LIBRO PRIMO
Il divino Giulio

 

1. Non aveva ancora sedici anni quando perse il padre 1; l’anno appresso, designato flàmine Diale 2, ripudiò Cossuzia, che, di famiglia equestre ma molto ricca, gli era stata destinata in sposa quando ancora egli vestiva la toga pretesta, e sposò Cornelia – figlia di Cinna 3, quattro volte console – dalla quale ben presto gli nacque Giulia. E Siila 4, allora dittatore, non riuscì in nessun modo a fargliela ripudiare. Per questo rifiuto egli fu spogliato del sacerdozio, della dote della moglie, dei suoi stessi beni di famiglia. E politicamente fu considerato un avversario. Fu costretto perciò a togliersi di mezzo, e – sebbene lo intralciasse la febbre quartana – a cambiare rifugio quasi ogni notte e persino a riscattarsi col denaro da quelli che lo ricercavano. Ma finalmente, per intercessione delle vergini Vestali, di Mamerco Emilio e di Aurelio Cotta 5, suoi parenti ed affini, ottenne il perdono. Pare certo che Siila, quando lo supplicarono i suoi più intimi amici, e uomini di altissimo rango, per qualche tempo oppose un rifiuto; ma poiché essi tenacemente insistevano, finalmente si lasciò piegare, ma dichiarò – o per ispirazione divina o per riflessione personale – che l’avessero pure vinta e se lo tenessero pure, purché sapessero che quello che essi tanto volevano salvo, un giorno o l’altro sarebbe stato la rovina proprio di quel partito degli ottimati che essi insieme con lui avevano difeso: in Cesare c’erano molti Marii.

 

2. Fece il suo primo servizio militare in Asia, al séguito del pretore Marco Termo. Questi lo inviò in Bitinia per farne venire una flotta; ed egli si trattenne presso Nicomede 6, non senza che corresse voce che si fosse prostituito a quel re. La diceria fu incrementata dal fatto che dopo pochi giorni egli tornò di nuovo in Bitinia con la scusa di dover riscuotere del denaro dovuto a un liberto suo cliente. Il resto del suo servizio militare fu accompagnato da miglior fama; ed egli, durante l’espugnazione di Mitilene 7, fu da Termo insignito della corona civica.

 

3. Militò anche sotto Servilio Isàurico in Cilicia 8, ma per breve tempo. Appresa, infatti, la morte di Siila, ed anche per la prospet tiva del nuovo trambusto politico scatenato da Marco Lèpido 9, tornò rapidamente a Roma. Ma rinunciò a legarsi con Lèpido – per quanto ne fosse sollecitato con grandi promesse – perché non si fidò né del carattere di quell’uomo, né dell’occasione stessa, che ora egli trovava inferiore alla sua aspettativa.

 

4. A parte ciò, sopitosi quel conflitto, accusò di concussione Cornelio Dolabella, già console e trionfatore. Poi, quando quello fu assolto, decise di starsene in disparte a Rodi, sia per distogliere dalla sua persona l’odiosità suscitata, sia per dedicarsi a suo agio, tranquillamente, alle lezioni di Apollonio Molone, il più grande maestro di eloquenza dell’epoca. Ma mentre – ed era già inverno – compiva la traversata, nei pressi dell’isola di Farmacusa 10 fu catturato dai pirati, e rimase presso di loro, non senza la più viva indignazione, per circa quaranta giorni con un solo medico e due camerieri; gli altri compagni e schiavi, fin dall’inizio li aveva sùbito mandati qua e là a procurare il denaro per il riscatto. Poi, sborsati cinquanta talenti e sbarcato su un litorale, non tardò un istante a mettere in mare una flotta e ad inseguire i pirati che si allontanavano, e, impadronitosene, ad applicare loro il supplizio di cui spesso con tono scherzoso li aveva minacciati. E poiché Mitridate 11 devastava le zone vicine, Cesare, per non aver l’aria di starsene inerte mentre gli alleati erano in pericolo, da Rodi, dove era diretto, passò in Asia, e, messi insieme dei rinforzi ed espulso dalla provincia il prefetto del re, riuscì a mantenere fedeli le città tentennanti ed incerte.

 

5. Durante il tribunato militare – la prima carica che gli venne dal suffragio popolare quando tornò a Roma – sostenne col massimo impegno i fautori della restaurazione della potestà tribunizia, di cui Siila aveva assai ridotto le prerogative. Per Lucio Cinna, fratello di sua moglie, e per quelli che con lui, avendo parteggiato per Lepido durante la sedizione, dopo la morte di quel console si erano rifugiati presso Sertorio 12, ottenne il ritorno in città grazie ad una proposta di legge Plozia; e lui stesso tenne su questo argomento un discorso al popolo.

 

6. Durante la sua questura pronunciò dai Rostri, secondo l’uso, l’elogio della zia paterna, Giulia, e della moglie Cornelia, che appunto erano morte. Nell’elogio della zia così si espresse sull’origine di lei e del proprio padre: «La famiglia materna di mia zia Giulia discende da sovrani, quella paterna è congiunta con gli dèi immortali: da Anco Marzio discendono i Marzii Re, della cui stirpe era sua madre; da Venere i Giulii, alla cui stirpe appartiene la nostra famiglia. C’è dunque in questa stirpe la sacra maestà dei re – che tanto sono potenti tra gli uomini – e la santità degli dèi, sotto il cui potere sono gli stessi re».

A riempire il vuoto lasciato da Cornelia sposò Pompea, figlia di Quinto Pompeo e nipote di Lucio Siila. Ma da essa poi divorziò, sospettandola di adulterio con Publio Clodio 13: così insistente era la diceria che questi fosse penetrato fino a lei, in veste femminile, durante una cerimonia religiosa, che il Senato decretò un’inchiesta per sacrilegio.

 

7. Come questore ebbe in sorte la Spagna Ulteriore. Lì, mentre, per incarico del pretore, girava per le diverse località per amministrare la giustizia, giunto a Càdice, quando vide nel tempio di Ercole un ritratto di Alessandro Magno, emise un sospiro e, quasi rammaricandosi della propria pigrizia, perché nulla di memorabile egli aveva ancóra fatto all’età in cui Alessandro aveva soggiogato il mondo intero, chiese immediatamente il congedo, per cogliere quanto prima, in Roma, occasioni a più grandi imprese. Inoltre, quando egli rimase assai scosso da un sogno fatto durante la notte – aveva sognato di aver violentato sua madre -, gli oniromanti 14 lo incoraggiarono alle più grandi speranze, intendendo che gli veniva presagito il dominio del mondo: la madre che egli aveva visto a lui sottoposta non era altro che la Terra, considerata madre di tutti.

 

8. Lasciando dunque anzitempo la provincia, si recò nelle città latine che erano in agitazione per ottenere la cittadinanza romana; le avrebbe anche istigate ad osare qualcosa, se i consoli, proprio per questa situazione, non avessero trattenuto momentaneamente le legioni che erano state arruolate per la Cilicia.

 

9. Ma non per questo egli rinunciò a macchinare poco dopo qualcosa di più grosso proprio a Roma: pochi giorni prima di assumere l’edilità 15, fu sospettato di aver cospirato con Marco Crasso 16, già console, ed anche con Publio Siila 17 e Lucio Autronio 18, condannati per broglio dopo l’elezione a consoli: secondo l’accusa, all’inizio dell’anno essi intendevano attaccare il Senato e, massacrati a piacimento gli avversari, Crasso avrebbe assunto con la forza la dittatura, e Cesare sarebbe stato da lui nominato comandante della cavalleria 19; poi, una volta organizzata a loro arbitrio la repubblica, a Siila e ad Autronio sarebbe stato restituito il consolato. Di questa congiura fanno menzione Tanusio Gèmino 20 nella sua Stona, Marco Bìbulo 21 nei suoi editti, e Gaio Curione 22 padre nei suoi discorsi. Alla stessa congiura sembra alludere Cicerone in una lettera ad Assio, là dove dice che Cesare, durante il consolato, aveva consolidato quel potere assoluto a cui già da edile pensava. Tanusio aggiunge che Crasso, pentito o spaventato, nel giorno fissato per il massacro non si era presentato, e che per questo Cesare non aveva neppure dato il segnale che, Secondo gli accordi, doveva partire da lui. Curione precisa che il segnale convenuto era che Cesare si lasciasse cadere la toga giù dalla spalla. Lo stesso Curione, ma anche Marco Actorio Nasone 23, sostengono che egli cospirò anche con il giovane Gneo Pisone 24 – al quale, proprio per il sospetto della congiura in città, sarebbe stata assegnata, al di fuori di ogni procedura, e non richiesta, la provincia di Spagna -: sarebbe stato concordato che, contemporaneamente, Pisone fuori e lui a Roma insorgessero, a scopo rivoluzionario, con l’aiuto degli Ambroni 25 e dei Transpadani; ma il loro progetto sarebbe andato a vuoto per la morte di Pisone.

 

10. Da edile, oltre il Comizio 26 e il Foro e le basiliche 27, Cesare abbellì anche il Campidoglio con portici provvisori, in cui, tra la grande abbondanza di oggetti di cui disponeva, si esponesse una parte di tale suppellettile. Organizzò anche cacce e spettacoli, sia con il collega, sia separatamente. Accadde così che delle spese fatte insieme all’altro, ebbe il merito egli solo, e il suo collega Marco Bìbulo non taceva che gli era capitato ciò che era accaduto a Pollùce: come il tempio dedicato nel Foro ai due gemelli, era chiamato soltanto «tempio di Càstore», così la munificenza sua e di Cesare era attribuita soltanto a Cesare. Questi aggiunse anche uno spettacolo di gladiatori, ma con coppie un po’ meno numerose di quanto avesse progettato. Il fatto è che, con la gran massa di schiavi che aveva raccolto da ogni parte, aveva spaventato gli avversari, per cui si fissò un limite al numero dei gladiatori: più di tanti nessuno a Roma poteva tenerne.

 

11. Accattivatosi il favore del popolo, egli tentò, servendosi di una parte dei tribuni, di farsi assegnare per volontà popolare il settore Egitto: coglieva l’occasione, per quel potere straordinario, dal fatto che gli Alessandrini avevano cacciato il loro re – che dal Senato era stato proclamato amico ed alleato -, e ciò era universalmente biasimato. Non raggiunse il suo obiettivo per l’opposizione del partito degli ottimati. Egli allora, per infirmare a sua volta in tutti i modi possibili l’autorità di costoro, fece rimettere al loro posto i trofei di Gaio Mario su Giugurta, e quelli sui Cimbri e Tèutoni, già abbattuti da Siila; inoltre, nei procedimenti intentati contro i sicarii, fece includere nel numero dei sicarii anche quelli che, durante le proscrizioni, avevano ricevuto denaro dalle casse dello Stato per la denunzia di cittadini romani, benché dalle leggi Cornelie 28 ne fossero stati esclusi.

 

12. Subornò anche un tale perché citasse in giudizio, con l’accusa di alto tradimento, Gaio Rabirio, la principale pedina di cui alcuni anni prima il Senato si era servito per reprimere il sedizioso tribunato di Lucio Saturnino; Cesare, tratto a sorte come giudice dell’imputato, con tanto impegno ne chiese la condanna, che, quando quello si appellò al popolo, nulla gli giovò più dell’accanimento stesso del giudice.

 

13. Messa da parte la speranza dell’incarico in Egitto, si candidò al pontificato massimo, non senza assai munifiche largizioni. Si racconta che, proprio a questo proposito, pensando all’entità dei debiti contratti, nell’uscire al mattino per le elezioni, dichiarò alla madre che lo baciava, che non sarebbe tornato a casa se non pontefice. E così batté due potentissimi competitori – che gli erano molto superiori per età e per dignità -, tanto che ottenne più voti lui nelle loro tribù, che ognuno di loro in tutte quante.

 

14. Eletto pretore, quando fu scoperta la congiura di Catilina e tutto il Senato voleva per i complici del misfatto la pena più grave, egli solo propose che, confiscati i loro beni, fossero distribuiti e tenuti sotto custodia in diversi municipii. Anzi, tanta paura suscitò in quelli che suggerivano pene più aspre, prospettando insistentemente quanto odio graverebbe su di loro in avvenire da parte della plebe romana, che Decimo Silano, console designato, non si peritò di attenuare il parere ufficiale già espresso – dato che non era bello capovolgerlo – mediante un’aggiunta interpretativa, come se esso fosse stato preso in senso più grave di quanto egli stesso avesse inteso. E sarebbe riuscito nel suo intento, avendo tirato parecchi dalla sua parte (tra cui il fratello del console Cicerone) se il Senato esitante non fosse stato rinfrancato dal discorso di Marco Catone. Ma neppure allora egli desistette dall’opposizione, finché una schiera di cavalieri romani, che armata circondava l’edificio a scopo di difesa, mentre egli troppo indiscretamente insisteva nel suo atteggiamento, lo minacciò di morte puntando contro di lui le spade sguainate, tanto che i più vicini, che sedevano con lui, lo abbandonarono, e ben pochi lo protessero abbracciandolo e opponendo la propria toga. A questo punto, decisamente spaventato, non solo desistette, ma anche per il resto dell’anno non si presentò più nella Curia.

 

15. Nel primo giorno di pretura, fece mettere sotto inchiesta davanti al popolo Quinto Càtulo 29, a proposito del restauro del Campidoglio; una sua proposta di legge trasferiva ad un altro quell’incarico. Ma, impotente dinanzi alla coalizione degli ottimati, che egli vedeva accorsi in gran numero e decisi ad opporglisi rinunciando al rituale omaggio ai nuovi consoli, recedette da questa azione giudiziaria.

 

16. Ma tenacemente si fece istigatore e sostenitore di Cecilio Metello, tribuno della plebe che, ignorando il veto dei colleghi, proponeva leggi rivoluzionarie, finché entrambi, per decreto del Senato, furono rimossi dal governo dello Stato. Osò nondimeno rimanere in carica e amministrare la giustizia; ma, quando si rese conto che c’era pronto chi poteva fermarlo con la forza delle armi, congedati i littori e spogliatosi della pretesta, quatto quatto si rifugiò in casa, con l’intenzione di starsene tranquillo data la situazione del momento. Anzi, due giorni dopo bloccò una gran folla che spontaneamente era accorsa da lui e tumultuosamente s’impegnava a dargli man forte a conservare la sua carica. E poiché il suo gesto era avvenuto contro ogni aspettativa, il Senato, riunito frettolosamente proprio per quell’assembramento, gli rese grazie, attraverso personalità eminenti, e, chiamatolo nella Curia, lo elogiò con magnifiche parole e, annullato il precedente decreto, lo reintegrò nella carica.

 

17. Ricadde di nuovo nei guai quando il suo nome fu fatto tra i complici di Catilina, sia dinanzi al questore Novio Nigro 30 dal delatore Lucio Vettio, sia in Senato da Quinto Curio, per il quale, poiché per primo aveva rivelato le trame dei congiurati, era stato ufficialmente fissato un premio in denaro. Curio diceva di aver saputo il fatto da Catilina, Vettio addirittura prometteva di esibire una lettera autografa di Cesare a Catilina. Ma Cesare, ritenendo ciò assolutamente intollerabile, implorata la testimonianza di Cicerone, dichiarò che aveva, anzi, di sua iniziativa riferito a lui alcuni particolari sulla congiura; e ottenne che a Curio non venisse dato il premio promesso. Quanto a Vettio, sequestratagli la cauzione, saccheggiatagli la suppellettile di casa, mal ridotto lui stesso e, davanti ai Rostri, durante un comizio quasi fatto a pezzi, lo fece gettare in carcere. Nello stesso carcere fece finire il questore Novio, per aver permesso che fosse fatta comparire dinanzi a lui un’autorità a lui superiore.

 

18. Dopo la pretura, avuta in sorte la Spagna Ulteriore, si liberò dei creditori che cercavano di trattenerlo, mediante l’intervento di alcuni garanti, e, ignorando le consuetudini e il diritto, partì prima ancora che le province fossero dotate del necessario; non si sa se per timore di un processo che a lui, ancora privato cittadino, si stava preparando, o per venire più presto in aiuto agli alleati che lo imploravano. Pacificata la provincia, con la medesima fretta, senza attendere il successore, egli partì per chiedere il trionfo ed anche il consolato. Ma, dato che i comizi erano già stati convocati, non si poteva tener conto di lui se non fosse entrato in città come cittadino privato. E quando egli brigò per ottenere una deroga alla legge, molti si opposero. Fu allora costretto a rinunciare al trionfo per non essere escluso dal consolato.

 

19. Due erano i suoi competitori al consolato, Lucio Lucceio e Marco Bìbulo. Lucceio lo legò a sé, pattuendo con lui che, poiché esso godeva di minor prestigio, ma era forte finanziariamente, promettesse di tasca sua denaro alle centurie a nome di entrambi. Venuti a sapere ciò, gli ottimati, presi dal timore che non ci fosse cosa che Cesare non avrebbe osato nella carica suprema con un collega concorde e consenziente, suggerirono a Bìbulo di offrire altrettanto; e parecchi contribuirono col proprio denaro. Persino Catone ammise che tale largizione tornava a vantaggio dello Stato.

Cesare venne dunque eletto insieme con Bìbulo. Per lo stesso motivo gli ottimati si adoperarono a che ai futuri consoli si assegnassero province di scarsissimo impegno, cioè boscaglie e sentieri. Profondamente ferito da questo oltraggio, Cesare circondò di ogni sorta di attenzioni Gneo Pompeo che era irritato con il Senato, perché questo, dopo la sua vittoria sul re Mitridate, tardava a ratificare il suo operato. Con Pompeo riconciliò Marco Crasso, già suo avversario fin dal consolato, che avevano esercitato insieme ma in piena discordia 31. Strinse anche un accordo con entrambi 32: che non si facesse nulla nello Stato, che dispiacesse ad alcuno di loro tre.

 

20. Entrato in carica 33, Cesare, primo fra tutti, stabilì che si redigessero e si rendessero pubblici gli Atti Giornalieri del Senato e gli Atti Giornalieri del Popolo 34. Ripristinò anche un antico uso, che cioè nel mese in cui il console non avesse i fasci, lo precedesse però un banditore e lo seguissero i littori. Poi, pubblicata una proposta di legge agraria, con le armi fece cacciare dal foro il collega che vi si opponeva. Il giorno appresso, quando quello se ne lamentò in Senato, non si trovò nessuno che su tale grave incidente osasse fare una relazione ufficiale o proporre qualcosa di simile ai molti decreti che più volte erano stati fatti anche in caso di turbamenti di minor rilievo. E Bìbulo fu ridotto a tale disperazione che, finché non uscì di carica, rintanato in casa fece la sua opposizione soltanto per mezzo di comunicati.

Da quel momento, Cesare ogni cosa nello Stato regolò da solo e ad arbitrio suo, tanto che alcuni buontemponi, nel sigillare scherzosamente qualche specie di testamento, non scrivevano «sotto i consoli Cesare e Bìbulo» ma «sotto i consoli Giulio e Cesare», mettendo due volte la stessa persona, prima con il nome e poi con il cognome. Analogamente, ben presto si diffusero dappertutto questi versi:

 

Quest’anno non si è fatto proprio nulla sotto Bìbulo: tutto sotto Cesare.

Non ricordo alcun atto che sia stato sotto il console Bìbulo compiuto.

 

La campagna di Stella 35, che dagli antichi era stata dichiarata sacra, e l’Agro Campano, che era rimasto come fonte di reddito per i bisogni dello Stato, egli li divise senza sorteggio tra ventimila cittadini che avessero tre o più figli. Agli appaltatori delle imposte, che chiedevano un alleggerimento, abbonò un terzo del canone di appalto, ma apertamente li esortò a non essere troppo sfrenati nelle offerte d’asta in occasione del prossimo appalto. Anche tutto il resto, come a ciascuno piaceva, egli concesse generosamente: nessuno apriva bocca contro di lui, o, se qualcuno ci provava, veniva spaventato. Marco Catone, che gli faceva ostruzionismo, egli lo fece cacciare dalla Curia per mano di un littore e condurre in prigione 36. A Lucio Lucullo, che troppo liberamente gli resisteva, mise addosso una tale paura di false accuse, che quello gli si gettò alle ginocchia supplichevole. Quando Cicerone, durante un processo, deplorò la condizione dei tempi, Cesare nello stesso giorno, prima di sera, trasferì dai patrizi alla plebe l’avversario di lui Publio Clodio, che invano già da un pezzo lo chiedeva. Infine, contro tutti in blocco i suoi avversari politici, convincendolo con compensi, perché dichiarasse di essere stato sollecitato da alcuni di loro a dare la morte a Pompeo, e, fatto venire dinanzi ai Rostri, facesse, imbeccato da lui, i nomi dei mandanti. Ma dopo che, inutilmente e non senza sospetto di frode, furono nominati prima uno e poi un altro, Cesare, disperando della riuscita di un piano attuato tanto precipitosamente, si ritiene che abbia eliminato il delatore col veleno.

 

21. In quello stesso periodo sposò Calpurnia, figlia di Lucio Pisone 37, designato a succedergli nel consolato. E diede sua figlia Giulia 38 in moglie a Gneo Pompeo, facendole rompere il fidanzamento con Servilio Cepione, con il cui aiuto, in particolare, poco prima aveva lottato contro Bìbulo. E dopo questa nuova parentela, cominciò a chiedere a Pompeo per primo, in Senato, il parere ufficiale, mentre in precedenza usava interpellare per primo Crasso, ed era prassi costante che quell’ordine di richiesta di pareri che avesse inaugurato il primo giorno di gennaio, il console seguisse per tutto l’anno.

 

22. Sostenuto dunque dal suocero e dal genero, fra tutte le numerose province scelse le Gallie, † 39 dalle cui risorse e dalla cui opportuna posizione geografica poteva venirgli materia di trionfi. Inizialmente ebbe assegnata, per una legge Vatinia, la Gallia Cisalpina con l’aggiunta dell’Illirico; ma poi dal Senato anche la Transalpina, poiché i senatori temevano che, se gliel’avessero negata loro, gliela desse in più il popolo. Esaltato da questa gioia, non si trattenne dal vantarsi pochi giorni dopo, nella Curia affollata, di aver ottenuto quanto aveva sognato, a dispetto e a scorno degli avversari, per cui ormai poteva passare sulla testa di tutti; e poiché uno diceva, per offenderlo, che a nessuna donna sarebbe stato facile ciò, egli rispose, con battuta scherzosa, che anche in Siria aveva regnato Semiramide, e che le Amazzoni avevano dominato gran parte dell’Asia.

 

23. Concluso il consolato, poiché i pretori Gaio Memmio e Lucio Domizio fecero un rapporto sugli atti dell’anno precedente, rimise l’inchiesta al Senato; questo però non se l’assunse, e lui, quando furono trascorsi tre giorni in dispute vane, se ne partì per la sua provincia. Ma sùbito il suo questore fu trascinato in un’inchiesta pregiudiziale per alcune imputazioni 40. Poco dopo anche lui stesso fu chiamato in giudizio dal tribuno della plebe Lucio Antistio; ma egli, appellatosi all’intero collegio, ottenne finalmente di non essere formalmente imputato, in quanto era lontano per servizio di Stato. Allora, per garantirsi la sicurezza in avvenire, ebbe gran cura di tenersi via via obbligati i magistrati dell’anno, e, quanto ai candidati, di non sostenere, o di non lasciare che giungessero alla carica, altri che quelli che si fossero impegnati a difenderlo in sua assenza; e di questo accordo non esitò a pretendere da alcuni un giuramento e addirittura un impegno scritto.

 

24. Anzi, poiché Lucio Domizio, candidato al consolato, minacciava apertamente che avrebbe fatto da console ciò che non aveva potuto da pretore, e che gli avrebbe tolto gli eserciti, Cesare, fatti venire Crasso e Pompeo a Lucca, una città che rientrava nella sua provincia, li spinse a chiedere un secondo consolato per estromettere Domizio 41. Grazie ad entrambi loro, ottenne che gli fosse prorogato il comando militare per altri cinque anni. Rassicurato da ciò, alle legioni che aveva ricevuto dallo Stato, ne aggiunse altre a spese sue, una addirittura arruolata tra i Galli transalpini, gallica anche nel nome: si chiamava Alauda’, addestrata secondo la disciplina e la tradizione romana e regolarmente equipaggiata, più tardi egli le concesse in blocco la cittadinanza romana. In séguito non si lasciò sfuggire alcuna occasione di guerra, per ingiusta e pericolosa che fosse, provocando volutamente sia le popolazioni alleate, sia quelle ostili e selvagge, tanto che il Senato una volta decretò di inviare dei delegati per indagare sullo stato delle Gallie; alcuni proposero persino di consegnarlo ai nemici. Ma poiché le sue azioni di guerra riuscivano felicemente, ottenne più spesso di ogni altro, e di più lunga durata, i pubblici ringraziamenti agli dèi.

 

25. Nei nove anni in cui detenne il comando militare, fece più o meno queste imprese.

L’intera Gallia, che è delimitata dalle catene dei Pirenei, delle Alpi e delle Cevenne, nonché dai fiumi Reno e Rodano, e che si estende con un perimetro di tremila e duecento miglia, tranne le popolazioni nostre alleate e quelle benemerite, fu da lui ridotta a provincia, e ad essa egli impose un tributo annuale di quaranta milioni di sesterzi. Primo tra i Romani, costruito un ponte, aggredì i Germani stanziati al di là del Reno e inflisse loro dure sconfitte; aggredì anche i Britanni, prima sconosciuti, e, sconfìttili, impose loro ostaggi e tributi in denaro. Tra tanti successi, non più di tre volte sperimentò la sorte avversa: in Britannia, quando la sua flotta fu quasi annientata dalla violenza di una tempesta; in Gallia presso Gergovia, quando fu sbaragliata una sua legione; in territorio germanico, quando i suoi luogotenenti Titurio e Aurunculèio furono massacrati in un’imboscata.

 

26. Nello stesso periodo perse prima la madre, poi la figlia, e non molto dopo la nipote 42. In mezzo a questi eventi, mentre lo Stato era sconvolto dall’uccisione di Publio Clodio 43 e il Senato era del parere di nominare un solo console, e precisamente Gneo Pompeo, Cesare fece sì che i tribuni della plebe, che volevano designarlo a collega di Pompeo, proponessero invece al popolo questa soluzione: che a lui, sebbene lontano da Roma, quando il tempo del suo comando stesse per scadere, fosse consentito di candidarsi a un secondo consolato, per non doversi allontanare, per la candidatura, troppo presto dalla provincia, senza avere ancora concluso la sua guerra. Ottenuto ciò, pensando già a mete più elevate, e pieno di speranze, non tralasciò alcuna sorta di largizioni e di favori verso chiunque, sia pubblicamente, sia privatamente. Con il denaro del bottino di guerra iniziò la costruzione di un Foro, il cui terreno costò più di un milione di sesterzi. Annunciò al popolo uno spettacolo di gladiatori e un banchetto in memoria di sua figlia; nessuno lo aveva mai fatto prima di lui. E perché l’aspettazione fosse più grande possibile, faceva preparare anche in casa dal personale suo, sebbene avesse dato l’appalto a professionisti, ciò che riguardava il banchetto. Famosi gladiatori, se da qualche parte combattevano dinanzi a un pubblico ostile, faceva prendere con la forza e riservare a sé. I novellini faceva istruire non nelle apposite scuole né da professionisti, ma nelle case private, da cavalieri romani e persino da senatori esperti di armi, pregandoli insistentemente – come risulta dalle sue lettere – che si assumessero l’addestramento di ognuno e dessero personalmente le direttive agli allenatori. Raddoppiò per sempre il soldo delle legioni. Il frumento, ogni volta che ce ne fosse disponibilità, fece distribuire anche senza limite e precisa misura; qualche volta, con il bottino di guerra, distribuì ai legionari uno schiavo a testa.

 

27. Per conservare la parentela e l’amicizia di Pompeo, gli offrì in moglie Ottavia, nipote di sua sorella, già sposata a Gaio Marcello, e chiese per sé una figlia di lui, già destinata in matrimonio a Fausto Siila. Legò poi a sé tutti quelli che ruotavano intorno a Pompeo, e anche gran parte del Senato, con prestiti gratuiti o ad interesse assai basso. Anche quelli delle altre categorie, o invitati o venuti da lui spontaneamente, colmava di regali, includendo anche i loro liberti e schiavetti, in proporzione a quanto fossero cari al patrono 44 o al padrone. Egli era poi l’unico e più pronto sostegno degli imputati o degli indebitati o dei giovani scapestrati, tranne quelli che fossero gravati da un peso di incriminazioni o di indigenza o di dissolutezza troppo grande perché potessero essere aiutati da lui: a questi diceva chiaro e tondo che ci voleva una guerra civile.

 

28. Con non minore impegno si ingraziava sovrani e province in tutto il mondo, ad alcuni offrendo in dono migliaia di prigionieri, ad altri mandando rinforzi dove e quante volte volessero, prescindendo dall’autorità del Senato e del Popolo, e per di più abbellendo con opere insigni le più potenti città dell’Italia, delle Gallie e delle Spagne, persino dell’Asia e della Grecia. A questo punto, tutti erano ormai sbalorditi e si domandavano a che cosa mirasse tutto ciò; e il console Marco Claudio Marcello, dopo aver preavvisato con un comunicato che avrebbe trattato dei supremi interessi dello Stato, fece una relazione al Senato, chiedendo che a Cesare si desse un successore anzitempo, dato che, conclusa la guerra ed essendoci ormai la pace, bisognava congedare l’esercito vittorioso; chiese pure che non si tenesse conto, alle prossime elezioni, di lui assente, dal momento che Pompeo aveva poi emanato una legge contraria al plebiscito. Era accaduto infatti che Pompeo, presentando la legge sullo stato giuridico dei magistrati, in quel comma con cui escludeva dalle candidature gli assenti, per dimenticanza nemmeno Cesare aveva eccettuato; poi aveva voluto fare la correzione, ma quando la legge era già stata incisa nel bronzo e archiviata. Marcello, non contento di togliere a Cesare le province e il privilegio, sostenne anche che ai coloni che Cesare aveva sistemato a Nova Como 45 in forza della legge Vatinia, fosse tolta la cittadinanza romana, perché era stata loro concessa per ragioni elettorali e al di là delle prescrizioni di legge.

 

29. Cesare, preoccupato da tutto ciò, e ritenendo – come si racconta che lo si sentì dire ripetutamente – che era più difficile, ora che egli era al primo posto nella Repubblica, risospingerlo al secondo, piuttosto che dal secondo all’ultimo, resistette col massimo impegno, un po’ mediante il veto dei tribuni, un po’ grazie all’altro console, Servio Sulpicio. L’anno appresso, poiché Gaio Marcello, che era succeduto nel consolato a suo cugino Marco, tentava la medesima manovra, con somme enormi Cesare tirò dalla sua parte l’altro console, Emilio Paolo, e Gaio Curione, il più violento dei tribuni. Ma, vedendo che contro di lui si faceva di tutto – e con ancor maggiore ostinazione -, e che erano stati designati consoli uomini di parte avversa alla sua, con un messaggio pregò il Senato di non togliergli il beneficio concessogli dal popolo 46, oppure che anche gli altri generali lasciassero i loro eserciti. Era certo, a quanto si crede, che appena lo avesse voluto, avrebbe richiamato lui i suoi veterani più facilmente di quanto Pompeo potesse fare nuove leve. Agli avversari propose poi questi patti: che, in attesa che fosse eletto console, congedate otto legioni e abbandonata la Gallia Transalpina, gli fossero concesse due legioni e la provincia Cisalpina, o anche una sola legione con l’Illìrico.

 

30. Ma poiché il Senato non interveniva, e gli avversari dicevano che non sarebbero assolutamente scesi a patti su questioni riguardanti la sicurezza dello Stato, Cesare passò nella Gallia Cisalpina, e, concluse le sessioni giudiziarie, si fermò a Ravenna, deciso a vendicare con la guerra i tribuni, se dal Senato fosse stato preso qualche grave provvedimento contro di loro, che esercitavano il diritto di veto in suo favore.

Effettivamente fu questo per lui il pretesto per la guerra civile; ma si ritiene che altri ne furono i motivi. Gneo Pompeo andava dicendo che Cesare, non potendo portare a termine quei lavori che aveva iniziato, e non potendo soddisfare con le sue sostanze private le speranze che il popolo aveva concepito sul suo ritorno, aveva voluto sconvolgere e mettere a soqquadro ogni cosa. Altri dicono che egli temeva di dover rendere conto di tutto ciò che durante il primo consolato aveva fatto contro gli auspici e le leggi e le opposizioni, tanto più che Marco Catone dichiarava continuamente, anche sotto giuramento, che, appena egli avesse congedato l’esercito, lo avrebbe trascinato in giudizio; e in giro si diceva che, se fosse tornato come privato cittadino, avrebbe, come già Milone, sostenuto la sua causa dinanzi ai giudici, con intorno un cordone di uomini armati. Accredita il fatto Asinio Pollione 47, che racconta che Cesare, sul campo di battaglia di Farsàlo, guardando i suoi avversari massacrati e sconfitti, disse esattamente queste parole: «Lo hanno voluto loro: io, Gaio Cesare, nonostante così grandi imprese, sarei stato condannato, se non avessi chiesto aiuto all’esercito!». Alcuni pensano che egli, ormai preso dall’abitudine al comando, e soppesate le forze sue e quelle degli avversari, avrebbe colto l’occasione di arraffare il supremo potere, che fin dall’adolescenza aveva sognato.

Questo avrebbe pensato – si crede – anche Cicerone, che nel terzo libro del De Officiis 48 scrive che Cesare aveva sempre in bocca i versi delle Fenicie di Euripide:

 

Se si deve violare la giustizia,

devi violarla solo per regnare;

in tutto il resto osserva la pietà 49.

 

 

31. Quando dunque gli fu riferito che si era ignorato il veto dei tribuni e che questi avevano lasciato Roma, Cesare, mandate avanti immediatamente alcune coorti – in sordina perché non sorgessero sospetti -, per darla ad intendere presenziò ad uno spettacolo pubblico, esaminò il progetto di una scuola di gladiatori che intendeva costruire, e, secondo il solito, partecipò ad un affollato convito. Poi, dopo il tramonto del sole, aggiogati ad un carro due muli presi da un vicino mulino, si avviò nel massimo segreto, con piccola scorta. Anzi, dato che, a luci spente, aveva perso la strada, dopo aver vagato a lungo, finalmente, all’alba, trovato uno che gli fece da guida, continuò la marcia a piedi per stretti sentieri. Raggiunte le sue coorti al fiume Rubicone, che segnava il confine della sua provincia, per un poco indugiò, e, meditando quanto gravi eventi stesse preparando, si rivolse ai suoi e disse: «Possiamo ancora tornare indietro: se attraverseremo quel piccolo ponte, si dovrà decidere tutto con le armi».

 

32. Mentre egli esitava, gli capitò questo prodigio: improvvisamente gli apparve un uomo di eccezionale corporatura e bellezza, seduto lì accanto, che sonava il flauto; ad ascoltarlo accorsero dei pastori, ma anche moltissimi soldati, tra cui dei trombettieri; quello, allora, pigliato a uno di questi lo strumento, balzò verso il fiume, diede gran fiato alla tromba in segno di guerra, e si avviò verso la riva opposta. Allora Cesare: «Andiamo dove ci chiamano i segni celesti e l’iniquità degli avversari». E aggiunse: «Il dado è tratto».

 

33. Così, fatto passare l’esercito, ricevuti i tribuni della plebe, che, cacciati da Roma, lo avevano raggiunto, in un’adunata generale, piangendo e stracciandosi la veste sul petto, fece appello alla lealtà dei soldati. Si crede addirittura che abbia promesso ad ognuno il censo di cavaliere 50; ma ciò ebbe origine da un equivoco. In realtà, mentre parlava e li esortava, mostrò ripetutamente il dito della mano sinistra e dichiarò che, per compensare tutti quelli grazie ai quali egli potesse difendere la sua dignità, senza rimpianti si sarebbe privato anche dell’anello; ma i soldati più lontani, che più facilmente potevano vederlo parlare che sentirlo, presero per veramente detto quello che immaginavano basandosi sulla vista; e si diffuse la voce che Cesare avesse promesso il diritto all’anello, con quattrocentomila sesterzi.

 

34. La cronologia e la sintesi delle imprese che dopo di allora compì, sono queste. Occupò il Piceno, l’Umbria e l’Etruria; ridotto in suo potere Lucio Domizio, che frettolosamente era stato nominato suo successore e teneva Corfinio con una guarnigione, lo lasciò libero di andarsene; poi, lungo il mare Adriatico, puntò su Brindisi, dove si erano rifugiati Pompeo e i consoli per passare al più presto al di là del mare. Dopo avere invano tentato di impedirne l’imbarco con tutti i possibili ostacoli, ripiegò su Roma. Qui convocò i senatori per puntualizzare la situazione politica; poi attaccò le più agguerrite truppe di Pompeo, che erano in Spagna sotto i tre luogotenenti Marco Petreio, Lucio Afranio e Marco Varrone: aveva prima dichiarato ai suoi che andava contro un esercito senza capo e che sarebbe ritornato contro un capo senza esercito. E, sebbene ne rallentassero l’azione l’assedio di Marsiglia – che, lungo il viaggio, gli aveva chiuso le porte in faccia – e la gravissima scarsezza di viveri, ciò nonostante in breve sistemò ogni cosa.

 

35. Dalla Spagna tornò a Roma, passò poi in Macedonia, bloccò per quasi quattro mesi Pompeo con opere d’assedio formidabili, e infine lo sbaragliò nella battaglia di Farsàlo e lo inseguì ad Alessandria dove quello si era rifugiato. E come apprese che era stato ucciso, affrontò una difficilissima guerra contro il re Tolomeo 51, da cui egli vedeva che si tendevano insidie anche contro di sé. La posizione e la stagione erano avverse: era inverno ed egli si trovava, privo di ogni mezzo e impreparato, entro le mura di un nemico attrezzatissimo e ingegnosissimo. Vittorioso, lasciò il regno d’Egitto a Cleopatra e a suo fratello minore, non azzardandosi a farne una provincia romana, per timore che, quando avesse un governatore troppo audace, divenisse esca di rivoluzione. Da Alessandria passò in Siria e di là nel Ponto: lo sollecitavano certe notizie su Farnace, figlio di Mitridate il Grande: approfittando delle circostanze, quello si era messo in guerra ed era ormai imbaldanzito da molteplici successi. Cesare, entro il quinto giorno da quando era arrivato, quattro ore dopo averlo affrontato, lo debellò in una sola battaglia; e spesso ricordava la fortuna di Pompeo, a cui la massima gloria militare era venuta da una così imbelle categoria di nemici. Poi sbaragliò Scipione e Giuba – che in Africa rianimavano i resti del partito pompeiano – e i figli di Pompeo in Spagna.

 

36. Durante tutta la guerra civile non subì alcuna sconfitta se non attraverso i suoi luogotenenti: Curione, infatti, perì in Africa; Gaio Antonio neUTllìrico cadde in potere degli avversari; Publio Dolabella perse una flotta nello stesso Illìrico; Gneo Domizio Calvino perse un esercito nel Ponto. Personalmente, egli combattè sempre con pieno successo, e nemmeno con incerta fortuna, se non due volte: una prima volta a Durazzo, dove fu respinto, ma poiché Pompeo non lo inseguì, disse che quello non sapeva vincere; una seconda volta in Spagna, nell’ultima battaglia, in cui, disperando ormai della situazione, pensò perfino di darsi la morte.

 

37. Concluse le guerre, celebrò cinque trionfi, quattro nello stesso mese 52 dopo aver vinto Scipione (ma a distanza di qualche giorno uno dall’altro) e un altro dopo sconfitti i figli di Pompeo. Il primo e più splendido trionfo che celebrò fu quello Gallico, il secondo quello Alessandrino, poi quello Pòntico, sùbito appresso quello Africano, ultimo l’Ispànico, ognuno con ben diverso sfarzo e corredo. Nel giorno del trionfo Gallico, mentre attraversava il Velàbro fu quasi buttato giù dal carro per essersi spezzato un asse delle ruote; e salì sul Campidoglio mentre quaranta elefanti, a destra e a sinistra reggevano i candelabri per fare luce. Nel trionfo Pòntico, tra le barelle del corteo fece portare avanti un’iscrizione di tre parole, «Venni, vidi, vinsi», che evidenziava non le azioni di guerra, come negli altri casi, ma la caratteristica della rapida conclusione.

 

38. Alle legioni veterane, a titolo di bottino, diede per ogni fante ventiquattromila sesterzi, oltre ai duemila che aveva loro versato all’inizio della guerra civile. Assegnò anche dei terreni, ma non contigui, per non scacciarne alcuno dei possessori. Al popolo, oltre a dieci moggi di frumento a testa e altrettante libbre d’olio, distribuì anche i trecento sesterzi a persona, che aveva promesso a suo tempo, e altri cento, in aggiunta a questi, per il ritardo. Condonò anche i canoni d’affitto a Roma, fino a duemila sesterzi l’anno, e in Italia non oltre i cinquecento. Aggiunse pure un pranzo e una distribuzione di carne, e, dopo la vittoria di Spagna, due pranzi: giudicando infatti che il primo era stato offerto un po’ scarso, e quindi non conforme alla sua generosità, quattro giorni dopo ne offrì un altro abbondantissimo.

 

39. Diede spettacoli di vario genere: un combattimento di gladiatori, rappresentazioni teatrali anche quartiere per quartiere in tutta la città – per di più ad opera di attori di ogni lingua –, così pure giochi ginnici nel circo, e una battaglia navale. In occasione del combattimento di gladiatori nel Foro, combattè anche Furio Leptino, di stirpe senatoria, e Q. Calpeno, già senatore e avvocato. Danzarono la pìrrica 53 i figli dei più eminenti cittadini dell’Asia e della Bitinia. Durante le rappresentazioni teatrali, Decimo Laberio 54, cavaliere romano, eseguì un suo mimo e, ricevuti in dono cinquecento sesterzi e un anello d’oro, attraversando l’orchestra, dalla scena passò a sedersi nel settore delle quattordici gradinate 55. In occasione dei giochi del circo si allungò l’arena da una parte e dall’altra e tutto intorno si aggiunse un fossato; e nobilissimi giovani condussero quadrighe e bighe e cavalli da acrobazie. Una duplice schiera, di ragazzi più grandi e di ragazzi più piccoli, eseguì la gara Troiana 56. Per cinque giorni si diedero cacce. Infine una battaglia fu divisa in due schieramenti: furono fatti scendere in campo, da una parte e dall’altra, cinquecento fanti, venti elefanti e trecento cavalieri. E perché si combattesse con più agio, erano state tolte le «mete» 57, e al loro posto erano stati collocati due accampamenti, l’uno di fronte all’altro. Alcuni atleti gareggiarono per tre giorni in uno stadio costruito provvisoriamente nella zona del Campo Marzio. Per la battaglia navale si scavò un lago nella Codeta 58 minore, e in esso si scontrarono biremi, triremi e quadriremi: una flotta di Tiro e una flotta d’Egitto, con gran numero di combattenti. A tutti questi spettacoli affluì una tale massa di persone da ogni parte, che moltissimi forestieri furono costretti ad alloggiare in piccole tende collocate qua e là nei vicoli e nelle strade. E spesso, per la folla, parecchi – tra cui anche due senatori – furono schiacciati ed uccisi.

 

40. Rivòltosi poi a riordinare lo Stato, riformò il calendario, che già da tempo, per colpa dei pontefici – mediante l’abuso di inserire giorni intercalari – era talmente scompigliato, che il tempo della mietitura non cadeva più in estate e quello della vendemmia non più in autunno. Regolò l’anno sul corso del sole: esso fu di trecentosessantacinque giorni, e, eliminato il mese intercalare, si inserì un giorno ogni quattro anni 59. E perché in avvenire, a partire dalle successive Calende di gennaio, il conteggio del tempo fosse più preciso, tra novembre e dicembre inserì altri due mesi; con ciò, l’anno in cui si fissavano queste innovazioni fu di quindici mesi, compreso quello intercalare che, secondo la vecchia norma, era caduto in quell’anno.

 

41. Integrò il Senato, scelse nuovi patrizi, ampliò il numero dei pretori, degli edili, dei questori, e anche delle magistrature minori. Riabilitò cittadini che, per intervento dei censori o per condanna per broglio da parte dei giudici, erano stati spogliati delle loro prerogative. Divise le elezioni tra sé e il popolo, cosicché, eccettuati gli aspiranti al consolato, quanto al restante numero dei candidati, per metà fossero proclamati quelli che volesse il popolo, per l’altra metà quelli che avesse designato lui stesso. E li indicava servendosi di biglietti inviati alle varie tribù, con poche righe: «Cesare dittatore alla tale tribù: vi raccomando il tale e il tal altro, perché con il vostro voto essi abbiano la loro carica». Alle cariche ammise anche i figli dei proscritti. Riservò i processi a due categorie di giudici, dell'ordine equestre e dell’ordine senatorio; soppresse invece i «tribuni erariali» 60, che erano la terza. Fece il censimento della popolazione prescindendo dalla prassi e dai luoghi consueti, ma quartiere per quartiere, valendosi dei proprietari dei casamenti. Ridusse da trecentoventimila a centocinquantamila quelli che ricevevano sovvenzione in frumento dallo Stato. Per evitare poi che, in occasione della revisione del censimento, si mettessero in agitazione assembramenti, stabilì che ogni anno, al posto di quelli defunti, il pretore facesse un sorteggio tra quelli che non erano stati inclusi nel precedente elenco.

 

42. Distribuì ottantamila cittadini in colonie d’oltremare, e perché restasse sufficiente anche la popolazione della città così depauperata, sancì che nessun cittadino maggiore di vent’anni e minore di sessanta – che non fosse obbligato dal servizio militare – stesse lontano dall’Italia per più di tre anni consecutivi; che nessun figlio di senatore andasse all’estero se non come compagno o facente parte del séguito di un magistrato; che quelli che praticassero l’allevamento del bestiame, avessero tra i pastori non meno di un terzo di giovani liberi. A tutti quelli che praticavano a Roma la medicina e ai maestri di cultura, perché più volentieri essi stessi si fissassero a Roma e altri vi affluissero, concesse la cittadinanza romana. Quanto ai debiti, spazzata via l’aspettativa di totale abolizione – di cui spesso si diffondeva la voce –, decretò finalmente che i debitori soddisfacessero i creditori attraverso la valutazione dei possessi, al prezzo che ciascuno aveva acquistato prima della guerra civile, dedotto dal totale del debito ciò che fosse stato pagato o registrato a titolo di interesse: con questo meccanismo andava perduto circa un quarto del credito. Sciolse tutte le associazioni tranne quelle formatesi in tempo antico. Inasprì le pene dei reati. E poiché i ricchi tanto più facilmente si invischiavano nei delitti, perché poi se ne andavano in esilio con il patrimonio intatto, stabilì, come scrive Cicerone 61, la confisca dell’intero patrimonio per i responsabili di parricidio, e della metà per gli altri.

 

43. Amministrò la giustizia col massimo impegno e la massima severità. Giunse a rimuovere dall’ordine senatorio i senatori riconosciuti colpevoli di concussione. Sciolse il matrimonio di un ex pretore, che aveva sposato una donna dopo due giorni che si era separata dal marito; e ciò sebbene non ci fosse sospetto di adulterio. Istituì una dogana per le merci importate. Vietò l’uso delle lettighe, ma anche delle vesti di porpora e delle perle, tranne che a determinate persone ed età, e in certe giornate. Applicò con particolare severità la legge sulle spese: mise intorno al mercato sorveglianti che sequestrassero le derrate vietate e le portassero a lui; e talvolta mandò littori e soldati, che portassero via anche dalle sale da pranzo ciò che fosse sfuggito ai sorveglianti.

 

44. In realtà, quanto all’abbellimento della città, alla difesa e all’ampliamento dell’Impero, ogni giorno faceva progetti più numerosi e più grandiosi: costruire un tempio di Marte, grande quanto mai nessun altro – una volta riempito e spianato il lago in cui aveva dato lo spettacolo della battaglia navale – nonché un teatro di smisurata grandezza adiacente alla rupe Tarpea; ridurre a ben precise dimensioni il diritto civile e, tra l’immensa e disordinata massa delle leggi scegliere il meglio e il più necessario per concentrarlo in pochissimi libri; rendere accessibili al pubblico biblioteche greche e latine quanto più ricche possibile (aveva dato a Marco Varrone l’incarico di metterle insieme e di organizzarle); prosciugare le paludi Pontine; dare uno sbocco al lago Fùcino; costruire una strada dall’Adriatico, attraverso il dorso dell’Appennino, fino al Tevere; tagliare l’Istmo di Corinto; fermare i Dati, che si erano riversati nel Ponto e nella Tracia; poi muovere guerra ai Parti attraverso l’Armenia Minore, ma non affrontarli in campo aperto se non dopo averne fatto precisa esperienza.

Mentre tali realizzazioni e progetti egli meditava, lo sorprese la morte. Ma prima di parlare di essa, non sarà inopportuno esporre sommariamente ciò che riguarda il suo aspetto esteriore, il suo modo di fare, il suo tenore di vita, le sue abitudini, ed anche i suoi interessi politici e militari.

 

45. Si dice che avesse alta statura, colorito molto chiaro, membra ben fatte, viso un po’ troppo pieno, occhi neri e vivaci, sana costituzione, a parte il fatto che negli ultimi tempi gli capitava di svenire e persino di spaventarsi nel sonno. Due volte, durante l’azione, fu colto da attacchi di epilessìa. Un po’ troppo insistente nella cura della persona, tanto che si faceva non solo accuratamente tagliare i capelli e radere, ma anche depilare – come alcuni gli rimproverarono –, e accettava assai male l’inconveniente della calvizie, anche perché l’aveva ripetutamente veduta esposta agli scherzi dei denigratori. Perciò aveva preso l’abitudine di riportare in avanti, dalla sommità del capo, i capelli che se ne stavano andando, e fra tutti gli onori decretàtigli dal Senato e dal Popolo, nessuno egli accolse o sfruttò più volentieri del diritto di portare sempre una corona d’alloro.

Raccontano che anche nell’abbigliamento egli fosse distinto: avrebbe infatti indossato un laticlavio con frange fino alle mani, e costantemente cingendosi al di sopra di esso, per di più con una cintura un po’ lenta. Da ciò sarebbe nata quella battuta di Siila, che spesso avvertiva gli ottimati di guardarsi da quel giovane mal cinto.

 

46. Abitò dapprima nella Suburra, in una casa modesta; ma, dopo il pontificato massimo, nella Via Sacra, in un palazzo di proprietà dello Stato. Molti ce lo hanno tramandato amantissimo delle raffinatezze e del fasto: avrebbe cominciato a costruire dalle fondamenta, con notevoli spese, una villa di campagna in zona di Ariccia: già quasi completata, l’avrebbe fatta abbattere tutta, perché non rispondeva pienamente al suo gusto; e ciò sebbene egli non fosse ancóra grande e fosse invece pieno di debiti. Durante le sue spedizioni avrebbe portato con sé pavimenti a mosaico componibili.

 

47. In Britannia sarebbe andato con la speranza di riportarne delle perle; paragonandone la grossezza, talvolta ne avrebbe valutato il peso di sua mano. Dicono che accumulò sempre, con il massimo interesse, gemme, oggetti cesellati, statue e quadri antichi, ma anche schiavi, ben slanciati e raffinati, ad altissimo prezzo, tanto che se ne vergognava lui stesso al punto da non farli registrare nei suoi bilanci.

 

48. Nelle varie province pare che desse costantemente banchetti con due tavole distinte, una per i militari e i Greci, un’altra per i Romani e i più illustri delle province. Regolò la disciplina domestica così meticolosamente e severamente, che fece mettere ai ferri un panificatore che serviva ai convitati un pane diverso da quello che serviva a lui; inflisse la pena capitale a un suo carissimo liberto, perché aveva sedotto la moglie di un cavaliere romano; e ciò sebbene nessuno se ne lamentasse.

 

49. La fama della sua pudicizia non fu lesa, a dire il vero, se non dalla sua intimità con Nicomede, ma questa con grave e perenne onta, pronta per gli scherni di tutti. Non parlo dei notissimi versi di Licinio Calvo

 

(quanto mai possedette la Bitinia

o il finocchio di Cesare);

 

lascio stare pure le arringhe di Dolabella e di Curione padre, nelle quali Dolabella lo dice «rivale della regina», e «sponda interna della lettiga regale», e Curione «postrìbolo di Nicomede» e «bordello bitìnico»; non parlo nemmeno dei comunicati di Bìbulo, nei quali definì il suo collega «bitìnica regina» e disse che «prima gli era stato a cuore un re, e adesso un regno»; in quel periodo, come riferisce Marco Bruto, un certo Ottavio, che, squilibrato com’era, motteggiava con una certa libertà, in una riunione affollatissima, dopo aver salutato Pompeo come re, salutò Cesare come regina. Ma Gaio Memmio arriva a rinfacciargli di aver fatto da coppiere a Nicomede, insieme con gli altri suoi finocchi, in un affollato pranzo a cui partecipavano anche alcuni commercianti romani, di cui Memmio stesso riferisce anche i nomi. E Cicerone – non contento di avere scritto in alcune sue lettere 62 che Cesare, accompagnato dalle guardie nella camera del re, si era sdraiato su un letto d’oro in veste purpurea, e che in Bitinia era stata contaminata la giovinezza di un discendente di Venere – una volta anche in Senato, a Cesare che difendeva Nisa, figlia di Nicomede, e che ricordava i benefìci che egli aveva avuto da Nicomede, disse: «Lascia stare quest’argomento, ti prego: – è ben noto che cosa egli ha dato a te e che cosa tu a lui». Infine, durante il trionfo Gallico, tra gli altri versi, quali usano cantare scherzosamente accompagnando il carro trionfale, i suoi soldati intonarono questa notissima strofetta:

Piegò Cesare le Gallie, Nicomède lui piegò; ora Cesare trionfa, che le Gallie già piegò, non trionfa Nicomède, che già Cesare piegò.

 

50. È costante opinione ch’egli fosse incline ai piaceri d’amore, anche a costo di notevoli spese, e che sedusse parecchie donne di alto livello, tra le quali Postumia moglie di Servio Sulpicio, Lollia moglie di Aulo Gabinio, Tertulla moglie di Marco Crasso, e anche Mucia moglie di Gneo Pompeo. Fatto sta che a Pompeo fu rinfacciato, sia dai Curioni, padre e figlio, sia da molti altri, il fatto che proprio di quell’uomo per colpa del quale aveva ripudiato la moglie dopo che ne aveva avuto tre figli, e che egli, sospirando, continuava a chiamare Egisto 63, aveva poi, per brama di potere, sposato la figlia. Ma più di tutte le altre Cesare amò Servilia, madre di Marco Bruto, per la quale, durante il suo primo consolato, comperò una perla per sei milioni di sesterzi, e durante la guerra civile, a parte gli altri doni, fece aggiudicare all’asta, al prezzo più basso possibile, vastissime tenute; e mentre molti si meravigliavano di quel vantaggioso affare, Cicerone assai spiritosamente disse: «Perché sappiate che l’acquisto è stato ancora più vantaggioso, gli è stata scontata anche la “terza” parte»: si riteneva infatti che Servilia avesse fatto godere a Cesare anche sua figlia Terza.

 

51. Che non rispettasse nemmeno i matrimoni di provincia risulta anche da questi versi, intonati ugualmente dai soldati durante il trionfo Gallico:

 

Rinchiudete le mogli, cittadini,

ché conduciamo uno spiumato adultero.

Hai speso in Gallia per le donne l’oro che qui prendesti in prestito ad usura.

 

 

52. Amò anche delle regine, tra cui la mauritana Eunoe, moglie di Bogude: a lei e a suo marito, come scrisse Nasone, fece molte e larghe donazioni. Ma soprattutto amò Cleopatra: con lei non solo spesso protrasse i conviti fino all’alba, ma anche, su una nave attrezzata con camera da letto, si sarebbe addentrato nell’Egitto, fin quasi in Etiopia, se l’esercito non si fosse rifiutato di seguirlo. Infine, fattala venire a Roma, la rimandò non senza averla colmata di grandissimi onori e donativi, e le permise di chiamare con il suo nome il figlio nato da loro 64. Alcuni scrittori greci hanno affermato che questo era anche somigliante a Cesare sia nell’aspetto, sia nel modo di camminare. Marco Antonio dichiarò al Senato che il figlio era stato anche riconosciuto come suo da Cesare, e che lo sapevano anche Gaio Mazio, Gaio Oppio e gli altri amici di Cesare. Ma Gaio Oppio, che era uno di questi, come se la faccenda avesse davvero bisogno di difesa e patrocinio, pubblicò un libro in cui affermava che non era figlio di Cesare quello che Cleopatra spacciava per tale. Elvio Cinna, tribuno della plebe, confidò a molti di avere, già bell’e pronta, una legge – che Cesare gli avrebbe ordinato di proporre in sua assenza –, che gli consentiva di sposare quali e quante donne volesse, per garantirsi una discendenza. E perché non ci siano dubbi sul fatto che egli godesse di pessima fama di sodomìa e di adulterio, basti dire che Curione padre, in un suo discorso, lo definisce marito di tutte le donne e moglie di tutti gli uomini.

 

53. Nemmeno gli avversari hanno mai negato ch’egli fosse molto sobrio nel bere. È di Marco Catone l’affermazione che Cesare, unico fra tutti, si era mosso sobrio alla conquista dello Stato. Quanto poi al vitto, Gaio Oppio ci informa che fu tanto indifferente, che una volta che da un ospite gli era stato servito dell’olio rancido anziché fresco, mentre tutti gli altri si guardarono bene dal toccarlo, lui solo ne prese abbondantemente, per non sembrare di rimproverare all’ospite negligenza o zoticaggine.

 

54. Né nelle cariche militari né in quelle civili si mostrò disinteressato. Come attestano alcuni nei loro scritti, quando fu proconsole in Spagna, anzitutto prese denaro dagli alleati, mendicato per rimediare ai debiti, e poi saccheggiò da nemico alcune città dei Lusitani, sebbene esse non si rifiutassero ai suoi ordini, e al suo arrivo gli aprissero le porte. In Gallia fece man bassa nei santuari e nei templi, colmi di doni votivi, e distrusse città più spesso per farne bottino che per qualche loro colpa. Fu così che si trovò in possesso di molto oro, che mise in vendita, in Italia e nelle province, a tremila sesterzi la libbra. Durante il primo consolato rubò dal Campidoglio tremila libbre d’oro e lo sostituì con altrettanto bronzo dorato. Alleanze e regni concesse dietro pagamento: al solo Tolomeo estorse quasi seimila talenti a nome suo e di Pompeo. In seguito, poi, sostenne gli oneri delle guerre civili e le spese dei trionfi e degli spettacoli con innegabili rapine e sacrilegi.

 

55. Nell’eloquenza e nell’attività militare uguagliò o superò la gloria degli uomini più grandi. Dopo la sua requisitoria contro Dolabella fu indiscutibilmente annoverato tra i prìncipi del Foro. Fatto sta che Cicerone, nel Brutus, elencando gli oratori, dice che non vede a chi Cesare debba considerarsi inferiore, e afferma che egli aveva un’eloquenza elegante, anzi, splendida e magnifica e in certo modo nobile. E a Cornelio Nepote, scrivendo di Cesare 65, dice: «Ebbene? quale oratore gli anteporrai, tra quelli che a nient’altro in vita loro si dedicarono? Chi più acuto o più denso nei concetti? Chi più elegante o più raffinato nell’uso delle parole?». Solo quando era ancóra giovanissimo pare che abbia seguito l’eloquenza di Cesare Strabone 66 : anzi, dal discorso di Strabone In difesa dei Sardi riportò parola per parola alcuni brani nella sua Divinazione. Si dice che parlasse con voce ben scandita, con movimento e gestire appassionato, non disgiunto da eleganza. Ha lasciato alcuni discorsi, ma tra essi se ne sono inseriti di apòcrifi. Il discorso In difesa di Quinto Metello non a torto Augusto ritiene che sia stato captato da stenògrafi che non riuscivano a seguire bene le parole dell’oratore, piuttosto che pubblicato da lui stesso: in effetti, in alcuni esemplari trovo che non c’è nemmeno scritto In difesa di Metello, ma che egli scrisse per Metello, sebbene il testo sia in persona di Cesare, che difende Metello e se stesso dalle accuse dei loro detrattori comuni. Anche i Discorsi ai soldati in Spagna Augusto stenta a crederli suoi; eppure se ne tramandano due: uno, come tenuto in occasione della prima battaglia, l’altro in occasione della successiva, quella in cui Asinio Pollione dice invece che Cesare non ebbe nemmeno il tempo di arringare i soldati per la subitaneità dell’attacco nemico.

 

56. Ha lasciato anche i memoriali delle sue vicende della guerra gallica e della guerra civile contro Pompeo. Di quelli della guerra d’Alessandria, della guerra d’Africa e della guerra di Spagna non si conosce l’autore: alcuni pensano ad Oppio, altri ad Irzio, perché è quello che ha completato la parte finale dell’opera, lasciata incompiuta, della guerra gallica. Sui memoriali di Cesare, Cicerone nello stesso Brutus 67 così si esprime: «Ha scritto dei memoriali, veramente molto pregevoli: sono nudi, scarni e belli, spogli di ogni ornamento retorico, come di ogni veste; ma, mentre voleva che altri avessero a disposizione il materiale, perché vi attingesse chi volesse comporre una storia, ha fatto forse cosa gradita agli sciocchi, che vorranno agghindarli con il loro arricciacapelli, ma in realtà ha scoraggiato dallo scrivere ogni persona sana di mente». Sugli stessi memoriali Irzio così dichiara 68: «Sono tanto apprezzati, per giudizio generale, che si ha l’impressione che sia stata tolta e non già offerta la possibilità di scrivere sullo stesso argomento. E tuttavia, di quest’opera la nostra ammirazione è più grande che quella degli altri: gli altri sanno quanto li abbia scritti bene ed elegantemente, noi sappiamo anche con quanta disinvoltura e rapidità li abbia scritti». Asinio Pollione li ritiene composti con scarsa diligenza e scarsa veridicità, giacché Cesare anzitutto avrebbe troppo supinamente creduto alle relazioni altrui, su ciò che aveva compiuto servendosi di altri, e poi avrebbe esposto infedelmente, o di proposito o per difetto di memoria, ciò che aveva compiuto da sé: è convinto che li avrebbe riscritti e corretti. Ha lasciato anche due libri Sull’analogia, e, in altrettanti libri, gli Anticatoni’, e anche un poemetto intitolato II viaggio 69. Di queste opere, la prima egli compose durante il passaggio delle Alpi, mentre dalla Gallia Cisalpina, concluse le sessioni giudiziarie, ritornava presso l’esercito; la seconda nel periodo della battaglia di Munda; l’ultima mentre da Roma in ventitré giorni si portò nella Spagna Ulteriore. Restano anche alcuni suoi messaggi al Senato; e pare che proprio lui per la prima volta sia passato alle vere e proprie pagine e alla forma di fascicolo, mentre prima i consoli e i generali li inviavano scritti su tutta la larghezza del foglio. Restano anche alcune lettere a Cicerone, altre agli amici su questioni private; in queste, se doveva trasmettere qualche cosa riservatamente, la scriveva in cifra, cioè modificando l’ordine delle lettere in modo tale non ne potesse venir fuori nessuna parola di senso compiuto: se uno vuole esaminarle e decifrarle, metta la quarta lettera dell’alfabeto, cioè la D, al posto della A, e così le altre lettere. Si ricordano anche † alcuni scritti della sua adolescenza, come le Lodi di Ercole, una tragedia, Edipo, e infine una Raccolta di detti famosi. Ma tutte queste operette Augusto vietò che fossero pubblicate: lo disse in una lettera assai breve ma senza ambagi diretta a Pompeo Macro, a cui aveva affidato l’incarico di riordinare le biblioteche.

 

57. Abilissimo nell’usare le armi e nel cavalcare, sopportava incredibilmente la fatica. Durante le marce, talvolta a cavallo, più spesso a piedi, precedeva tutti, e a capo scoperto, sia che ci fosse il sole sia che piovesse. Compì lunghissimi viaggi con incredibile rapidità, senza bagagli, in carrozza da nolo, arrivando a percorrere cento miglia al giorno. Se c’erano fiumi che ostacolavano la sua marcia, li attraversava a nuoto o poggiandosi su otri gonfiati, tanto che assai spesso giunse prima dei messaggeri che dovevano annunciarne l’arrivo.

 

58. Nell’affrontare le spedizioni, non si saprebbe dire se fosse più prudente o più audace: non condusse mai l’esercito per strade insidiose, se non dopo avere ben esplorato la situazione dei terreni. Non portò l’esercito in Britannia, se non dopo essersi personalmente reso conto dei porti, della navigazione, degli accessi all’isola. Viceversa, quando gli fu riferito che un suo accampamento in Germania era assediato dal nemico, raggiunse i suoi, travestito da Gallo, attraverso le postazioni nemiche. In pieno inverno, da Brindisi a Durazzo passò tra le opposte flotte; e poiché tardavano a giungere le sue truppe a cui aveva ordinato di raggiungerlo, dopo aver mandato ripetutamente a chiamarle, alla fine lui stesso, da solo, di nascosto e in piena notte, salì su una piccola imbarcazione con il capo coperto, e non rivelò chi era e non lasciò che il timoniere si arrendesse alla tempesta, prima di essere quasi compietamente coperto dai flutti.

 

59. Nemmeno da scrupoli religiosi si lasciò mai fermare o rallentare in alcuna impresa. Per esempio, sebbene, mentre celebrava un sacrificio, la vittima gli fosse scappata via, non rimandò la sua partenza contro Scipione e Giuba. Un’altra volta, scivolato a terra mentre sbarcava dalla nave, vólto in senso favorevole l’auspicio, disse: «Ti tengo, Africa». Comunque, per scaramanzia – dato che il nome degli Scipioni era vaticinato fatalmente invitto in quella provincia – tenne con sé nell’accampamento uno della gens Cornelia, del tutto degenere, a cui era stato appioppato, a vituperio della sua vita, il soprannome di Salvitone 70.

 

60. Dava battaglia non tanto in un momento predeterminato, quanto cogliendo l’occasione, e spesso a un tratto durante la marcia, talvolta con un tempo da cani, quando nessuno poteva immaginare che egli si sarebbe mosso. Solo negli ultimi tempi si fece più cauto ad affrontare la lotta: pensava che, quanto più spesso aveva vinto, tanto meno bisognava tentare la sorte, e che non tanto si sarebbe avvantaggiato da una vittoria, quanto potesse nuocergli una sconfitta. Nessun nemico mai sbaragliò, senza anche spogliarlo dell’accampamento: in questo modo non gli dava spazio a riprendersi dalla paura. Quando la battaglia era incerta, faceva allontanare i cavalli, a cominciare dal suo, perché più decisa si imponesse la necessità di resistere, una volta rimosso lo scampo della fuga.

 

61. Montava un cavallo fuori del comune, dai piedi quasi umani e con gli zoccoli féssi come dita: era nato in casa sua, e poiché gli aruspici avevano predetto al suo proprietario il dominio del mondo, Cesare lo allevò con grande cura, e fu il primo a montarlo; del resto la bestia non accettava altro cavaliere. Più tardi gli fece anche erigere una statua, davanti al tempio di Venere genitrice.

 

62. Più volte ritemprò da solo lo schieramento che già ripiegava: bloccava quelli che fuggivano, li tratteneva uno per uno, li pigliava per la gola e li rivoltava verso il nemico, e ciò sebbene fossero tanto atterriti che una volta un aquilìfero, da lui fermato, lo minacciò con la punta dell’asta, e un altro, da lui trattenuto, gli lasciò in mano l’insegna.

 

63. Tanto grande fu quella sua famosa fermezza, e maggiori potrebbero esserne gli indizi. Dopo la battaglia di Farsàlo, mandate avanti in Asia le truppe, stava attraversando lo stretto dell’Ellesponto su una piccola nave da trasporto, quando gli capitò incontro Lucio Cassio, del partito avverso, con dieci navi rostrate; ebbene, Cesare non solo non fuggì, ma anzi, facendoglisi più vicino, lo esortò alla resa e lo accolse supplice presso di sé.

 

64. Ad Alessandria, durante l’attacco ad un ponte, ci fu un improvviso contrattacco dei nemici, ed egli dovette gettarsi in una barca; ma poiché vi si precipitavano anche parecchi altri, gettatosi in mare, si salvò a nuoto per duecento passi fino alla nave più vicina, tenendo sollevata la mano sinistra per non bagnare i documenti che portava, e trascinando con i denti il mantello di generale, perché non ne facessero bottino i nemici.

 

65. Giudicava i soldati non dalla condotta morale né dalla fortuna, ma solo dal valore, e li trattava con pari severità ed indulgenza.

Non li teneva rigidamente sempre e dappertutto, ma solo in vicinanza del nemico; allora esigeva la disciplina più severa, tanto che non preannunciava il momento di una marcia o di una battaglia, ma li conduceva fuori improvvisamente, sempre pronti e all’erta, in qualsiasi momento e in qualsiasi direzione. Lo faceva anche, talvolta, senza necessità, in particolare quando pioveva o nei giorni festivi. Raccomandando sempre di non perderlo di vista, improvvisamente, di giorno o di notte, spariva; e affrettava la marcia per stancare quelli che lo seguissero troppo lentamente.

 

66. Se erano spaventati dalla fama di cui godevano le truppe nemiche, li rincuorava non già smentendola o minimizzandola, ma anzi accrescendola e raccontando frottole. Per esempio, poiché l’attesa del re Giuba incuteva grande terrore, convocata l’adunata dei soldati, disse: «Sappiate che nel breve giro di pochissimi giorni sarà qui il re con dieci legioni, trentamila cavalieri, centomila soldati leggeri e trecento elefanti. Perciò, la smettano alcuni di indagare ancóra o di almanaccare, e credano a me che ho notizie sicure; altrimenti, li farò portar via, imbarcati sulla più vetusta delle mie navi, con qualunque vento e in qualunque direzione».

 

67. Non badava fiscalmente a tutte le colpe, né le puniva in proporzione alla loro entità, anzi, mentre era attentissimo inquisitore e punitore dei disertori e dei sediziosi, chiudeva un occhio su tutto il resto. Qualche volta, dopo una grande battaglia vittoriosa, esentava da ogni compito di servizio e lasciava ogni libertà di spassarsela allegramente: usava vantarsi che i suoi soldati erano in grado di combattere bene anche profumati. Arringandoli, non li chiamava soldati, ma col più accattivante nome di compagni d’armi. E li teneva così bene equipaggiati, che arrivava a dotarli di armi guarnite d’argento e d’oro, non solo per far bella figura, ma anche perché in battaglia fossero più tenaci per timore di perderle. E li amava pure a tal punto che, quando seppe della catastrofe di Titurio, si fece crescere barba e capelli, e non se li tagliò prima di averlo vendicato.

 

68. Con questi sistemi li rese fedelissimi a sé e valorosissimi. Iniziata la guerra civile, i centurioni di ogni legione gli assicurarono, a proprie spese, un cavaliere ciascuno, e tutti quanti i soldati la propria opera gratuitamente, senza soldo e senza le razioni di viveri: i più ricchi avevano preso su di sé il mantenimento dei più poveri. E in così lungo corso della guerra assolutamente nessuno defezionò, anzi, parecchi, fatti prigionieri, se veniva loro concessa la vita a condizione che fossero disposti a combattere contro di lui, rifiutarono. La fame e le altre privazioni, non solo quando erano assediati, ma anche mentre essi stessi assediavano altri, sopportavano con tanta forza d’animo, che Pompeo quando vide, nelle trincee di Durazzo, un tipo di pane fatto d’erba, con cui i cesariani si sostentavano, disse che aveva a che fare con delle belve, e lo fece subito sparire senza farlo vedere a nessuno, perché l’animo dei suoi soldati non fosse piegato da così grande capacità di sopportazione del nemico.

Con quanto impegno combattessero lo dimostra il fatto che, sconfitti una sola volta in uno scontro presso Durazzo, chiesero spontaneamente di essere puniti, tanto che Cesare dovette confortarli anziché punirli. Nelle altre battaglie, sebbene di molte volte più scarsi, batterono senza difficoltà innumerevoli truppe degli avversari. Infine, una sola coorte della sesta legione, preposta ad una fortezza, all’attacco di quattro legioni di Pompeo resistette per alcune ore, finché quasi tutta fu trafitta dalla pioggia delle frecce nemiche: centotrentamila se ne trovarono entro il vallo. E non c’è da meravigliarsene, quando si considerino le prodezze di singoli uomini, per esempio, per non dirne di più, del centurione Cassio Sceva e del soldato Gaio Acilio. Sceva, anche dopo che gli era stato cavato un occhio ed era stato trafitto ad una coscia e alla spalla, con lo scudo bucato da centoventi colpi, non abbandonò la difesa della porta del fortino affidatogli. Acilio, nella battaglia navale di Marsiglia, afferrò con la destra la poppa di una nave nemica; la mano gli fu tagliata; egli allora, emulando il famoso esempio del greco Cinegìro 71, saltò sulla nave, respingendo con l’umbone dello scudo quelli che gli si paravano davanti.

 

69. I soldati non gli si ribellarono mai durante i dieci anni delle guerre galliche, solo qualche volta durante la guerra civile, ma ritornarono ben presto entro i ranghi, non tanto per cedimento da parte di Cesare, quanto per la sua autorevole inflessibilità. Egli infatti non cedette mai davanti ai loro ammutinamenti, anzi, sempre li affrontò. Per esempio, l’intera nona legione, presso Piacenza, sebbene Pompeo fosse ancóra in armi, fu da lui congedata ignominiosamente; ed egli non la ricostituì se non dopo molte supplichevoli preghiere, e non senza aver punito i colpevoli.

 

70. Una volta, quelli della decima legione con grandi minacce e gravissimo pericolo anche per Roma stessa, chiesero insistentemente congedo e premi; in quel momento divampava la guerra in Africa. Ebbene, Cesare non esitò ad affrontarli – sebbene gli amici cercassero di dissuaderlo – e a congedarli. Con una sola parola – li chiamò Quinti anziché soldati – facilmente ne rovesciò i sentimenti e li domò: quelli infatti gli risposero sùbito che erano soldati, e, sebbene riluttante, lo seguirono spontaneamente in Africa. Ma anche così non mancò di punire i più rivoltosi, privandoli di un terzo sia del loro bottino sia del terreno ad essi destinato.

 

71. Nemmeno da giovane gli mancarono sollecitudine e lealtà nei confronti dei clienti. Contro il re Iempsale 72 difese col massimo impegno Masinta, un nobile giovane, tanto che, nel bel mezzo del la disputa, afferrò per la barba Giuba, figlio di quel re; e quando Masinta fu dichiarato tributario di Iempsale, Cesare lo strappò con la forza a quelli che lo stavano portando via, e lo nascose a lungo in casa sua; poi, dopo la pretura, partendo per la Spagna, lo portò via con sé nella sua lettiga, tra gli omaggi di quelli che lo accompagnavano e i fasci dei littori.

 

72. Trattò sempre gli amici con bontà e indulgenza. Una volta Gaio Oppio lo accompagnava per una strada attraverso un bosco e fu preso da un male improvviso; Cesare allora gli cedette l’unica stanzetta d’albergo che trovò, mentre lui stesso si mise a dormire per terra e a cielo scoperto. Quando già era signore del mondo, alle più alte cariche fece salire alcuni anche di umilissima famiglia, e poiché veniva per questo criticato, dichiarò senza mezzi termini che, se per difendere la sua dignità fosse ricorso a banditi da strada e assassini, anche a costoro avrebbe espresso altrettanta riconoscenza.

 

73. Viceversa, nessun malanimo conservò mai tanto tenace, da non metterlo da parte volentieri appena se ne presentasse l’occasione. Di Gaio Memmio, ai cui durissimi discorsi egli aveva risposto per iscritto con non minore asprezza, più tardi fu sostenitore, quando quello fu candidato al consolato. A Gaio Calvo che, dopo aver scritto contro di lui epigrammi oltraggiosi, con la mediazione di amici si adoperava per una riconciliazione, scrisse di sua iniziativa e per primo. E Valerio Catullo? Cesare sapeva bene che da lui gli era stato impresso un eterno marchio d’infamia con alcuni versetti relativi a Mamurra 73; ebbene, quando gli chiese scusa, lo accolse a cena il giorno stesso, e continuò a frequentare la casa di suo padre come aveva sempre fatto.

 

74. Mitissimo per natura, anche nel vendicarsi contro i pirati dai quali era stato catturato, una volta ridottili in suo potere, poiché in precedenza aveva giurato che li avrebbe crocifissi, prima li fece sgozzare, e solo dopo li fece crocifiggere 74. A Cornelio Fagita, alle cui notturne insidie, a suo tempo, egli, malato e braccato, era sfuggito – per non essere consegnato a Siila – pagandogli una grossa somma, non volle mai fare del male. Lo schiavo Filèmone, suo segretario, che aveva promesso ai suoi avversari di avvelenarlo, fu da lui punito con la sola morte, e niente più. Nei confronti di Publio Clodio, amante di sua moglie Pompea e, per lo stesso motivo, imputato di aver contaminato una cerimonia sacra, Cesare, citato come testimonio, dichiarò di non sapere nulla con certezza; e ciò, sebbene sua madre Aurelia e sua sorella Giulia dinanzi ai medesimi giudici avessero esposto coscienziosamente ogni cosa. E quando gli fu chiesto perché allora avesse ripudiato la moglie, rispose: «Perché ritengo che i miei familiari debbano essere esenti da ogni sospetto non meno che da ogni colpa».

 

75. Sorprendente moderazione e clemenza egli mostrò sia nella condotta della guerra civile, sia nella successiva vittoria. Mentre Pompeo proclamò che avrebbe tenuto in conto di nemico chiunque fosse venuto meno al dovere di difendere lo Stato, Cesare dichiarò che avrebbe considerato partigiani suoi i dubbiosi e i neutrali. A tutti quelli a cui aveva dato gradi nel suo esercito dietro raccomandazione di Pompeo, lasciò la libertà di passare a lui. Presso Ilerda si erano già avviate trattative di resa, quand’ecco, mentre tra le due parti c’erano continui contatti ed incontri, Afranio e Petreio 75, per improvviso ripensamento, fecero uccidere i Cesariani che erano stati sorpresi nel loro accampamento. Ma Cesare dal canto suo non volle imitare il tradimento commesso contro di lui. Nella battaglia di Farsàlo anzitutto con un proclama raccomandò di risparmiare i cittadini romani, e poi concesse ad ognuno dei suoi di salvaguardare uno del partito avverso, chiunque egli volesse. E si constaterà che non perì nessuno se non in battaglia, eccettuati soltanto Afranio, nonché Fausto e Lucio Cesare il giovane. Ma pare che nemmeno questi siano stati uccisi per volontà di Cesare. Di essi, comunque, i primi due, dopo ottenuto il perdono, avevano ripreso le armi contro di lui, e Lucio Cesare, dopo aver sadicamente ucciso col ferro e col fuoco alcuni liberti e alcuni schiavi di Cesare, aveva trucidato in massa anche le bestie da lui acquistate per uno spettacolo da dare al popolo. Infine, negli ultimi tempi, anche a tutti quelli a cui non aveva ancora perdonato permise di ritornare in Italia e di assumere cariche civili e militari. Arrivò a far rimettere al loro posto le statue di Lucio Siila e di Pompeo abbattute dalla plebe. Poi, se si pensava o si diceva qualcosa di troppo grave contro di lui, preferì frenare piuttosto che punire. Perciò, quando scoprì qualche congiura o complotto notturno contro di sé, si limitò a far sapere con un comunicato che ne era al corrente. A quelli che parlavano duramente contro di lui, si limitò a intimare, in pubblica assemblea, che non insistessero. Sopportò civilmente che la sua reputazione fosse stata fatta a brani da un velenosissimo libro di Aulo Cècina e dai versi diffamatori di Pitolao.

 

76. Nonostante tutto ciò, le altre sue azioni e parole hanno peso determinante perché si ritenga che egli abbia abusato del suo strapotere e che giustamente sia stato ucciso. In effetti, non solo assunse un’eccessiva massa di onori – il consolato continuo, la dittatura perpetua e la sovrintendenza ai costumi; in più il prenome di Imperàtor, il titolo di Padre della Patria, la sua statua tra quelle dei re, un palco nell’orchestra –, ma lasciò che gli fossero decretati privilegi più grandi dell’altezza umana: un seggio d’oro nella Curia e dinanzi al tribunale, un carro sacro e un vassoio nella processione del circo, templi, altari, statue accanto a quelle degli dèi, un sacro letto rituale, un flàmine, dei Luperci, il nome di un mese tratto dal suo nome 76; e non ci fu carica che egli non assumesse o assegnasse a suo piacimento. Il terzo e il quarto consolato egli tenne solo come titolo, accontentandosi del potere della dittatura, decretatagli insieme con i consolati, e in entrambi gli anni, per gli ultimi tre mesi, nominò al posto suo altri due consoli, cosicché nell’intervallo non indisse nessuna elezione, tranne quella dei tribuni e degli edili della plebe; e istituì i prefetti, in luogo dei pretori, per amministrare la città in sua assenza. Alla vigilia delle Calende di gennaio, rimasta scoperta una carica di console per l’improvvisa morte di uno di essi, la diede, sia pure per poche ore, a uno che gliela chiese 77. Con la stessa disinvolta libertà e in spregio della tradizione patria, preordinò i magistrati per diversi anni; a dieci uomini di rango pretòrio assegnò attributi consolari; accolse a far parte del Senato alcuni a cui aveva donato la cittadinanza romana, e persino, tra i semibarbari, alcuni Galli. Inoltre, alla zecca e alle entrate pubbliche prepose schiavi a sé fedelissimi; di tre legioni, che lasciava ad Alessandria, assegnò la cura e il comando a Rufione, figlio di un suo liberto e suo favorito.

 

77. Stando a quanto scrive Tito Ampio, egli pronunciava apertamente parole di non minore prepotenza: la repubblica non era nulla, soltanto un nome senza corpo e senza forma; Siila, per aver rinunciato alla dittatura, era un vero analfabeta; la gente ormai doveva parlare con lui con maggiore prudenza e considerare le sue parole come legge. E giunse a tale arroganza che, quando un aruspice gli annunciò che le vittime erano infauste e prive del cuore, egli disse che, quando egli lo volesse, sarebbero state fauste, e che non si doveva prendere per segno celeste il fatto che a un animale mancasse il cuore.

 

78. Ma il massimo odio, un odio mortale, se lo attirò soprattutto con questo fatto: quando vennero da lui tutti insieme i senatori con una lunga serie di decreti che gli conferivano altissimi onori, li ricevette, dinanzi al tempio di Venere Genitrice, stando seduto. C’è chi ritiene che fu trattenuto da Cornelio Balbo, mentre lui stava alzandosi; altri dicono che non fece nemmeno il gesto di alzarsi, anzi, guardò con volto poco amichevole Gaio Trebazio che lo esortava ad alzarsi. E questo suo comportamento apparve tanto più intollerabile perché in precedenza, mentre egli passava sul carro trionfale davanti ai seggi dei tribuni della plebe, il solo Ponzio Aquila, di tutto quel collegio, non si era alzato in piedi, e lui se n’era tanto indignato, che aveva gridato: «Richiedimi dunque la repubblica, tribuno Aquila!»; e per parecchi giorni non smise di promettere ad alcuno alcuna cosa senza questa riserva: «Sempre che Ponzio Aquila sia d’accordo».

 

79. Ad un così patente oltraggio di disprezzo per il Senato, aggiunse un fatto più arrogante ancóra. In occasione del rituale sacrificio durante le Ferie Latine, egli ritornava in mezzo a smodate e inaudite acclamazioni del popolo, quando uno della folla pose una corona d’alloro, cinta di candide bende, su una statua di lui; allora i tribuni della plebe Epidio Marnilo e Cesezio Flavo ordinarono di togliere la benda della corona e di gettare in carcere Tuomo, ma Cesare, irritato o che fosse riuscita poco felicemente l’allusione ad una sua regalità, o, come andava dicendo lui, che gli fosse stata tolta la gloria di rifiutarla, rimproverò duramente i tribuni e li privò della loro carica. Dopo questo episodio, non riuscì a sbarazzarsi della cattiva fama di aspirare al titolo di re, anche se una volta, alla plebe che lo salutava come re, egli rispose che era Cesare e non un re, e anche se in occasione dei Lupercali, davanti ai Rostri egli respinse il diadèma ripetutamente avvicinato al suo capo dal console Antonio, e lo fece portare sul Campidoglio a Giove Ottimo Massimo. Addirittura, si diffuse insistentemente la voce che egli intendesse trasferirsi ad Alessandria o a Troia, portandovi insieme le ricchezze dell’impero, dopo avere sfibrato l’Italia con gli arruolamenti, affidando l’amministrazione di Roma ai suoi amici; e che, nella prossima seduta del Senato, il quindecemviro Lucio Cotta avrebbe avanzato la proposta che a Cesare venisse conferito il titolo di re, dato che nei sacri libri profetici era scritto che i Parti non potevano essere vinti se non da un re.

 

80. E questo fu per i congiurati un motivo per affrettare l’operazione programmata, per non essere costretti ad approvare la proposta. Quei progetti che prima si erano fatti qua e là e che spesso avevano formulato a gruppetti di due o tre persone, ora li fusero tutti insieme, poiché del resto neppure il popolo ormai era soddisfatto di quello stato di cose, anzi, apertamente o di nascosto recalcitrava alla tirannide e reclamava un liberatore. Quando furono fatti entrare a far parte del Senato alcuni provinciali, fu esposta questa scritta: «Ma bene! Che nessuno indichi la strada della Curia ad un nuovo senatore!». E dappertutto si cantavano questi versi:

Prima in trionfo porta i Galli Cesare, poi nella Curia. I Galli hanno deposto le brache ed hanno assunto il laticlavio.

 

Quando Quinto Massimo, nominato console supplente per tre mesi, entrò nella Curia, e il littore, secondo il cerimoniale, ne fece annunciare l’ingresso, tutti insieme gli spettatori gridarono che quello non era console. Dopo che furono deposti i tribuni Cesezio e Marnilo, nelle successive elezioni si trovarono parecchi voti che li designavano consoli. Sotto la statua di Lucio Bruto alcuni scrissero: «Magari ci fossi ancóra tu!». E sotto quella di Cesare stesso:

 

Bruto, poiché depose i re, per primo fu fatto console;

questo, che i consoli ha deposto, in ultimo fu fatto re.

 

Cospirarono contro di lui più di sessanta persone, ma i capi della congiura furono Gaio Cassio, Marco Bruto e Decimo Bruto. Dapprima furono in dubbio se nel Campo Marzio, durante le elezioni, mentre chiamava le tribù per il voto, divisesi le parti, dovessero gettarlo giù dal ponte e, caduto giù, altri trucidarlo, oppure dovessero assalirlo nella Via Sacra, o all’ingresso del teatro. Ma quando fu convocato il Senato per le Idi di marzo nella Curia di Pompeo, preferirono senz’altro quel momento e quel luogo.

 

81. A Cesare la prossima uccisione fu preannunciata da manifesti prodigi. Pochi mesi prima, nella colonia di Capua, alcuni coloni, trasferitivi in forza della legge Giulia, stavano abbattendo degli antichissimi sepolcri per costruire case di campagna, e lo facevano con tanto maggiore interesse in quanto, esplorando la zona, reperivano un certo numero di vasi di antica fattura; ebbene, si trovò anche una tavola di bronzo – nel sepolcro in cui si diceva che fosse sepolto Capi, il fondatore di Capua – la quale recava in lettere e in lingua greca una scritta che più o meno diceva questo: che, quando fossero dissepolte le ossa di Capi, un discendente di Giulo sarebbe stato ucciso per mano dei suoi compatrioti, e che poi sarebbe stato vendicato con gravi disastri per l’Italia. Di ciò, perché non si creda che sia leggendario o inventato, la fonte è Cornelio Balbo 78, intimo di Cesare. Nell’imminenza dell’evento, i branchi di cavalli che, nell’attraversare il Rubicone, egli aveva consacrato al fiume e aveva poi lasciato andare liberi qua e là senza custodi, Cesare seppe che rinunciavano ostinatamente al cibo e che piangevano abbondanti lacrime. Mentre Cesare compiva un sacrificio, l’aruspice Spurinna lo avvertì di guardarsi da un pericolo che si prospettava non oltre le Idi di marzo; alla vigilia di queste stesse Idi uno scrìcciolo, con un ramoscello di alloro nel becco, si infilò nella Curia di Pompeo, e allora altri uccelli di varia specie, raggiùntolo dal bosco vicino, lo sbranarono sul posto. In quella notte, poi, a cui seguì il giorno dell’uccisione, a lui stesso, nel sonno, sembrò ora di volteggiare al di sopra delle nubi, ora di stringere la mano a Giove; infine la moglie Calpurnia sognò che crollasse il tetto della casa e che il marito fosse trafitto fra le sue braccia. Per questi motivi, ma anche perché malandato di salute, egli esitò a lungo, propendendo per starsene a casa e rimandare ad altra data le questioni che doveva trattare in Senato; ma finalmente, poiché Decimo Bruto lo esortò a non lasciare là i senatori che in gran numero già lo aspettavano, a mezza mattina uscì. Un passante gli porse uno scritto in cui si denunciava l’attentato; ma egli lo mise insieme alle altre carte che teneva nella sinistra, con l’intenzione di leggerlo più tardi. Poi, sacrificate diverse vittime, sebbene non riuscisse ad ottenere presagi favorevoli, entrò ugualmente nella Curia, infischiandosi dei segni celesti, per di più deridendo Spurinna e tacciandolo di bugiardo perché le Idi di marzo erano arrivate senza suo danno; ma quello disse che erano venute sì, ma non erano ancora passate.

 

82. Quando egli fu seduto, i congiurati lo attorniarono come per rendergli omaggio. E sùbito Tillio Cimbro, che si era assunto il compito di dare il via all’azione, gli si avvicinò come per chiedergli qualcosa, e, quando l’altro fece un cenno di rifiuto rimandando ad altro momento, gli afferrò da entrambe le spalle la toga; poi, mentre Cesare gridava «Ma questa è violenza!», uno dei due Casca lo ferì da dietro un poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo trafisse con lo stilo; ma poi, mentre tentava di dare un balzo, fu bloccato da un’altra ferita. Quando si rese conto di essere da ogni parte preso di mira dalle armi impugnate, si avvolse la toga intorno al capo, mentre con la sinistra ne fece scendere le pieghe sino in fondo ai piedi, per cadere più compostamente con la parte inferiore del corpo anch’essa coperta. E così fu trafitto da ventitré ferite, emettendo un solo gemito al primo colpo, senza una parola. Alcuni però hanno raccontato che, a Bruto che gli si avventava contro, egli disse: «Καὶ σὺ, τέκνον;» 79. Ormai spirato, mentre tutti fuggivano qua e là, egli rimase lì a giacere per qualche tempo, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che ne pendeva giù, tre giovani schiavi lo riportarono a casa. E fra tante ferite, a parere del medico Antistio, nessuna fu riscontrata veramente letale, tranne la seconda che aveva ricevuto nel petto. I congiurati avevano prima intenzione di trascinare fino al Tevere il cadavere dell’ucciso, di confiscarne i beni e di dichiararne nulli gli atti; ma, per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido, vi rinunciarono.

 

83. Dietro richiesta del suocero Lucio Pisone, venne aperto il suo testamento, di cui fu data lettura nella casa di Antonio. Cesare lo aveva scritto alle ultime Idi di settembre, nella sua proprietà di Lavico, e lo aveva affidato alla Suprema Vergine Vestale. Quinto Tuberone 80 riferisce che, a partire dal suo primo consolato sino all’inizio della guerra civile, Cesare usava designare come erede Gneo Pompeo, e così era stato letto anche ai soldati durante un’adunata. Nell’ultimo testamento, invece, istituiva eredi tre nipoti per parte di sorelle, Gaio Ottavio 81 per i tre quarti, Lucio Pinario e Quinto Pedio per il restante quarto. Quanto a Gaio Ottavio, in fondo al documento lo aveva adottato a far parte della sua famiglia e ad assumere il suo nome; la maggioranza dei suoi assassini erano stati da lui nominati fra i tutori di un suo eventuale figlio nascituro. Decimo Bruto era addirittura tra gli eredi in secondo grado. Al popolo lasciò i suoi giardini lungo il Tevere e trecento sesterzi a persona.

 

84. Fissato il funerale, fu costruito un rogo nel Campo Marzio accanto al sepolcro di Giulia. Dinanzi ai Rostri fu collocata una cappella dorata, sul modello del tempio di Venere Genitrice. All’interno di questa un letto d’avorio, coperto d’oro e di porpora, e alla testiera di esso un trofeo con la veste in cui era stato ucciso. A quelli che intendevano portare le loro offerte, poiché sembrava che la giornata non sarebbe bastata, fu prescritto che, mettendo da parte ogni precedenza, ciascuno le portasse nel Campo Marzio per qualunque strada volesse. Durante i giochi funebri, furono cantati alcuni testi che servissero a suscitare commiserazione, ma anche odio per il suo assassinio; per esempio, dal Giudizio delle Armi di Pacuvio 82, i versi:

 

... Li risparmiai perché ci fosse chi mi assassinasse?

 

e dall’Elettra di Atilio 83 altri versi di analogo significato. Come elogio funebre, il console Antonio fece leggere da un banditore un decreto del Senato, con il quale gli erano stati insieme decretati tutti gli onori umani e divini, quindi il giuramento con il quale tutti quanti si erano impegnati a garantire la salvezza di lui solo! A tutto ciò egli aggiunse pochissime parole da parte sua. Il cataletto fu portato nel Foro dinanzi ai Rostri dalle autorità attuali e da quelli che avevano ricoperto cariche in passato. Alcuni volevano cremarlo nel santuario di Giove Capitolino, altri pensavano nella Curia di Pompeo; ma improvvisamente due uomini con la spada al fianco e ognuno con due giavellotti, appiccarono il fuoco con candele accese; allora immediatamente la folla circostante accumulò sul rogo legna secca, sgabelli, seggi e quanto altro c’era lì come offerta. Poi i flautisti e gli artisti di teatro, strappatisi di dosso e fatti a pezzi gli abiti che, già usati in occasione dei trionfi, avevano indossato per la circostanza, li gettarono sulle fiamme; i veterani delle legioni di Cesare vi gettarono le loro armi, di cui si erano adornati per la solennità del funerale; le signore vi gettarono parecchi dei loro ornamenti, che indossavano allora, e le bulle e le preteste dei loro figli. Tra questo immenso lutto generale, le masse dei popoli stranieri, ciascuna secondo le sue tradizioni, fecero il compianto tutto intorno al rogo, soprattutto i Giudei, che addirittura per notti e notti stettero numerosi intorno al rogo 84.

 

85. Subito dopo il funerale la plebe corse, armata di fiaccole, alla casa di Bruto e di Cassio, e a stento fu respinta. Poi si imbattè in Elvio Cinna, ed equivocando sul nome, credendo che fosse quel Cornelio Cinna che il giorno prima aveva tenuto un duro discorso contro Cesare e che perciò essa andava cercando, lo uccise, ne conficcò la testa su una lancia, e la portò in giro. Più tardi eresse nel foro una colonna massiccia di marmo numìdico, di quasi venti piedi, con la scritta Al padre della Patria. Dinanzi ad essa per lungo tempo si continuò a celebrare sacrifici, a fare voti, a dirimere certe controversie, giurando sul nome di Cesare.

 

86. In alcuni dei suoi Cesare lasciò il sospetto che non volesse vivere più a lungo, né se ne curasse, perché minato da una malattia: per questo egli avrebbe ignorato i segni celesti e ciò che gli riferivano gli amici. C’è chi crede che, confidando in quel recente decreto del Senato e nel giuramento dei senatori, egli avesse rinunciato alla scorta degli Spagnoli che lo accompagnavano armati di spada †. Altri, viceversa, ritengono ch’egli subire una volta per sempre l’insidia che poteva venirgli da ogni parte piuttosto che stare in guardia. Raccontano che fosse solito che era interesse non tanto suo, quanto dello Stato, che egli fosse incolume; personalmente, già da un pezzo aveva conseguito potenza e gloria in abbondanza; lo Stato, invece, se a lui fosse capitata qualche cosa, non avrebbe trovato pace e avrebbe subito guerre civili in condizioni assai peggiori di prima.

 

87. Su questo, però, sono quasi tutti concordi, che una simile morte gli era capitata quasi in conformità dei suoi desidèri. Infatti una volta, avendo letto che Ciro 85, durante l’ultima sua malattia, aveva dato certe disposizioni per il suo funerale, Cesare, avrebbe detto che non voleva una morte così lenta e che se ne augurava una improvvisa e rapida. Il giorno prima di essere ucciso, durante una conversazione sorta in casa di Marco Lepido 86 sul genere di morte più desiderabile, egli aveva espresso la sua preferenza per una repentina e imprevista.

 

88. Morì a cinquantacinque anni e fu annoverato tra gli dèi, non solo per bocca di quelli che lo decretavano, ma anche nella convinzione della gente. In effetti, durante i giochi che per la prima volta il suo erede Augusto dava in onore di Cesare divinizzato, una stella cometa rifulse per sette giorni di seguito, sorgendo un’ora prima di notte, e si credette che fosse l’anima di Cesare accolto in cielo: è per questo che sulla sommità della sua statua è aggiunta una stella. Si decise di murare la Curia in cui fu ucciso, di chiamare Parricidio le Idi di marzo, e che mai in quel giorno il Senato tenesse seduta.

 

89. Dei suoi uccisori quasi nessuno sopravvisse più di tre anni o morì di morte naturale. Tutti, dopo essere stati condannati, perirono tragicamente chi in un modo chi in un altro, chi per naufragio, chi in battaglia. Alcuni si uccisero da sé con quello stesso pugnale con cui avevano assassinato Cesare.

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
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