LIBRO OTTAVO
1. Il divino Vespasiano
1. Il potere imperiale, a lungo reso incerto e quasi vacillante dalla rivolta e dall’uccisione di tre principi 1 fu infine raccolto e consolidato dalla gens Flavia.
Quella famiglia in verità era oscura e priva di importanti figure di antenati, tale tuttavia che lo Stato non ebbe a rammaricarsene; sebbene sia noto che Domiziano abbia pagato meritamente il fio della sua cupidigia e crudeltà.
T. Flavio Petrone 2, cittadino di Rieti, centurione o richiamato, durante la guerra civile, nell’esercito di Pompeo, dopo la battaglia di Farsalo, disertò e riparò in patria; quindi, ottenuto il perdono e il congedo, si mise a fare l’esattore nelle vendite all’asta.
Suo figlio, di nome Sabino 3, esente dal servizio militare (anche se alcuni dicono che era primipilo e altri che, quando ancora guidava le file, era stato sciolto dal giuramento per motivi di salute), riscuoteva in Asia le entrate dell’imposta del quarantesimo, e rimanevano dei ritratti, a lui dedicati dai cittadini, con questa iscrizione: «A un esattore onesto».
In seguito fu banchiere presso gli Elvezi, e in quel paese morì, lasciando la moglie Vespasia Polla e due figli avuti da lei, il maggiore dei quali, Sabino 4, arrivò fino alla prefettura dell’Urbe, il minore, Vespasiano, addirittura al principato.
Polla, nata a Norcia da nobile famiglia, ebbe per padre Vespasio Pollione, tre volte tribuno militare e prefetto del campo 5, per fratello un senatore dell’ordine pretorio.
C’è anche un luogo, in cima a una collina, a sei miglia da Norcia, sulla strada per Spoleto, che si chiama Vespasia 6; lì esistono ancora parecchi monumenti dei Vespasii, chiara testimonianza del lustro e dell’antichità di questa famiglia.
Non posso negare di aver raccolto voci secondo cui il padre di Petrone 7, oriundo dalla regione transpadana, faceva il locatore di operai, di quelli che ogni anno sono soliti emigrare dall’Umbria nella Sabina per la coltivazione dei campi; si sarebbe poi stabilito nella città di Rieti, dopo aver sposato una donna del posto. Ma, per quanto mi riguarda, non ho trovato traccia alcuna di questo fatto, sebbene abbia indagato con un certo impegno.
2. Vespasiano nacque in Sabina, in un modesto villaggio oltre Rieti, che si chiama Falacrine 8, il 17 novembre, verso sera, sotto il consolato di Q. Sulpicio Camerino e C. Poppeo Sabino, cinque anni prima della morte di Augusto 9. Fu allevato, sotto la guida della nonna paterna Tertulia, nella proprietà di Cosa 10. Per questa ragione, anche da imperatore, tornò spesso nei luoghi della sua infanzia, dal momento che la villa era stata lasciata come in passato affinché nulla andasse perduto di quanto era caro ai suoi occhi; ed ebbe tanta venerazione per la memoria della nonna da serbare l’abitudine di bere, nelle solennità pubbliche e private, in una piccola coppa d’argento a lei appartenuta.
Dopo aver preso la toga virile, per molto tempo non si curò del laticlavio 11, sebbene suo fratello l’avesse già ottenuto, e solo dalla madre infine poté essere convinto a farne richiesta. Essa, più che con le preghiere o col peso della sua autorità, lo pungolò col sarcasmo, chiamandolo insistentemente, per umiliarlo, «lacchè» del fratello.
Fu tribuno militare in Tracia 12 come questore, ottenne in sorte la provincia di Creta e Cirene; candidato all’edilità e poi alla pretura, ottenne la prima non senza un insuccesso e poi classificandosi al sesto posto; la seconda, invece, sùbito, alla prima candidatura e ai primi posti.
Da pretore, per non trascurare alcun mezzo di ingraziarsi Gaio 13, che era ostile al Senato, in onore della sua vittoria sui Germani sollecitò giochi straordinari e, come aggravante alla pena dei congiurati, stabilì che fossero lasciati senza sepoltura. Lo ringraziò anche davanti al Senato di avergli fatto l’onore di un invito a cena.
3. Nel frattempo sposò Flavia Domitilla 14, un tempo favorita di Statilio Capella, cavaliere romano di Sabrata in Africa, e di cittadinanza latina, ma poi dichiarata libera e cittadina romana in seguito a un giudizio recuperatorio 15 promosso da suo padre Fabio Liberale, nativo di Férento che non era niente di più che scrivano di un questore. Da lei ebbe i figli Tito, Domiziano e Domitilla. Sopravvisse alla moglie e alla figlia, che aveva perdute quand’era ancora un privato cittadino.
Dopo la morte della moglie, si rimise in casa Cenide 16, liberta e segretaria di Antonia, un tempo sua amante e, anche quando fu imperatore, la tenne quasi in conto di legittima moglie.
4. Durante l’impero di Claudio, per raccomandazione di Narciso 17, fu inviato in Germania come comandante di una legione; di lì trasferito in Britannia, ebbe trenta scontri col nemico. Costrinse alla resa due popolazioni, più di venti città fortificate e l’isola di Vette 18, che è molto vicina alla Britannia, agli ordini sia del legato consolare Aulo Plauzio sia dello stesso Claudio. Per questo ricevette le insegne del trionfo e, in breve tempo, due sacerdozi, e inoltre un consolato che esercitò negli ultimi due mesi dell’anno 19.
Il periodo di tempo fino al consolato, lo passò in appartato riposo, temendo Agrippina 20, che aveva ancora molto potere presso il figlio e odiava l’amico del pur defunto Narciso.
In seguito, ottenuta in sorte la provincia d’Africa 21, la amministrò con grande onestà e non senza grandi riconoscimenti, se si eccettui quando, durante una rivolta ad Adrumeto, gli furono lanciate addosso delle rape. Non ritornò di certo più ricco, giacché, compromesso ormai il suo credito, ipotecò tutte le proprietà al fratello e, di necessità, per sostenere le spese del suo rango, dovette abbassarsi a traffici da mercante di bestiame; perciò era comunemente soprannominato «il mulattiere».
Si dice pure che sia stato riconosciuto colpevole di aver estorto duecento sesterzi a un giovane per il quale aveva ottenuto il laticlavio contro il volere del padre e che per questo fatto sia stato severamente redarguito.
Durante il viaggio in Acaia, al seguito di Nerone 22, poiché, mentre l’imperatore cantava, o si allontanava troppo spesso o sonnecchiava alla sua presenza, si tirò addosso un danno enorme e, trovatosi escluso non solo dalla vita di corte ma anche dalle pubbliche udienze, si ritirò in una cittadina fuori mano fino a quando, mentre se ne stava nascosto e temeva ormai il peggio, gli fu offerto il governo di una provincia e il comando di un esercito 23.
In tutto l’Oriente si era diffusa un’antica e persistente credenza secondo cui era scritto nei fati che quanti in quel tempo fossero venuti dalla Giudea si sarebbero impadroniti del sommo potere. Riferendo a se stessi tale profezia che, a quanto poi risultò dagli eventi, riguardava l’imperatore romano, i Giudei si ribellarono 24, uccisero il governatore e, per di più, misero in fuga, dopo avergli strappato l’insegna dell’aquila, il legato consolare di Siria che recava soccorsi. Poiché erano necessari, per domare quella rivolta, un esercito più consistente e un valente comandante al quale affidare, ma senza rischi, una sì ardua impresa, fu prescelto Vespasiano, soprattutto perché uomo di provato valore e tale da non dare ombra in alcun modo, per la modestia delle sue origini e del suo nome. Aggiunte dunque alle truppe due legioni, otto ali di cavalleria e due coorti, e preso il proprio figlio maggiore 25 tra i luogotenenti, non appena giunse nella provincia, acquistò grande popolarità anche presso le province vicine, poiché immediatamente ristabilì la disciplina negli accampamenti e in una o due occasioni attaccò battaglia con tanta veemenza che, durante l’assalto di un forte, incassò un colpo di pietra a un ginocchio e parecchie frecce nello scudo.
5. Dopo Nerone e Galba, mentre Otone e Vitellio lottavano tra loro per il potere, nutrì la speranza di assurgere all’impero, speranza che già prima aveva concepito grazie a questi segni premonitori. In una proprietà di periferia appartenente ai Flavi, una vecchia quercia sacra a Marte, alla nascita di ognuno dei tre figli di Vespasia improvvisamente gettò dal ceppo un nuovo ramo, segno evidente del destino di ciascuno di essi: il primo ramo era esile e presto disseccato, e infatti la femmina neonata non giunse a un anno; il secondo robusto e lungo, foriero di grande prosperità; il terzo del tutto simile a un albero. Perciò dicono che Sabino, il padre di Vespasiano, rassicurato ulteriormente da una predizione degli aruspici, annunziasse alla propria madre che le era nato un nipote destinato a divenire imperatore; ma quella non aveva fatto altro che sghignazzare, stupita che «mentre lei era ancor sana di mente, suo figlio invece già delirasse».
In séguito, quando Vespasiano rivestiva la carica di edile e C. Cesare 26, adirato perché non aveva provveduto a far spazzare le strade, ordinò ai soldati di farlo imbrattare stipando fango nelle pieghe della sua pretesta, non mancarono quelli che interpretarono il fatto come se un giorno lo Stato, calpestato e derelitto per qualche sconvolgimento politico, dovesse rifugiarsi sotto la sua tutela e quasi nel suo grembo.
Un giorno, mentre pranzava, un cane randagio entrò dalla strada con in bocca una mano umana e la depose sotto la tavola. Un’altra volta, mentre cenava, un bue da aratro, liberatosi dal giogo, fece irruzione nel triclinio: mise in fuga i servi, poi, come se improvvisamente avesse perso le forze, si accasciò, piegando il collo, ai piedi di lui che stava sdraiato. Inoltre, in una campagna dei suoi avi, un cipresso, che era stato sradicato e abbattuto pur senza alcuna furia di temporale, il giorno seguente risorse più verde e più saldo che mai.
In Acaia, poi, sognò che per sé e per i suoi l’inizio di un’era di prosperità sarebbe venuto quando a Nerone fosse stato estratto un dente, e accadde che, il giorno seguente, il medico, avanzando nell’atrio, gli mostrò un dente proprio allora estratto all’imperatore.
In Giudea, quando consultò l’oracolo di Giove Carmelo 27, le sorti gli confermarono la promessa che si sarebbe avverato tutto ciò che di più grandioso egli concepisse e desiderasse. E uno dei notabili prigionieri, Giuseppe 28, mentre veniva costretto in catene, tenacemente assicurava che presto sarebbe stato liberato dallo stesso Vespasiano, una volta divenuto imperatore.
Anche da Roma venivano annunciati presagi: Nerone, negli ultimi giorni della sua vita, era stato avvertito in sogno di trasferire il carro di Giove Ottimo Massimo dal tempio alla casa di Vespasiano e poi nel circo. Non molto dopo, mentre Galba inaugurava i comizi del secondo consolato, la statua del divo Giulio si era voltata da sola verso Oriente 29. Inoltre, sul campo di Bedriaco 30, prima della battaglia due aquile si erano scontrate sotto gli occhi di tutti e, dopo che una era stata sconfitta, da Oriente era sopraggiunta una terza, che aveva messo in fuga la vincitrice.
6. Tuttavia, sebbene i suoi fossero molto risoluti e insistenti, non prese alcuna iniziativa prima di esservi spinto da manifestazioni di simpatia che occasionalmente gli furono tributate anche da soldati sconosciuti e lontani. I duemila soldati delle tre legioni appartenenti all’esercito della Mesia, che erano stati mandati in aiuto di Otone, appena intrapresa la marcia, ricevettero la notizia della sconfitta e del suicidio di costui. Ciononostante proseguirono fino ad Aquileia, quasi senza tener conto di quelle voci. Lì, approfittando dell’occasione e dell’assenza di controllo, si erano dati ad ogni sorta di rapine. Temendo di doverne, al ritorno, rendere ragione e subire una condanna, decisero allora di scegliere e di nominare anche loro un imperatore, giacché ritenevano di non essere inferiori né all’esercito di Spagna che aveva eletto Galba, né a quello di Germania che aveva eletto Vitellio. Così furono presentati i nominativi dei luogotenenti di rango consolare, dovunque allora si trovassero. Tutti venivano scartati per i più diversi motivi; finché alcuni soldati della terza legione, quella che verso la fine dell’impero di Nerone dalla Siria era stata trasferita in Mesia, esaltarono con grandi lodi Vespasiano. Ci fu un accordo generale e scrissero immediatamente il nome di Vespasiano su tutti i loro vessilli.
Per allora, tale pronunciamento fu soffocato e le truppe vennero per qualche tempo richiamate al loro dovere. Ma poi il caso fu divulgato e Tiberio Alessandro, governatore dell’Egitto, per primo obbligò le legioni a giurare fedeltà a Vespasiano. Era il primo luglio, giorno che in séguito venne celebrato come l’inizio del suo principato.
Più tardi l’11 luglio, prestò giuramento in sua presenza l’esercito della Giudea.
Molto giovò all’impresa la diffusione di una lettera indirizzata a Vespasiano, autentica o falsa che fosse, del defunto Otone che, in un’estrema supplica, lo pregava di vendicarlo e lo esortava a soccorrere lo Stato. Giovò anche la voce diffusasi nello stesso tempo, secondo cui Vitellio, dopo la sua vittoria, aveva deciso di cambiare i quartieri d’inverno delle legioni e di trasferire quelle della Germania in Oriente, per un servizio più tranquillo e meno duro. Furono inoltre di aiuto, tra i governatori di provincia, Licinio Mudano 31 e, tra i re, il parto Vologese 32: il primo, deposta l’ostilità, nata dalla gelosia, che fino a quel momento gli aveva dimostrato apertamente, gli promise l’esercito di Siria, il secondo gli garantì quarantamila arcieri.
7. Affrontata dunque la guerra civile e mandati avanti in Italia generali e truppe, frattanto passò ad Alessandria, per tenere nelle sue mani le chiavi dell’Egitto. Qui, fatti allontanare quelli del suo séguito, entrò da solo nel tempio di Serapide 33 per prendere gli auspici circa la stabilità dell'impero e, quando infine si voltò, dopo avere a lungo pregato il dio, gli parve di vedere il liberto Basilide 34 che gli offriva, secondo l’usanza locale, corone di verbena e focacce; eppure era certo che costui non era stato fatto entrare da alcuno, tanto più che già da tempo camminava a fatica per una malattia articolare e ora si trovava lontano. Sùbito dopo giunse una lettera che annunziava la sconfitta delle truppe di Vitellio presso Cremona e la sua uccisione avvenuta a Roma.
A Vespasiano, imperatore improvvisato e ancora recente, mancavano naturalmente il prestigio e una certa solennità, ma egli ottenne anche questo.
Due plebei, uno cieco e l’altro zoppo, gli si presentarono davanti insieme, mentre sedeva in tribunale, e lo pregarono di apportare alla loro salute quel rimedio che Serapide aveva suggerito in sogno: egli dicevano avrebbe risanato gli occhi se li avesse bagnati con la sua saliva e avrebbe rinsaldato la gamba malata se si fosse degnato di toccarla col suo calcagno. Era quasi incredibile che il tentativo potesse avere successo e Vespasiano perciò non osava neppure provare; ma alla fine, in seguito alle insistenze degli amici, affrontò pubblicamente, davanti all’assemblea, entrambe le prove: e il successo non mancò.
Quasi nello stesso periodo, a Tagea, in Arcadia, su indicazione degli indovini, furono estratti da un luogo consacrato alcuni vasi di antica fattura: su di essi appariva un’immagine molto simile a Vespasiano.
8. Preceduto da una fama così grande, Vespasiano tornò dunque a Roma e, dopo aver celebrato il trionfo sui Giudei 35, aggiunse al primo ben otto consolati; assunse anche l’incarico della censura e, per tutto l’arco del suo impero, niente considerò più importante che cercare di dare consolidamento e poi anche splendore allo Stato, ora quasi afflitto e vacillante.
I soldati, chi per baldanza di vittoria chi per il bruciore della sconfitta, si erano spinti a ogni sfrenata audacia; ma anche province e città libere, nonché alcuni regni, avevano tra loro rapporti piuttosto burrascosi. Perciò dei soldati di Vitellio egli congedò la maggior parte e li tenne a freno; quanto a quelli che avevano contribuito alla vittoria, non accordò alcun favore straordinario: anzi, ritardò perfino il pagamento delle legittime ricompense.
Non trascurò alcuna occasione di restaurare la disciplina: respingendo con un cenno del capo un giovanotto tutto profumato che lo ringraziava per la concessione di una prefettura, lo rimproverò anche con parole pesantissime: «Avrei preferito che tu puzzassi d’aglio», e gli revocò la nomina.
Quando poi i marinai, che da Ostia e da Pozzuoli si recano abitualmente a piedi a Roma per l’avvicendamento 36, chiesero che fosse loro concessa un’indennità per il consumo delle scarpe, quasi fosse poca cosa averli mandati via senza un cenno di risposta, ordinò che, da allora in poi, marciassero a piedi scalzi; e così infatti da quel momento marciano.
Ridusse a province l’Acaia, la Licia, Rodi, Bisanzio, Samo, togliendo loro la libertà, nonché la Cilicia Trachèa e la Commagene 37, fino a quel tempo governate da re.
In Cappadocia, a causa delle continue incursioni di barbari, aumentò il numero delle legioni e, al posto di un cavaliere romano, pose come governatore un ex console.
Roma era deturpata dai segni di crolli e di passati incendi; e Vespasiano permise a chiunque di occupare le aree vuote e di costruirvi sopra se i proprietari non prendevano iniziative.
Di persona, avviando la ricostruzione del Campidoglio, per primo diede mano alla rimozione delle macerie e al trasporto di materiali. Prese inoltre l’iniziativa di restaurare tremila tavole di bronzo, che in blocco erano andate distrutte nell’incendio, dopo averne fatte ricercare ovunque le copie: era la più bella e la più antica raccolta di documenti imperiali, e conteneva le deliberazioni del Senato e i plebisciti relativi ad alleanze, trattati e privilegi a chiunque concessi, fin quasi dalla fondazione di Roma.
9. Eresse anche nuovi edifìci: il tempio della Pace presso il foro e, sul colle Celio, quello del divino Claudio, che, già iniziato da Agrippina, era stato quasi completamente demolito da Nerone; inoltre un anfiteatro nel centro della città, come sapeva avere a suo tempo progettato Augusto 38.
Con un nuovo censimento dei senatori e dei cavalieri, allontanando i più indegni e accogliendo i cittadini più rispettabili dell’Italia e delle province, epurò e completò gli ordini maggiori dello Stato dissanguati dalle ripetute uccisioni e degradati per inveterata trascuratezza 39. E, affinché fosse ben chiaro che i due ordini differivano tra loro non tanto per i diritti quanto per il rango, in una lite sorta tra un senatore e un cavaliere romano sentenziò che «non si dovevano ingiuriare i senatori, ma che, comunque, ricambiare gli insulti era un diritto civile e morale».
10. Le liste dei processi si erano allungate dovunque a dismisura, dal momento che i vecchi rimanevano pendenti per interruzioni nell’amministrazione della giustizia e sempre di nuovi se ne aggiungevano, data la turbolenza dei tempi. Sorteggiò allora dei magistrati che dovevano curare la restituzione dei beni sequestrati durante la guerra e dirimere, in via straordinaria, le cause di competenza dei centumviri 40, riducendole al minimo, giacché, ad espletarle, sembrava a stento bastare la vita delle parti in lite.
11. Il lusso e la scostumatezza si erano propagati per mancanza di freno. Egli suggerì al Senato di decretare che qualunque donna avesse avuto rapporti con uno schiavo altrui fosse considerata schiava lei stessa; e che gli usurai che prestavano denaro ai figli di famiglia non avessero il diritto di esigere il credito mai più, cioè neppure dopo la morte dei padri 41.
12. Per il resto, dall’inizio del suo impero fino alla fine, fu semplice e clemente. Non nascose mai la modestia della propria origine, anzi frequentemente se ne gloriò; e addirittura derise alcuni che tentavano di far risalire l’origine della gens Flavia ai fondatori di Rieti e a un compagno di Ercole, la cui tomba si trova ancora sulla via Salaria.
A tal punto fu alieno dal ricercare con avidità pompe esteriori che, nel giorno del trionfo, infastidito dalla lentezza e dalla noia della cerimonia, non si trattenne dal dire che «giustamente era punito per avere, da vecchio, tanto insensatamente bramato il trionfo, come se fosse dovuto ai suoi antenati o egli l’avesse mai sperato». E non accettò, se non tardi, la carica di tribuno *** e il titolo di Padre della Patria. Quanto all’usanza di far perquisire coloro che venivano a salutarlo, l’aveva abolita quando ancora imperversava la guerra civile.
13. Tollerò con grandissima indulgenza la franchezza degli amici, le allusioni degli avvocati e l’arroganza dei filosofi. Non se la sentì di rimproverare mai, se non in privato, Licinio Muciano 42, notoriamente omosessuale, che gli portava scarso rispetto confidando nelle proprie benemerenze, e si limitò a lagnarsene con un comune amico e a concludere con questa frase: «Io, almeno, sono un maschio».
Ebbe anche a lodare Salvio Liberale 43, quando osò dire, nella difesa di un imputato ricco: «Che interessa a Cesare, se Ipparco possiede cento milioni di sesterzi?».
E quando Demetrio il cinico 44, dopo la condanna, gli si parò dinanzi per via e non si degnò né di alzarsi né di salutare, latrando contro di lui non so che cosa, si accontentò di chiamarlo cane.
14. Senza serbare rancore né meditare vendette per offese e ostilità, fece maritare splendidamente la figlia del suo avversario Vitellio, fornendole anche la dote e l’arredamento della casa.
Quando, sotto il principato di Nerone, gli era stato proibito l’ingresso a corte ed egli tutto timoroso chiedeva che fare e dove andare, uno degli amici, cacciandolo, gli aveva gridato di «andare alla malora» 45, in séguito, quando questi venne a chiedergli perdono, egli non infierì se non con le parole, che, in verità, furono quasi identiche a quelle che erano state usate contro di lui.
Fu tanto alieno dal lasciarsi spingere a rovinare qualcuno per qualche sospetto o timore, che, quando gli amici lo invitarono a guardarsi da Mezzio Pompusiano 46, giacché tra la gente si andava dicendo che avesse l’Impero iscritto nell’oroscopo fin dalla nascita, egli lo nominò addirittura console, assicurando che un giorno si sarebbe ricordato del favore che gli concedeva.
15. Non senza difficoltà si potrebbe trovare un innocente che sia stato punito, se non in sua assenza e a sua insaputa, o certamente contro il suo volere o con l’inganno. Contro Elvidio Prisco 47, che era stato il solo a salutarlo, al ritorno dalla Siria, col semplice nome di Vespasiano e che, come pretore, in tutti gli editti aveva trascurato di rendergli omaggio e anche solo di menzionarlo, non si adirò se non quando, in dispute violentissime, si vide trattato con assoluto disprezzo. Sebbene dapprima lo avesse fatto confinare e ne avesse ordinato l’uccisione, pensò bene di salvarlo in qualche modo mandando a richiamare gli esecutori; e lo avrebbe salvato, se non gli fosse stato falsamente riferito che era già morto.
Del resto, non si rallegrò mai per l’uccisione di alcuno; *** anzi ebbe a soffrire e piangere anche per giuste condanne.
16. Il solo difetto di cui giustamente lo si può incolpare è l’avidità di denaro. Infatti, non contento di aver preteso l’esazione delle imposte che non erano state riscosse sotto Galba, di averne aggiunte di nuove e più gravose, di aver aumentato i tributi alle province, raddoppiandoli perfino in alcuni casi, si dedicò apertamente a speculazioni disonorevoli anche per un privato cittadino, facendo incetta di certe merci soltanto per poi rivenderle a più caro prezzo.
E non esitò nemmeno a vendere le cariche ai candidati e le assoluzioni agli imputati sia innocenti sia colpevoli. Si sospetta pure che fosse solito promuovere di proposito ad incarichi particolarmente importanti gli amministratori più rapaci, allo scopo di condannarli poi, una volta arricchiti: li usava si diceva in giro come spugne, perché, quando erano asciutti, li inzuppava, e, quando erano bagnati, li spremeva.
Alcuni dicono che fosse molto avido proprio per natura e che questo difetto gli fosse stato rinfacciato da un vecchio bovaro che, quando gli fu negata la libertà umilmente richiesta, a titolo gratuito, a lui che aveva ottenuto l’impero, ebbe ad esclamare: «La volpe perde il pelo, ma non il vizio!».
Vi sono invece altri che ritengono che egli sia stato spinto a saccheggi e rapine dalla necessità, per l’estrema povertà dell’erario e del fisco, che aveva denunciato sùbito fin dall’inizio del suo principato, dichiarando che «erano necessari quaranta miliardi di sesterzi perché lo Stato potesse reggersi». E la cosa sembra verosimile, dal momento che egli fece ottimo uso anche di quanto aveva malamente acquisito.
17. Generosissimo verso ogni categoria di persone, aumentò il censo dei senatori, soccorse gli ex consoli poveri con cinquecentomila sesterzi l’anno, ricostruì, in ogni parte del mondo, molte città devastate da terremoti o da incendi, favorì al massimo grado gli ingegni e le arti.
18. Fu il primo ad assegnare, attingendo al fisco, una pensione annua di centomila sesterzi per ciascuno ai retori latini e greci; i poeti più insigni, nonché gli artisti, come il restauratore della Venere di Coo e così pure quello del Colosso 48, gratificò con ricchi donativi e lauti stipendi, e anche a un ingegnere, che assicurava di poter trasportare sul Campidoglio con modica spesa alcune enormi colonne, offrì un premio non indifferente per il progetto, ma poi rinunciò all’esecuzione dell’opera dicendogli che «gli lasciasse sfamare il popolino».
19. Per gli spettacoli con cui si inaugurava la scena restaurata del teatro di Marcello 49, aveva richiamato anche vecchi artisti. All’attore tragico Appellaride donò quattrocentomila sesterzi, ai citaredi Terpno e Diodoro 50 duecentomila ciascuno, centomila ad alcuni altri e, come minimo, quarantamila, oltre a moltissime corone d’oro.
Offriva frequenti banchetti, quasi sempre sontuosi e abbondanti, per favorire i fornitori. Come offriva doni agli uomini durante i Saturnali, così li offriva alle donne per le calende di marzo 51.
Tuttavia, neppure in questo modo riuscì a sottrarsi alla sua antica taccia di avidità.
Gli Alessandrini continuarono a chiamarlo Cibiosacte 52 col nomignolo che avevano dato a un loro re schifosamente spilorcio.
E perfino durante il suo funerale, Favore, il capo dei mimi, che portava la maschera dell’imperatore e ne imitava, come è costume, gli atteggiamenti e le parole, domandò chiaro e tondo agli amministratori quanto venisse a costare la cerimonia delle esequie e, quando udì che costava dieci milioni di sesterzi, gridò: «Ne dessero centomila a lui, e poi lo buttassero pure nel Tevere».
20. Fu di statura media, di membra salde e compatte, di volto quasi contratto in uno sforzo: a questo proposito, un tipo spiritoso, al quale aveva chiesto di dire qualche battuta anche su di lui, ebbe l’audacia di rispondere non poco argutamente: «Lo dirò quando avrai smesso di scaricare il ventre».
Godette di ottima salute, sebbene per conservarla si limitasse a frizionare regolarmente la gola e le altre parti del corpo nello sferisterio 53 e ad osservare un giorno di stretto digiuno ogni mese.
21. Seguiva più o meno questo tenore di vita: durante il suo principato si svegliava sempre piuttosto di buon’ora, persino quando era ancora notte. Poi, dopo aver letto tutta la corrispondenza e i rapporti dei funzionari, riceveva gli amici e, mentre accoglieva i saluti, si calzava e vestiva da solo. Dopo aver sbrigato tutti gli affari che si presentavano, si dedicava alle passeggiate in lettiga e quindi al riposo, in compagnia di qualcuna delle concubine che, numerose, aveva messo al posto della defunta Cenide 54; dalla sua camera passava poi nel bagno e nel triclinio. Dicono che in nessun momento fosse più disponibile e più indulgente; e i domestici cercavano di cogliere particolarmente quelle occasioni per rivolgergli qualche richiesta.
22. Sia a tavola sia altrove, era sempre socievolissimo e risolveva molte situazioni con un motto di spirito: era infatti uomo di notevole mordacità, anche se così scurrile e volgare da non astenersi neppure da qualche parola oscena.
E tuttavia restano alcune sue battute assai spiritose, come le seguenti. Poiché l’ex console Mestrio Floro gli aveva fatto osservare che si doveva dire plaustro piuttosto che plostra 55, il giorno dopo Vespasiano lo salutò chiamandolo Flauro.
Avendo ceduto agli attacchi di una che sembrava morire d’amore per lui, le diede quattrocentomila sesterzi per una notte d’amplessi e, quando il tesoriere gli chiese come volesse registrare quella somma nei suoi conti, rispose: «Per Vespasiano appassionatamente amato».
23. Abbastanza opportunamente citava anche versi greci e latini. Di un tale, che era dotato di alta statura e di membro spropositato, disse:
Camminando a grandi passi, brandendo un’asta dalla lunga ombra 56;
del suo liberto Cerilo, che, ricchissimo, al fine di evadere a tempo debito il fisco, aveva cominciato a presentarsi come uomo libero e col nuovo nome di Lachete:
O Lachete, Lachete,
quando sarai morto, riprenderai come prima
ad essere Cerilo 57.
Ma ostentava mordacità soprattutto nel caso di profitti illeciti, per attenuarne l’odiosità con qualche motteggio e volgerli in burla.
Uno dei suoi servitori più fidati gli chiese un posto di amministratore per un tale che aveva caro come un fratello. Egli rimandò la risposta; poi convocò il candidato in persona, e, dopo aver riscosso la somma, tale quale questi aveva pattuito col suo protettore, senza indugio gli concesse l’incarico. E al servitore tornato più tardi a sollecitare la risposta: «Cercati un altro fratello», disse, «perché questo, che tu credi tuo, invece è fratello mio».
Durante un viaggio, sospettando che il cocchiere fosse saltato a terra con il pretesto di ferrare le mule per concedere ad uno che era in causa con lui la possibilità e il tempo di avvicinarlo, gli chiese «a che prezzo avesse ferrato le mule», e reclamò una parte del guadagno.
Al figlio Tito, che lo criticava perché aveva escogitato perfino un’imposta sull’orma, mise sotto il naso il denaro ricavato dal primo versamento, chiedendogli se era disturbato dall’odore; e poiché egli rispose di no: «Eppure», disse, «viene dall’orma 58».
Quando certi ambasciatori gli annunciarono che gli era stata decretata, a spese pubbliche, una statua colossale, di non lieve costo, rispose che la erigessero anche subito e, mostrando il cavo della mano, disse che il «piedistallo era pronto».
Neppure nel timore dell’estremo pericolo di morte si astenne dagli scherzi: infatti quando, tra gli altri prodigi, si era aperto improvvisamente il Mausoleo ed era apparsa in cielo una cometa, disse che il primo presagio riguardava Giunia Calvina, discendente da Augusto, l’altro il re dei Parti, che aveva una lunga chioma 59. Anche al primo attacco della malattia: «Ahimè», disse, «credo che sto diventando un dio».
24. Durante il suo nono consolato 60, colpito, in Campania, da leggeri attacchi di febbre e tornato immediatamente a Roma, si recò a Cutilio 61 e nella campagna di Rieti, dove ogni anno era solito passare l’estate. Qui, oltre all’indisposizione che lo affliggeva, si era rovinato anche l’intestino con un’eccessiva quantità d’acqua gelata; nondimeno continuava a compiere, come al solito, i suoi doveri d’imperatore, tanto da ricevere le legazioni perfino mentre stava a letto. Ma, quando un improvviso attacco di diarrea lo ridusse allo stremo, disse che «un imperatore doveva morire in piedi»; e, mentre si sforzava di alzarsi, spirò tra le braccia di quelli che lo sostenevano, il 23 giugno, all’età di sessantotto anni, sette mesi e sette giorni.
25. Tutti sono concordi nel dire che egli era tanto sicuro del proprio oroscopo e di quello dei suoi figli, da avere il coraggio di dichiarare al Senato, anche dopo una serie di congiure contro la sua persona, che gli sarebbero succeduti i figli o nessun altro.
Si dice pure che un giorno vide in sogno, collocata in mezzo al vestibolo della sua casa sul Palatino, una bilancia con l’ago in equilibrio: su un piatto stavano Claudio e Nerone, sull’altro lui e i suoi figli. La realtà non lo smentì, perché gli uni e gli altri regnarono per ugual numero di anni e pari periodo di tempo.