Libro quindicesimo

 

1. Nel frattempo Vologese, re dei Parti, apprese le vittorie di Corbulone e che era stato posto sul trono dell’Armenia Tigrane, uno straniero, e che era stato scacciato suo fratello Tiridate, in spregio alla dignità degli Arsacidi. Desideroso di vendicarsi, al tempo stesso considerava la grandezza di Roma e il rispetto dell’antica alleanza. Quindi era turbato da propositi contrastanti, sospinto a temporeggiare dal suo carattere e per di più impegnato in molte guerre, a seguito della defezione del forte popolo degli Ircani. E mentre era irresoluto, venne a stimolarlo la notizia d’una nuova offesa: Tigrane, uscito dall’Armenia, s’era messo a devastare i territori degli Adiabeni, nazione contigua, in un’area più vasta e più a lungo delle incursioni consuete, cosa che i notabili di quelle popolazioni non sopportavano; erano dunque scesi così in basso da dover sopportare i saccheggi non solo da parte d’un comandante romano ma anche dall’arroganza d’un uomo che era stato un ostaggio, tenuto per tanti anni al livello dei servi? Aizzava il loro risentimento Monobazo, che deteneva il governo degli Adiabeni, e seguitava a chiedere quale aiuto avrebbe potuto invocare e a chi; ormai l’Armenia era stata ceduta e l’avrebbero seguita le altre nazioni; e, se i Parti non li difendevano, il dominio romano sarebbe stato più tollerabile per loro arresi che vinti. Tiridate, profugo dal regno, era ancor più insistente con il silenzio o con le sue moderate proteste: i grandi imperi, diceva, non si conservano con l’inerzia; tra uomini e armi è d’uopo misurarsi; quando si è al vertice della fortuna, è più giusto chi è più forte; il privato deve conservare ciò che ha, ma adoprarsi per avere l’altrui è da re.

 

2. Vologese fu stimolato da questi discorsi; convoca l’assemblea, si fa sedere accanto Tiridate e inizia così il suo discorso: «Questo che vedete, generato dallo stesso padre, mi cedette per ragioni d’età l’autorità suprema; dopo di che io l’accompagnai a prender possesso dell’Armenia, che occupava il terzo posto nei nostri domini, poiché in precedenza Pacoro aveva occupato la Media. Mi sembrava d’aver così composto gli odii antichi e le contese tra fratelli e placato i numi tutelari della nostra casata. Ma lo impediscono i Romani e anche questa volta infrangono a loro danno quella pace che non hanno mai alterata con vantaggio. Non voglio negarlo: avrei preferito conservare il retaggio degli avi con la giustizia anziché con il sangue, con il diritto e non con le armi. Se ho sbagliato a esitare, compenserò con il coraggio. La vostra forza, la vostra gloria sono intatte e ad esse si aggiunge la fama di prudenza, che non è disprezzata nemmeno dai più eccelsi dei mortali ed è molto apprezzata dagli dèi». Quindi posa il diadema sul capo di Tiridate e affida a un nobile, di nome Monese, un manipolo scelto di cavalleria che, secondo il costume, farà scorta al re; vi aggiunge ausiliari Adiabeni, e ordina di cacciare Tigrane dall’Armenia, mentre egli, appianate le discordie con gli Ircani, avrebbe mosso le forze nazionali e un’imponente armata, minacciando le province romane.

 

3. Come Corbulone apprese questi fatti da messaggeri sicuri, manda due legioni con Verulano Severo e Vettio Bolano in aiuto di Tigrane, con l’istruzione segreta di condurre le operazioni con cautela più che con precipitazione; preferiva infatti d’essere in guerra piuttosto che combattere e aveva scritto all’imperatore che era necessario un comandante apposito per difendere l’Armenia; la Siria infatti, con l’imminenza d’un attacco di Vologese, era più esposta a pericolo. Nel frattempo pone le legioni rimaste lungo le rive dell’Eufrate, arma un corpo di provinciali raccolti in fretta, e chiude con presìdi gli accessi ai nemici. E poiché la regione ha scarsità d’acqua, colloca guarnigioni a guardia delle sorgenti; e nasconde alcuni ruscelli sotto mucchi di sabbia.

 

4. Mentre Corbulone provvede alla difesa della Siria, Monese si affretta a spingere il suo esercito, per precedere la notizia del suo arrivo; ma non riesce a sorprendere Tigrane né a prenderlo alla sprovvista. Questi aveva occupato Tigranocerta, città imponente per il numero dei difensori e per l’estensione delle mura; inoltre, il fiume Niceforo, di ampiezza notevole, scorre attorno una parte delle mura e per la parte nella quale il fiume non era parso sufficiente era stato scavato un grande fossato. In città vi erano militari e provviste alimentari, accumulate in precedenza; durante il trasporto di esse, alcuni che per impazienza erano andati avanti erano stati accerchiati all’improvviso dai nemici, il che aveva suscitato negli altri più rabbia che paura. Ma i Parti mancano di ardire negli assedi: lanciano radi dardi, il che non fa paura agli assediati e illude loro stessi. E mentre incominciavano ad accostare scale e macchine di guerra, gli Adiabeni furono respinti senza fatica e, per una sortita dei nostri, massacrati.

 

5. Corbulone tuttavia, benché la situazione gli fosse propizia, ritenne che fosse opportuno fare un uso moderato della buona sorte e inviò messi a Vologese per chieder ragione della violenza da lui fatta alla provincia: un re alleato ed amico e coorti romane erano in istato d’assedio. Che tralasciasse l’assedio, altrimenti lui pure avrebbe posto l’accampamento in territorio nemico. Il centurione Casperio, scelto per quella missione, si presentò al re presso la città di Nisibi, che dista trentasette miglia da Tigranocerta, e riferì il messaggio con forza. Da tempo Vologese aveva il pensiero fisso di evitare scontri armati con i Romani e del resto gli avvenimenti al presente non si svolgevano a suo favore: l’assedio era andato a vuoto, Tigrane era al sicuro con soldati e rifornimenti, messi in fuga quelli che avevano tentato l’assalto, legioni inviate in Armenia, altre pronte all’attacco al confine della Siria; dal canto suo, la cavalleria indebolita dalla penuria di foraggio, perché uno sciame di cavallette aveva distrutto tutto quello che c’era di erba e di fronde. Di conseguenza Vologese, tacendo i propri timori, si mostra conciliante; dice che invierà messi all’imperatore di Roma per chiedere l’Armenia e concludere la pace; ordina a Monese di allontanarsi da Tigranocerta e si ritira lui stesso.

 

6. I più vantavano questi fatti come un grande successo, dovuto alle minacce di Corbulone e alla paura del re. Altri invece li interpretavano come il risultato d’un accordo segreto, in base al quale entrambe le parti avrebbero rinunciato alla guerra e, partito Vologese, anche Tigrane si sarebbe ritirato dall’Armenia. Infatti, per quale ragione l’esercito romano si era ritirato da Tigranocerta? perché erano state abbandonate senza contrasti posizioni che erano state difese con le armi? Forse avevano svernato meglio ai limiti estremi della Cappadocia, in capanne costruite in fretta, piuttosto che nella capitale del regno appena riconquistato? Certamente si era differita la guerra, affinché Vologese si scontrasse con un altro anziché con Corbulone, sicché questi non mettesse a rischio le glorie conquistate in tanti anni. In effetti, come ho già riferito, egli aveva chiesto un comandante apposito per la difesa dell’Armenia, e si diceva che fosse imminente l’arrivo di Cesennio Peto. Questi ormai era vicino, con le forze divise in questo modo: alle legioni quarta e dodicesima era stata aggiunta la quinta, recentemente richiamata dalla Mesia, al tempo stesso gli ausiliari dal Ponto, dalla Galazia, dalla Cappadocia, tutti agli ordini di Peto, mentre le legioni terza, sesta e decima sarebbero rimaste con Corbulone, insieme alle truppe che in precedenza si trovavano in Siria; le forze rimanenti, le avrebbero tenute in comune o le avrebbero suddivise, a seconda della situazione. Ma Corbulone non tollerava un rivale e Peto, che avrebbe avuto gloria a sufficienza nel trovarsi al secondo posto, andava svalutando le gesta di quello, negando massacri e prede, e affermando che le città erano state espugnate solo a parole: lui sì avrebbe saputo imporre ai vinti tributi e codice e il diritto di Roma, in luogo d’un re fantasma.

 

7. Intanto i legati che, come ho detto, Vologese aveva inviato dall’imperatore, tornarono senza alcun risultato; e i Parti dettero inizio apertamente alle ostilità. Peto non vi si sottrasse; entrò in Armenia, ad onta di presagi funesti, con due legioni, la quarta, che in quel momento era agli ordini di Funisulano Vettoniano, e la dodicesima, al comando di Calavio Sabino. In effetti, durante la traversata dell’Eufrate, che avveniva su un ponte, senza nessun motivo evidente si imbizzarrì il cavallo che portava le insegne consolari e fuggì indietro; un animale destinato al sacrificio, vicino ai lavori in corso di fortificazione del campo invernale, travolse nella fuga un riparo quasi compiuto; presero fuoco i giavellotti dei soldati e questo fu un presagio particolarmente significativo perché i Parti si battono appunto con armi da lancio.

 

8. Ma Peto non vi dette peso e, mentre i quartieri d’inverno non erano ancora sufficientemente fortificati, e non s’era provveduto alle provviste, a precipizio condusse l’esercito oltre il monte Tauro, per riconquistare – così diceva – Tigranocerta e devastare quelle regioni che Corbulone aveva lasciato intatte. Occupate alcune fortezze, ne avrebbe riportato un poco di gloria e di preda, se avesse dato prova di moderazione nella prima e di attenzione riguardo alla seconda; ma invece, percorrendo strade lontane, che non sarebbe stato possibile tenere, lasciò deperire quei viveri che erano stati catturati e, con l’inverno alle porte, ricondusse indietro l’esercito e scrisse all’imperatore una lettera come se avesse concluso la guerra, con espressioni altisonanti, ma vuote di significato.

 

9. Corbulone intanto collocò presìdi più frequenti lungo le sponde dell’Eufrate, che non aveva mai trascurato; e affinché la cavalleria nemica non impedisse la costruzione del ponte (già infatti volteggiava vistosamente nei campi sottostanti) sospinge nel fiume navi di dimensioni straordinarie, connesse tra loro con travi, sormontate da torri; con catapulte e baliste sconvolgeva i barbari, tra i quali si conficcavano aste e pietre, più a fondo di quel che giungesse in senso contrario il tiro delle loro saette. Quindi il ponte fu gettato e le colline opposte furono occupate dalle coorti alleate, poi dall’accampamento delle legioni, con tale rapidità e spiegamento di forze che i Parti rinunciarono al proposito d’invadere la Siria e volsero tutte le loro speranze su l’Armenia; qui Peto, ignaro della minaccia incombente, teneva la quinta legione lontana sul Ponto e aveva indebolito le altre con licenze concesse ai soldati disordinatamente; fino a che apprese che Vologese era in arrivo, con un esercito ingente e ostile.

 

10. Si chiama la dodicesima legione, con la speranza si diffondesse la fama che l’esercito era aumentato, ma contrario era evidente la penuria di uomini; non tale però che non si potesse mantenere l’accampamento e tenere a bada i Parti per la durata della guerra, se Peto fosse stato costante nell’attuare i progetti suoi o d’altri; al contrario, non appena gli esperti di guerra lo avevano messo in condizione di affrontare eventualità urgenti, immediatamente, per non aver l’aria d’aver bisogno di pareri altrui, passava a progetti diversi o peggiori. Allora dunque lasciò gli accampamenti d’inverno, e guidò le legioni come se stesse per dare battaglia, e gridava che contro il nemico gli erano stati affidati uomini ed armi, non fossi e terrapieni. Poi, quando ebbe perduto un centurione e alcu ni soldati, che aveva mandati in avanscoperta per controllare le forze nemiche, prese paura e tornò indietro. Poi, dato che Vologese lo incalzava con minore insistenza, riprese coraggio e senza motivo collocò tremila fanti scelti sulla prossima cima del monte Tauro, per impedire al re di varcarlo; e dispose in una parte della pianura le ali pannoniche, nerbo della cavalleria. Mise al sicuro la moglie e il figlio in una fortezza detta Arsamosata, e assegnò loro una coorte a difesa. A questo modo disperse i soldati che, se li avesse tenuti tutti uniti, avrebbero resistito più facilmente a un nemico sempre errabondo. Dicono che fu difficile costringerlo a confessare a Corbulone che il nemico gli stava addosso; e Corbulone non si affrettò a raggiungerlo, perché con l’aggravarsi del pericolo anche la gloria del suo aiuto sarebbe aumentata. Tuttavia impartì l’ordine che si preparassero a partire mille soldati e ottocento cavalli per ciascuna delle tre legioni, e uno stesso numero di coorti.

 

11. Vologese intanto, informato che Peto aveva sbarrato i passi, con la fanteria da un lato, con i cavalli dall’altro, non modificò i suoi piani, ma anzi con forti minacce diffuse il terrore tra la cavalleria e annientò i legionari; soltanto un centurione, Tarquizio Crescente, osò difendere la torre su la quale era di guardia, irrompendo più volte sterminò quei barbari che gli si facevano sotto più da vicino, fino a che fu accerchiato da faci lanciate contro di lui. Se qualcuno dei fanti rimase incolume, si rifugiò in luoghi lontani e fuori mano; i feriti tornarono nell’accampamento e, terrorizzati com’erano, esageravano il coraggio del re, la crudeltà e il numero dei suoi, facilmente creduti da quelli che avevano la stessa paura. Il comandante non cercava di opporsi alle avversità, anzi, aveva tralasciato tutti gli obblighi militari e aveva inviato altre suppliche a Corbulone, che si affrettasse a venire a salvare gli stendardi, le aquile, e l’onore che restava ancora a quell’esercito sventurato; essi intanto manterrebbero fede alla parola data, fino a che avessero vita.

 

12. Corbulone rimase impavido. Lasciò parte dell’esercito in Siria a tenere le fortificazioni su l’Eufrate, e, attraverso il percorso più vicino e non privo di rifornimenti, giunse nella Commagene; di là in Cappadocia, indi in Armenia. Accompagnava l’esercito, oltre ai soliti apparati di guerra, un gran numero di cammelli carichi di grano, per tener lontani sia i nemici sia la fame; il primo che incontrarono degli sconfitti fu Paccio, primipilo, poi molti soldati. Questi adducevano varie scuse per giustificare la fuga; ed egli li ammonì a tornare sotto le insegne e invocare la clemenza di Peto; poiché lui era inesorabile, tranne che con i vincitori. E intanto si avvicinava alle sue legioni, le incitava, rammentando loro le glorie precedenti, ne additava di nuove. Il compenso delle loro fatiche non erano villaggi o città degli Armeni, ma un accampamento romano e, in esso, due legioni. Se per ogni soldato semplice la decorazione più alta era la corona che l’imperatore consegnava a chi aveva salvato la vita d’un cittadino, quale, quanto onore sarebbe stato il loro, quando si fosse visto che erano pari di numero quelli che portavano la salvezza e quelli che la ricevevano! Accesi da queste parole e altre simili (ve n’era che il pericolo di fratelli o di parenti incitava per stimoli personali) affrettavano il cammino notte e giorno senza sosta.

 

13. Con tanto maggior impegno Vologese incalzava gli assediati, e ora attaccava il fossato delle legioni ora il fortilizio dove erano protetti coloro che per l’età non erano atti a combattere, avanzando più che non siano soliti i Parti, per provocare i nemici a combattere con la sua audacia. Ma quelli a stento uscivano dalle tende e si limitavano a difendere le fortificazioni, parte per obbedienza agli ordini del comandante, parte per viltà o in attesa di Corbulone; e se gli assalitori gli piombavano addosso, citavano l’esempio della resa delle Forche Caudine e di Numanzia1; e anzi i Sanniti, popolazione italica, non avevano la stessa forza dei Parti, emuli dell’impero Romano. Eppure, quegli uomini del tempo antico, tanto vigoroso e celebrato, quando la sorte gli era avversa, avevano pensato bene di salvarsi. Affranto per la sfiducia dell’esercito, il comandante scrisse una lettera a Vologese, non supplichevole, ma come se si dolesse di vederlo battersi per l’Armenia, un paese che era stato sempre sottoposto al governo di Roma o a un sovrano scelto dall’imperatore; una pace equa sarebbe stata migliore. Non considerasse soltanto la situazione presente; contro due sole legioni aveva dovuto muovere con le forze di tutto il suo regno, ma ai Romani restava il mondo intero a sostenerli nella guerra.

 

14. A questa lettera Vologese rispose in modo evasivo; che doveva aspettare i fratelli Pacoro e Tiridate, i quali avevano destinato quel luogo e quel momento per deliberare sui destini dell’Armenia; che inoltre gli dèi avevano concesso, cosa degna degli Arsacidi, di essere allo stesso tempo arbitri delle legioni romane. Dopo di ciò, Peto inviò legati a chiedere un colloquio con il re, il quale dette ordine che vi si recasse Vasace, prefetto della cavalleria. Peto allora rammenta Lucullo, Pompeo e tutto ciò che i Cesari avevano fatto, dominando o donando l’Armenia2, e Vasace rispose che in apparenza la facoltà di tenere o donare apparteneva a noi, ma la forza ai Parti. Dopo prolungate discussioni, l’adiabeno Monobazo fu incaricato di agire da testimonio il giorno successivo su quello che avrebbero concordato. L’accordo fu che le legioni fossero liberate dall’assedio, che tutti i soldati lasciassero i territori dell’Armenia e consegnassero ai Parti fortezze e vettovaglie; quando tutte queste condizioni fossero eseguite, si desse facoltà a Vologese di mandare ambasciatori a Nerone.

 

15. Peto intanto gettò un ponte sul fiume Arsania, che scorreva lungo l’accampamento, apparentemente per facilitare a se stesso la marcia, ma in realtà erano stati i Parti a imporglielo, come prova della loro vittoria; il ponte infatti servì a loro, i nostri si allontanarono in direzione opposta. Inoltre corse voce che le legioni fossero fatte passare sotto il giogo, ed altri fatti infausti, di cui poi si appropriarono gli Armeni. Infatti entrarono nelle fortificazioni prima che ne uscisse l’armata romana e si schierarono lungo il percorso, per riprendersi schiavi e bestiame catturato da noi tempo addietro, via via che li riconoscevano; rubarono anche indumenti e armi e i soldati intimoriti li lasciavano fare per evitare motivi di contese.

Vologese fece fare un cumulo delle armi e dei cadaveri degli uccisi, affinché ci fosse la prova della nostra disfatta, ma si astenne dall’assistere alla ritirata delle legioni: voleva apparire mite, dopo che aveva appagato il suo orgoglio. Attraversò il fiume Arsania seduto su un elefante e i più vicini al re si precipitarono a cavallo, perché era corsa la voce che il ponte avrebbe ceduto al peso per una frode di quelli che l’avevano costruito; ma quelli che ebbero il coraggio di entrarvi, constatarono che era solido e sicuro.

 

16. Comunque, si seppe che agli assediati era rimasta una scorta di frumento tale che dettero fuoco ai granai mentre, a quanto ha lasciato scritto Corbulone, i Parti erano a corto di viveri e con il foraggio esaurito, tanto che stavano per tralasciare l’assedio, mentre Corbulone era distante appena tre giorni di viaggio. Aggiunge che Peto aveva giurato davanti alle insegne e alla presenza di testimoni inviati dal re che nessun Romano avrebbe messo piede in Armenia fino a che dalla risposta di Nerone si fosse appreso se acconsentiva alla pace. Notizie forse inventate per aumentare il disonore di Peto, ma ce n’è altre sul conto delle quali non vi è dubbio, e cioè che egli abbia percorso quaranta miglia in un giorno, lasciando i feriti lungo la strada e che la precipitazione di quella ritirata fu non meno disonorevole che se avessero voltato le spalle in battaglia. Corbulone con i suoi li incontrò su le rive dell’Eufrate, ma si astenne dal far mostra di armi e di insegne, affinché il contrasto non fosse mortificante; i manipoli commiseravano con dolore i loro compagni d’arme e non trattenevano le lacrime, tanto che nel pianto a malapena si scambiarono il saluto. Era scomparsa la competizione di coraggio, l’ambizione di gloria, sentimenti di uomini felici; solo la compassione era rimasta, più viva nei gradi inferiori.

 

17. Seguì un breve colloquio tra i due generali; uno si lamentava della fatica inutile, mentre con la fuga dei Parti si sarebbe potuta concludere la guerra, l’altro rispondeva che entrambi avevano conservato intatte le loro forze; potevano voltare indietro le insegne e uniti invadere l’Armenia, indebolita dall’assenza di Vologese. Corbulone oppose che non aveva ricevuto quegli ordini dall’imperatore; che era uscito dalla provincia commosso dal pericolo delle legioni, ma poiché non si sapeva per certo quali sarebbero state le prossime mosse dei Parti avrebbe fatto ritorno in Siria; e anche così bisognava pregare la buona sorte che la fanteria, esausta dalle lunghe marce, potesse adeguarsi alla cavalleria, che già la precedeva, vivace e agevolata dal territorio pianeggiante. Di conseguenza Peto passò l’inverno in Cappadocia. Vologese inviò messi a Corbulone, chiedendogli che distruggesse le fortezze lungo l’Eufrate, in modo che il fiume, come un tempo, servisse da confine; questi a sua volta gli chiese che dall’Armenia fossero tolti i presidii nemici, cosa che il re finì per concedere; furono demolite le fortificazioni che Corbulone aveva edificate oltre l’Eufrate e gli Armeni furono lasciati senza un capo.

 

18. A Roma intanto venivano innalzati trofei per le vittorie su i Parti e un arco al centro del colle Capitolino. Erano stati decretati dal Senato quando le sorti della guerra erano ancora intatte e ora non si abbandonava il progetto: mentre si voleva salvare la faccia, non si teneva conto della realtà. Anzi, Nerone, per nascondere le angustie delle vicende esterne, gettò nel Tevere il frumento della plebe, andato a male perché vecchio, per sostenere l’annona. Il prezzo non aumentò, benché una violenta burrasca avesse affondato circa duecento navi entro il porto3 e altre cento furono distrutte da un incendio, mentre venivano trainate sul Tevere. Poi mise tre consolari, L. Pisone, Ducenio Gemino e Pompeo Paolino, a capo delle imposte, con grave disdoro dei precedenti, per aver superato le entrate con le ingenti spese; egli, da parte sua, versava all’erario seicento milioni di sesterzi l’anno.

 

19. A quel tempo era divenuto frequente, nell’imminenza dei comizi o del sorteggio delle province, un intrigo: molti senza figli facevano finte adozioni e quando le preture e le province erano state assegnate ai padri di famiglia, immediatamente scioglievano dalla tutela quelli che avevano adottato. Ma quelli4 si presentavano furibondi in Senato, adducendo il diritto di natura, la fatica dell'allevamento, a confronto con la frode, i raggiri e la breve durata dell’adozione. Per chi non aveva figli doveva bastare, a guisa di compenso, il fatto d’aver sùbito e in piena sicurezza favori, onori, senza il minimo onere, tutti facili e a portata di mano. Per loro invece le promesse delle leggi, attese per lungo tempo, si risolvevano in uno scherno, poiché uno che era diventato padre senza il minimo fastidio, poi rimaneva senza figli ma non per un lutto, e intanto raggiungeva d’un tratto il fine lungamente perseguito dai veri padri. Su questo il Senato emise un decreto, per impedire che le false adozioni servissero per ottenere pubblici uffici di nessun genere e nemmeno per entrare in possesso di eredità.

 

20. Poi venne processato Claudio Trimarco, cretese, per i reati che usualmente si addebitano ai notabili delle province, che per le troppe ricchezze diventano arroganti con i più deboli: si era saputa a Roma una sua frase offensiva per il Senato, e cioè che era in suo potere, così diceva, di far decretare azioni di grazia a quei consoli che avevano governato Creta. Trasea Peto in questa occasione, sempre vigile sul bene pubblico, dopo aver esposto il parere che l’imputato fosse mandato via da Creta, aggiunse: «L’esperienza insegna, Padri Coscritti, che ottime leggi, esempi approvati dagli onesti derivano da delitti commessi da altri. Così gli abusi degli avvocati hanno dato origine alla legge Cincia, i brogli elettorali alle leggi Giulie, l’avidità dei magistrati ai decreti Calpurni5, poiché la colpa viene prima del castigo e si corregge dopo il peccato. Contro la recente prepotenza dei provinciali, dunque, regoliamoci conforme alla lealtà e alla fermezza romana, non si venga meno alla tutela degli alleati, ma si tolga dalla nostra mente il pensiero che un cittadino romano, chiunque esso sia, venga giudicato da altri che da cittadini romani.

 

21. Un tempo venivano inviati a controllare le province non soltanto pretori o consoli, ma anche semplici privati, affinché riferissero su la rettitudine di ciascuno e i popoli tremavano per il giudizio di uno solo; ora al contrario rendiamo omaggio agli stranieri, li aduliamo, e allo stesso modo con il quale un loro cenno basta a far decretare un rendimento di grazie, con altrettanta prontezza si decide un’accusa. Si deliberi dunque, si lasci ai provinciali la facoltà di dimostrare la loro potenza; ma si ponga un divieto a un elogio infondato e ottenuto a furia di preghiere né più né meno d’una iniquità, d’una crudeltà. Si commettono più errori cercando di conciliarci la benevolenza di qualcuno che con l’offenderlo. Ché anzi vi sono virtù che suscitano odio, la severità ostinata, l’animo inflessibile contro qualsiasi favoritismo. Perciò i nostri magistrati all’inizio della carica sono certamente migliori, ma verso la fine degenerano, poiché a guisa di candidati si va a caccia di voti: ché se questo fosse vietato, le province sarebbero governate con più giustizia e maggiore fermezza. Come l’avidità è stata repressa dalla paura di dover risarcire il maltolto, così se vietiamo i rendimenti di grazie si freneranno gli intrighi».

 

22. Il discorso fu salutato da molti applausi. Tuttavia non fu possibile tradurre la proposta in decreto senatoriale, poiché i consoli affermarono che la questione non era all’ordine del giorno. In seguito, dietro consiglio dell’imperatore, fu stabilito che nelle assemblee degli alleati nessuno potesse proporre rendimenti di grazie a propretori o a consoli al cospetto del Senato né alcuno ne esercitasse l’incarico. Sotto gli stessi consoli per la caduta d’un fulmine andò a fuoco il ginnasio, e la statua bronzea di Nerone che vi si trovava fu liquefatta in una massa informe di bronzo. E per un terremoto crollò in gran parte Pompei, celebre città della Campania6. Morì Lelia, la vergine Vestale, e al suo posto fu eletta Cornelia, della famiglia dei Cossi.

 

23. (62 d.C.) Durante il consolato di Memmio Regolo e Virginio Rufo, Nerone ebbe una figlia da Poppea; l’accolse con straordinaria esultanza e la chiamò Augusta, titolo che conferì anche a Poppea. Il parto avvenne ad Anzio, dove era nato lo stesso Nerone. I senatori avevano già raccomandato agli dèi la gravidanza di Poppea, e offerto pubblici voti; ne moltiplicarono il numero e tutti li adempirono. Vi aggiunsero suppliche e un tempio alla fecondità e fu decisa una gara come quella per l’anniversario della vittoria di Azio e che statue d’oro della Fortuna fossero collocate sul trono di Giove Capitolino e si celebrassero giochi circensi in onore delle famiglie Claudie e Domizie, come per la famiglia Giulia presso Bovili e. Ma la cosa fu di breve durata, poiché al quarto mese la bambina morì. E di nuovo vi furono adulazioni, si propose di dedicarle un culto divino, un sacro guanciale, un tempio, un sacerdote. Fu notato che alla notizia del parto tutto il Senato si precipitò ad Anzio, ma Trasea non fu ammesso, oltraggio che egli subì senza scomporsi, ma era chiaro che fosse il preannuncio della fine imminente. In seguito si diffuse la voce che l’imperatore si fosse vantato con Seneca d’essersi riconciliato con Trasea, e che Seneca si fosse congratulato con lui. Per quegli uomini egregi andavano aumentando insieme la gloria e il pericolo.

 

24. All’inizio della primavera giunsero i legati dei Parti, portando le istruzioni del re Vologese e una lettera dello stesso tenore. Per il momento, diceva, tralasciava il suo diritto tante volte affermato sul possesso dell’Armenia, poiché gli dèi, arbitri dei popoli anche potenti, ne avevano consegnato il possesso ai Parti, non senza ignominia dei Romani. Recentemente egli aveva arrestato Tigrane, poi aveva lasciato andare incolumi Peto e le sue legioni, quando avrebbe potuto distruggerle. Era stata già dimostrata a sufficienza la sua forza, e aveva dato prova della sua mitezza. Tiridate non avrebbe rifiutato di recarsi a Roma per esservi incoronato, se non fosse stato trattenuto dagli obblighi del suo sacerdozio; sarebbe andato però a prendere gli auspici del proprio regno, al cospetto delle legioni, presso gli stendardi e le statue dell’imperatore.

 

25. Questo era il contenuto della lettera di Vologese, mentre Peto scriveva cose totalmente diverse, come se la situazione fosse ancora ottima; quando però fu interrogato il centurione, che era arrivato insieme ai legati, quale fosse la situazione in Armenia, questi rispose che i Romani se n’erano andati via tutti. Allora fu intuita la derisione dei barbari, che chiedevano ciò di cui s’erano già impadroniti, e Nerone si consultò con i cittadini più eminenti, se fosse preferibile una guerra pericolosa o una pace disonorevole. Nessuno esitò a dichiararsi per la guerra. E si mise al comando dell’impresa Corbulone, esperto dei soldati e dei nemici dopo tanti anni, affinché per l’inettitudine di qualcun altro non si commettessero ancora errori, come era avvenuto con Peto. Quindi i legati furono rimandati indietro senza aver ottenuto nulla, comunque con doni, per far intravedere la speranza che Tiridate non avrebbe chiesto le stesse cose invano, se fosse venuto personalmente a chiederle. Il potere esecutivo fu affidato a C. Cestio, il comando dell’esercito a Corbulone. Si fece venire dalla Pannonia la quindicesima legione, al comando di Mario Celso. Furono scritte lettere ai tetrarchi, ai re, ai prefetti, ai procuratori, ed a quelli dei pretori che governavano le province adiacenti, di obbedire agli ordini di Corbulone. In effetti, il suo potere era stato elevato al livello di quello che il popolo romano aveva concesso a Cn. Pompeo, quando era partito per la guerra contro i pirati7. Peto rientrò a Roma e, mentre temeva il peggio, Nerone si contentò di schernirlo e gli disse più o meno così: che lo perdonava sùbito, perché, incline com’era alla paura, se la sua ansia fosse durata a lungo avrebbe potuto ammalarsi.

 

26. Corbulone intanto trasferisce in Siria le legioni quarta e dodicesima, nelle quali i più forti erano caduti e i superstiti in preda al terrore non sembravano atti a combattere; e di là conduce in Armenia la terza e la sesta, forze intatte ed esperte per frequenti e fortunate imprese. Aggiunge la quinta legione, la quale, trovandosi nel Ponto, non aveva subito perdite, al tempo stesso la quindicesima, arrivata recentemente, più formazioni scelte fatte venire dall'Illiria e dall’Egitto, tutta la cavalleria e le coorti e gli ausiliari forniti dai re; li aduna tutti presso Melitene, dove si apprestava ad attraversare l’Eufrate. Poi provvede alla purificazione dell’esercito8 conforme al rito, lo convoca in adunata, e pronuncia una splendida orazione, magnificando il comando supremo dell'imperatore, le proprie gesta, attribuendo i rovesci subiti all’incapacità di Peto, con quel tono autoritario che a lui, uomo di guerra, serviva in luogo dell’eloquenza.

 

27. Quindi percorre il cammino già un tempo aperto da Lucullo, sgombrando i varchi che il tempo aveva ostruiti; accoglie senza alterigia i messi inviati da Vologese e da Tiridate per trattare la pace, li fa accompagnare da centurioni con messaggi non inflessibili, poiché fino a quel momento non si era giunti al punto che fosse ineluttabile una guerra all’ultimo sangue. Molti incontri erano stati propizi ai Romani, alcuni ai Parti, un monito per non insuperbire. A Tiridate era utile ricevere in dono un regno immune da saccheggi, Vologese dal canto suo avrebbe agito meglio a vantaggio dei Parti alleandosi con i Romani che non danneggiandosi a vicenda. Sapevano bene quanta discordia regnasse all’interno e come fossero selvatiche e violente le nazioni da governare. Per l’imperatore, al contrario, ovunque regnava una pace incrollabile e quella era l’unica guerra in corso. A questi ammonimenti aggiungeva il terrore, espellendo dalle loro sedi i maggiorenti Armeni che per primi ci avevano mancato di fede e radendo al suolo le loro fortezze; monti e piani, umili e potenti, riempie tutti di terrore.

 

28. Il nome di Corbulone anche tra i barbari non era ostile né esecrato; e perciò ritenevano fidato il suo consiglio. Di conseguen za Vologese nel complesso non si mostrò irremovibile e chiese una tregua per alcune sue prefetture; Tiridate chiese una data e un posto dove potesse aver luogo un abboccamento. Fu stabilita una data imminente e il luogo dove recentemente le legioni erano state assediate con Peto; i barbari lo scelsero per il ricordo della vicenda favorevole per loro, Corbulone non lo rifiutò per accrescere la propria gloria con il confronto tra le due situazioni. Né si doleva del disdoro di Peto, come apparve evidente con il fatto che ordinò di guidare i manipoli e provvedere alla sepoltura dei caduti proprio al figlio di lui, tribuno. Nel giorno stabilito, Tiberio Alessandro, illustre cavaliere romano, inviato come aiutante di campo, e Annio Pollione, genero di Corbulone, non ancora in età senatoria, con il titolo di legato alla quinta legione, si recarono nel campo di Tiridate per fargli onore e rassicurarlo che non temesse insidie, avendo in consegna tali ostaggi; come vide Corbulone, il re scese da cavallo per primo e Corbulone non esitò a far lo stesso. Entrambi a piedi si strinsero la mano.

 

29. Il comandante romano elogiò il giovane re per aver evitato i sentieri precipitosi e aver preferito strade sicure e salutari. L’altro, dopo essersi dilungato sulla nobiltà dei suoi, si espresse con moderazione: si recherà a Roma ad offrire all’imperatore un nuovo onore, un Arsacide in atteggiamento supplichevole, in un momento in cui la situazione non era sfavorevole ai Parti. Allora furono d’accordo che Tiridate deponesse la corona ai piedi della statua dell’imperatore e non la riprendesse se non dalle mani di Nerone e il colloquio si concluse con un abbraccio. Poi, trascorsi pochi giorni, con una cerimonia imponente da ambo le parti, da un lato si schierò la cavalleria disposta per squadre, con gli stendardi nazionali, dall’altra stettero schierati i legionari, nel fulgore delle aquile, delle insegne e delle immagini degli dèi, come se fossero in un tempio.

Nel mezzo, sopra una tribuna, la sedia curule e su questa la statua di Nerone. Appropinquandosi ad essa, dopo l’uccisione rituale delle vittime, toltosi il diadema dal capo, il re lo depose ai piedi della statua, con viva commozione dei presenti, tanto più perché era ancora presente ai loro occhi lo spettacolo della sconfitta o dell’assedio subiti dai Romani. Ora la situazione era capovolta: Tiridate sarebbe andato a farsi vedere dai popoli in veste poco meno che di prigioniero?

 

30. Corbulone aumentò ancora la sua gloria con la sua amabilità e offrendo un banchetto. E poiché il re ogni volta che scorgeva una cosa nuova, s’informava sul motivo di essa – come il fatto che l’inizio dei turni di guardia fosse annunciato dal centurione, il segnale dato con la tromba alla fine del convito e l’accensione d’una torcia ai piedi dell’ara augurale – Corbulone, spiegando con tono elevato ogni cosa, gli ispirò ammirazione per i nostri antichi costumi. Il giorno seguente Tiridate pregò d’aver tempo, nell’imminenza d’un viaggio così lungo, di visitare i fratelli e la madre; quindi lasciò la figlia come ostaggio e una lettera di supplica per Nerone.

 

31. Così partì e ritrovò Pacoro tra i Medi e a Ecbatana Vologese, tutt’altro che noncurante della sorte del fratello. Infatti aveva inviato messi a Corbulone, per impetrare che Tiridate non dovesse portare alcun segno di servitù né consegnare la spada né fosse escluso dall’abbraccio dei governatori delle province o facesse anticamera alla loro porta e che a Roma fosse trattato con gli stessi onori che si rendevano ai consoli. Evidentemente, abituato com’era all’alterigia degli stranieri, non aveva nozione di noi, per i quali ha valore la sostanza del potere, e non l’apparenza.

 

32. (63 d.C.) Lo stesso anno, l’imperatore introdusse i popoli delle Alpi Marittime nel diritto latino9. Nel circo, assegnò ai cavalieri romani sedili davanti a quelli della plebe; fino a quel giorno infatti vi si recavano senza distinzione, poiché la legge Roscia non conteneva disposizioni, all'infuori delle prime quattordici file. Gli spettacoli di gladiatori quell’anno furono non meno splendidi di quelli dell’anno precedente; ma fu superiore il numero di matrone e di senatori che si degradarono scendendo nell’arena.

 

33. (64 d.C.) Sotto i consoli G. Lecanio e M. Licinio, aumentava di giorno in giorno in Nerone il desiderio di calcare le scene. Fino a quel momento aveva cantato soltanto in casa o nei giardini, durante i ludi Giovenali, che però riteneva poco importanti e non degni d’una voce come la sua. Tuttavia non osò esibirsi la prima volta a Roma e scelse Napoli, come città greca: di lì avrebbe incominciato fino a che, passato in Acaia, avrebbe conquistato le corone illustri e sacre fin dal tempo antico, e divenuto più famoso avrebbe ottenuto gli applausi dei concittadini. Quindi, adunata la popolazione della città, più coloro che la notizia aveva attirato dalle colonie e dai municipi vicini, più quelli del seguito dell’imperatore per fargli onore o per vari usi, più manipoli di soldati, tutti assieme riempirono il teatro.

 

34. Qui avvenne un fatto, secondo il parere di molti, funesto, secondo Nerone al contrario fausto e segno della benevolenza degli dèi: erano appena usciti gli spettatori che il teatro, vuoto e senza danno per alcuno, crollò. Egli con carmi elaborati rese grazie agli dèi, celebrando la fortuna propizia del recente avvenimento; poi, mentre si dirigeva ad attraversare il mare Adriatico, fece una sosta a Benevento, dove Vatinio finanziava un magnifico spettacolo di gladiatori. Vatinio era uno degli esseri più sconci e mostruosi di quella corte; cresciuto nella bottega d’un ciabattino, deforme, non pronunciava che facezie scurrili; sulle prime oggetto di contumelie, poi invece calunniando i migliori raggiunse tale livello di potenza che, con la forza del suo denaro, con la capacità di nuocere superava anche i più malvagi.

 

35. Nerone assistè allo spettacolo; ma nemmeno tra i divertimenti sospendeva i delitti. In quegli stessi giorni fu obbligato a togliersi la vita Torquato Silano, il quale, oltre alla nobiltà della famiglia Giunia, aveva il divo Augusto per trisavolo. Fu ordinato agli accusatori di descriverlo prodigo di largizioni e privo di qualsiasi prospettiva se non in una rivoluzione; infatti aveva alcuni segretari, così li chiamava, per le lettere, i memoriali, la contabilità, titoli di chi esercitava il potere supremo e si preparava ad esso. Allora ciascun liberto tra i più intimi fu incatenato e tratto in giudizio; e poiché la condanna era imminente, Torquato si tagliò le vene delle braccia. Conforme all’uso, seguì un discorso di Nerone, nel quale disse che, ad onta delle colpe di Torquato e la sua fondata sfiducia nella difesa, tuttavia avrebbe seguitato a vivere, se avesse atteso la clemenza del giudice.

 

36. Non molto tempo dopo, abbandonò l’idea di recarsi in Acaia, per motivi non accertati, e tornò a Roma, perseguendo segrete fantasie riguardo alle province orientali, specie l’Egitto. Quindi con un editto attestò che la sua assenza non sarebbe stata lunga, che nello Stato ogni cosa sarebbe rimasta prospera e immutata e, nell’imminenza della partenza, salì al Campidoglio. Ivi fece atto di venerazione verso gli dèi, ma entrato nel tempio di Vesta, improvvisamente fu colto da un tremito in tutte le membra, sia che la divinità lo atterisse, sia che per il ricordo dei suoi delitti non fosse mai immune da paura; abbandonò il progetto, dichiarando che qualsiasi altro interesse per lui era minore dell’amore per la patria. Aveva notato la mestizia sul volto dei cittadini, aveva udito segrete lagnanze per l’imminenza d’un viaggio così lungo di colui del quale non tolleravano nemmeno una breve assenza, avvezzi com’erano ad esser confortati contro le avversità dalla vista dell’imperatore. E dunque, come nei rapporti privati prevalgono i figli, così nello Stato il più importante è il popolo e, quando questo lo tratteneva, bisognava ubbidire. Queste e altre frasi dello stesso tenore furono gradite dalla plebe, la quale, avida di piaceri, era dominata soprattutto dal terrore che venisse a mancare il grano, se lui partiva. Il Senato e i notabili erano incerti se c’era più da aver paura di lui lontano o vicino; in seguito, come accade nei più forti timori, ritennero che quel che era accaduto fosse il peggio.

 

37. Ad avvalorare la convinzione che nessun luogo gli fosse altrettanto caro, si faceva allestire i banchetti in luoghi pubblici e usava di tutta la città come fosse casa sua. Il più famoso per lo sfarzo fu quello offerto da Tigellino, che citerò a guisa di esempio per non ripetermi nel riferire gli stessi sperperi. Fu fabbricata una zattera nello stagno di Agrippa10, e disposto su di essa il convito, in modo che potesse venir rimorchiato da altre navi, tutte incrostate d’avorio e d’oro; ai remi adolescenti, appaiati a seconda dell’età e dell’esperienza nel piacere. Aveva ricercato dall’Oceano e da diversi paesi volatili, fiere e animali marini. Sulle sponde del lago sorgevano lupanari affollati di donne nobili e davanti si esponevano meretrici nude. Si cominciava con gesti e danze oscene; col calar delle tenebre tutti i boschi e le case intorno risonavano di canti e splendevano di lumi. Nerone ormai s’era macchiato di ogni atto lecito e illecito, e non c’era obbrobrio che non avesse commesso; ma, per agire in modo ancora più turpe, pochi giorni dopo si unì in matrimonio, con la solennità d’uso negli sposalizi, con uno di quei depravati, di nome Pitagora. All’imperatore fu posato sul capo il flammeo11, furono chiamati i testimoni; la dote, il talamo, le faci nuziali, insomma fu offerto alla vista tutto quello che, anche quando si tratta d’una donna, la notte nasconde.

 

38. In seguito si verificò – per caso o per la perfida volontà del principe, gli autori infatti hanno trasmesso l’una e l’altra versione – il più grave e terribile disastro fra tutti quelli che colpirono questa città per la violenza del fuoco. Ebbe inizio in quella parte del circo vicina al Palatino e al Celio; qui attraverso le botteghe che contenevano merci combustibili, il fuoco appena acceso e sùbito rafforzato e sospinto dal vento si propagò rapidamente per tutta la lunghezza del circo. Non v’erano infatti né case con recinti di protezione né templi circondati da muri, né alcun altro impedimento; si diffuse impetuoso nelle zone pianeggianti, salì nelle parti alte, poi tornò a scendere in basso, distruggendo ogni cosa, precedendo i rimedi con la velocità del flagello. La città era indifesa per i viottoli angusti e tortuosi e gli edifici sproporzionatamente alti, quali erano nell’antica Roma. A questo si aggiungevano le grida delle donne in preda al terrore, lo sgomento dei vecchi e dei bambini, e chi provvedeva a sé e chi ad altri, trasportando o aspettando gli invalidi, e sia indugiando sia affrettandosi erano d’impedimento agli aiuti. Spesso accadeva che, mentre si guardavano alle spalle, venivano investiti dalle fiamme di fronte o ai lati, oppure se fuggivano in luoghi vicini, già invasi dal fuoco, trovavano in fiamme anche quelli lontani che credevano intatti. Alla fine, non sapendo più che cosa evitare e dove cercare scampo, affollavano le grandi vie, si stendevano nei campi; alcuni, dopo aver perduto tutto ciò che possedevano, anche il necessario quotidiano, altri ancora per amore dei loro cari, che non erano riusciti a strappare alle fiamme, benché si offrisse loro un rifugio cadevano morti. Nessuno poi osava combattere il fuoco, per le ripetute minacce di molti che proibivano di spegnerlo e perché vi erano altri che apertamente lanciavano fiaccole e gridavano d’aver ricevuto ordine di farlo, sia per rubare più facilmente sia effettivamente per aver ricevuto ordini in tal senso.

 

39. In quei momenti Nerone si trovava ad Anzio e non tornò nell’Urbe prima che il fuoco non si fosse avvicinato alla sua casa, con la quale aveva messo in comunicazione il palazzo attraverso i giardini di Mecenate12. E tuttavia non si riuscì a impedire che il palazzo e la casa e tutto ciò che v’era attorno fosse distrutto dalle fiamme. Ma come rifugio per il popolo atterrito e fuggiasco egli aprì il campo di Marte e i monumenti di Agrippa13 e perfino i suoi giardini, e fece costruire rapidamente baracche per potervi accogliere la folla che aveva perduto ogni cosa. Da Ostia, dai municipi vicini fece portare generi di prima necessità e ridusse il prezzo del grano a tre sesterzi per un moggio. Misure che, benché dirette al popolo, non gli giovarono, poiché s’era sparsa la voce che nel momento stesso in cui la città bruciava egli fosse salito sul palcoscenico del palazzo e si fosse messo a cantare la caduta di Troia, assimilando le sciagure presenti agli antichissimi lutti.

 

40. Finalmente, dopo sei giorni, l’incendio si spense alle pendici dell’Esquilino, dopo che su un’area vastissima era crollato ogni edificio sì che alla sua violenza persistente non si opponeva più che un terreno deserto e un orizzonte vuoto. Non era ancora cessata la paura né rinata una lieve speranza, quando il fuoco tornò a infuriare, specie negli spazi aperti della città; sì che furono minori le perdite umane, ma rovinarono in più larga misura i templi degli dèi e i portici destinati al passeggio. Questo incendio suscitò maggiore indignazione perché s’era propagato dagli Orti Emiliani, appartenenti a Tigellino, e sembrava che Nerone si proponesse di acquistare gloria edificando una nuova città e chiamandola con il suo nome. In effetti dei quattordici rioni in cui Roma si divide, ne rimanevano intatti soltanto quattro, tre erano totalmente rasi al suolo e degli altri sette non restavano più che poche macerie, consunte e semi arse.

 

41. Non è facile fare il conto delle case, degli isolati, dei templi che andarono distrutti; bruciarono i più antichi e venerati, quello dedicato da Servio Tullio a Lucina, la grande ara e il santuario che l’arcade Evandro aveva dedicato a Ercole in sua presenza, il tempio di Giove Statore consacrato da Romolo, la reggia di Numa e il santuario di Vesta con i Penati del popolo romano14; nonché i tesori conquistati con tante vittorie, le meraviglie dell’arte greca, le testimonianze autentiche degli ingegni antichi, sì che pur nello splendore della città ricostruita, i vecchi ricordavano molte cose che non sarebbe stato possibile ricostruire. Vi fu chi osservò che l’incendio era scoppiato quattordici giorni prima delle Kalende di agosto, lo stesso giorno in cui i Senoni avevano dato alle fiamme la città conquistata.. Altri giunsero a tal punto di esattezza da numerare altrettanti anni, mesi e giorni tra (63 d.C.) l’uno e l’altro incendio15.

 

42. Nerone si valse delle rovine della patria e si costruì una dimora nella quale sorprendevano non tanto le gemme e l’oro, un lusso ormai divenuto comune e diffuso, quanto le coltivazioni, i laghi e i boschi a somiglianza di selve, spazi aperti e prospettive16, su disegno e direzione dei lavori di Severo e Celere, i quali con il loro ingegno e l’ardire realizzavano con l’arte ciò che la natura non aveva concesso, dilapidando le risorse dell’imperatore. Infatti avevano promesso di scavare un canale dal lago d’Averno17 fino alla foce del Tevere, lungo le rive deserte o attraverso le montagne; ché infatti non s’incontra altro luogo dotato d’acqua se non le paludi Pontine: le zone rimanenti sono scoscese e aride e anche se si potesse scavare, la fatica sarebbe intollerabile e non ne varrebbe la pena. Nerone tuttavia, desideroso com’era di imprese incredibili, tentò di traforare i monti attigui all’Averno, e si vedono tuttora le tracce di quella vana speranza.

 

43. Le aree della città che erano avanzate alla sua dimora furono ricostruite non, com’era avvenuto dopo l’incendio gallico, senza regole e in disordine, ma con isolati ben allineati e strade più ampie; fu limitata l’altezza degli edifici, vi si aprirono cortili, vi si aggiunsero portici, destinati a proteggere la facciata delle case. Nerone promise che i portici sarebbero stati edificati a sue spese e che avrebbe reso ai proprietari le rispettive aree, sgombrate dalle macerie. Aggiunse premi, in proporzione alla classe sociale e al patrimonio di ciascuno e stabilì una data, entro la quale, condotte a termine le abitazioni private e le case d’affitto, potessero riscuoterli. Destinò le paludi di Ostia a ricettacolo delle macerie; si doveva servirsi delle navi che portavano a Roma il grano e al ritorno avrebbero percorso il Tevere cariche di macerie; gli edifici nuovi in alcune parti furono rinforzati non con travi ma con pietra di Gabi o di Albano, una pietra che resiste al fuoco; quanto all’acqua, che prima veniva usata abusivamente dai privati, pose dei custodi, affinché scorresse più abbondante e in più luoghi ad uso pubblico; ciascuno doveva tenere a disposizione di tutti il necessario per spegnere il fuoco; non dovevano esservi pareti in comune, ma ogni casa doveva essere circondata da mura proprie. Queste misure, bene accette perché utili, apportarono anche bellezza alla città rinnovata. Vi erano però alcuni i quali ritenevano che l’antico disegno della città era più salubre, perché l’angustia delle strade e l’altezza dei tetti non lasciavano penetrare la vampa del sole; ora invece gli spazi aperti, senza alcuno schermo d’ombra, ardevano d’un calore troppo forte.

 

44. Questi furono i provvedimenti adottati dalla saggezza degli uomini. Poi si ricorse a riti espiatori, si consultarono i libri sibillini, in ossequio ai quali furono rivolte preghiere a Vulcano, a Cerere, a Proserpina, a Giunone, cerimonie espiatorie da parte delle matrone, prima sul Campidoglio, poi su la spiaggia marina più vicina, e il tempio e l’immagine della dea furono aspersi dell’acqua ivi attinta; le donne sposate poi celebrarono banchetti sacri e veglie di preghiera.

Ma né l’aiuto degli uomini, né le largizioni del principe, né le cerimonie espiatorie offerte ai numi valevano a dissipare l’opinione infamante che l’incendio fosse stato comandato. Nerone allora per far tacere queste voci fece passare per colpevoli e li sottomise a torture raffinate coloro che per i loro delitti il popolo detestava e chiamava Cristiani. Erano chiamati così dal nome di Cristo, il quale, sotto l’impero di Tiberio, era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato18; quella superstizione nefasta, repressa sulle prime, ora tornava a prorompere, non solo in Giudea, luogo d’origine di quel malanno, ma anche a Roma, dove da ogni parte affluiscono tutte le dottrine atroci e turpi e vi trovano seguaci; furono dunque arrestati prima quelli che ammettevano la loro colpa, poi, dietro denuncia di questi, una moltitudine immensa, non tanto perché autori dell’incendio, ma per il loro odio del genere umano. Ai condannati alla morte in più si infliggevano scherni; coperti di pelli ferine li si faceva dilaniare dai cani, o venivano crocifissi o si bruciavano come fiaccole, affinché, col calar della notte, ardessero a guisa di luci notturne. Nerone aveva offerto i suoi giardini per questo spettacolo e celebrava giochi nel circo, mischiandosi alla plebe in veste di auriga e, in piedi sul carro, prendeva parte alle corse. Benché si trattasse di rei, meritevoli di pene d’un’atrocità senza precedenti, sorgeva nel popolo la pietà per quegli sventurati poiché venivano uccisi non per il bene di tutti ma per la crudeltà di uno solo.

 

45. Intanto, per accumulare denaro l’Italia era devastata, sconvolte le province e le nazioni alleate, e quelle città che si chiamano libere. In quel saccheggio furono coinvolti anche gli dèi, perché nell'Urbe furono spogliati i templi e rapinato l’oro, che in ogni epoca il popolo romano aveva consacrato ai trionfi, alle offerte votive, in momenti di prosperità o di paura. In Asia, in Acaia, furono portate via non soltanto le offerte, ma persino le immagini degli dèi; in quelle province erano stati inviati Aerato e Secundo Carrinate, il primo un liberto disposto a qualsiasi misfatto, il secondo a parole esperto di dottrina greca ma dall’animo spoglio di qualsiasi virtù. Si diceva che Seneca, per allontanare da sé l’accusa di sacrilegio, avesse chiesto di potersi ritirare in campagna, e poiché non gli fu concesso, non uscì più dalla sua camera, fingendo d’esser malato di nervi. Alcuni raccontarono che un suo liberto, certo Cleonico. per ordine di Nerone gli avesse preparato un veleno, ma che Seneca si sottrasse al pericolo, per la confessione del liberto o per la paura, sostentandosi con un’alimentazione semplicissima e frutta appena colte e, quando aveva sete, bevendo solo acqua di sorgente.

 

46. Nello stesso tempo, i gladiatori di stanza presso Preneste19 tentarono un’evasione, ma furono fermati dal presidio militare di guardia, e il popolo già rievocava Spartaco20 e le antiche sciagure, avido com’è di novità e al tempo stesso pavido. Non molto tempo dopo si verificò il disastro della flotta, non per causa di guerra – poiché mai vi era stata una pace altrettanto sicura – ma perché Nerone aveva dato ordine che le navi rientrassero in Campania un determinato giorno, senza tener conto degli incerti del mare. I piloti, di conseguenza, benché il mare fosse in tempesta, salparono da Formia e mentre tentavano di doppiare il capo Miseno sotto un africo impetuoso, lungo le rive di Cuma perdettero la maggior parte delle triremi e molte navi minori.

 

47. Verso la fine dell’anno si parlò di prodigi, presagio di imminenti sventure: caddero fulmini con una frequenza senza precedenti e fu vista una cometa, prodigio che Nerone aveva sempre scongiurato versando sangue nobile. Nacquero creature umane o di animali con due teste, che furono gettate per le strade, o furono trovate nei sacrifici, nei quali è d’uso immolare vittime gravide. Nelle campagne di Piacenza nacque sulla strada un vitello, che aveva la testa in una gamba; l’interpretazione degli aruspici fu che era imminente un nuovo capo, che però non sarebbe stato vitale, perché soffocato già nell’utero materno, né segreto, perché venuto al mondo su la strada.

 

48. (65 d.C.) Mentre assumevano il consolato Silio Nerva e Attico Vestino, ebbe inizio e sùbito crebbe una congiura, alla quale presero parte a gara senatori, equestri, militari e anche donne, sia per odio contro Nerone, sia per simpatia verso Cn. Pisone. Questi era nato dalla famiglia Calpurnia ed era imparentato con molte famiglie illustri per la nobiltà della nascita; nel popolo era noto con molto favore sia per la sua virtù sia per ciò che alla virtù rassomiglia. Esercitava l’oratoria nella difesa dei concittadini, era generoso con gli amici ed affabile nel parlare e nel trattare anche con gli sconosciuti. Possedeva anche qualità dovute al caso, come la statura imponente, il volto attraente, ma era ben lontano dall’austerità del comportamento e dalla moderazione nel piacere, ché anzi indulgeva alla frivolezza, al lusso e qualche volta alla lussuria, cosa che incontrava la simpatia di molti: in un clima di tanta libertà di costumi non si desidera troppa astinenza e una severità eccessiva in chi esercita il potere supremo.

 

49. La congiura non sorse per l’ambizione di lui, né mi è facile ricordare chi sia stato il primo a darle inizio, né chi fu a ispirare quel complotto a cui aderirono in tanti. La fermezza di cui dettero prova nel morire dimostra che i più decisi fossero il tribuno della coorte pretoria Subrio Flavo e il centurione Sulpicio Aspro. Poi, Anneo Lucano21, e Plauto Laterano vi immisero il loro odio intenso. Lucano era acceso da rancori personali perché Nerone cercava di soffocare la fama dei suoi poemi e gli aveva impedito di pubblicarli, atteggiandosi a suo emulo; si associò ad esso il console Laterano, non per aver ricevuto offesa alcuna, ma per amor di patria. Flavio Scevino e Afranio Quinziano, entrambi dell’ordine senatorio, aderirono al progetto d’un’azione di tale importanza, in contrasto con la loro nomea: il primo debole di mente per i suoi eccessi viveva in una specie di languore, il secondo, malfamato per il vizio, cercava di vendicarsi di Nerone perché in un poema offensivo lo aveva esposto a contumelie.

 

50. Mentre tra loro, o con amici, parlavano dei delitti dell’imperatore, dell’imminente caduta, della scelta di chi avrebbe rimesso in sesto la situazione pericolante, aggregarono Claudio Senecione, Cervario Proculo, Vulcacio Ararico, Giulio Augurino, Munazio Grato, Antonio Natale, Marcio Festo, cavalieri romani. Di loro Senecione, per la stretta intimità con Nerone, e perché anche in quei momenti seguitava a fingersi amico, correva i peggiori pericoli; Natale era a conoscenza di tutti i segreti di Pisone; gli altri riponevano le loro speranze in un rivolgimento. Oltre a Subrio ed a Sulpicio, dei quali ho già parlato, vennero associati alla congiura altri militari, Gavio Silvano e Stazio Proxumo, tribuni delle coorti pretoriane, Massimo Scauro e Veneto Paolo, centurioni. Ma l’anima della cospirazione sembrava Fenio Rufo, uomo molto apprezzato per la sua vita e per la fama di cui godeva; nell’animo di Nerone, tuttavia, lo precedeva Tigellino per la crudeltà e la dissolutezza: lo tormentava con continue accuse e minacce quale antico amante di Agrippina, e per rimpianto di lei, deciso a vendicarla. Quando dunque i congiurati furono certi che anche il Prefetto del Pretorio era con loro per suoi ripetuti discorsi, si misero a discorrere più arditamente della data e del luogo dove avrebbe avuto luogo l’attentato. Si diceva che Subrio Flavo avesse provato l’impulso di aggredire Nerone mentre cantava sul palcoscenico o di notte, mentre il palazzo era in fiamme ed egli si aggirava qua e là senza scorta. Nel primo caso l’occasione propizia di trovarlo solo, nel secondo la folla stessa, magnifica testimone di quell’atto onorevole, avevano eccitato l’animo suo; ma l’aveva trattenuto il desiderio della propria salvezza, che sempre ostacola le grandi imprese.

 

51. Mentre essi indugiavano procrastinando speranze e timori, una certa Epicari, al corrente della trama, non si sa in che modo, dato che fino a quel momento non s’era occupata mai di azioni onorate, incitava i congiurati, li rimproverava; infine, stanca della loro lentezza, trovandosi in Campania, si impegnò a corrompere i comandanti delle flotte di Miseno e obbligarli con il vincolo della complicità. Uno dei comandanti di quella flotta era Volusio Proculo, uno degli esecutori dell’uccisione della madre di Nerone, ma, a quanto si riteneva, non aveva tratto da un delitto così grave un vantaggio adeguato. Questi era già da tempo noto alla donna, oppure la loro amicizia era recente, comunque le confidò le sue benemerenze verso Nerone e quanto fossero cadute a vuoto; aggiunse il suo scontento e propositi di vendetta, se si fosse presentata l’occasione, sì da indurla a sperare nella sua adesione alla congiura e quella di molti altri; dalla flotta avrebbe potuto derivare un aiuto consistente e offrire occasioni frequenti, perché Nerone si dilettava molto di navigare tra Miseno e Pozzuoli. Di conseguenza Epicari aumentò le accuse, enumerò tutti i delitti dell’imperatore, affermò che il Senato ormai non contava più nulla. Ma affermò che si stava provvedendo a fargli scontare in qualche modo il fio d’aver trascinato la repubblica alla rovina: s’impegnasse soltanto a collaborare ed a portare con sé i soldati più arditi, avrebbe ricevuto un premio adeguato. Tacque però i nomi dei congiurati. Di conseguenza, il tradimento di Proculo, benché avesse riferito a Nerone tutto ciò che aveva udito, non servì a nulla. Epicari fu citata e messa a confronto con l’accusatore, ma le fu facile confutarlo dato che non disponeva di testimoni. Ella tuttavia fu trattenuta in detenzione, dato che Nerone sospettava che non fosse falso ciò che non si poteva dimostrare per vero.

 

52. I congiurati tuttavia, per paura d’esser traditi, decisero di affrettare l’evento e uccidere l’imperatore nella villa di Pisone a Baia, che piaceva moltissimo a Nerone, il quale la frequentava spesso per bagni e banchetti, tralasciando la scorta e il peso dell’etichetta dovuta al suo rango. Ma Pisone rifiutò, adducendo il malanimo che sarebbe ricaduto su di lui, se si fossero contaminati col sangue la santità della mensa e gli dèi ospitali con l’uccisione d’un imperatore, quale che fosse; meglio sopprimerlo a Roma, in quella casa odiata e costruita con le spoglie dei cittadini; in un luogo pubblico sarebbe stato più opportuno compiere quell'impresa che avevano progettato per il bene della repubblica. Diceva queste cose in pubblico, ma in cuor suo era dominato dalla paura che Silano, salito a grandissima fama per la nobiltà della stirpe e per gli studi compiuti sotto la guida di C. Cassio, s’impadronisse dell’impero: sarebbero stati disposti a conferirglielo tutti quelli che non avevano preso parte alla congiura e coloro che avrebbero commiserato Nerone perché soppresso con un delitto. Molti anche ritennero che Pisone avesse voluto evitare il confronto con il console Vestino, uomo di forte tempra, capace di rivendicare la libertà; se fosse stato eletto un altro al governo dell’impero, avrebbe ritenuto d’avergli fatto dono dello Stato. Vestino in effetti non era al corrente della congiura e tuttavia Nerone su quel delitto dette sfogo al suo odio contro di lui, che pure era innocente.

 

53. Fissarono dunque il giorno dei ludi circensi in onore di Cerere, perché l’imperatore, che usciva raramente e se ne stava chiuso in casa o nei suoi giardini, non mancava però agli spettacoli del circo ed era più facile l’accesso a lui nel tripudio degli spettacoli. Concertarono il piano dell’agguato: Laterano, con la scusa di implorarlo che lo aiutasse nelle difficili condizioni del patrimonio, si sarebbe gettato ai suoi piedi e, cadendo alle sue ginocchia, lo avrebbe gettato a terra di sorpresa e lo avrebbe tenuto fermo, essendo valoroso e di forte corporatura. Mentre era a terra e immobilizzato, i tribuni, i centurioni e tutti gli altri, ciascuno secondo il proprio coraggio, sarebbero accorsi per trucidarlo; rivendicava a sé il primo colpo Scevino, che aveva portato via un pugnale dal tempio della Salute in Etruria o, secondo altri, da quello della Fortuna a Ferentino e lo portava su di sé come consacrato a una nobile impresa. Pisone nel frattempo avrebbe atteso presso il tempio di Cerere; il prefetto Fenio e gli altri lo avrebbero prelevato per portarlo nelle caserme22; sarebbe andata con loro Antonia, la figlia di Claudio, per attirare le simpatie del popolo: così racconta Plinio. Non è nostra intenzione tacere questa tradizione, benché ci sembri inverosimile che Antonia, per una vana speranza, abbia messo a rischio il suo nome e affrontato il pericolo, o che Pisone, di cui era noto l’amore per la moglie, s’impegnasse a un altro matrimonio, a meno che la brama di potere sia più ardente di ogni altra passione.

 

54. Ma la cosa più sorprendente fu che tra persone di nascita e livello sociale diversi, di età e sesso differenti, tra ricchi e poveri, la congiura sia rimasta coperta dal silenzio, fino a che il tradimento partì dalla casa di Scevino. Questi, il giorno prima dell’attentato, parlò lungamente con Antonio Natale, poi, tornato a casa, redasse il suo testamento; indi, estratto il pugnale dal fodero, del quale ho parlato, si mise a gridare che il tempo l’aveva smussato, ordinò che lo si affilasse su la cote e che la lama fosse splendente e affidò questo incarico al liberto Milico. Al tempo stesso fu imbandito un pranzo più fastoso del solito, donò la libertà ai più cari dei suoi schiavi, donativi in denaro agli altri; era evidente che era preoccupato e immerso in gravi angustie, benché con vaghi discorsi fingesse d’esser lieto. Infine, incarica lo stesso Milico di approntare bende e quanto serve per arrestare il sangue; e questi, sia che, benché al corrente della congiura, fino a quel momento fosse rimasto fedele, sia che non sapesse nulla e in quel momento per la prima volta concepisse qualche sospetto, come hanno riferito i più, basandosi su ciò che avvenne in seguito, certo è che in quell’anima di servo, come ebbe calcolato i compensi che avrebbe ricavato dal tradimento e apparvero ai suoi occhi l’enorme ricchezza e il potere, vennero meno il sacro dovere, la salvezza del patrono, il ricordo della libertà che da lui aveva ricevuto. In effetti aveva chiesto consiglio anche alla moglie, consiglio di femmina e ancor più abbietto; poiché essa in più gli metteva paura, gli diceva che c’erano stati altri liberti e schiavi, che avevano visto le stesse cose; non sarebbe servito a nulla il silenzio di uno solo, mentre i compensi sarebbero stati di quell’uno che per primo avrebbe denunciato il fatto.

 

55. Non appena spunta l’alba, dunque, Milico si dirige ai giardini Serviliani e poiché alle porte lo fermano, dichiara d’esser portatore di notizie gravi e terribili; i custodi lo accompagnano da Epafrodito, liberto di Nerone, subito dopo da lui viene introdotto da Nerone e lo informa del pericolo imminente, gli rivela l’autorità dei congiurati, e altre cose, alcune che sapeva, altre che aveva supposte; gli fa vedere anche l’arma preparata per ucciderlo e chiede che sia convocato l’accusato. Questi, catturato dai soldati, incomincia a difendersi e dichiara che l’arma, a cagione della quale viene incriminato, la conservava per devozione verso il padre e la teneva nella sua camera, dove il liberto di nascosto l’aveva sottratta. Testamenti ne aveva redatti più di uno e li aveva firmati senza tener conto della data. Altre volte aveva concesso la libertà e donativi agli schiavi, questa volta con maggiore larghezza, perché, dato che il suo patrimonio era molto scemato ed era assillato dai creditori, temeva che il testamento non sarebbe stato eseguito. Per la verità era sempre stato largo nella mensa; aveva sempre condotto un’esistenza piacevole, disapprovata dai giudici severi. Quanto al necessario per le medicazioni, non l’aveva ordinato affatto; ma l’accusatore, come aveva formulato accuse evidentemente infondate, vi aveva aggiunto quella di cui forniva denuncia e testimonianza. Pronunciò queste parole con fermezza; inoltre accusò il liberto di abbietta perfidia, con tanta sicurezza nel volto e nella voce che ormai l’accusa non avrebbe retto, se la moglie non avesse rammentato a Milico che Scevino aveva avuto lunghi conciliaboli con Antonio Natale e che entrambi erano amici intimi di Pisone.

 

56. A questo punto si chiama Natale e vengono interrogati separatamente, per sapere di quale colloquio si trattasse e su quale argomento. Allora sorsero sospetti, perché avevano dato risposte contraddittorie, e furono messi in catene. Alla vista degli strumenti di tortura e delle minacce non ressero: per primo parlò Natale, più al corrente di tutta la congiura e più esperto di accuse. Confessò per primo il nome di Pisone, poi aggiunse quello di Anneo Seneca, sia che effettivamente avesse agito da intermediario tra lui e Pisone, sia per ingraziarsi Nerone, il quale non poteva soffrire Seneca e andava cercando ogni mezzo per sopprimerlo. Quando seppe la confessione di Natale, Scevino rivelò gli altri nomi, sia perché debole come lui, sia perché ritenne che ormai la congiura fosse scoperta e il silenzio non avrebbe giovato a nessuno. Tra quelli che furono denunciati, Lucano e Quinziano e Senecione negarono a lungo; poi, attratti dalla promessa dell’impunità, per farsi perdonare il ritardo della confessione, accusarono Lucano la madre Acilia, Quinziano e Senecione gli amici più intimi, Glizio Gallo e Asinio Pollione.

 

57. Nerone intanto si ricordò che Volusio Proculo aveva denunciato Epicari, tuttora detenuta; e pensando che il corpo d’una donna non avrebbe resistito ai tormenti, ordinò che fosse sottoposta alla tortura. Ma né le verghe, né il fuoco, né l’accanimento dei carnefici che tanto più infierivano per non esser zimbello d’una donna, riuscirono a farla desistere dal negare tutte le imputazioni. Così il primo giorno di interrogatorio trascorse. Il giorno seguente, mentre la portavano a subire gli stessi tormenti su una sedia portatile, poiché non poteva reggersi sulle gambe slogate, essa si strappò la fascia che le reggeva il seno e, legatola allo schienale della sedia a mo’ di nodo scorsoio, vi passò dentro la testa, poi si lasciò cadere con tutto il peso del corpo ed esalò il poco spirito che le restava; esempio tanto più insigne, trattandosi d’una donna, una liberta, che in momenti così gravi volle proteggere persone a lei estranee e quasi sconosciute, mentre uomini liberi, cavalieri romani, senatori, senza aver subito alcuna tortura denunciavano ciascuno le persone più care.

 

58. Infatti né Lucano, né Senecione, né Quinziano si astennero dal denunciare i complici. Nerone, intanto, era sempre più in preda al terrore, ad onta del fatto d’aver moltiplicato le guardie attorno alla sua persona, d’aver collocato manipoli su le mura e presidiato persino il mare e il fiume, come se Roma fosse una città occupata. Dappertutto, nelle piazze, nelle case, nelle campagne e persino nei villaggi vicini si aggiravano fanti e uomini a cavallo e tra loro Germani: Nerone se ne fidava perché stranieri. Venivano trascinate di continuo schiere di persone in catene e distese fuori dei cancelli dei giardini; e non appena introdotti all’udienza, li colpiva l’accusa non soltanto di consenso verso i congiurati, ma, come d’un reato, di parole pronunciate casualmente o di incontri fortuiti, se s’erano trovati insieme a cena o a teatro. Oltre agli interrogatori feroci di Nerone, li incalzava con violenza Fenio Rufo, il cui nome non era ancora sfuggito agli imputati e incrudeliva contro i suoi complici per far credere alla sua estraneità al complotto. Quando Subrio Flavo con un cenno gli chiese se doveva impugnare la spada durante l’interrogatorio stesso e compiere l’eccidio, egli si oppose e frenò l’impeto dell’altro, che già aveva messo la mano sull’impugnatura dell’arma.

 

59. Vi furono alcuni che, quando la congiura fu scoperta, mentre Milico era sottoposto a interrogatorio e Scevino esitava, consigliarono Pisone di recarsi nella caserma dei pretoriani o di salire su i rostri per saggiare gli umori dei militari e del popolo; forse, consentendo al suo tentativo, si fossero aggregati a lui quelli che erano al corrente, anche gli ignari lo avrebbero seguito e grande sarebbe stata l’eco del movimento, cosa che nelle rivoluzioni è la più importante. Contro una simile eventualità Nerone non aveva predisposto difese. Di fronte all’imprevisto anche i prodi si sgomentano: tanto meno avrebbe impugnato le armi quell’istrione accompagnato da Tigellino e dalle sue prostitute! Molte imprese all’atto pratico riescono, eppure erano apparse ardue ai codardi. Invano Pisone sperava nella forza d’animo e nella resistenza di tanti complici, nel loro silenzio, nella loro lealtà: di fronte alle torture e ai compensi tutto cede. Sarebbero venuti a mettere in ceppi lui pure, gli avrebbero inflitto una morte ignominiosa: quanto sarebbe stata più degna di lode la sua fine in un gesto d’amore per la patria, nell’atto d’invocare forze per la libertà! se l’esercito gli veniva meno, se la plebe lo tradiva, e se gli avessero tolto la vita, avrebbe reso gloriosa la sua fine al cospetto degli antenati e della posterità. Ma Pisone non fu scosso da queste parole, si sottrasse alla gente, si chiuse in casa per preparare l’animo ai momenti supremi, fino a che si presentò un manipolo di soldati. Nerone li aveva scelti tra le reclute o tra quelli recentemente in servizio, perché non si fidava dei veterani, che sospettava simpatizzanti per Pisone. Questi, recise le vene delle braccia, spirò. Nel testamento, lasciò espressioni di abbietta adulazione per Nerone, per amore della moglie, donna di nascita oscura, nota solo per la sua bellezza. Sposa d’un amico, egli l’aveva rapita. Si chiamava Satria Galla, il primo marito Domizio Silo: lui con la sua acquiescenza, lei con l’impudicizia coprirono di fango il nome di Pisone.

 

60. L’esecuzione successiva fu quella di Plauto Laterano, console designato, che Nerone volle tanto sollecita che non gli fu concesso di abbracciare i figli né un momento per scegliersi la morte. Fu trascinato in un luogo che serviva al supplizio degli schiavi e trucidato per mano del tribuno Stazio; non pronunciò una parola né rinfacciò al tribuno la sua complicità nella congiura.

Seguì la morte di Anneo Seneca, graditissima all’imperatore, non perché avesse le prove della sua partecipazione alla congiura, ma perché poteva sopprimerlo con il ferro, dato che il veleno non aveva avuto effetto. In verità, Natale aveva confessato solamente d’essersi recato a visitare Seneca ammalato per dolersi con lui di non aver voluto ricevere Pisone: sarebbe stato meglio se avessero conservato la loro amicizia con incontri cordiali; al che Seneca aveva risposto che incontri e colloqui non servivano a nulla e che del resto la propria salvezza si basava sull’incolumità di Pisone. Il tribuno dei pretoriani, Gavio Silvano, ricevette l’ordine di riferire a Seneca la deposizione di Natale e chiedergli se riconosceva per vere le parole di lui e le proprie. Quel giorno, per caso o per prudenza, Seneca era rientrato dalla Campania e s’era fermato in un terreno agricolo a quattro miglia dall’Urbe. Il tribuno vi arrivò sul far della sera. Fece circondare la villa da uomini armati, poi comunicò gli ordini dell’imperatore a Seneca; questi sedeva a cena con la moglie Pompea Paolina e due amici.

 

61. Seneca ammise che Natale era stato inviato a lui da Pisone per riferirgli che questi era spiacente di non esser stato ricevuto, al che egli aveva risposto adducendo a sua scusa la salute e il bisogno di tranquillità; non aveva alcun motivo di anteporre la salvezza d’un privato cittadino alla propria incolumità e, del resto, il suo carattere non era facile all’adulazione: nessuno ne era consapevole più di Nerone, il quale di Seneca aveva sperimentato più spesso l’indipendenza che il servilismo. Il tribuno riferì questa risposta a Nerone; erano presenti Poppea e Tigellino, i più intimi consiglieri di Nerone nella ferocia. Nerone chiese al tribuno se gli fosse parso che Seneca si preparasse al suicidio, ma quello rispose di non aver notato alcun indizio di paura o di mestizia sul volto di lui o nelle sue parole. Nerone allora gli ordinò di tornare da Seneca e comunicargli che doveva togliersi la vita.

Attraverso Fabio Rustico apprendiamo che il tribuno non ripercorse la stessa strada sulla quale era venuto, ma deviò e si recò dal prefetto Fenio, al quale espose gli ordini dell’imperatore; gli domandò se doveva obbedire. Questi lo esortò ad eseguire ciò che gli era stato comandato, per la fatale viltà di tutti. Anche il tribuno, infatti, faceva parte dei congiurati, eppure contribuiva ad aumentare il numero di quei delitti a vendicare i quali aveva aderito. Comunque, si risparmiò la vista, le parole di Seneca e introdusse in casa di lui un centurione ad annunciargli il momento estremo.

 

62. Seneca, impavido, chiese le tavolette per redigere il testamento, ma il centurione gli rifiutò il permesso; egli allora si volse agli amici e disse loro, poiché non gli era consentito di dimostrar loro la sua gratitudine, gli restava una cosa sola, la più bella, e quella lasciava loro, l’esempio della sua vita. Se ne conserverete la memoria, avrete, come premio d’un’amicizia fedele, la gloria d’una condotta irreprensibile. Al tempo stesso li esorta a dar prova di fermezza, a frenare le lacrime, e si rivolgeva loro ora pacatamente, ora con tono più fermo nel chieder loro dove fossero quei precetti di saggezza, dove il comportamento meditato per tanti anni contro le avversità. Chi non sapeva quanto Nerone fosse crudele? aveva ucciso la madre, il fratello: non gli restava più che aggiungere l’assassinio del suo educatore e maestro.

 

63. Dopo aver rivolto queste parole e altre simili a tutti, abbracciò la moglie e rimase turbato, contrariamente alla forza d’animo dimostrata fino a quel momento; la pregò insistentemente di dominare il suo dolore e di non lasciare che durasse eterno, ma cercasse un degno conforto al rimpianto di lui nel ripensare alla sua esistenza virtuosamente trascorsa. Ma ella rispose che anche lei voleva morire e chiese l’opera del carnefice. Seneca non si oppose a quella scelta gloriosa, sia per amore, sia per non lasciare esposta agli oltraggi l’unica persona che amava. «Ti avevo indicato» le disse «come sopportare il dolore vivendo, ma tu hai preferito la dignità della morte. Non ti priverò di questo gesto esemplare: sia dunque pari per entrambi il coraggio di questa fine intrepida, ma sarà più luminosa la gloria della tua fine.» Come ebbe pronunciato queste parole con un colpo si recidono le vene delle braccia. Seneca, poiché l’organismo senile e per di più indebolito dalla scarsa alimentazione rendeva lento lo sgorgare del sangue, si taglia anche le vene delle gambe e delle ginocchia; sfinito dai dolori atroci, per non abbattere l’animo della moglie con la vista del suo dolore e per non cedere alla disperazione nel vedere le sofferenze di lei, la persuase a recarsi in un’altra stanza. Benché fosse agli estremi, non gli venne meno l’eloquenza, chiamò gli scrivani e dettò loro molte pagine. Sono state pubblicate testualmente; perciò mi astengo dal riferirle con parole diverse.

 

64. Nerone, però, che non aveva nessun motivo personale di odio contro Paolina, per evitare che aumentasse il malanimo contro di lui per la sua crudeltà, ordinò che le si impedisse di morire; conforme all’ordine, schiavi e liberti le legano strette le braccia, arrestano la fuoruscita del sangue. Non si sa se ella ne avesse coscienza oppure no, ma dato che la gente è sempre incline a credere alla versione peggiore, non mancò di credere che, fino a quando aveva ritenuto Nerone inesorabile, ella aveva cercato la gloria di morire insieme al marito, ma, quando le fu offerta la speranza d’una sorte più mite, cedette alle attrattive della vita. Visse pochi anni ancora, dedita con lodevole culto alla memoria di lui, diffuso nel volto e nelle membra un pallore che stava a rivelare la vitalità perduta.

Seneca intanto, poiché si trascinava a lungo quella lenta morte, pregò Anneo Stazio, da lungo tempo persona di sua fiducia per l’amicizia e per l’arte medica, di somministrargli un veleno che aveva preparato da tempo, quello con il quale morivano gli Ateniesi condannati dal pubblico giudizio23. Gli fu portato e lo bevve, ma inutilmente, poiché le membra frigide e il corpo ormai gelido resistevano all’azione del veleno. Alla fine, si fece mettere in una vasca d’acqua calda e ne asperse gli schiavi, dicendo che egli offriva quella libagione a Giove Liberatore. Finalmente fu portato in un bagno a vapore e qui soffocato spirò. Fu cremato senza alcuna solennità, come aveva prescritto quando, ancora al culmine della ricchezza e del potere, aveva dato disposizioni riguardo alle proprie esequie.

 

65. Fu detto poi che Subrio Flavio, in un convegno segreto con i centurioni, di cui peraltro Seneca non era informato, avesse espresso il proposito, una volta ucciso Nerone per mano di Pisone, soppresso anche questo a sua volta, di affidare l’impero a Seneca, come persona integerrima, eletta alla vetta del potere per le sue preclare virtù. Si citavano le parole stesse di Flavio, il quale diceva che non sarebbe scemato il disonore se, tolto di mezzo un cantante, fosse stato prescelto a sostituirlo un attore: infatti, Nerone cantava con la cetra ma Pisone faceva altrettanto con la maschera da attore tragico.

 

66. Anche la cospirazione dei militari non rimase segreta a lungo, per il desiderio degli indiziati di denunciare Fenio Rufo, complice e inquisitore al tempo stesso. Quando interrogò Scevino con minacciosa insistenza, questi sogghignando gli rispose che nessuno ne sapeva più di lui e lo esortò a seguitare a ricambiare un principe così buono. A queste parole, Fenio non oppose né silenzio né parole ma rivelò la sua paura. Gli altri allora, ma soprattutto Cervario Proculo, cavaliere romano, fecero di tutto per indurlo a parlare, fino a che l’imperatore ordinò al soldato Cassio, di corporatura eccezionalmente vigorosa, che stava accanto all’imperatore, di afferrarlo e metterlo in catene.

 

67. Poi, a seguito di denuncia degli stessi, fu travolto nella tempesta il tribuno Subrio Flavo; sulle prime, egli addusse a propria difesa la disparità dei costumi, affermando che lui, uomo d’armi, mai si sarebbe associato per un delitto di quella gravità con uomini inermi ed effemminati. Poi, incalzato dagli interrogatori, optò per l’onore della confessione. Quando Nerone gli domandò quali motivi l’avessero indotto a dimenticare il giuramento militare: «Ti odiavo» rispose. «Nessuno dei tuoi soldati ti fu più fedele di me fino a che meritasti d’essere amato; cominciai a odiarti quando ti sei mostrato assassino della madre e della moglie, auriga e istrione e incendiario».

Ho riferito testualmente queste parole perché non sono note come quelle di Seneca, ma non meno degne d’esser conosciute, in quanto furono l’espressione del sentire rude e schietto d’un uomo d’armi. Nulla ferì di più Nerone durante tutta la congiura, poiché, pronto com’era a compiere delitti, non era abituato però a sentirselo dire. Fu affidata al tribuno Veiano Nigro l’esecuzione di Flavio; egli ordinò che si scavasse la fossa in un campo vicino, ma Flavio osservò che era troppo stretta e poco profonda e ai soldati che erano attorno disse: «Neppure questo è secondo il regolamento». Gli si disse di porgere il collo con fermezza ed egli: «Volesse il cielo» disse «che tu mi colpisca con altrettanta fermezza!». Quello tremava tanto che a stento riuscì a mozzargli la testa con due colpi, del che poi si vantò con Nerone come d’una prova di ferocia, dicendo che l’aveva ucciso con un colpo e mezzo.

 

68. Poco dopo, dette un esempio di forza d’animo non minore il centurione Sulpicio Aspro. A Nerone, che gli chiedeva perché avesse cospirato per ucciderlo, rispose brevemente che non si sarebbe potuto diversamente rimediare ai suoi numerosi delitti. Poi subì la pena; neppure gli altri centurioni furono degeneri nel sopportare il supplizio. Soltanto Fenio Rufo fu inferiore ad essi, ma espose le sue lamentele persino nel testamento. Nerone aspettava che fosse coinvolto nell’accusa anche il console Vestino, che giudicava violento e ostile; ma i congiurati non gli avevano comunicato i loro propositi, alcuni per antichi rancori, i più perché lo ritenevano avventato e incapace di solidarietà. L’avversione di Nerone contro Vestino era nata ai tempi della loro intima amicizia, perché questi, conoscendo a fondo la viltà del principe, lo disprezzava, e quello temeva l’animo fiero dell’amico che più volte l’aveva schernito con aspro sarcasmo: cosa che, quando si parte dal vero, lascia il segno. Un altro motivo s’era aggiunto di recente e cioè il fatto che Vestino aveva sposato Statilia Messalina, pur non ignorando che tra i suoi amanti c’era anche Nerone.

 

69. Non esistendo dunque né reato né accusa, non potendo indossare la veste del giudice, Nerone indossò quella del tiranno: mandò il tribuno Gerellano con una coorte di soldati con l’ordine di prevenire qualsiasi tentativo del console, di occupare il palazzo, quasi una fortezza, e disperdere i giovani scelti, poiché Vestino possedeva una casa a picco sul Foro e schiavi molto belli e tutti della stessa età. Per tutto il giorno egli aveva svolto le sue mansioni di console e sedeva a pranzo senza alcun timore o dissimulandolo, quando i soldati entrarono e gli dissero che il tribuno lo chiamava. Egli si alza senza indugio e subito gli avvenimenti precipitano: viene chiuso in una stanza, è pronto un medico, gli taglia le vene, ancora vivo viene messo in un bagno e immerso nell’acqua calda, senza che gli sfugga una parola di commiserazione per la propria sorte. I suoi commensali intanto vengono tenuti sotto custodia e lasciati andare solo a tarda notte, mentre Nerone rideva del loro terrore di passare dal convito al supplizio e diceva che avevano subito una pena sufficiente per quel banchetto consolare.

 

70. Poi ordina la morte di Lucano. Questi, mentre il sangue scorreva e sentiva salire il gelo ai piedi, alle mani, e poco a poco dalle estremità fuggire la vita, ma ancora vivo il cuore in petto e lucida la mente, si ricordò di alcuni versi da lui composti, nei quali aveva narrato d’un soldato ferito che moriva allo stesso modo24; e furono le sue ultime parole. Poi morirono Quinziano e Scevino, non da effemminati, com’erano vissuti; infine gli altri congiurati, senza fatti o detti degni di memoria.

 

71. E mentre la città si riempiva di funerali, il Campidoglio di sacrifici, chi aveva perduto un figlio, un fratello o un parente o un amico, rendeva grazie agli dèi, ornava la casa di alloro, si prostrava davanti all’imperatore, gli copriva la mano di baci. Ed egli, convinto che sia autentica letizia, premia con l’impunità le premurose delazioni di Antonio Natale e Cervario Proculo. Milico, arricchito dai compensi, assunse il nome di Salvatore (Sotèr), un aggettivo greco. Dei tribuni, Gaio Silvano, benché assolto, si uccise con le sue mani; Stazio Prossimo rese vano il perdono ricevuto dall’imperatore e si tolse la vita senza ragione. Furono poi esonerati dal titolo di tribuni Pompeo, Cornelio Marziale, Flavio Nepote, Stazio Domizio, in quanto non proprio odiatori del principe ma noti come tali. Furono mandati in esilio Novio Prisco perché amico di Seneca, Glizio Gallo e Annio Pollione perché sospetti ma non provati come rei. La moglie di Prisco, Annia Flaccilla, volle accompagnarlo, Egnazia Massimilla fece lo stesso con Glizio Gallo; questa possedeva ingenti ricchezze, che al principio non furono toccate, ma poi le furono sottratte, il che raddoppiò la sua gloria. Fu bandito, con il pretesto della congiura, anche Rufrio Crispino: Nerone lo odiava, perché era stato marito di Poppea. Espulse Verginio Flavo e Musonio Rufo per la celebrità del loro nome e perché attiravano la devozione dei giovani il primo con l’eloquenza, il secondo con i precetti della filosofia. Cluvidieno Quieto, Giulio Agrippa, Blizio Catulino, Petronio Prisco, Giulio Aitino, quasi una schiera, poterono raggiungere le isole del Mare Egeo. Cedicia, moglie di Scevino, e Cesennio Massimo ebbero il divieto di abitare in Italia e solo dalla condanna appresero d’esser stati ritenuti rei. La madre di Anneo Lucano, Acilia, fu ignorata e non ebbe né condanna né assoluzione.

 

72. Dopo tutte queste condanne, Nerone adunò i militari, distribuì duemila sesterzi ciascuno ai soldati, aggiunse una distribuzione gratuita di frumento, che prima essi pagavano a prezzo di mercato. Poi, come se dovesse far rapporto d’una guerra, convocò il Senato e tributò gli onori trionfali al consolare Petronio Turpiliano, a Cocceio Nerva pretore designato, a Tigellino Prefetto del Pretorio, gli ultimi due esaltati al punto che oltre alle immagini trionfali nel Foro, volle che ne fossero collocate anche nel palazzo. Le insegne consolari furono assegnate a Ninfidio. Di lui, poiché non l’abbiamo mai incontrato prima, dirò poche parole; poiché fu una delle sciagure di Roma. Nato da madre liberta, che aveva concesso la sua bellezza a schiavi e liberti degli imperatori, andava dicendo d’esser figlio di Caligola, poiché aveva, come lui, alta statura e viso torvo; a meno che il principe, che amava le prostitute, non avesse avuto rapporti anche con la madre di lui.

 

73. Nerone convocò il Senato e, dopo aver pronunciato un discorso rivolto ai Padri, pubblicò un editto al popolo e raccolse in un volume le accuse e le confessioni dei condannati; poiché lo offendevano profondamente le critiche, frequenti nel popolo, che avesse soppresso uomini illustri e innocenti per invidia o per paura. D’altra parte, che una congiura fosse iniziata, maturata e infine soffocata non ne dubitavano coloro che avevano il compito di accertare la verità e lo riconobbero anche quelli che tornarono a Roma dopo la morte di Nerone. In Senato tutti si umiliavano fino all’adulazione, quanto più ciascuno era colpito dal dolore; ma Salieno Clemente rimproverò aspramente, chiamandolo nemico pubblico e parricida, Giunio Gallione, fratello di Seneca, il quale, atterrito dalla morte di lui, invocava salvezza per sé; fino a che i senatori lo dissuasero dal valersi delle sventure pubbliche per sfogare un odio privato e dal rievocare avvenimenti ormai conclusi e dimenticati per la clemenza del principe, provocando nuovi rigori.

 

74. Poi furono decretate offerte e cerimonie per rendere grazie agli dèi, soprattutto in onore del Sole, di cui esiste un antico tempio vicino al circo; in esso si sarebbe dovuto commettere il delitto, ma il dio con il suo potere aveva svelato i segreti della congiura. Si stabilì che le corse nel circo in onore di Cerere si celebrassero con un maggior numero di cavalli, e che il mese di aprile assumesse il nome di Nerone e si erigesse un tempio della salute nel luogo dove Scevino aveva tratto il pugnale25. Nerone stesso consacrò quel pugnale in Campidoglio e lo dedicò a Giove Vendicatore; il fatto sul momento non fu notato, ma in seguito, dopo l’insurrezione di Giulio Vindice26, fu visto come auspicio e presagio di futura vendetta. Negli atti del Senato trovo che Ceriale Anicio, console designato, richiesto del suo parere, propose di edificare il più presto possibile, a spese pubbliche, un tempio al dio Nerone. Onore che egli intendeva tributare a un uomo che aveva superato il livello mortale ed era meritevole di culto da parte degli uomini; ma Nerone si oppose, affinché da qualcuno la cosa non fosse interpretata come un presagio di morte prematura; in effetti non si rendono a un principe onori divini prima che abbia cessato di vivere tra i mortali.

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
Storici Latini
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