulle che avevano i genitori ancora viventi spruzzarono il luogo di acqua attinta da fonti e fiumi119.

Allora il pretore Elvidio Prisco (il pontefice Plauzio Eliano120 gli suggeriva la formula) purificò il luogo sacrificando un maiale, una pecora e un toro. Poi depose le viscere sopra un altare fatto di zolle erbose e invocò Giove, Giunone e Minerva e tutti i numi tutelari dell’impero affinché l’opera intrapresa andasse a buon fine. Che le sedi degli dèi iniziate dalla pietà degli uomini fossero portate fino al tetto dall’intervento degli stessi dèi! Poi toccò le bende a cui era collegata la prima pietra e allacciate le funi; allora tutti gli altri magistrati, i sacerdoti, i senatori, i cavalieri, molte persone del popolo, con uno slancio di fervore e gioia, trascinarono quel grande macigno.

Vennero gettate qua e là nelle fondamenta, monete d’oro e d’argento e anche metalli preziosi e grezzi, non ancora lavorati in nessuna fornace, ma tali e quali vengono prodotti in natura: gli aruspici ammonirono che il tempio non fosse profanato con pietre od oro destinati ad altro uso. Si provvide ad aumentare l’altezza del tempio: era l’unica cosa consentita dalla religione (ed anche l’unica cosa che era mancata allo splendore del tempio distrutto).

 

54. Frattanto121 la notizia della morte di Vitellio aveva fatto crescere lo sforzo bellico nelle Germanie e nelle Gallie: infatti Civile aveva smesso la sua finzione e ormai muoveva i suoi contro il popolo romano. Le legioni di Vitellio, dal canto loro, preferivano essere schiave di uno straniero piuttosto che avere Vespasiano per imperatore. I Galli avevano ripreso nuovo entusiasmo pensando che tutti gli eserciti romani subissero la stessa sorte122: si era infatti diffusa la diceria che i quartieri invernali di Mesia e Pannonia fossero assediati dai Sarmati e dai Daci; e non mancavano voci dello stesso tipo per la Britannia.

Ma lo stimolo maggiore era venuto dall’incendio del Campidoglio; si arrivò a credere che fosse vicino il crollo dell’impero: i Galli erano arrivati, nei tempi antichi, a far cadere Roma, ma l’impero non era crollato perché era rimasto integro il tempio di Giove. Ora con quel fuoco fatale si era manifestata l’ira degli dèi: questo vaticinavano i druidi nella loro farneticante superstizione e aggiungevano che il dominio su tutto il genere umano stava per passare ai popoli transalpini.

Particolare credito ebbe la voce che i senatori123 di origine gallica, già mandati da Otone contro Vitellio, avessero, prima di partire, pattuito di non venir meno alla causa della libertà, se una ininterrotta sequela di guerre civili, insieme alle disgrazie interne allo stato, avesse spezzato il predominio del popolo romano.

 

55. Prima dell’uccisione di Ordeonio Fiacco, nulla trapelò che lasciasse intuire l’esistenza di una congiura. Ma dopo la sua morte ci fu intenso scambio di messaggi tra Civile e Classico, prefetto di un reparto della cavalleria dei Treviri. Classico superava tutti per nobiltà e ricchezza; era di stirpe regale e i suoi avi si erano fatti onore sia in opere di pace che durante le guerre: e tra i suoi antenati contava più nemici dei Romani che loro alleati.

Gli si unirono Giulio Tutore e Giulio Sabino124, il primo treviro, il secondo lingone. Tutore aveva ricevuto da Vitellio l’incarico di sorvegliare la sponda del Reno; Sabino, per la sua connaturata vanità, vantava una ascendenza del tutto fasulla: di una sua bisavola, a sentir lui, si era innamorato, al tempo delle guerre galliche, il divo Giulio che ne aveva fatto una sua concubina.

Costoro indagavano in colloqui segreti le intenzioni degli altri e, quando trovavano uno adatto, lo legavano alla causa mettendolo a parte dei piani. Si ritrovarono in una casa privata della colonia Agrippinese perché la città, ufficialmente, non voleva aver nulla a che fare con tali imprese; tuttavia c’era anche una rappresentanza degli Ubii e dei Tungri.

Ma i Treviri e i Lingoni, siccome formavano la maggioranza, non vollero perdere troppo tempo in discussioni: a gara proclamavano che il popolo romano, in preda ai contrasti, stava impazzendo, che intere legioni erano state massacrate, che l’Italia era stata devastata. Ed era questa la situazione in cui Roma, nel frattempo, veniva presa mentre ogni esercito era occupato in una sua guerra particolare. Bastava arrivare a presidiare le Alpi: le Gallie, una volta resa ben salda la propria libertà, non avrebbero avuto che il problema di porre un confine all’espandersi delle loro forze.

 

56. Questo fu affermato e subito approvato; più difficile, invece, fu prendere una decisione riguardo ai resti dell’esercito vitelliano. I più pensavano che si dovesse procedere ad una esecuzione in massa perché i soldati vitelliani erano turbolenti, infidi, macchiati del sangue dei loro comandanti. Prevalse l’opinione di risparmiarli per evitare che, tolta ogni speranza di perdono, se ne esasperasse l’ostinazione: era meglio indurli a stringersi in alleanza. Uccidendo soltanto i legati delle legioni, avrebbero reso consapevole dei suoi delitti la massa dei soldati e li avrebbero convinti con la speranza dell'impunità. Così si svolse quella prima assemblea, in seguito alla quale furono mandati per le Gallie dei fomentatori di guerra. I convenuti decisero anche di simulare la sottomissione per prendere Vocula alla sprovvista.

Vocula ne fu ugualmente informato, ma non aveva forze sufficienti a reprimere la rivolta: non poteva infatti far conto delle legioni che erano infide e presentavano larghi vuoti nelle loro file. Fra soldati poco fidati e nemici che non volevano rivelarsi come tali, Vocula pensò che, al momento, il partito migliore era quello di fingere a sua volta e di difendersi con gli stessi mezzi con cui veniva minacciato; allora seguì il Reno fino alla colonia Agrippinese.

Qui trovò rifugio, dopo aver corrotto i suoi guardiani, Claudio Labeone (di cui ho già riferito la cattura e il confino in Frisia125). Egli promise che se gli fosse stata data una scorta, si sarebbe recato tra i Batavi e avrebbe recuperato all’alleanza romana la maggior parte di quel popolo. Gli fu dato un discreto manipolo di fanti e cavalieri, ma non riuscì a combinare nulla tra i Batavi. Invece persuase a prendere le armi alcuni dei Nervii e dei Betasi126 e intanto guerreggiava contro i Canninefati e i Marsaci127 più con azioni di guerriglia che in battaglie vere e proprie.

 

57. Vocula cadde tuttavia nel tranello dei Galli e andò incontro al nemico. Non era lontano da Vetera, quando Classico e Tutore, avanzati col pretesto di esplorare, confermarono i patti coi comandanti germanici. Allora per la prima volta si separarono dalle legioni128 e cinsero l’accampamento con un vallo proprio, nonostante le proteste di Vocula: non ancora, diceva, a tal punto era turbato lo stato romano dalle guerre civili che persino Treviri e Lingoni potessero farne oggetto di disprezzo.

Rimanevano province sicure, eserciti vincitori, la fortuna dell’impero romano e numi vendicatori. In questo modo erano stati sconfitti, al primo scontro con i Romani, Sacroviro129 e gli Edui, e poi Vindice e le Gallie: ed erano le stesse divinità e gli stessi destini ad attendere chi aveva rotto i patti. Il divo Giulio e il divo Augusto molto meglio avevano conosciuto gli animi di quella gente130: quando Galba aveva cominciato ad alleggerire il peso dei tributi, avevano cominciato ad essere ostili. E ormai erano diventati nemici, perché era stato loro consentito di smettere la condizione di servi; il giorno in cui si fossero trovati nudi e spogliati di tutto, avrebbero chiesto di essere riammessi tra gli amici.

Disse queste cose con grande fierezza. Ma poiché Classico e Tutore persistevano nella loro volontà di tradimento, tornò indietro a Novesio. I Galli si accamparono in una pianura distante due miglia. Il continuo andare e venire di centurioni e soldati nel loro campo, consentì ai Galli di comperarli alla loro parte. Una vergogna del genere non si era mai sentita: un esercito romano che prestava giuramento di fedeltà a degli stranieri e offriva come garanzia di un simile delitto l’assassinio o la cattura dei suoi legati. In molti consigliarono a Vocula la fuga, ma egli pensò che doveva, con coraggio, forzare la situazione: convocò l’assemblea dei soldati e parlò loro.

 

58. «Non vi ho mai parlato in condizioni di tale inquietudine per la vostra sorte e di tale tranquillità per la mia. Non mi turba affatto sentire che si sta preparando la mia rovina: io, la morte, la sto aspettando in mezzo a tanti mali, come fine di ogni mia miseria. Di voi ho vergogna e pietà: per voi non si sta preparando una battaglia campale come sarebbe giusto in una situazione di guerra e come spetta di diritto ai vostri nemici131. La speranza di Classico è quella di combattere contro il popolo romano usando le vostre mani: per questo pone davanti ai vostri occhi l’impero delle Gallie e il giuramento di fedeltà che tale scelta richiede.

Forse in questo momento fortuna e valore ci hanno abbandonato: ma vengono meno anche gli antichi esempi? Quante volte i legionari romani hanno preferito morire per non essere cacciati dalle loro posizioni? I nostri alleati più volte hanno sopportato che le loro città fossero rase al suolo, più volte è accaduto che fossero bruciati con le mogli e i figli: e unico compenso alla morte era la fama onorata della loro fedeltà.

Ci sono legioni che, presso Castra Vetera, stanno patendo fame e assedio: non riescono a smuoverle né il terrore né le promesse; noi, oltre alle armi, agli uomini, alle straordinarie difese del nostro accampamento, abbiamo frumento e viveri per far fronte alla più lunga delle guerre.

Non è trascorso molto tempo da quando è arrivato denaro sufficiente per il vostro donativo: potete discutere se è meglio che venga da Vespasiano o da Vitellio, ma è certo comunque che è stato un imperatore romano a mandarcelo.

Vincitori di tante guerre e dopo aver sbaragliato più volte il nemico a Gelduba e a Castra Vetera, come potete aver paura di battervi in campo aperto? È davvero una cosa indegna di voi: qui avete un vallo, delle mura, la possibilità di protrarre la guerra fino a quando dalle vicine province non arrivino in aiuto degli eserciti. Ammettiamo che io non vi sia gradito: ebbene, ci sono altri legati e tribuni con cui sostituirmi; se volete, sostituitemi con un centurione o un soldato.

Basta che non si diffonda in tutto il mondo questa mostruosa notizia, che Civile e Classico stanno per invadere l’Italia col vostro aiuto. Se Galli e Germani vi porteranno sotto le mura di Roma, combatterete contro la vostra patria? La mia anima prova orrore immaginando una simile infamia. Farete da scorta a Tutore, a un treviro? Sarà un batavo a darvi il segnale di battaglia? Sarete usati per riempire i vuoti delle bande germaniche? Quale sarà l’esito del vostro delitto, quando vi si schiereranno contro le legioni romane? Disertori da chi ha disertato, traditori di chi ha tradito, ve ne andrete errando, maledetti dagli dèi e combattuti tra il vecchio e il nuovo giuramento?

Te, o Giove Ottimo Massimo che per ottocentoventi anni abbiamo onorato con tanti trionfi; e te, o Quirino, padre della città di Roma, io prego e scongiuro: se non avete voluto che questo campo rimanesse, sotto il mio comando, incorrotto e puro, non consentite almeno che sia violato e insozzato da un Tutore e da un Classico. Ai soldati romani concedete di non macchiarsi di infamia o almeno un immediato pentimento prima ancora di cadere nella colpa.»

 

59. Diverse furono le reazioni al discorso: speranza, timore, vergogna. Vocula si allontanò: schiavi e liberti gli impedirono, mentre ormai meditava soluzioni estreme, di prevenire col suicidio una morte infame. Emilio Longino, disertore della prima legione, fu mandato da Classico, che così affrettò la morte di Vocula. Quanto ai legati Erennio e Numisio132, sembrò sufficiente metterli in ceppi.

Classico, prese le insegne deirimpero romano, si recò al campo. Era rotto ad ogni delitto, ma in quell’occasione gli vennero alla bocca solo le parole del giuramento; i presenti giurarono fedeltà all’impero delle Gallie133. Il sicario di Vocula ricevette in premio un alto grado militare; anche tutti gli altri ricevettero una ricompensa proporzionale alla parte che avevano avuto nel delitto.

Tra Tutore e Classico furono allora divise le incombenze del comando. Tutore circondò con una numerosa schiera gli Agrippinesi e impose loro (insieme a tutti i soldati che si trovavano sulla riva sinistra del Reno) lo stesso giuramento. Fece uccidere i tribuni di Magonza scacciando anche via il prefetto di campo, perché si erano rifiutati di prestare giuramento. Classico ordinò poi ai più corrotti tra i disertori di recarsi tra gli assediati: dovevano indicare la possibilità di perdono, se si fossero piegati alla situazione presente. Altrimenti non avevano alcuna speranza: avrebbero patito fame, ferro, ogni atrocità.

Gli inviati a questa missione aggiunsero il precedente costituito dal loro stesso comportamento.

 

60. Gli assediati erano combattuti tra fedeltà e bisogno: da una parte l’onore, dall’altra l’infamia. Esitarono a lungo e intanto vennero meno gli alimenti consueti e anche quelli insoliti cui le condizioni di bisogno costringono a rivolgersi anche se immondi e disgustosi. Infatti non solo avevano mangiato le bestie da soma, i cavalli e ogni genere di animali ma, alla fine, si erano ridotti a strappare gli arbusti, le radici, i ciuffi d’erba che crescevano tra i sassi: offrirono dunque uno straordinario esempio di sopportazione delle miserie, ma finirono col macchiare turpemente i loro splendidi meriti, mandando dei messi a Civile per chiedere salva la vita.

Civile non volle nemmeno ascoltare le preghiere se prima non prestavano giuramento di fedeltà alle Gallie. Civile pattuì che suo era il bottino del campo e designò le guardie che dovevano prender possesso del denaro, degli schiavi, dei bagagli; dovevano anche far da scorta ai legionari che partivano depredati di ogni cosa. I fuoriusciti non avevano ancora percorso cinque miglia, quando i Germani, sbucando fuori all’improvviso, li aggredirono senza che avessero alcuna possibilità di difendersi; i più combattivi trovarono la morte sul posto stesso dell’agguato, e molti altri perirono, sparsi nel tentativo di fuga. I superstiti riuscirono a tornare indietro e a rifugiarsi nell’accampamento. Civile se ne lamentò e rimproverò aspramente i Germani accusandoli di aver rotto, con quella loro delittuosa azione, il patto.

Può essere che Civile fingesse o che davvero non fosse in grado di trattenere quella gente inferocita: difficile dire. Dopo aver saccheggiato l’accampamento, i vincitori vi buttarono torce accese e tutti quelli che non erano morti in battaglia, finirono bruciati.

 

61. Seguendo un voto tipico delle genti barbariche, dopo aver compiuto la strage dei legionari, Civile si tagliò la capigliatura che aveva lasciato crescere e che aveva tinto di rosso, quando aveva preso le armi contro i Romani. Si diceva che avesse dato al suo figlioletto dei prigionieri perché li colpisse con frecce e giavellotti da bambino. Per il resto a nessuno dei Batavi fece prestare giuramento di fedeltà alle Gallie. Nemmeno lui volle giurare poiché confidava nelle forze dei Germani ed era ben sicuro della sua reputazione e della sua superiorità se ci fosse stato da combattere contro i Galli per il potere supremo.

Mandò, assieme ad altri doni, il legato della legione, Munio Luperco, a Velleda134. Questa vergine apparteneva alla nazione dei Bructeri e aveva un vastissimo potere: è questa una situazione abbastanza tipica delle genti germaniche che attribuiscono a molte donne capacità profetiche; col crescere della superstizione attorno a loro, esse vengono anche adorate come dee. La fama di Velleda divenne, in quei giorni, molto più autorevole perché aveva predetto il successo dei Germani e la fine delle legioni.

In ogni modo Luperco fu ammazzato per strada. Pochi centurioni e tribuni (e tutti di origine gallica) furono tenuti come ostaggi e pegno di alleanza. I quartieri invernali delle coorti, della cavalleria, delle legioni furono distrutti e bruciati; si salvarono solo quelli situati a Magonza e a Vindonissa135.

 

62. La legione sedicesima riceve l’ordine, assieme agli ausiliari che si erano arresi, di trasferirsi da Novesio nella colonia dei Treviri136, ed era anche stato fissato in precedenza il giorno entro il quale dovevano uscire dal campo. Diverse preoccupazioni afflissero il tempo dell’attesa: i più vili ricordavano i caduti a Castra Vetera e ne provavano paura; i migliori arrossivano per la vergogna. Che viaggio dovevano aspettarsi? Chi li avrebbe guidati? Tutto era in mano a quelli che essi stessi avevano reso padroni della loro vita e della loro morte. Ma c’era chi non si preoccupava affatto dell’onore e si metteva in tasca denaro e oggetti preziosi. Alcuni preparavano armi e frecce, come nell’imminenza di una battaglia.

Tali erano i pensieri di questa gente, quando arrivò l’ora della partenza che si rivelò più triste di quanto ci si potesse aspettare. Infatti, mentre stavano dentro al campo, il loro squallore non era evidente: provvidero il luogo aperto e la luce del giorno a rendere visibile a tutti il loro disonore. Le immagini degli imperatori erano strappate e le loro insegne erano prive di decorazioni mentre dall’una e dall’altra parte risplendevano i vessilli dei Galli. Quella dei legionari era una schiera silenziosa, simile ad un lungo corteo funebre. Il comandante Claudio Santo137 era orribile a vedersi: aveva perso un occhio e quasi pareva istupidito.

La vergogna raddoppiò quando alla sedicesima si fuse l’altra legione138 che aveva abbandonato gli accampamenti di Bonna. Tutti quelli che prima provavano terrore al solo sentire il nome di Roma, quando si sparse la notizia della cattura delle legioni, accorsero dalle campagne e dalle loro case: sparsi lungo tutta la strada godevano moltissimo di quell’insolito spettacolo.

La cavalleria Picentina139 non sopportò la gioia e gli insulti del volgo: senza curarsi delle promesse o delle minacce di Santo, se ne andò a Magonza. Per caso incontrarono Longino, l’uccisore di Vocula, e lo crivellarono di colpi: fu questo l’inizio di quella che doveva essere in seguito l’espiazione delle loro colpe. Le legioni non modificarono il loro cammino e andarono ad attendarsi davanti alle mura di Treviri.

 

63. Civile e Classico avevano il morale alto per i successi ottenuti e si chiedevano se dovessero concedere ai loro eserciti di mettere a ferro e fuoco la colonia Agrippinese. La loro connaturata crudeltà e la smania di bottino li spingevano alla rovina della città. Contro la distruzione c’erano invece ragioni di strategia e la persuasione che chi comincia a costruire un impero debba crearsi fama di clemenza. Civile era indotto a miti consigli anche dal ricordo di un beneficio ricevuto, quando, all’inizio della rivolta, un suo figlio era stato catturato dagli Agrippinesi che lo avevano trattenuto onorandolo come il suo rango meritava.

Ma le popolazioni transrenane odiavano quella città diventata potente in troppo poco tempo. Secondo loro nessun’altra conclusione poteva avere il conflitto: o la colonia diventava città aperta a tutti i Germani140 o andava distrutta (e in questo caso anche gli Ubii dovevano essere dispersi).

 

64. Allora i Tencteri, popolazione transrenana, mandano ambasciatori che espongano davanti all’assemblea degli Agrippinesi141 le loro richieste. Il più fiero degli inviati parla in questi termini: «Rendiamo grazie agli dèi che abbiamo in comune e al più importante tra loro, Marte142, che voi siate rientrati nella federazione dei Germani e che ne abbiate riassunto il nome. Ci congratuliamo con voi, per la vostra scelta di essere liberi tra genti libere. I Romani praticamente fino ad oggi ci hanno chiuso i fiumi, la terra, perfino l’aria che respiriamo: in questo modo ci hanno impedito di parlare e ritrovarci fra noi; e, cosa ancor più offensiva per uomini nati alla guerra, solo inermi e quasi nudi potevamo incontrarci. E sotto custodia e a pagamento143.

Ma affinché la nostra amicizia e la nostra alleanza siano consacrate per l’eternità, vi chiediamo di distruggere le mura della colonia, baluardo di schiavitù: anche gli animali più feroci si dimenticano della loro forza quando sono costretti in una gabbia. E dovete uccidere i Romani che stanno ancora entro i vostri confini perché è impossibile che la libertà coesista ai padroni. È poi necessario che i beni degli uccisi diventino proprietà comune perché nessuno possa nascondere qualcosa o far causa a sé.

Noi vogliamo tornare ad abitare su tutte e due le rive del Reno, come facevano i nostri antenati. La natura ha spalancato la luce del giorno a tutti gli uomini: e allo stesso modo ha disposto per tutte le terre, se le abitano uomini valorosi144. Riprendete gli istituti e le usanze dei padri; scacciate via le libidini che i Romani usano, ancor più che le armi, per instaurare il loro dominio. Restituiti alla vostra purezza e integri, vi getterete la schiavitù alle spalle: solo così diverrete un popolo indipendente o in grado anche di comandare agli altri».

 

65. Gli Agrippinesi si presero tempo per deliberare perché la paura del futuro non consentiva loro di accettare quelle condizioni; ma, del resto, la situazione in cui si trovavano non permetteva di rifiutarle apertamente. Alla fine risposero in questo modo: «Alla prima occasione che ci è stata data di recuperare la libertà, noi ci siamo buttati sopra con avidità superiore alla cautela. Davvero volevamo ricongiungerci a voi e agli altri Germani nostri consanguinei. Quanto alle mura delle città, per noi è più sicuro rafforzarle che abbatterle, soprattutto ora che i Romani stanno radunando i loro eserciti.

Se nel nostro territorio si trovavano stranieri provenienti dall’Italia o dalle altre province, ha provveduto la guerra ad eliminarli o a farli fuggire ciascuno nelle proprie terre. Questa è invece, a tutti gli effetti, patria per quelli che sono venuti qui come coloni e si sono congiunti a noi con matrimoni e anche per quelli che da queste unioni sono nati. E non vi reputiamo certo tanto iniqui da pretendere che uccidiamo i nostri genitori, i nostri fratelli, i nostri figli. Togliamo i pedaggi e le altre tasse che ostacolano i commerci: ci sia libertà di transito, ma solo di giorno e senza armi finché i nuovi e da poco acquisiti diritti non diventino consuetudine col passar del tempo. Avremo come arbitri Civile e Velleda, davanti ai quali ratificheremo i nostri patti».

I Tencteri ammorbidirono così le loro richieste; mandarono dei messi da Civile e Velleda con dei doni e definirono ogni cosa secondo la volontà degli Agrippinesi. Non furono però ammessi alla presenza di Velleda e tanto meno a parlare con lei: la vista della profetessa era preclusa a tutti perché crescesse l’aura di venerazione attorno a lei. Essa stava dentro ad un’alta torre e uno dei suoi parenti, appositamente scelto, recava i quesiti e i responsi, quasi intermediario del nume.

 

66. Civile, diventato più potente grazie a questo patto con gli Agrippinesi, decise la sua linea di condotta: attirare a sé le nazioni vicine o, in caso di rifiuto, combattere contro di loro. Già aveva occupato il territorio dei Sunuci145 e ne aveva organizzato la gioventù in coorti, quando gli impedì di avanzare oltre, Claudio Labeone, con una banda raccogliticcia di Betasi, Tungri e Nervii: la situazione strategica gli era favorevole perché era riuscito ad occupare prima di Civile il ponte sulla Mosa.

Si combatteva in un luogo stretto e con esito incerto; alla fine i Germani passarono il fiume a nuoto e attaccarono Labeone alle spalle. Nello stesso istante Civile (forse per un atto di improvviso coraggio, forse per una intesa precedente) si slanciò verso la schiera dei Tungri e parlò loro con voce squillante: «Noi non abbiamo cominciato questa guerra perché Batavi e Treviri comandino ad altri popoli: noi non presumiamo tanto. Accogliete questa alleanza, io passo dalla vostra parte, accoglietemi come comandante o, se preferite, come soldato semplice».

Queste parole impressionarono la moltitudine dei soldati che già stavano riponendo i gladi: allora Campano e Giovenale146, due capi tungri, gli consegnarono tutto il loro popolo. Labeone dovette fuggire per non essere circondato. Civile accolse la resa anche dei Betasi e dei Nervii e li incorporò nelle proprie truppe. Ormai era diventato tanto potente che le popolazioni locali erano tutte dalla sua parte vuoi per paura vuoi per libera scelta.

 

67. Frattanto Giulio Sabino, distrutti i segni dell’alleanza con Roma147, ordina di essere chiamato Cesare; trae con sé una grande e disordinata turba di Lingoni, suoi connazionali, contro i Sequani, una popolazione confinante fedele a noi. I Sequani non rifiutarono lo scontro e la sorte arrise ai migliori: i Lingoni furono sbaragliati. Sabino abbandonò il combattimento: la sua paura era tale da uguagliare la fretta con cui aveva affrontato lo scontro. Per far credere a tutti di essere stato ucciso, fece bruciare la villa in cui aveva trovato rifugio ed effettivamente tutti credettero che si fosse suicidato. Ma con quali stratagemmi e in quali nascondigli sia riuscito a vivere nove anni racconterò a suo luogo insieme alla fedeltà dei suoi amici e a quello straordinario esempio di amore coniugale che fu sua moglie Epponina148. La vittoria dei Sequani calmò il fervore bellico; le popolazioni, poco a poco presero a rinsavire e a riconoscere la sacralità dei patti. Su iniziativa dei Remi149, girò per tutte le Gallie un editto che invitava le popolazioni a mandare delegati ad una assemblea generale: avrebbero deliberato se scegliere la pace o la libertà.

 

68. A Roma tutte queste notizie venivano accolte sempre per quanto di peggio contenevano. Muciano ne era angustiato, anche perché temeva che i comandanti che aveva scelto (la sua attenzione si era ormai appuntata su Gallo Annio e Petilio Ceriale) per quanto molto abili, non fossero in grado di far fronte al supremo comando della guerra. Roma non poteva essere lasciata senza governo e, quanto a Domiziano, se ne temevano le indomabili sfrenatezze. E su Primo Antonio e Varo Arrio, come ho detto, gravavano dei sospetti.

Varo, come comandante dei pretoriani, aveva in mano la forza delle armi. Muciano lo rimosse dalla carica e, quasi a risarcirlo, lo fece prefetto dell’annona150. Quindi fu necessario placare l’animo di Domiziano, che aveva Varo nelle sue grazie: allora mise a capo dei pretoriani Arrecino Clemente151, legato alla casa di Vespasiano da vincoli di parentela e in grande favore presso Domiziano. Suo padre, disse, aveva tenuto in modo egregio quella carica sotto Caligola e, dunque, il suo nome era gradito ai soldati. Inoltre, anche se apparteneva all’ordine senatorio, poteva tranquillamente sostenere entrambi gli incarichi152.

Vengono assunti153, tra i cittadini, quelli più in vista e quelli che si erano dati da fare per ottenere quell’incarico.

Domiziano e Muciano si preparavano insieme ma diverso era il loro animo: ardente, il primo, per la sua giovinezza piena di speranze; alla ricerca, il secondo, degli indugi che potessero frenare l’animo impetuoso di Domiziano: se costui avesse assunto il comando dell’esercito, la foga della sua giovane età e i cattivi consiglieri lo avrebbero spinto a pessime decisioni riguardo alla pace e alla guerra.

Attraverso le Alpi Perniine e Cozie e, in parte, attraverso il monte Graio, furono condotte alla guerra le legioni vittoriose: l’ottava, l’undicesima, la tredicesima; la ventunesima delle vitelliane; la seconda di quelle arruolate da poco. Dalla Britannia venne chiamata la quattordicesima, dalla Spagna la sesta e la prima154.

Allora, sia per la notizia dell’arrivo dell’esercito sia perché ormai avevano l’animo più incline alla moderazione, le genti galliche tennero assemblea nel paese dei Remi. Lì era in attesa la delegazione dei Treviri che annoverava il più accanito promotore della guerra, Giulio Valentino155. Egli, in un discorso ben calcolato, sparse a piene mani, contro il popolo romano, tutte le critiche che usualmente vengono rivolte ai grandi imperi, insulti, risentimento: era un esaltato mestatore politico, bravo a suscitare rivolte, dotato di ascendente per la sua dissennata eloquenza.

 

69. Giulio Auspice156, uno dei più influenti tra i Remi, parlò della forza dei Romani e dei vantaggi della pace. Disse che una guerra può essere intrapresa anche da un vile, ma tocca poi ai migliori portarla avanti con rischio personale. E ormai le legioni incombevano su di loro: così riuscì a placare i più prudenti facendo leva sul rispetto e sulla lealtà, i più giovani impaurendoli col pericolo vicino. Insomma: degno di lode era l’atteggiamento di Valentino, più opportuno quello di Auspice: e questo avrebbero seguito.

Certamente non fu utile ai Treviri e ai Lingoni, agli occhi dei delegati delle Gallie, il fatto che questi due popoli fossero stati dalla parte di Verginio durante il moto di Vindice. Molti furono scoraggiati dalla rivalità delle province: chi avrebbe assunto la direzione della guerra? Da dove si sarebbero tratti diritto e auspici? E poi, anche ammesso che si fosse ottenuta la vittoria, quale sarebbe stata la capitale dell’impero?

Non si era ancora vinto e già erano iniziate le discordie: alcuni vantavano, in violente discussioni, i loro trattati, altri le ricchezze e le forze impiegate o anche l’antichità delle loro origini: per disgusto del futuro si dissero paghi del presente. Ai Treviri viene scritta una lettera firmata dai delegati di tutte le Gallie che invitava a deporre le armi e che affermava ancora possibile il perdono: bastava pentirsi ed era pronto chi poteva intercedere. Si oppose proprio Valentino il quale rese sordi gli orecchi dei suoi connazionali, non altrettanto solerte nell’organizzare la guerra quanto assiduo nell’arringare la folla.

 

70. Dunque né i Treviri né i Lingoni e nemmeno le altre popolazioni ribelli si comportarono in modo adeguato all’impresa assunta. I comandanti non avevano una minima unità di intenti e direttive: Civile percorreva le impraticabili strade dei Belgi nel tentativo di prendere o almeno far muovere Claudio Labeone; Classico si godeva il potere come se già lo avesse interamente conquistato trascorrendo nell’ozio la maggior parte del suo tempo; e nemmeno Tutore sembrava aver fretta nel chiudere con presidi la riva superiore della Germania157 e gli scoscesi passi alpini.

E intanto la ventunesima legione irruppe da Vindonissa e altrettanto fece, attraverso la Rezia, Sestilio Felice con le coorti ausiliarie. Si unì a loro anche lo squadrone dei Singolari158, fatto venire un tempo da Vitellio e poi passato dalla parte di Vespasiano. Li comandava Giulio Brigantico, figlio di una sorella di Civile, odiato dallo zio e a lui ostile con tutta l’asprezza che sono soliti avere i risentimenti tra parenti.

Tutore rese più salde, con dei fanti e dei cavalieri veterani, le truppe dei Treviri da poco fatte più numerose grazie ad un arruolamento di Vangioni, Ceracati e Triboci159, dopo aver corrotto i legionari con la speranza o averli costretti con la paura. Costoro in un primo tempo riuscirono a sterminare la coorte mandata avanti da Sestilio Felice, ma poi, all’avvicinarsi dei comandanti e dell’esercito romano, tornarono dalla nostra parte con una onorevole diserzione. Li seguirono Triboci, Vangioni, Ceracati.

Tutore, assieme ai Treviri, evitò Magonza e si ritirò verso Bingio160, che, secondo lui (tenuto conto che aveva tagliato il ponte sulla Nava161), era in buona posizione strategica. Fu però ugualmente attaccato dalle coorti condotte da Sestilio, il quale aveva scoperto un guado che si rivelò traditore e causa di sconfitta per Tutore.

I Treviri rimasero scossi da quel disastro; la plebe gettò le armi e si disperse per le campagne. Alcuni dei loro capi, per far credere di essere stati tra i primi a deporre la volontà di guerra, si rifugiarono presso quei popoli che mai erano venuti meno all’alleanza romana.

Le legioni trasportate da Novesio e Bonna nel paese dei Treviri, come ho prima ricordato, giurarono di loro spontanea volontà fedeltà a Vespasiano. Queste cose avvennero quando Valentino era lontano: mentre costui arrivava in fretta e in furia con l’intenzione di ribaltare nuovamente ogni cosa e di distruggere tutto, le legioni si ritirarono nel territorio dei Mediomatrici, popolazione alleata. Valentino e Tutore trascinano nuovamente alla lotta i Treviri. Ma prima uccidono i legati Erennio e Numisio: in questo modo il perdono dei Romani diventava impossibile e si rafforzava il vincolo dei corresponsabili del delitto.

 

71. Tale era la situazione della guerra, quando Petilio Ceriale giunse a Magonza. Il suo arrivo rinfocolò le speranze: egli appariva desideroso di combattere anche se era più abile nel disprezzare il nemico che nel tenerlo a bada; con parole fiere andava infiammando i soldati, intenzionato, appena se ne presentasse l’occasione, a non frapporre indugi e a venire al combattimento.

Rimandò a casa i soldati che erano stati arruolati nella Gallia e ordinò loro di recare l’annuncio che all’impero bastavano le legioni: gli alleati tornassero tranquilli ai loro lavori di pace, come se la guerra fosse conclusa, visto che i Romani se ne erano assunti il peso. Questo atteggiamento rese maggiore la dedizione dei Galli i quali, riavuti di ritorno i loro giovani, sopportarono meglio il carico dei tributi, più pronti ad obbedire perché venivano disprezzati162.

Civile e Classico appena ebbero notizia che Tutore era stato sconfitto, che molti Treviri erano stati uccisi, che ogni situazione era favorevole al nemico, furono colti da fretta e trepidazione: raccolgono i loro soldati dispersi e ammoniscono pressantemente Valentino a non arrischiare lo scontro decisivo.

Tanto più rapidamente, allora, Ceriale mandò dei messi presso i Mediomatrici che dirottassero le legioni per far loro percorrere una via più breve verso il nemico. Radunate tutte le truppe che aveva trovato a Magonza assieme a quelle che aveva portato con sé, in tre giorni di marcia, raggiunse Rigodulo163: Valentino, con una numerosa schiera di Treviri, si era fermato in quel luogo, protetto in parte dalla Mosella, in parte dalla montagna (ma lui aveva aggiunto delle fosse e degli sbarramenti di pietre).

Non furono comunque difese sufficienti a spaventare il comandante romano: ordinò alla fanteria di sfondare quegli apparati e alla cavalleria di spingersi sul colle. Egli disprezzava i nemici e non pensava che truppe raccogliticce, pur combattendo in posizione favorevole, potessero sopravanzare il valore dei suoi. La salita subì qualche rallentamento quando i soldati dovettero passare sotto la linea di tiro dei nemici; ma appena si arrivò a contatto, i difensori vennero travolti, come nel crollo di una valanga. Una parte della cavalleria, aggirando la posizione per una via più pianeggiante, sorprese i più nobili dei Belgi, tra i quali il comandante Valentino.

 

72. Il giorno successivo Ceriale entrò in Treviri; i suoi soldati ardevano dal desiderio di distruggere la città. Quella era la patria di Classico e di Tutore e per loro colpa le legioni erano state assediate e massacrate. Quanto minore era stata la colpa di Cremona che era stata strappata dal grembo d’Italia solo per aver attardato di una notte la marcia dei vincitori! E intanto si ergeva, proprio ai confini della Germania, una città che esibiva orgogliosa le spoglie di eserciti romani e si vantava di averne ucciso i comandanti. Il bottino andasse pure a finire nella casse del fisco: a loro bastava veder distrutta e divorata dalle fiamme una colonia ribelle. Solo così, tanti accampamenti distrutti avrebbero avuto compensazione.

Ceriale temeva di essere screditato se si fosse diffusa l’opinione che egli abituava i suoi soldati alle più sfrenate crudeltà e cercò di placare le loro ire: essi obbedirono dimostrandosi più moderati in una guerra esterna che nel conflitto civile appena terminato. Attirò poi la loro attenzione il miserando aspetto delle legioni fatte venire dalla regione dei Mediomatrici.

Stavano con gli occhi fissi a terra nella consapevolezza e nella tristezza del loro delitto: non ci fu alcuno scambio di saluti all’incontrarsi dei due eserciti e nemmeno risposte a chi cercava di spendere una parola di consolazione o di esortazione. I nuovi arrivati si nascosero nelle tende ed evitavano la luce del giorno: erano istupiditi non tanto dal timore di pericoli quanto dalla vergogna e dal disonore. Ed erano attoniti anche i vincitori che, non osando alzare la voce per pregare, chiedevano il perdono con lacrime silenziose. Alla fine Ceriale addolcì gli animi attribuendo l’accaduto al fato (mentre tutto era, in realtà, successo per la discordia di soldati e comandanti o per inganni dei nemici).

Dovevano considerare, disse Ceriale, quel giorno come il primo del loro servizio e del loro giuramento; sia lui che l’imperatore non avrebbero serbato alcun ricordo delle colpe passate. Vennero poi accolti nel medesimo campo e tra i manipoli fu fatto circolare l’ordine che nessuno rinfacciasse a un suo commilitone, durante un contrasto o un litigio, la rivolta o la sconfitta subita.

 

73. Radunati in assemblea i Treviri e i Lingoni, Ceriale parlò loro in questi termini: «Io non mi sono mai professato grande oratore e il valore del popolo romano l’ho sempre affermato con le armi; ma poiché tanto sembrano valere le parole presso di voi e il bene e il male non vengono valutati per quello che sono ma sulla base delle dicerie messe in giro dai fomentatori di rivolte, ho deciso di dirvi poche cose: a guerra finita sarà più utile per voi averle udite che per noi l’averle pronunciate.

I comandanti e gli imperatori romani sono entrati nei vostri territori e in quelli degli altri Galli non per desiderio di conquista ma perché sono stati i vostri padri a chiamarli: erano travagliati dalle discordie fino alla rovina totale e quando avevano chiamato in aiuto i Germani, questi avevano imposto, senza alcuna distinzione, la stessa schiavitù agli alleati e ai nemici. Con quanti combattimenti contro i Cimbri e i Teutoni164, con quante fatiche dei nostri eserciti, con quale risultato noi abbiamo condotto le nostre guerre contro i Germani, è noto a tutti. Sul Reno non ci siamo stanziati per fare da sentinella all’Italia, ma per impedire che un altro Ariovisto si impadronisse del dominio sulle Gallie.

O siete forse dell’idea che Civile, i Batavi e le altre popolazioni transrenane vi amino più di quanto i loro antenati abbiano amato i vostri padri e i vostri antenati? I Germani sono entrati nelle Gallie sempre per un unico motivo: il capriccio, l’avidità, la voglia di cambiar sede. Sempre essi cercano di lasciare le loro paludi e i loro deserti per impossessarsi di questo vostro fertilissimo suolo e di voi stessi. E allora eccoli accampare belle parole come libertà o altro: sono quelle stesse parole di cui da sempre si servono coloro che mirano ad asservire gli altri e a costruirsi un proprio dominio.

 

74. Le Gallie sono sempre state tormentate da guerre e da dominazioni, finché non avete accettato il nostro diritto. Noi siamo stati provocati tante volte, ma, nonostante ciò, abbiamo fatto pesare il diritto dei vincitori appena quel tanto che bastava per assicurare la pace. È chiaro che non si può avere la pace senza qualcuno che la difenda in armi e le armi esigono stipendi e gli stipendi si pagano coi tributi. Tutte le altre cose sono in comune: spesso voi siete comandanti delle nostre legioni e siete voi a reggere queste e altre province: non ci sono discriminazioni o esclusioni.

E i vantaggi che derivano da un principe degno di lode, voi li godete esattamente come noi, anche se vivete lontano; i cattivi principi, invece, colpiscono chi è vicino. Dovete sopportare la dissolutezza e l’avidità dei dominatori come la carestia, le piogge eccessive e le altre calamità naturali. I vizi esisteranno finché esisteranno gli uomini, ma non è detto che essi non debbano interrompersi mai. Sono anzi bilanciati dall’avvento di tempi migliori, a meno che non pensiate che sotto il regno di un Tutore e di un Classico, il governo sia più mite. O pensate che, pagando meno tributi, riuscirete a mettere in campo gli eserciti con cui tenere lontani i Germani e i Britanni?

E se i Romani saranno cacciati (gli dèi ci risparmino questa sventura!) che cosa resterà se non la guerra di tutti contro tutti? Fortuna e disciplina, in ottocento anni, hanno aiutato a mettere insieme questa compagine che non può essere demolita senza trascinare nella sua rovina i demolitori stessi. E a voi resta il rischio peggiore perché possedete oro e ricchezze, cioè le principali motivazioni a combattere.

Dunque, amate e onorate la pace e la città che garantisce il pari diritto di vinti e vincitori165. Vi sia di monito l’esperienza della buona e cattiva fortuna; non siate ostinati a costo della vostra rovina: è ben preferibile la tranquillità anche se pagata con la sottomissione». Con queste parole riuscì a calmare e a rinfrancare gli uditori che temevano un trattamento più duro.

 

75. Treviri era occupata dall’esercito vincitore, quando Civile e Classico mandarono a Ceriale una lettera, il cui contenuto era questo: Vespasiano era morto (anche se si voleva tener nascosta la notizia); Roma e l’Italia erano state ridotte allo stremo dalla guerra civile; vani e privi di ogni senso politico erano ormai i nomi di Muciano e Domiziano. Se Ceriale voleva l’impero delle Gallie, ad essi sarebbero stati sufficienti i territori già occupati dalle loro popolazioni. Se invece voleva la guerra, essi non si sarebbero tirati indietro. Ceriale non rispose nemmeno a quel messaggio di Civile e Classico: semplicemente mandò la lettera e il suo latore a Domiziano.

Le forze dei nemici, prima divise, si concentrarono nuovamente. In molti accusarono Ceriale di aver permesso che si congiungessero reparti che sarebbe stato agevole intercettare mentre erano separati. L’esercito romano circondò l’accampamento con una fossa e un vallo, poiché era stato tanto imprudente, quando vi si era insediato, da non fortificarlo.

 

76. Dalla parte dei Germani i pareri erano diversi e fieramente contrapposti. Civile era dell’avviso che si dovessero attendere i popoli transrenani dai quali le forze dei Romani, ormai compromesse, sarebbero state annientate: che cosa erano i Galli se non preda per i vincitori? E comunque i Belgi, che erano la loro vera forza, stavano con lui (apertamente o, almeno, nel loro cuore).

Tutore affermava invece che le esitazioni consentivano ai Romani di aumentare le proprie forze, grazie all’arrivo di tanti eserciti: una legione era stata portata dalla Britannia, altre erano state richiamate dalla Spagna, ne arrivavano dall’Italia: e non erano formate da soldati freschi di leva ma da veterani particolarmente esperti. I Germani, sui quali fondavano le loro speranze, non accettavano né comandi né direttive ma gestivano ogni cosa a loro capriccio. Denaro e donativi, unici mezzi per corromperli, li trovavano in numero maggiore presso i Romani e nessuno aveva tanta voglia di combattere da preferire, a parità di prezzo, il rischio alla pace.

Se l’attacco fosse stato immediato, Ceriale non disponeva che delle legioni superstiti dell’esercito germanico, in qualche modo ancora obbligate dal giuramento delle Gallie166. Il fatto stesso che di recente avessero ottenuto un successo contro le schiere disorganizzate di Valentino e ben oltre le loro speranze, aumentava la loro imprudenza e quella del loro capo. Ci avrebbero riprovato e questa volta non avrebbero avuto a che fare con un ragazzo inesperto, con la testa piena di parole e assemblee e vuota di strategie militari. Avrebbero avuto davanti Civile e Classico; sarebbe bastato, da parte dei Romani, uno sguardo per sentir rinascere il terrore e il ricordo della fuga, della fame, della prigionia, delle preghiere con cui avevano avuto salva la vita.

Neppure i Treviri e i Lingoni si sentivano obbligati dal trattamento benevolo167: avrebbero ripreso le armi, appena smaltita la paura. Classico tagliò ogni possibilità di contrasto, approvando il parere di Tutore. Poi si passò all’azione.

 

77. Il centro dello schieramento fu assegnato agli Ubii e ai Lingoni; all’ala destra le coorti dei Batavi e a quella sinistra i Bructeri e i Tencteri: una parte avanzò attraverso le alture, un’altra nello spazio compreso tra la via e il fiume Mosella. Attaccarono così all’improvviso che Ceriale ricevette la notizia del combattimento e della sconfitta che i suoi stavano subendo mentre era ancora in camera ed anzi a letto (non aveva infatti passato la notte negli accampamenti). Egli imprecò contro la paura di chi gli aveva portato la notizia, ma presto tutto il disastro gli fu sotto gli occhi: sfondate le difese degli accampamenti, sbaragliata la cavalleria, occupato dal nemico il ponte sulla Mosella che collega l’altra riva alla colonia.

Ceriale, padrone di sé pur nel grande turbamento generale, richiama a gesti i fuggitivi e, nonostante sia senza armi, si lancia risolutamente nella pioggia di dardi nemici e con fortunata imprudenza riesce a riconquistare il ponte con l’aiuto dei più valorosi e a consolidarne la difesa con una schiera di soldati scelti. Poi, tornato negli accampamenti, vede sbandati i manipoli delle legioni che si erano arrese a Novesio e a Bonna, pochi soldati intorno alle insegne e le aquile quasi circondate.

Si adirò molto e prese a dire queste parole: «Voi non state abbandonando Ordeonio Fiacco o Dillio Vocula: io non sono un traditore. E non ho nulla di cui scusarmi tranne che troppo incautamente ho creduto che voi vi dimenticaste i patti stretti con le Gallie e vi ricordaste il giuramento romano. Io finirò nel conto dei Numisi e degli Erenni, in modo che tutti i vostri legati siano caduti per mano dei soldati o dei nemici. Andate e annunciate a Vespasiano (o a Civile e Classico che sono più vicini) che avete abbandonato il vostro comandante nel mezzo della battaglia: verranno le legioni che non lasceranno né me senza vendetta né voi senza punizione».

 

78. Quei rimproveri erano davvero meritati e venivano ripetuti anche dai tribuni e dai prefetti. I soldati presero allora a schierarsi divisi per coorti e manipoli. Infatti, poiché si combatteva dentro al vallo e con gli ostacoli delle tende e delle salmerie, non era possibile schierarsi ordinatamente a battaglia contro un nemico che era sparpagliato per ogni dove. Tutore, Classico e Civile, ognuno al suo posto, incitavano alla battaglia spronando i Galli con l’idea della libertà, i Batavi con la prospettiva di gloria, i Germani con la speranza di bottino. Tutto volgeva a favore del nemico, fino a quando la ventunesima legione, ricompattatasi e schieratasi in uno spazio più aperto, prese a sostenere gli attacchi e poi anche a respingerli.

Non senza l’aiuto divino, gli animi si risollevarono e i vincitori girarono le spalle. Essi dicevano di essere stati atterriti dallo sguardo dato alle coorti che, sbaragliate al primo scontro, di nuovo si ricompattavano in cima al colle e davano l’impressione che stessero arrivando i soccorsi. In realtà chi già era vicino alla vittoria trovò ostacolo in una indecorosa rivalità per la conquista del bottino che impedì di incalzare il nemico. Ceriale per la sua negligenza corse il rischio di perdere quella battaglia, ma con la sua fermezza ne seppe volgere le sorti: diede seguito alla sua buona fortuna e in quello stesso giorno prese e distrusse gli accampamenti dei nemici.

 

79. Ai soldati non fu concesso un lungo riposo. Gli Agrippinesi chiedevano aiuto e offrivano la moglie e la sorella di Civile e la figlia di Classico, lì lasciate come pegno di alleanza. E intanto avevano trucidato i Germani sparsi nelle case: nasceva da qui la paura; e qui si giustificavano le preghiere di chi invocava aiuto prima che i nemici riparassero alle loro perdite e si accingessero a dar corpo alle loro speranze o alle loro vendette.

E infatti Civile lì ora tendeva: militarmente era ancora forte. Inoltre la sua coorte più desiderosa di combattere (quella formata da Cauci168 e Frisii) si trovava, integra, a Tolbiaco169 nel territorio vicino alla colonia Agrippinese. Ma una triste notizia lo distolse dal suo intento: la sua coorte era stata distrutta per un tradimento degli Agrippinesi che, sbarrate le porte, avevano incendiato e bruciato la casa in cui si trovavano i Germani, dopo aver atteso che fossero intorpiditi da un abbondante banchetto e dal vino. Nel frattempo arrivò, dopo una rapida marcia, Ceriale.

Anche un’altra paura tormentava Civile: temeva che la quattordicesima legione, congiungendosi alla flotta romana di stanza in Britannia, annientasse i Batavi dalla parte dove li cinge l’oceano. Ma il legato Fabio Prisco condusse, via terra, la sua legione nel paese dei Nervii e dei Tungri: quelle popolazioni fecero atto di resa davanti a lui. Quanto alla flotta, i Canninefati la aggredirono di loro iniziativa, distruggendo o catturando la maggior parte delle navi.

Ancora i Canninefati dispersero una turba di Nervii che si era movimentata di sua spontanea volontà per fiancheggiare i Romani. E anche Classico riportò un successo contro la cavalleria che Ceriale aveva mandato avanti verso Novesio. Erano dei colpi (non gravi, ma ripetuti) che offuscavano la vittoria appena ottenuta170.

 

80. In quegli stessi giorni Muciano fece uccidere il figlio di Vitellio171, sostenendo che per far cessare ogni discordia civile bisognava eliminare qualsiasi germe di guerra. Gli fu insopportabile anche il fatto che Antonio Primo entrasse nel seguito di Domiziano: era geloso del favore dei soldati e inquieto per la superbia di un uomo intollerante dei propri pari grado e perfino dei superiori.

Antonio partì per raggiungere Vespasiano. Questi non lo accolse calorosamente come sperava, ma nemmeno gli dimostrò ostilità. Vespasiano era attraversato da contrastanti considerazioni: da una parte stavano i meriti di Antonio (perché non vi era dubbio che la guerra era finita grazie a lui) e dall’altra le lettere di Muciano. E gli altri lo odiavano come persona intrattabile e boriosa (senza dimenticare i crimini commessi nel passato).

La sua arroganza, in effetti, chiamava antipatia: mai smetteva di ricordare i suoi meriti. E tutti gli altri, a sentir lui, erano vigliacchi e Cecina era un prigioniero capace solo di arrendersi. Poco a poco il suo credito diminuì, anche se, in apparenza, nulla era mutato nei rapporti amichevoli con l’imperatore.

 

81. Erano quelli i mesi in cui Vespasiano stava ancora aspettando ad Alessandria il ciclo favorevole dei venti estivi e dunque la sicurezza dei viaggi via mare: avvennero molti miracoli che dimostrarono il favore celeste e quasi una predilezione degli dèi nei riguardi di Vespasiano. Un popolano di Alessandria, di cui era risaputa la cecità, gli si avvinghiò alle ginocchia, chiedendogli tra le lacrime la guarigione. Era il dio Serapide172 (una divinità che questa gente superstiziosa venera sopra ogni altra) che lo spingeva a ciò: pregava il principe che si degnasse di bagnargli con la saliva le gote e le orbite degli occhi. Un altro era storpiato ad una mano: pregava che Cesare gliela tenesse premuta sotto il piede (anche in questo caso il suggerimento era venuto da Serapide).

La prima reazione di Vespasiano fu un divertito rifiuto. Ma quelli insistevano: lui temeva di essere considerato un presuntuoso, ma d’altra parte era indotto alla speranza dalle preghiere degli stessi malati e dalle parole degli adulatori. Alla fine decide di farli visitare da alcuni medici per sapere se era umanamente possibile curare quella cecità e quella deformità. I medici discussero con vari pareri sull’argomento: la capacità visiva del primo non era del tutto perduta ed era anzi ripristinabile asportando la cataratta. Quanto al secondo, si potevano raddrizzare le articolazioni deformate, esercitando su di esse salutari pressioni. Forse gli dèi avevano a cuore quell’intervento e a compierlo era stato scelto il principe. Se tutto andava bene, poi, la gloria sarebbe toccata a Cesare; in caso negativo lo scherno sarebbe ricaduto su quei malcapitati.

Vespasiano pensava ormai che nessuna strada fosse preclusa alla sua fortuna e che in ogni campo gli si sarebbe prestata fede. La folla era in tensione per l’attesa ed egli eseguì, col volto sereno, quanto gli era stato richiesto: di colpo la mano recuperò la sua funzionalità e il cieco rivide la luce. Testimoni oculari di entrambi i fatti ancor oggi (nessun vantaggio verrebbe ormai da una menzogna) li raccontano in questo modo.

 

82. Si acuì in Vespasiano, dopo questi eventi, il desiderio di visitare il tempio consacrato al dio, per consultarlo sul futuro dell’impero. Ordina che ogni persona sia allontanata dal tempio. Quindi entrò e rivolse la sua attenzione al nume: a questo punto scorse alle sue spalle un egiziano molto famoso, Basilide173. A quanto gli risultava, costui era trattenuto da una malattia a parecchi giorni di viaggio da Alessandria.

Chiede ai sacerdoti se in quel giorno Basilide avesse raggiunto il tempio; chiede a tutti coloro che incontra se qualcuno lo avesse visto in città. Alla fine manda perfino dei cavalieri ad accertarsi che in quel preciso momento Basilide fosse a ottanta miglia. Allora comprese che quell’apparizione obbediva ad un disegno divino e intuì il senso profondo del responso dal nome Basilide174.

 

83. L’origine del dio Serapide non è ancora stata illustrata dagli scrittori latini175. I sacerdoti egiziani la ricostruiscono nel modo che mi accingo a riferire. Apparve in sogno al re Tolomeo176 (il primo dei Macedoni a rinsaldare la potenza egiziana) che stava arricchendo Alessandria da poco fondata di mura, templi e culti, un giovane bellissimo e di statura superiore a quella umana. Il giovane gli disse che doveva mandare degli amici molto fidati nel Ponto e far venire la sua immagine: avrebbe significato prosperità per il regno e grande fama per la città che l’avesse accolta. Poi gli parve che il giovane venisse rapito in cielo da una grande colonna di fuoco.

Tolomeo rimase scosso da quel miracoloso presagio e rivelò le sue visioni notturne ai sacerdoti egizi che abitualmente interpretano tali prodigi. Ma costoro avevano scarsa conoscenza del Ponto e dei culti stranieri e allora Tolomeo chiese all’ateniese Timoteo della stirpe degli Eumolpidi177 (che aveva fatto venire da Eieusi come sovrintendente alle cerimonie) che superstizione fosse quella e di che dio si trattasse. Timoteo ricercò delle persone che avessero frequenti contatti col Ponto e venne a sapere che lì esisteva una città di nome Sinope178 non lontano dalla quale sorge un tempio dedicato a Giove Dite, di fama antica presso gli abitanti del luogo. Lì si trovava anche una immagine muliebre che molti chiamano Proserpina.

Tolomeo era facile a spaventarsi, come è spesso nel carattere dei re. Ma quando si fu rassicurato, essendo più incline ai piaceri che alla religione, trascurò l’incarico avuto dalla sua visione e si preoccupò d’altro. Ma quella stessa visione, questa volta terribile e minacciosa, annunciò rovina a lui e al suo regno se non avesse fatto come gli aveva ordinato.

Tolomeo manda allora ambasciatori e doni a Scidrotemi (che in quel tempo era re di Sinope); al momento dell’imbarco raccomanda agli inviati di andare a consultare Apollo Pitico179. Il viaggio fu loro favorevole e chiaro fu il responso dell’oracolo; andassero a prendere il simulacro del padre e lasciassero quello della sorella180.

 

84. Appena giunti a Sinope, i messaggeri presentarono a Scidrotemi i doni, le preghiere e gli incarichi ricevuti dal loro re. Scidrotemi era combattuto fra diverse paure: da una parte temeva il nume, dall’altra le minacce e l’opposizione del popolo. In ogni caso era molto tentato dai doni e dalle promesse dei legati. Trascorsero così tre anni: Tolomeo non smise di esercitare pressioni o di rivolgere preghiere: aumentava la dignità dei legati, il numero delle navi, la somma d’oro.

Allora anche Scidrotemi ebbe una minacciosa visione che lo ammonì a non frapporre ulteriori indugi alla volontà del dio. Nonostante ciò continuava a temporeggiare; disgrazie di vario genere, malattie e l’ira celeste, di giorno in giorno manifestamente più grave, presero a tormentarlo. Convocata un’assemblea della sua gente, spiega gli ordini del nume, le visioni sue e quelle di Tolomeo, i disastri che li stavano aggredendo; il popolo era contro il re, odiava l’Egitto, temeva per sé, si tratteneva a guardia del tempio.

Qui crebbe la diceria secondo la quale il dio stesso, di sua volontà, sarebbe andato ad imbarcarsi sulle navi all’ancora davanti al litorale. E si racconta anche (autentico prodigio!) che quella lunga rotta da Sinope ad Alessandria fosse percorsa in soli tre giorni. In un luogo chiamato Racoti181 fu innalzato un tempio consono alla grandezza della città: lì era stato costruito un tempietto dai tempi più antichi dedicato a Serapide e Iside.

Questa è la versione più accreditata sull’origine e sul trasporto del dio. So che, secondo qualcuno, il dio sarebbe stato fatto venire dalla città siriaca di Seleucia sotto il regno di Tolomeo182 (il terzo della sua dinastia). Per qualcuno il trasporto fu opera dello stesso Tolomeo, ma la città di origine sarebbe Menfi, un tempo famosa e autentico baluardo dell’antico Egitto.

Molti, poi, formulano altre congetture sulla base degli attributi e degli altri segni visibili sulla statua o anche per complesse congetture: Serapide sarebbe lo stesso Esculapio183 poiché guarisce i corpi malati; oppure sarebbe Osiride, nume antichissimo di quelle genti; oppure Giove, signore di tutte le cose; oppure, secondo molti, il padre Dite.

 

85. Domiziano e Muciano, prima di arrivare alle Alpi, ricevettero la notizia dell’azione felicemente portata a termine nel territorio dei Treviri. A fornire la più evidente prova della vittoria era il comandante nemico Valentino il quale, per nulla affranto nel morale, recava sul volto i sentimenti che avevano nutrito la sua azione. Lo si volle ascoltare soltanto per farsi un’idea del suo carattere; quando fu condannato, qualcuno gli rinfacciò, proprio durante i preparativi dell’esecuzione, che la sua patria era caduta: egli rispose che per quel motivo la morte gii era di conforto.

Muciano espresse, come se si trattasse di una idea formulata al momento, un pensiero che nascondeva da tempo. Poiché, col favore degli dèi, le forze del nemico erano state infrante, poco onorevole sarebbe stato per Domiziano voler dividere, a guerra conclusa, la gloria conquistata da altri. Se la stabilità dell’impero o la salvezza delle Gallie avessero corso gravi pericoli, Cesare doveva essere presente sul campo di battaglia. Quanto ai Canninefati e ai Batavi, costoro erano da lasciare a comandanti di minor livello. Perciò Cesare doveva stare a Lugduno per essere documento vivente della forza e della fortuna dell’impero. Insomma: doveva evitare i rischi di scarsa entità, per essere pronto a quelli più gravi.

 

86. Domiziano si rendeva conto del raggiro, ma per non venir meno al suo rispetto nei riguardi di Muciano, finse di non avvedersene. Con questo animo si arrivò a Lugduno. Si crede che da qui Domiziano abbia mandato messaggi segreti a Ceriale per saggiarne la fedeltà e per sapere se, il giorno in cui si fosse presentato di persona, gli avrebbe consegnato esercito e comando. Non è stato possibile stabilire se, con questo suo pensiero, egli avesse in animo di preparare guerra contro il padre o volesse raccogliere mezzi e forze per combattere il fratello. Infatti Ceriale, con comportamento accorto ed equilibrato, seppe tenerlo a bada come un ragazzo che desidera cose impossibili.

Domiziano vedeva che era disprezzato dagli anziani per la sua giovinezza e smise di occuparsi anche di quei pubblici affari che, pur di poco conto, erano stati la sua occupazione fino ad allora. Apparentemente semplice e moderato, egli rimaneva impenetrabile. Simulava amore per la letteratura e la poesia, per nascondere il suo animo e sottrarsi alle gelosie del fratello, di cui mal giudicava il carattere che era ben diverso e ben più mite del suo.

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
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