Libro terzo
1. Nei comizi che si tennero sotto la dittatura di Cesare, furono eletti consoli Giulio Cesare e Publio Servilio1; era quello infatti l’anno in cui, a termini di legge, egli poteva accedere di nuovo al consolato. Fatto ciò, poiché in tutta l’Italia il credito era in una situazione piuttosto grave, e i debiti non venivano pagati, stabilì che venissero nominati degli arbitri, che procedessero alla stima dei beni mobili e immobili, in base al loro valore di prima della guerra, per soddisfare con questi i creditori. Ritenne che questo fosse il provvedimento più adatto ad eliminare o almeno a diminuire il timore della cancellazione dei debiti2, normale conseguenza delle guerre e delle discordie civili, e a salvaguardare il credito dei debitori. Parimenti, su proposta presentata al popolo dai pretori e dai tribuni della plebe, riabilitò alcuni cittadini condannati per broglio elettorale in base alla legge Pompea3, nel periodo in cui Roma era presidiata dalle legioni di Pompeo e le sentenze venivano emesse da giudici diversi da quelli che avevano seguito la causa, e il tutto veniva liquidato in una sola giornata. Questi cittadini si erano messi a sua disposizione fin dall’inizio della guerra civile, nel caso volesse servirsi di loro nel conflitto, ed egli si comportava come se se ne fosse servito, poiché gli avevano dato la loro disponibilità. Aveva infatti stabilito che costoro dovevano essere reintegrati nei loro diritti con una pubblica sentenza, piuttosto che sembrare riabilitati dal suo personale favore, questo per non sembrare ingrato nel restituire un favore o arrogante nell’attribuire a se stesso la facoltà di accordare un beneficio che spettava al popolo concedere.
2. Per il disbrigo di tutte queste faccende, per le Ferie latine4 e tutti i comizi5 impiega undici giorni, al termine dei quali depone la dittatura, parte da Roma e giunge a Brindisi6. Aveva ordinato che qui si concentrassero dodici legioni e tutta la cavalleria. Ma poté trovare un numero di navi appena sufficiente a trasportare quindicimila legionari e cinquecento cavalieri. Solo questo impedì a Cesare di concludere rapidamente il conflitto. Inoltre, le truppe che vengono imbarcate contano un numero ridotto di effettivi, perché molti erano caduti nelle numerose campagne condotte in Gallia, e molti erano venuti meno lungo il tragitto dalla Spagna, e inoltre l’autunno malsano della Puglia e dei dintorni di Brindisi, al rientro dalle saluberrime regioni della Gallia e della Spagna, aveva reso malferma la salute di tutto l’esercito7.
3. Pompeo aveva avuto a disposizione un intero anno per preparare le sue truppe, senza guerra e senza azioni di disturbo da parte del nemico; aveva raccolto una grande flotta dall’Asia, dalle Cicladi, da Corcira, da Atene, dal Ponto, dalla Bitinia, dalla Siria, dalla Cilicia, dalla Fenicia e dall’Egitto, e un’altra, altrettanto grande, ne aveva fatta costruire in ogni luogo, e aveva riscosso le grandi somme imposte in Asia e in Siria a tutti i re, dinasti e tetrarchi e alle città libere dell’Acaia8, e si era fatto inoltre versare le grandi somme che le compagnie di pubblicani9 avevano esatto nelle province che egli occupava.
4. Aveva costituito nove legioni di cittadini romani: cinque erano quelle che aveva portato dall’Italia; una, di veterani, che egli chiamava la duplice, perché formata da elementi provenienti da due diverse legioni proveniva dalla Cilicia; una da Creta e dalla Macedonia, anche questa di veterani, che, dopo essere stati congedati dai precedenti generali, si erano stabiliti in quelle province; due dall’Asia, reclutate dal console Lentulo. Aveva inoltre distribuito nelle legioni, come complementi, moltissimi Tessali, Beoti, Achei ed Epiroti, ai quali aveva unito i soldati di Antonio10. Era in attesa inoltre di due legioni dalla Siria guidate da Scipione. Aveva tremila arcieri di Creta, di Sparta, del Ponto e delle altre popolazioni della Siria, due coorti da seicento uomini di frombolieri e settemila cavalieri. Di questi, seicento erano stati condotti dalla Galazia da Deiotaro11, cinquecento da Ariobarzane dalla Cappadocia12, un numero pressappoco uguale ne era stato fornito da Coto, dalla Tracia, sotto il comando di suo figlio Sadala13; duecento provenivano dalla Macedonia, guidati da Rascipoli14, uomo di straordinario valore; cinquecento venivano da Alessandria, dalle truppe di Gabinio15: erano cavalieri galli e germani lasciati da Aulo Gabinio come corpo di guardia del re Tolomeo, e che il figlio di Pompeo aveva trasportato con la flotta; ottocento erano stati raccolti tra gli schiavi e i pastori di Pompeo stesso; trecento venivano dalla Gallogrecia, forniti da Tarcondario Castore e Domnilao16, dei quali uno era venuto insieme al suo contingente e l’altro aveva inviato il figlio: duecento erano stati inviati dalla Siria da Antioco Commageno17, che aveva ricevuto molti favori da Pompeo, e la maggior parte di questi erano arcieri a cavallo. A questi aveva aggiunto Dardani, Bessi18, in parte mercenari e in parte arruolati d’autorità o volontari, ed inoltre Macedoni, Tessali e uomini di altre nazionalità e di altre città, fino a raggiungere il numero sopra indicato.
5. Si era procurato un’enorme quantità di frumento proveniente dalla Tessaglia, dall’Asia, dall’Egitto, da Creta, da Cirene e dalle altre regioni. Aveva deciso di svernare a Durazzo, ad Apollonia19 e in tutte le piazzaforti marittime, per impedire a Cesare di attraversare il mare, e a questo scopo aveva dislocato la flotta lungo tutte le coste. Pompeo figlio era a capo delle navi egiziane, Decimo Lelio20 e Gaio Triario21 comandavano le asiatiche, Gaio Cassio22 le siriache, Gaio Marcello con Gaio Coponio23 quelle di Rodi, mentre la flotta liburnica24 e achea era comandata da Scribonio Libone e Marco Ottavio25. Marco Bibulo26, preposto all’intera operazione marittima, aveva la direzione generale: era lui il comandante supremo.
6. Come Cesare arrivò a Brindisi, tenne un discorso ai soldati: poiché si era giunti quasi alla fine delle fatiche e dei pericoli, essi dovevano di buon animo lasciare in Italia schiavi e bagagli, imbarcarsi sulle navi senza altri carichi, perché vi si potesse caricare un maggior numero di soldati, e riporre ogni speranza nella vittoria e nella sua liberalità. Avendo tutti risposto a gran voce che comandasse pure ciò che voleva, che essi avrebbero eseguito di buon animo qualsiasi suo ordine, salpò due giorni dopo le none di gennaio27. Furono imbarcate, come abbiamo già detto, sette legioni. Il giorno dopo si toccò terra. Trovato un ancoraggio tranquillo tra gli scogli dei Cerauni e altri luoghi pericolosi, evitando tutti i porti che riteneva in mano avversaria, senza aver subito alcun danno alle navi, sbarcò le sue truppe in un luogo chiamato Paleste28.
7. Lucrezio Vespillone e Minucio Rufo si trovavano ad Orico29 con diciotto navi del contingente asiatico, che comandavano per incarico di Decimo Lelio, mentre Marco Bibulo si trovava a Corcira30 con centodieci navi. Ma né i primi osarono uscire dal porto fidando nelle proprie forze, sebbene Cesare avesse condotto con sé in tutto una scorta di dodici navi da guerra, di cui solo quattro pontate, né Bibulo, le cui navi non erano in assetto per l’assenza dei rematori, si mosse con sufficiente velocità, perché Cesare fu avvistato vicino alla terraferma prima che si spargesse in quelle regioni la notizia del suo arrivo.
8. Sbarcate le truppe, Cesare rimandò le navi a Brindisi la notte stessa, perché potessero trasportare il resto dell’esercito e la cavalleria. Era incaricato di questa missione il legato Fufio Galeno, che doveva provvedere a trasportare le legioni in tutta fretta. Ma le navi che, salpate troppo tardi, non avevano potuto usufruire della brezza notturna, trovarono ostacoli. Bibulo infatti, che aveva saputo a Corcira dell’arrivo di Cesare, sperando ancora di poter incontrare qualcuna delle navi cariche di soldati, si imbatté in quelle scariche e, capitato su una squadriglia di una trentina di navi, sfogò su di loro la rabbia della propria trascuratezza e dello scacco subito: le incendiò tutte facendo morire tra le fiamme i marinai e i capitani, nella speranza di terrorizzare gli altri con l’enormità del castigo. Fatto ciò, occupò con la flotta, in lungo e in largo, tutto il litorale dal porto di Sasone31 a quello di Curico32, disponendo anche con particolare attenzione i posti di guardia; egli stesso, dormendo sulle navi nonostante il rigore invernale, senza risparmiarsi nessuna fatica o incombenza, o aspettare aiuto, per vedere se poteva bloccare Cesare...33
9. Dopo la partenza delle navi liburniche dall’Illirico, Marco Ottavio si portò a Salona34 con quelle che erano sotto il suo comando. Qui, sobillati i Dalmati e gli altri barbari, sottrasse Issa35 all’alleanza con Cesare. Non riuscendo a smuovere né con promesse né con minacce l’associazione dei cittadini romani di Salona, mise l’assedio alla città, difesa peraltro tanto dalla sua posizione naturale quanto da un’altura. Ma subito i cittadini romani, costruite delle torri di legno, provvidero alla propria difesa, e poiché la resistenza risultava difficile per mancanza d’uomini, sfiniti dalle ripetute ferite, si ridussero all’estremo rimedio: liberarono tutti gli schiavi adulti e fecero tagliare le chiome a tutte le donne per ricavarne corde per le macchine da guerra. Di fronte alla loro decisione, Ottavio circondò la città con cinque campi e si diede a martellarli con continui assalti, mentre li stringeva d’assedio. Gli assediati, pronti a sopportare ogni disagio, erano tormentati principalmente per la mancanza di frumento. Per questo motivo mandarono ambasciatori a Cesare per chiedergli aiuto; le altre difficoltà erano in grado di sostenerle da soli, come potevano. Dopo parecchio tempo, quando l’abitudine ebbe reso meno vigili i soldati di Ottavio, cogliendo l’occasione offerta dall’ora meridiana, in cui i soldati si allontanavano, collocarono donne e bambini sulle mura, perché nulla mancasse alla consueta disposizione, mentre essi, formata una schiera con quelli che avevano poco prima liberato, irruppero sul più vicino accampamento di Ottavio. Dopo averlo espugnato, attaccarono nel medesimo assalto il successivo e poi il terzo e il quarto ed infine l’ultimo; da tutti scacciarono i nemici e, fattane strage, costrinsero gli altri, e lo stesso Ottavio, a riparare sulle navi. Questo segnò la fine dell’assedio. L’inverno era ormai prossimo e Ottavio, dopo aver subito tante perdite, disperando ormai di poter espugnare la città, si ritirò a Durazzo presso Pompeo.
10. Abbiamo già detto come Lucio Vibullio Rufo, prefetto di Pompeo, fosse già due volte caduto nelle mani di Cesare e come fosse stato da lui rimesso in libertà, una volta a Corfinio e un’altra volta in Spagna. Per il favore dimostratogli, Cesare lo riteneva adatto a portare a Gneo Pompeo alcune sue proposte, ed aveva anche capito che lo «stesso esercitava presso Pompeo una certa influenza. Questo in breve il contenuto delle proposte: ambedue dovevano metter fine alla loro ostinazione, deporre le armi e non tentare oltre la sorte. Si erano subiti da ambedue le parti danni sufficienti, da poter servire di lezione e monito, e da indurli a temere per il futuro: Pompeo era stato scacciato dall’Italia, aveva perduto la Sicilia, la Sardegna e le due Spagne, e centotrenta coorti di cittadini romani in Italia e in Spagna, Cesare lamentava la morte di Curione, la disfatta dell’esercito in Africa e la resa di Antonio e dei suoi soldati a Curicta. Risparmiassero quindi se stessi e lo Stato, visto che di quanto in guerra possa la Fortuna, potevano già dare ampia testimonianza loro stessi con le proprie sciagure. Era quello il momento più opportuno per trattare la pace, dato che ambedue avevano ancora fiducia in sé e le loro forze sembravano pari; se invece la Fortuna avesse dato a uno di loro il benché minimo vantaggio, colui che avesse ritenuto di avere la meglio, non avrebbe accondisceso a trattative di pace, né si sarebbe accontentato di un’equa ripartizione, chi avesse avuto la speranza di appropriarsi di tutto. Bisognava chiedere a Roma, al senato e al popolo, quelle condizioni di pace sulle quali mai prima avevano potuto accordarsi. Questo era nell’interesse dello Stato ed era opportuno che essi vi si conformassero, nel caso che ambedue avessero immediatamente giurato di fronte all’esercito di congedare le truppe entro tre giorni. Deposte le armi e le alleanze, nelle quali ora confidavano, necessariamente si sarebbero ambedue rimessi al giudizio del popolo e del senato. Perché Pompeo potesse più tranquillamente accettare le sue proposte, egli avrebbe congedato tutte le sue truppe di terra e di stanza nelle città...36
11. Nonostante gli fossero state affidate queste proposte, Vibullio ritenne non di meno necessario informare Pompeo dell’improvviso arrivo di Cesare, affinché potesse prendere una decisione in merito prima che si desse inizio alle trattative di cui egli era incaricato. Perciò, senza fermarsi né di giorno né di notte, cambiando cavalcatura a ogni città per guadagnare tempo, andò incontro a Pompeo per annunziargli l’arrivo di Cesare. Pompeo si trovava in quel momento in Candavia37 e, dalla Macedonia, si stava dirigendo agli accampamenti invernali di Apollonia e Durazzo. Turbato dall’inattesa notizia, cominciò a puntare su Apollonia affrettando la marcia per impedire a Cesare di occupare le città costiere. Ma Cesare, il giorno stesso dello sbarco, si era diretto verso Orico. Al suo arrivo, Lucio Torquato, per ordine di Pompeo comandante della piazzaforte, dove teneva un presidio di Partini38, chiuse le porte e tentò di difendere la città, ma quando ordinò ai Greci di disporsi sulle mura e prendere le armi, questi si rifiutarono di combattere contro l’autorità costituita del popolo romano, mentre di loro iniziativa anche gli abitanti premevano perché Cesare venisse accolto. Vedendo che non poteva aspettarsi nessun aiuto, Torquato aprì le porte, consegnando se stesso e la città a Cesare, che lo lasciò incolume.
12. Dopo la resa di Orico, Cesare marcia senza perdere tempo su Apollonia. Alla notizia del suo arrivo, Lucio Staberio, che qui aveva il comando, incominciò a far portare riserve d’acqua nella rocca, a fortificarla e ad esigere ostaggi dagli abitanti di Apollonia. Ma questi si rifiutarono di consegnarli, dichiarando che non avrebbero chiuso le porte al console né avrebbero preso un partito diverso da quello condiviso dall’Italia intera. Di fronte a questa dichiarazione d’intenti, Staberio fugge di nascosto da Apollonia. Gli abitanti mandano ambasciatori a Cesare e lo accolgono nella città. I Billidensi39, gli Amantini40, con le popolazioni vicine e l’Epiro intero seguono il loro esempio: inviati ambasciatori a Cesare si mettono ai suoi ordini.
13. Pompeo, alla notizia di quanto era accaduto a Orico e ad Apollonia, temendo per Durazzo, vi si dirige marciando sia di giorno che di notte. Nello stesso tempo, circolava la voce che Cesare si stava avvicinando, e l’esercito fu preso da un tale spavento, visto anche che Pompeo, nella fretta, senza far distinzione tra il giorno e la notte, non faceva mai interrompere la marcia, che quasi tutti i soldati dell’Epiro e delle regioni vicine disertavano, molti gettavano armi, e la marcia aveva finito col somigliare a una fuga. Ma quando Pompeo si fu fermato vicino a Durazzo ed ebbe dato ordine di delimitare il campo, mentre l’esercito continuava a mostrarsi atterrito, si fa avanti per primo Labieno e giura che non lo avrebbe abbandonato ed avrebbe seguito la sua stessa sorte, qualunque fosse quella che la fortuna aveva in serbo per lui. Gli altri legati prestano lo stesso giuramento, seguiti dai tribuni militari e dai centurioni e infine da tutto l’esercito. Cesare, vedendosi prevenuto nella sua marcia su Durazzo, rallenta e si accampa presso il fiume Apso41 nel territorio di Apollonia, per proteggere con fortini e posti di guardia le città che avevano meritato la sua gratitudine e stabilisce di aspettare in quel luogo l’arrivo delle legioni dall’Italia e di passare l’inverno sotto le tende. Pompeo prende la stessa decisione e, posto l’accampamento sull’altra riva del fiume Apso, vi concentra tutte le truppe, regolari e ausiliarie.
14. Galeno, dopo aver imbarcato le legioni e la cavalleria, secondo gli ordini che aveva ricevuto da Cesare, per quanto glielo permetteva il numero delle navi, salpò, ma appena uscito dal porto ricevette una lettera da Cesare che lo informava del fatto che i porti e l’intero litorale erano presidiati dalla flotta avversaria. A questa notizia, rientra nel porto e richiama tutte le navi. Una di queste, che aveva proseguito nella sua rotta senza obbedire all’ordine di Galeno, perché non trasportava soldati e apparteneva a privati, giunta ad Orico, fu presa d’assalto da Bibulo, che mise a morte l’intero equipaggio, dagli schiavi ai liberi fino ai bambini, massacrandoli dal primo all’ultimo. Fu così che solo per un attimo e per un caso fortuito tutto l’esercito fu posto in salvo.
15. Bibulo, come si è detto, si trovava con la flotta ad Orico e, se da un lato impediva a Cesare l’accesso al mare e ai porti, gli era dall’altro impossibile l’accesso alla terraferma in tutta la regione. Cesare aveva infatti disposto presidi lungo tutta la costa, occupandola, e non lasciava al nemico la possibilità di far rifornimento di legname o d’acqua, e neppure di attraccare. La loro situazione era estremamente difficile, privi com’erano anche dell’indispensabile, tant’è che erano costretti a farsi rifornire di vettovaglie, così come di legna e d’acqua, da Corcira, con l’impiego di navi da carico. Accadde persino che, investiti da un maltempo particolarmente violento, fossero costretti a raccogliere la rugiada notturna che si posava sulla copertura di pelle delle navi. Eppure sopportavano tenacemente e con pazienza queste difficoltà, senza abbandonare la decisione di presidiare il litorale e occupare i porti. Ma, trovandosi nelle difficoltà di cui si è parlato, essendosi Libone unito a Bibulo, ambedue iniziarono a parlamentare dalle navi con i legati Manio Acilio e Stazio Murco42 che comandavano l’uno la difesa delle mura di Orico e l’altro le truppe di terra: essi volevano avere un colloquio con Cesare, se gliene fosse stata concessa facoltà, su questioni della massima importanza. Aggiungono poche parole per rendere più pressante la loro richiesta e far capire che sarebbero stati disponibili a un accordo. Chiedono che nel frattempo si stabilisca una tregua, e la ottengono. La loro proposta sembrava infatti importantissima e i legati sapevano quanto Cesare desiderasse questo tipo di soluzione; vi si vedeva inoltre un qualche risultato della missione di Vibullio.
16. In quei giorni Cesare si era allontanato con una legione per accogliere la resa di altre città più lontane e rifornirsi di grano, di cui erano alle strette, e si trovava nella piazzaforte di Butroto43, di fronte a Corcira. Informato qui per lettera da Acilio e Murco delle richieste di Libone e Bibulo, lascia la legione e torna ad Orico. Qui giunto, li chiama a colloquio. Si presenta Libone e scusa l’assenza di Bibulo, uomo molto iracondo e nemico personale di Cesare anche per rancori privati, concepiti fin dal tempo dell’edilità e della pretura; per questo motivo egli aveva evitato il colloquio, per non intralciare col proprio temperamento irascibile trattative che faceva sorgere grandi speranze e sarebbero state di grandissima utilità. Essi desideravano e avevano sempre desiderato che si venisse ad un accordo e si facesse la pace, ma non avevano nessun potere a riguardo, perché, per decisione del consiglio di guerra, era stato affidato a Pompeo il comando supremo di tutte le operazioni. Ma, una volta conosciute le richieste di Cesare, se ne sarebbero fatti latori presso Pompeo che, dietro loro preghiera, avrebbe preso le sue autonome decisioni. Si mantenesse frattanto la tregua, fino all’arrivo di una risposta, sospendendo le ostilità da ambedue le parti. A questo aggiunse poche altre parole sulle cause della guerra, e sulle proprie truppe regolari e ausiliarie.
17. Cesare non ritenne opportuno, allora, di dover rispondere su questi ultimi argomenti, e nemmeno ora riteniamo che valga la pena di tramandarli. Cesare chiedeva che gli fosse concesso di inviare ambasciatori a Pompeo in piena sicurezza, e loro stessi dovevano prendersi l’incarico di accoglierli o di presentarli a Pompeo dopo averli accolti. Per quanto riguardava la tregua, la situazione della guerra era al punto che essi gli impedivano con la flotta di ricevere rinforzi per mare e lui ostacolava i rifornimenti d’acqua da terra. Se volevano che lui togliesse il blocco, togliessero anche loro il blocco marittimo; se essi lo mantenevano l’avrebbe mantenuto anche lui. Non era escluso tuttavia che si potesse trattare un accordo anche senza togliere il blocco: il fatto non costituiva per lui un impedimento. Ma Libone non era disposto ad accogliere gli ambasciatori di Cesare né a farsi garante della loro incolumità e rimetteva l’intera questione a Pompeo; insisteva soltanto sulla tregua e vi si accaniva con forza. Quando Cesare comprese che tutto il discorso di Libone mirava soltanto a superare la difficoltà del momento ed evitare la carestia, e che non recava nessuna speranza o condizione di pace, non gli rimase che pensare alla continuazione della guerra.
18. Bibulo, che per molti giorni non aveva potuto toccare terra e, a causa del freddo e della fatica era stato colpito da una malattia piuttosto grave, non potendo curarsi e non volendo abbandonare il compito che si era assunto, non riuscì a sostenere la violenza del male. Alla sua morte, il comando supremo non passò a nessun altro, ma ciascuno dirigeva autonomamente le operazioni della propria flotta senza nessun coordinamento. Appena si fu calmata l’agitazione causata dall’improvviso arrivo di Cesare, come se ne presentò l’occasione, alla presenza di Libone, Lucio Lucceio e Teofane44, con i quali Pompeo era solito consigliarsi sulle questioni di maggior rilievo, Vibullio cominciò a trattare della missione affidatagli da Cesare. Aveva appena cominciato a parlare che Pompeo lo interruppe e gli proibì di continuare. «A che mi servono» disse, «vita e diritti civili, se sembrerà che io li devo alla generosità di Cesare? Questa opinione non potrà essere sradicata, quando mi si riterrà ricondotto a forza in quell’Italia da cui sono partito di mia volontà.» Cesare venne a conoscenza di questi avvenimenti a guerra finita, da chi era stato presente al colloquio. Non smise tuttavia di tentare con altri mezzi di portare avanti trattative di pace.
19. Gli accampamenti di Pompeo e Cesare erano separati soltanto dal fiume Apso e quindi i soldati avevano modo di incontrarsi frequentemente in colloqui che, per un patto stabilito tra gli interlocutori, avvenivano senza che si verificassero azioni ostili. Cesare manda il legato Publio Vatinio fin sulla riva del fiume con l’incarico di adoperarsi nella maniera più opportuna per ottenere la pace e chiedere ripetutamente a gran voce se era permesso a cittadini d’inviare ad altri cittadini ambasciatori per trattare la pace, cosa che era stata permessa anche a schiavi fuggitivi dalle montagne dei Pirenei e ai predoni45, specialmente se ciò veniva fatto allo scopo di evitare una guerra tra concittadini. Parlò a lungo supplicando, come era doveroso, trattandosi della propria ed altrui salvezza, mentre i soldati, dall’una e dall’altra parte, lo ascoltavano in silenzio. Gli fu risposto dall’altra parte che Aulo Varrone46 si impegnava a presentarsi a colloquio il giorno successivo per trovare insieme il modo di permettere agli ambasciatori di presentarsi in piena sicurezza e di parlare liberamente; viene fissata un’ora precisa per l’incontro. Quando l’indomani si venne a colloquio, una gran folla si raccolse da ambedue le parti; si era creata una grande aspettativa, e gli animi di tutti sembravano fortemente inclini alla pace. Tra la folla si fa avanti Tito Labieno e...47 comincia a parlare e ad altercare con Vatinio. Un’improvvisa pioggia di proiettili scagliati da ogni parte interrompe nel bel mezzo la loro discussione; Vatinio, protetto dagli scudi dei soldati riesce ad evitarli, ma molti rimangono feriti, tra i quali Cornelio Balbo, Marco Plozio, Lucio Tiburzio48 e parecchi tra soldati e centurioni. Allora Labieno grida: «Smettetela una buona volta di parlare di accordi, perché per noi non ci potrà essere pace se non quando ci sarà portata la testa di Cesare».
20. In quello stesso periodo, il pretore Marco Celio Rufo, fatta propria la causa dei debitori, appena entrato in carica, fissò il suo tribunale accanto al seggio di Gaio Trebonio, pretore urbano, ed offriva il proprio patrocinio a chiunque avesse voluto far ricorso in merito alle stime dei beni e alle somme da pagare, che erano state fissate mediante un arbitraggio, secondo le disposizioni date da Cesare in persona. Ma accadeva che, per l’equità del decreto e l’umanità di Trebonio, convinto della necessità di amministrare la giustizia, in un periodo come quello, con clemenza e moderazione, non si trovava nessuno che prendesse per primo l’iniziativa di far ricorso. Forse perché è proprio di un animo mediocre addurre come scusa la mancanza di danaro e lamentare la propria personale sventura o quella dei tempi e accampare le difficoltà di mettere i beni all’asta; ma quale animo può essere così basso e impudente da voler mantenere integro il proprio patrimonio, pur riconoscendo di avere dei debiti? Perciò non si trovava nessuno che presentasse ricorso. Ma Celio si mostrò più intransigente di coloro a vantaggio dei quali andava il decreto. Avendo così cominciato, per non dare l’impressione di aver abbracciato senza risultato una causa iniqua, presentò una legge che prorogava di sei anni, senza interessi, il pagamento dei debiti.
21. Di fronte all’opposizione del console Servilio e degli altri magistrati e al fallimento delle proprie aspettative, per creare tensione tra la gente, ritirata la prima proposta di legge, ne propose altre due: una per il condono di un anno di pigione a chi abitasse case in fitto, e l’altra per la cancellazione dei debiti, provocando una sommossa contro Gaio Trebonio, che causò molti feriti e lo scacciò dal suo tribunale. Il console Servilio fece una relazione dei fatti in senato e il senato decretò che Celio doveva essere rimosso dalla sua carica. In seguito a questa delibera il console gli vietò l’ingresso in senato e, mentre tentava di arringare il popolo, lo fece tirare giù dai rostri49. Sconvolto dalla rabbia e dalla vergogna, Celio finse davanti a tutti di partire per raggiungere Cesare, ma in segreto inviò dei messi a Milone50, che, dopo l’assassinio di Clodio, era stato condannato per quel reato, richiamandolo in Italia, e poiché, avendo dato in passato grandi giochi, questi possedeva ancora un resto dei suoi gladiatori, si unì a lui e lo mandò avanti nel territorio di Turi51 per sobillare i pastori. Lui invece si recò a Cassino, ma proprio nello stesso momento furono prese a Capua le sue insegne militari e le armi e, a Napoli, furono scoperti i suoi gladiatori che preparavano la defezione della città. Scoperta la congiura, gli fu vietato l’accesso a Capua e, intimorito dal rischio che andava correndo, dal momento che l’associazione dei cittadini romani aveva preso le armi ed era dell’opinione che lo si dovesse considerare come nemico pubblico, rinunciò al suo piano e prese un’altra strada.
22. Nel frattempo Milone, in un suo scritto inviato ai vari municipi, sosteneva di agire per ordine e sotto il comando di Pompeo, dietro istruzioni inviategli per mezzo di Vibullio52, e sobillava coloro che riteneva gravati dai debiti. Non avendo potuto ottenere nulla da questi, aperti alcuni ergastoli53, si diede ad assalire Conza nel territorio Irpino54. Qui, poiché il pretore Quinto Pedio, con una legione...55 morì colpito da una pietra lanciata dalle mura. Celio, partito, secondo quanto andava dicendo, per raggiungere Cesare giunse invece a Turii, dove, mentre cercava di sollevare alcuni abitanti di quel municipio e di corrompere con promesse di danaro i cavalieri di Cesare, Galli ed Ispani, qui inviati come presidio, venne da questi ucciso. In questo modo ebbero, sul nascere rapida e facile conclusione i gravi torbidi che, a causa dell’eccessiva mole di lavoro che impegnava i magistrati e le difficoltà del momento, tenevano inquieta l’Italia.
23. Libone, salpato da Orico con la sua flotta di cinquanta navi, arrivò a Brindisi ed occupò l’isola situata di fronte al porto, ritenendo più conveniente tener sotto stretta sorveglianza quell’unico punto, che costituiva per noi un passaggio obbligato, piuttosto che presidiare l’intero litorale e i porti. Giunto improvvisamente, incendiò alcune navi da carico nelle quali si era imbattuto, ne catturò una carica di frumento, e gettò nel terrore i nostri; fatti sbarcare nottetempo soldati ed arcieri, scalzò un nostro presidio di cavalleria e seppe a tal punto profittare della posizione vantaggiosa, da inviare una lettera a Pompeo perché ordinasse pure, se voleva, di tirare in secco e riparare le altre navi, visto che bastava lui con la sua flotta a bloccare gli aiuti di Cesare.
24. In quel periodo si trovava a Brindisi Antonio; egli, fidando nel valore dei suoi soldati, coprì con graticci e tavolati circa sessanta scialuppe delle navi da guerra, vi imbarcò truppe scelte, e le dislocò in diversi punti lungo la costa, separatamente; ordinò quindi che due triremi, fatte da lui costruire a Brindisi, si spingessero fino all’imboccatura del porto, col pretesto di far esercitare i rematori. Libone, quando le ebbe viste avanzare con tanta sicurezza, sperando di poterle catturare, mandò loro incontro cinque quadriremi. Man mano che queste si avvicinavano alle nostre navi, i nostri veterani arretravano verso il porto, mentre gli avversari, spinti dalla foga, li inseguivano senza troppe cautele. Ed ecco che, improvvisamente, le scialuppe di Antonio si lanciarono, al segnale, da ogni parte contro il nemico, prendendo al primo assalto una delle quadriremi, completa di rematori e difensori, e costringendo le altre a una fuga vergognosa. A questa perdita si aggiunse il fatto che, avendo Antonio disposto truppe di cavalleria lungo la costa, era divenuto impossibile rifornirsi d’acqua e Libone, spinto dalla necessità e dalla vergogna, lasciò Brindisi abbandonando l’assedio.
25. Erano già passati molti mesi56 e l’inverno volgeva rapidamente al termine, senza che, da Brindisi, le navi con le legioni arrivassero da Cesare. Gli sembrava che si fossero perdute molte occasioni di effettuare la traversata, perché avevano spesso soffiato venti costanti ai quali riteneva ci si sarebbe dovuti senz’altro affidare. Più il tempo passava e più i comandanti della flotta intensificavano la sorveglianza, quasi certi ormai di riuscire ad impedire il passaggio, e venivano frequentemente rimproverati per lettera da Pompeo affinché, visto che non avevano saputo evitare il primo sbarco di Cesare, bloccassero almeno il resto del suo esercito, e aspettavano ogni giorno che, calata la forza del vento, la traversata divenisse più difficoltosa. Spinto da queste considerazioni, Cesare scrisse a Brindisi ai suoi una lettera più risentita, ordinando che, non appena si fosse levato un vento favorevole, non si lasciassero sfuggire l’occasione di prendere il mare e far rotta verso la costa di Apollonia o verso quella dei Labeati57 e qui attraccare. Queste erano le località meno sorvegliate dalla flotta, perché non osavano spingersi troppo lontano dai porti.
26. Allora essi, mostrando audacia e valore, guidati da Marco Antonio e Fufio Caleno, con la pressante richiesta degli stessi soldati, pronti ad affrontare qualsiasi rischio per la salvezza di Cesare, salpano approfittando dell’austro58 e, il giorno successivo, giungono ad Apollonia e Durazzo. Non appena furono avvistati dalla terraferma, Coponio, che comandava la flotta di Rodi, fece uscire le navi dal porto, e mentre, per una caduta del vento, già si stava avvicinando ai nostri, il medesimo austro ricominciò a soffiare e fu la nostra salvezza. Non per questo egli desisteva dal suo tentativo, ma sperava di poter vincere la forza del vento con la fatica e la tenacia dei marinai e, sebbene i nostri fossero stati spinti dal vento particolarmente teso oltre Durazzo, nondimeno continuava l’inseguimento. Benché favoriti dalla fortuna, i nostri temevano tuttavia l’assalto della flotta, se per caso il vento fosse calato. Capitati in vista del porto che si chiama Ninfeo59, a tre miglia da Lisso, vi fecero entrare le navi – il porto era riparato dall’africo60, ma non dall’austro – ritenendo meno grave il rischio comportato dal vento contrario che quello rappresentato dalla flotta. Appena vi si furono introdotti, con un incredibile colpo di fortuna, l’austro, che aveva soffiato ininterrottamente per due gioni, si cambiò in africo.
27. Si poté qui assistere a uno degli improvvisi mutamenti della Fortuna. Quelli che un momento prima temevano per la propria sorte, trovavano riparo in un porto sicurissimo, quelli che minacciavano le nostre navi, erano costretti a temere per se stessi. Mutate dunque le condizioni atmosferiche, la tempesta, mentre proteggeva le nostre navi, provocava la rovina delle navi rodie, al punto che tutte le sedici navi pontate si sfasciarono e fecero naufragio, dalla prima all’ultima e, dei numerosi rematori e soldati, parte fu sbattuta contro gli scogli e rimase uccisa, parte fu tratta in salvo dai nostri. Tutti questi furono lasciati in vita da Cesare e rimandati in patria.
28. Due delle nostre navi, che avevano compiuto più lentamente la traversata, furono sorprese dalla notte e, non sapendo dove le altre avessero preso terra, si fermarono all’ancora di fronte a Lisso. Otacilio Crasso, che aveva il comando del porto di Lisso, mandate loro incontro delle scialuppe con altre imbarcazioni di piccola stazza, si preparava ad assalirle; nello stesso tempo trattava la resa e offriva salva la vita a chi s’arrendesse. Una delle due navi trasportava duecentoventi uomini di una legione di reclute, l’altra poco meno di duecento veterani. Qui si ebbe la prova di quale difesa sia per l’uomo la fermezza d’animo. Le reclute infatti, spaventate dalla massa delle imbarcazioni e sfinite dalla nausea provocata dal movimento della nave, dietro solenne giuramento che i nemici non avrebbero fatto loro alcun male, si consegnarono a Otacilio, il quale, appena gli furono condotti innanzi, contro il sacro impegno del giuramento, li fece massacrare tutti al suo cospetto con estrema crudeltà. I veterani, invece, benché anch’essi tormentati dai gravi disagi della tempesta e della sentina, ritennero di non dover in alcun modo smentire il proprio antico valore e, fatta passare la prima parte della notte in trattative, come se avessero avuto intenzione di arrendersi, costrìngono il timoniere ad attraccare e, trovata una località adatta, vi passano il resto della notte. All’alba, Otacilio mandò contro di loro circa quattrocento cavalieri, che avevano il compito di controllare quella parte del litorale, seguiti dai soldati del presidio, ma essi si difesero e, dopo aver inflitto non poche perdite, si unirono sani e salvi ai nostri.
29. In seguito, la comunità dei Romani che abitavano a Lisso, città che era stata assegnata loro da Cesare, il quale aveva provveduto alla sua fortificazione, accolse Antonio aiutandolo con tutti i mezzi. Otacilio, temendo per la sua vita, fuggì dalla città e raggiunse Pompeo. Dopo aver fatto sbarcare tutte le truppe, consistenti complessivamente in tre legioni di veterani, una di reclute e ottocento cavalieri, Antonio rimanda in Italia la maggior parte delle navi per trasportare il resto della fanteria e della cavalleria, lasciando a Lisso alcuni pontoni61 – un tipo di nave gallica – nell’intento di lasciare a Cesare una qualche possibilità di inseguire Pompeo, nel caso che questi, ritenendo l’Italia sguarnita, vi avesse portato il suo esercito, cosa che molti si aspettavano. Quindi invia immediatamente a Cesare le informazioni relative al luogo dello sbarco e alla consistenza delle truppe.
30. La notizia dello sbarco raggiunge Cesare e Pompeo quasi nello stesso momento. Avevano infatti avvistato le navi mentre venivano sospinte oltre Apollonia e Durazzo, poiché avevano fatto rotta lungo quelle coste, ma nei primi giorni non sapevano dove avessero approdato. Ricevuta la notizia, prendono decisioni opposte: Cesare vuole congiungersi al più presto con Antonio, Pompeo vuole sbarrargli la strada e tentare un attacco di sorpresa. Nello stesso giorno, ambedue fanno uscire i rispettivi eserciti dagli accampamenti in riva all’Apso, Pompeo di notte e di nascosto, Cesare di giorno e apertamente. Ma Cesare, che aveva il fiume di fronte62, doveva compiere un’ampia deviazione per trovare un guado e attraversarlo. Pompeo, che non aveva di fronte nessun ostacolo, non dovendo attraversare il fiume, puntò a marce forzate su Antonio e, come seppe che era vicino, trovato un luogo idoneo, vi fece attestare le truppe, tenendole tutte rinchiuse nel campo con l’ordine di non accendere fuochi, per meglio nascondere il suo arrivo. Antonio viene immediatamente avvertito dai Greci63. Egli, inviati dei messaggeri a Cesare, si tenne per un giorno al campo, il giorno successivo Cesare lo raggiunse. Informato del suo arrivo, Pompeo, per non rimanere chiuso tra due eserciti, abbandona la posizione e si dirige con tutte le truppe ad Asparagio dei Durazzesi64, dove si accampa in posizione favorevole.
31. Nello stesso periodo, Scipione, pur avendo subito alcune sconfitte nella regione del monte Amano65, aveva assunto il titolo di imperator. In seguito aveva imposto gravi tributi alle città e ai tiranni e aveva nello stesso tempo riscosso dai pubblicani della sua provincia gli arretrati degli ultimi due anni, facendosi inoltre anticipare le imposte dell’anno successivo; aveva poi ordinato un reclutamento di cavalleria a tutta la provincia. Dopo aver raccolto questo contingente, lasciatisi alle spalle i Parti, suoi nemici di frontiera, gli stessi che poco tempo prima avevano ucciso l’imperator Marco Crasso66 e stretto d’assedio Marco Bibulo, aveva ritirato dalla Siria le legioni e la cavalleria. Ma poiché nella provincia si andava manifestando una grande apprensione e paura di una guerra contro i Parti e, con una certa frequenza, si sentiva dire dai soldati che sarebbero stati pronti a prendere le armi contro i nemici, se contro questi fossero stati condotti, ma non contro un concittadino e un console, condotte le legioni ai quartieri d’inverno a Pergamo67 e nelle più ricche città, fece ingenti largizioni e, per rianimare i soldati, concesse il saccheggio di alcune città.
32. Intanto si riscuotevano in tutta la provincia, con estremo rigore, le imposte stabilite. Si escogitavano inoltre espedienti d’ogni genere per soddisfare l’avidità. Si imponevano tributi individuali su ogni schiavo o uomo libero; si ordinavano imposte su colonne, porte, frumento, soldati, armi, rematori, macchine da guerra, trasporti; bastava che per una cosa si riuscisse a trovare un nome, e questo diventava motivo sufficiente per caricarvi un’imposta. Vi erano esattori ufficiali non solo nelle città, ma quasi in ogni villaggio e in ciascun casale. Chi di questi si comportava con maggior rigore e crudeltà, veniva considerato il migliore degli uomini e dei cittadini. La provincia pullulava di littori68 e funzionari, dappertutto vi erano prefetti69 ed esattori, che oltre all’esazione delle pubbliche imposte badavano anche al proprio interesse privato; andavano infatti dicendo che, scacciati dalla casa e dalla patria, mancavano fin dello stretto necessario, per mascherare con un’onesta scusa un comportamento vergognosissimo. A questo si aggiungevano gli elevatissimi tassi d’interesse, come accade di solito in tempo di guerra, quando si esigono da tutti delle imposte; in queste circostanze, la proroga di un giorno era considerata già un regalo. In questo modo, in due anni70, si moltiplicarono i debiti della provincia. Ciò non impediva che le somme imposte ai cittadini romani della provincia fossero più forti, ma venivano tassate una per una le singole comunità e le città, e andavano dicendo che si trattava di un prestito forzoso stabilito da un senatoconsulto; ai pubblicani, poiché avevano accumulato dei capitali, imposero di versare, a titolo di prestito, i tributi dell’anno successivo.
33. Scipione ordinava inoltre di prelevare il tesoro custodito a Efeso71, nel tempio di Diana, fin dai tempi più antichi. Stabilito il giorno per effettuare l’operazione, quando ci si trovava già nel tempio, alla presenza di molti membri dell’ordine senatorio fatti venire da Scipione, gli viene consegnata una lettera di Pompeo con la notizia dello sbarco di Cesare con le legioni e l’ordine di affrettarsi a raggiungerlo con l’esercito, posponendo ogni altro affare. Ricevuta questa lettera, congeda quelli che aveva convocato, comincia a preparare il passaggio in Macedonia e, dopo pochi giorni, si mette in viaggio. Fu questa circostanza a salvare il tesoro di Efeso.
34. Cesare, dopo essersi congiunto con le truppe di Antonio72, ritirata da Orico la legione che vi aveva collocato per controllare la costa, riteneva che fosse giunto per lui il momento di sondare le intenzioni delle province e di continuare l’avanzata; e poiché gli si erano presentati ambasciatori dalla Tessaglia e dall’Etolia73, che promettevano la totale obbedienza delle città di quelle popolazioni, se avesse inviato una guarnigione, mandò in Tessaglia Lucio Cassio Longino74 con la legione delle reclute, la XXVII, e duecento cavalieri, e in Etolia Gaio Calvisio Sabino75 con cinque coorti e pochi cavalieri, esortandoli vivamente, poiché queste regioni erano vicine, a far provvista di frumento. Ordinò a Gneo Domizio Calvino76 di portarsi in Macedonia con due legioni, l’XI e la XII, e cinquecento cavalieri; da questa provincia, dalla zona conosciuta come territorio libero, era stato inviato come ambasciatore Menedemo77, principe di quelle regioni, che assicurava le migliori disposizioni d’animo di tutti i suoi nei confronti di Cesare.
35. Dei due inviati, Calvisio fu accolto fin dal suo arrivo con la massima disponibilità da parte di tutti gli Etoli e, scacciati i presidi avversari da Calidone78 e Naupatto79, s’impadronì di tutta l’Etolia. Cassio giunse con la legione in Tessaglia, dove la popolazione era divisa in due fazioni ed aveva quindi disposizioni diverse: Egesareto80, un uomo di antico potere, favoriva il partito di Pompeo; Petreo81, un giovane di altissimo lignaggio, sosteneva Cesare con tutti i mezzi suoi e dei suoi concittadini.
36. Contemporaneamente Domizio giunge in Macedonia e, mentre già cominciavano a presentarglisi, numerose, le delegazioni di diverse città, viene annunciato l’arrivo di Scipione con le legioni, provocando grandi aspettative e dicerie, giacché per lo più, al verificarsi di eventi inattesi, la fama supera la realtà. Scipione, senza fermarsi in nessuna località della Macedonia, si diresse di gran carriera contro Domizio e quando si trovò a non più di venti miglia82 da lui, cambiò improvvisamente direzione puntando contro Cassio Longino in Tessaglia. Eseguì la manovra con una tale velocità che la notizia della sua marcia d’avvicinamento giunse insieme a quella del suo arrivo, e per marciare più rapidamente lasciò Marco Favonio83 presso il fiume Aliacmone, che separa la Macedonia dalla Tessaglia, con otto coorti a guardia delle salmerie delle legioni, con l’ordine di costruire sul posto un fortino. Contemporaneamente la cavalleria del re Coto, che si aggirava di solito ai confini della Tessaglia, giunse di volata fin sotto all’accampamento di Cassio. Allora Cassio, preso dalla paura, saputo dell’arrivo di Scipione, avvistata la cavalleria, che riteneva fosse quella di Scipione, si ritirò verso le montagne che cingono la Tessaglia e di là incominciò a dirigersi verso Ambracia84. Ma mentre Scipione si prepara ad inseguirlo, riceve una lettera da parte di Marco Favonio in cui si diceva che Domizio con le sue legioni era in avvicinamento e che non avrebbe potuto mantenere la posizione che aveva occupato senza il suo aiuto. Ricevuta questa lettera, Scipione cambia piano e direzione: lascia l’inseguimento di Cassio per correre in aiuto di Favonio. Marciando giorno e notte ininterrottamente, arriva da lui appena in tempo, al punto che la polvere sollevata dall’esercito di Domizio viene avvistata contemporaneamente alle prime avanguardie di Scipione. Così, Cassio fu salvato dall’abilità di Domizio, e Favonio dalla tempestività di Scipione.
37. Scipione si trattenne due giorni nel campo fortificato presso il fiume, l’Aliacmone, che scorreva tra il suo campo e quello di Domizio, e il terzo giorno, all’alba, fa passare a guado il fiume al suo esercito, si accampa, e la mattina del giorno successivo schiera a battaglia le truppe davanti al campo. Anche allora Domizio ritenne di non dover esitare e dar battaglia, dopo aver fatto uscire le legioni. Ma, poiché tra i due accampamenti si apriva una pianura di circa tre miglia85, Domizio portò il proprio schieramento fin sotto il campo di Scipione, il quale, dal canto suo, si ostinò a non allontanarsi dal vallo. E sebbene solo a fatica si riuscissero a frenare i soldati di Domizio, non si venne a battaglia, principalmente perché un corso d’acqua dalle rive scoscese86, situato sotto il campo di Scipione, impediva l’avanzata dei nostri. Quando Scipione si rese conto dell’ardore e della volontà dei nostri di venire allo scontro, temendo di essere costretto l’indomani al combattimento suo malgrado o a trattenersi con sua grande vergogna nell’accampamento, lui, che era venuto suscitando così grandi aspettative dopo la sua temeraria avanzata, si ritirò vergognosamente e, durante la notte, senza nemmeno dare l’ordine di caricare i bagagli, attraversa il fiume, tornando nella direzione dalla quale era venuto e qui si accampa su di un’altura nei pressi del fiume. Pochi giorni dopo, tese, di notte, un agguato con la cavalleria, in una località dove, nei giorni precedenti, i nostri erano soliti recarsi a far foraggio, e quando, come ogni giorno, Quinto Varo, prefetto di cavalleria di Domizio, vi si recò, improvvisamente gli avversari balzarono fuori dall’imboscata. Ma i nostri sostennero con fermezza la loro carica, ciascuno si riportò rapidamente nei ranghi, caricando a sua volta il nemico. Dopo averne uccisi circa ottanta, e aver costretto gli altri alla fuga, rientrarono al campo, avendo perduto solo due uomini.
38. Dopo questi fatti, Domizio, nella speranza di indurre Scipione a battaglia, finse di dover spostare l’accampamento per mancanza di frumento e, dopo aver dato l’ordine di togliere le tende secondo l’uso militare, avanza di tre miglia e fa attestare tutto l’esercito e la cavalleria in una posizione favorevole e nascosta. Scipione, pronto all’inseguimento, distacca in ricognizione gran parte della cavalleria per sapere che direzione avesse preso Domizio. Compiuta l’avanzata, quando già i primi squadroni erano entrati nei luoghi dell’agguato, messi in sospetto dal nitrire dei cavalli, cominciarono a ripiegare verso le proprie linee, e quelli che li seguivano, vista la loro rapida ritirata, si fermarono. I nostri, vedendo che l’agguato era stato scoperto, per non aspettare inutilmente il resto delle truppe, sorpresero i due squadroni nei quali si erano imbattuti, dei quali solo pochi si salvarono, riparando nelle proprie file, e tra questi il prefetto di cavalleria Marco Opimio; tutti gli altri vennero uccisi o, catturati, furono portati a Domizio.
39. Ritirato, come si è detto, il presidio dalla costa, Cesare lascia ad Orico tre coorti per difendere la piazzaforte e custodire le navi da guerra portate dall’Italia. Quest’incarico e il comando della piazzaforte furono assegnati al legato Manio Acilio Canino, che mise le nostre navi al riparo nel porto interno dietro la città, assicurandole alla terraferma, e sbarrò l’imboccatura del porto affondando una nave da carico alla quale collegò una seconda nave; su quest’ultima fece costruire una torre proprio davanti all’entrata del porto, e la riempì di soldati che avevano l’incarico di difenderla da ogni repentina evenienza.
40. Gneo Pompeo figlio, che comandava la flotta egiziana, saputi questi fatti, si portò ad Orico e, con l’aiuto di un rimorchio e di numerose funi, riuscì a spostare la nave affondata ed assalì l’altra, che Acilio aveva posto di guardia, con numerose navi, sulle quali aveva fatto costruire delle torri della stessa altezza, cosicché, combattendo da una posizione sopraelevata e sostituendo continuamente le truppe stanche con altre fresche, mentre contemporaneamente attaccava le mura della piazzaforte, da terra, con le scale e da mare, con proiettili lanciati dalla flotta, per impegnare le forze avversarie, a fatica e con grande dispendio di proiettili, riuscì a vincere i nostri e, scalzati i difensori, che raccolti tutti sulle barche furono portati in salvo, espugnò la nave. Occupò al tempo stesso, dall’altra parte, il molo naturale che chiude il porto e fa della piazzaforte quasi una penisola e di là introdusse quattro biremi nel porto interno, ponendovi sotto delle travi e sospingendole a forza di leve. Assalite in questo modo su due fronti le navi da guerra, che erano vuote e legate alla terraferma, ne portò via quattro ed incendiò le altre. Portata a termine l’operazione, lasciò sul posto Decimo Lelio, distaccato dalla flotta asiatica, con il compito di impedire che entrassero nella piazzaforte i rifornimenti di vettovaglie provenienti da Billide e Amanzia. Quanto a lui, direttosi a Lisso, assalì le trenta navi da carico lasciate da Antonio nel porto, incendiandole tutte; tentò poi di espugnare Lisso, difesa dalla comunità romana e dai soldati che Cesare vi aveva mandati di presidio. Dopo essersi fermato tre giorni ed aver subito modeste perdite durante l’assedio, si ritirò senza aver raggiunto lo scopo.
41. Cesare, quando seppe che Pompeo si trovava presso Asparagio, vi si diresse con l’esercito87, ed espugnata durante il tragitto la piazzaforte dei Partini, in cui Pompeo teneva una guarnigione, dopo due giorni lo raggiunse e pose il campo vicino al suo. L’indomani, fatte uscire tutte le truppe, le schierò a battaglia offrendo a Pompeo la possibilità di uno scontro decisivo. Quando si rese conto che egli manteneva le sue posizioni, fece rientrare al campo l’esercito e ritenne di dover cambiare i suoi piani. Quindi, il giorno successivo, mosse con tutte le truppe alla volta di Durazzo, facendo una lunga deviazione per un cammino angusto e disagevole, nella speranza di costringere Pompeo a chiudersi a Durazzo e di tagliare le comunicazioni con la città, poiché vi aveva ammassato tutte le vettovaglie e tutto l’apparato bellico: e così accadde. Pompeo, in un primo momento, non aveva compreso il suo piano, perché lo aveva visto prendere una direzione opposta a quella che conduceva nella regione, e credeva che si fosse allontanato per mancanza di frumento; ma poi, informato dai suoi esploratori, l’indomani mosse il campo nella speranza di sbarrargli la strada prendendo un cammino più breve. Cesare, che sospettava questa manovra, dopo aver esortato i soldati a sopportare di buon animo la fatica, concessa solo una breve sosta durante la notte, giunse la mattina a Durazzo, mentre già si vedeva in lontananza l’avanguardia di Pompeo, e lì si accampò.
42. Pompeo, tagliato fuori da Durazzo, visto che non era riuscito ad ottenere il suo scopo, adottò un piano alternativo, ponendo il suo campo fortificato su un’altura chiamata Petra88, provvista di un modesto ancoraggio per le navi, riparato da alcuni venti. Ordina che qui si radunino parte delle navi da guerra e vengano convogliati frumento e vettovaglie da tutte le regioni dell’Asia che erano in suo potere. Cesare, ritenendo che la guerra sarebbe andata per le lunghe, non potendosi aspettare rifornimenti dall’Italia, perché i pompeiani tenevano sotto stretta sorveglianza tutte le coste, mentre le flotte che aveva fatto costruire durante l’inverno in Sicilia, Gallia e Italia non erano ancora pronte, mandò in Epiro i legati Quinto Tullio e Lucio Canuleio per provvedere ai rifornimenti di grano, e poiché quelle regioni si trovavano a grande distanza, collocò in determinate località dei depositi, distribuendo tra le città vicine l’onere di provvedere al trasporto del frumento. Ordinò anche di requisire frumento a Lisso, tra i Partini e in tutti i villaggi in cui se ne potesse trovare. Se ne trovava in quantità molto limitata sia per la natura stessa del territorio, perché la regione è aspra e montuosa e il frumento viene per lo più importato, sia perché Pompeo aveva previsto questa eventualità e nei giorni precedenti aveva considerato terra di saccheggio la regione dei Partini e dopo aver spogliato e distrutto dalle fondamenta le loro case aveva fatto trasportare a Petra dalla cavalleria tutto il frumento requisito.
43. Saputo ciò, Cesare elabora un piano suggerito dalla conformazione naturale del territorio. L’accampamento di Pompeo era infatti circondato da moltissime alture elevate e scoscese. Egli le occupò dapprima con dei presidi, facendovi costruire in seguito dei fortini. Poi, per quanto lo permetteva la conformazione di ogni singola località, iniziò a chiudere Pompeo con una linea fortificata che andava di fortino in fortino, allo scopo, dal momento che egli si trovava a corto di frumento e Pompeo era forte di una numerosa cavalleria, di rifornire il proprio esercito di frumento e vettovaglie provenienti da qualsiasi direzione, correndo il minimo rischio, ed impedire al tempo stesso a Pompeo il foraggiamento, rendendo inutile la sua cavalleria e, in terzo luogo, per sminuire il prestigio del quale egli sembrava godere, soprattutto presso i popoli stranieri, quando si fosse divulgata dappertutto la fama che Pompeo era assediato da Cesare e non osava affrontarlo in campo aperto.
44. Pompeo non voleva allontarsi dal mare e da Durazzo, perché vi aveva collocato tutto l’apparato bellico: proiettili, armi, macchine da lancio e, per mare, riforniva di frumento l’esercito, ma non poteva nemmeno ostacolare i lavori di fortificazione di Cesare, a meno che non avesse accettato lo scontro campale; cosa che per il momento aveva deciso di non fare. Non gli restava che ricorrere all’ultimo espediente dell’arte militare: occupare quante più alture gli fosse possibile, controllare con le guarnigioni un territorio più possibile ampio e cercare di disperdere il più possibile le forze di Cesare: e così accadde. Costruì infatti ventiquattro fortini, abbracciando uno spazio di quindici miglia89, dove foraggiare, nel quale erano comprese molte terre coltivate che offrivano pascolo agli animali da soma. E, come i nostri avevano condotto di fortino in fortino un’unica linea fortificata, per impedire ai pompeiani di fare irruzione in qualche zona e assalire i nostri alle spalle, così loro racchiudevano lo spazio interno con una linea continua di fortificazioni, per impedire ai nostri di entrare e assalirli eventualmente alle spalle. Ma essi procedevano più rapidamente nei lavori, sia perché disponevano di un maggior numero di soldati, sia perché lo spazio interno aveva una minore circonferenza. Quando Cesare doveva occupare una posizione, poiché Pompeo aveva deciso di non venire a uno scontro campale e di impegnare l’intero esercito solo in azioni di disturbo, mandava in località che si trovavano sotto il suo controllo arcieri e frombolieri, che aveva in gran numero; molti dei nostri venivano feriti e si era diffusa una grande paura delle frecce: quasi tutti i soldati, o con coperte o con materassi o con pelli, si erano confezionate delle tuniche o delle coperture per ripararsi dai proiettili.
45. Ambedue i contendenti non risparmiavano gli sforzi per occupare i luoghi da fortificare: Cesare, allo scopo di rinchiudere Pompeo in uno spazio sempre più ristretto, Pompeo per occupare il maggior numero di alture in un raggio il più ampio possibile: si verificavano quindi frequenti scontri. In uno di questi, la IX legione di Cesare aveva occupato una certa posizione e si, disponeva a fortificarla, quando Pompeo occupò un colle vicino ed opposto, iniziando ad ostacolare il lavoro dei nostri, e poiché vi era da un lato un accesso quasi pianeggiante, dopo aver fatto avanzare tutto intorno gli arcieri e i frombolieri, lanciò un attacco in massa di soldati armati alla leggera e, portate avanti le macchine da lancio, impediva i lavori di fortificazione. Non era facile per i nostri sostenere l’assalto e procedere al tempo stesso nei lavori di fortificazione. Cesare, come vide che i suoi venivano colpiti da ogni parte, diede l’ordine di ritirarsi e di abbandonare la posizione. La ritirata si svolgeva lungo un declivio. Ma gli avversari incalzavano con maggiore violenza impedendo ai nostri di effettuare la manovra, perché credevano che essi abbandonassero la posizione per paura. Si dice che allora Pompeo, vantandosi, dichiarasse agli uomini del suo seguito che era disposto a farsi giudicare come un generale assolutamente incapace, se le legioni di Cesare fossero riuscite a ritirarsi senza subire gravi perdite dalla posizione in cui si erano temerariamente spinte.
46. Cesare, preoccupato per la ritirata dei suoi, fece portare sul ciglio del colle dei graticci da collocare come una barriera di fronte al nemico, al riparo dei quali fece scavare ai soldati una fossa di media larghezza, per rendere il sito quanto più impraticabile possibile in ogni direzione. Schierò quindi in punti opportuni i frombolieri per coprire la ritirata dei nostri. Completati questi preparativi, ordinò alla legione di ritirarsi. Questo ebbe l’effetto di aumentare la tracotanza e l’audacia dei pompeiani che si dettero a premere e incalzare i nostri, abbattendo i graticci di protezione per saltare i fossati. Quando Cesare se ne accorse, temendo che la ritirata si trasformasse in una disfatta con un danno ben maggiore, quasi a mezza via, fece esortare i suoi per bocca di Antonio che comandava quella legione e, fatta suonare la tromba, ordinò di passare al contrattacco. I soldati della IX legione, d’improvviso, tutti insieme, lanciarono i giavellotti e, risalendo di corsa il declivio, dal basso, cacciarono a precipizio i pompeiani, costringendoli a volgere le spalle; i graticci che sbarravano la strada e i pali conficcati di traverso nelle fosse precedentemente scavate ostacolarono gravemente la loro ritirata. I nostri invece, cui bastava ritirarsi senza danno, dopo aver causato molte perdite ed aver perduto in tutto cinque dei loro, si ritirarono in tutta tranquillità e, occupati altri colli poco più avanti di questo, completarono i lavori di fortificazione.
47. Era quello un modo insolito ed inusitato di condurre la guerra, sia per il gran numero di fortini e la vastità dello spazio, nonché l’imponenza delle fortificazioni e il tipo d’assedio nel suo complesso, sia anche per altri motivi. Chiunque infatti abbia tentato un assedio, ha sempre assalito un nemico ormai fiaccato e debole e lo ha stretto dopo averlo vinto in battaglia o averlo scoraggiato con dei rovesci, trovandosi in posizione di forza per numero di fanti e cavalieri; l’assedio ha inoltre quasi sempre lo scopo di tagliare al nemico i rifornimenti. Ma in quel caso Cesare stringeva, con un numero inferiore di soldati, forze integre e incolumi, ben fornite di tutto; ogni giorno giungevano infatti da ogni direzione numerosissime navi cariche di viveri, e non c’era vento contrario che potesse impedire almeno a una parte delle navi di arrivare a destinazione. Cesare invece, dopo aver consumato tutto il frumento che si poteva trovare in lungo e in largo, si trovava in grandi ristrettezze. Ma i soldati sopportavano i disagi con straordinaria pazienza. Ricordavano infatti come l’anno precedente, in Spagna, avessero sopportato gli stessi disagi e, a prezzo di fatiche e con fermezza, avessero poi concluso un conflitto della massima importanza; rammentavano come ad Alesia avessero sofferto di una grave carestia e di un’altra molto più grave ad Avarico, eppure avevano ottenuto la vittoria su popoli potentissimi. Non rifiutavano l’orzo, quando veniva loro distribuito, né i legumi; per quanto tenessero in gran conto la carne di pecora, di cui in Epiro vi era grande abbondanza.
48. Era stato anche scoperto da quelli che avevano lavorato alle opere di fortificazione, un tipo di radice detto chara 90, che, mista al latte, alleviava di molto la mancanza di cibo. Ne facevano una specie di pane e quando nei colloqui i pompeiani rinfacciavano ai nostri la loro fame, gliene gettavano in gran quantità per deluderli.
49. Il grano cominciava ormai a maturare, l’aspettativa stessa rendeva più tollerabile la carestia, perché confidavano di trovarsi presto nell’abbondanza. Durante i turni di guardia e nelle conversazioni si sentivano spesso i soldati dichiarare che avrebbero preferito nutrirsi di cortecce d’albero piuttosto che lasciarsi sfuggire dalle mani Pompeo. Con gioia erano anche venuti a sapere dai disertori che gli avversari riuscivano a nutrire i cavalli, ma che gli animali da soma erano tutti morti; inoltre non erano in buona salute, sia a causa dello spazio limitato, del terribile fetore della gran massa di cadaveri, e delle fatiche giornaliere alle quali non erano abituati, sia a causa della mancanza d’acqua. Cesare aveva infatti deviato o ostruito con grandi lavori di sbarramento tutti i fiumi e tutti i corsi d’acqua che sfociavano nel mare: dato che la regione era montuosa e le valli anguste come grotte, egli le aveva ostruite piantando nel suolo dei pali e ammucchiandovi sopra della terra, per trattenere l’acqua. In tal modo gli avversari erano costretti a cercare le zone basse e paludose dove scavare pozzi, aggiungendo questa fatica al lavoro quotidiano; ma questi pozzi erano situati lontano da alcuni presidi e venivano presto prosciugati dalla calura. L’esercito di Cesare, invece, godeva di ottima salute e aveva abbondanza d’acqua, come pure di ogni genere di vettovaglie, tranne il frumento; per questi motivi i soldati vedevano scorrere di giorno in giorno il tempo con minor disagio e accrescersi la loro speranza col maturare del grano.
50. In questo nuovo genere di guerra, da ambedue le parti venivano escogitati nuovi tipi di combattimento. Quando i pompeiani si accorsero, dalla disposizione dei fuochi, che le nostre coorti vegliavano accanto alle fortificazioni, avanzando in silenzio, scagliavano tutte le loro frecce in mezzo alla massa dei nostri e subito si ritiravano nelle loro linee. A questo stratagemma i nostri, istruiti dall’esperienza, trovarono questo rimedio: accendevano i fuochi in un luogo diverso91...
51. Frattanto Publio Silla92, al quale Cesare, partendo, aveva affidato il comando dell’accampamento, informato della situazione, venne in aiuto alla coorte con due legioni. Al suo arrivo i pompeiani vennero facilmente respinti. Non riuscirono nemmeno a sostenere la vista e la carica dei nostri e, ricacciati i soldati delle prime file, gli altri volsero in fuga abbandonando la posizione. Ma Silla richiamò i nostri che si erano lanciati all’inseguimento, perché non fossero trascinati troppo lontano. Sono in molti a ritenere che, se avesse voluto portare più a fondo l’inseguimento, quello avrebbe potuto essere l’ultimo giorno di guerra. Ma non sembra che la sua decisione debba essere biasimata. I compiti di un legato sono diversi da quelli di un generale; il primo deve attenersi agli ordini, il secondo deve decidere liberamente della conduzione generale delle operazioni. Silla, lasciato da Cesare nell’accampamento, liberati i suoi, si accontentò di questo successo e non volle impegnare una battaglia campale, benché la situazione offrisse forse qualche buona possibilità, per non dare l’impressione di essersi arrogate le funzioni del generale. La situazione rendeva molto difficile la ritirata ai pompeiani. Partendo infatti da una posizione sfavorevole, si erano attestati sulla sommità della collina; se si fossero ritirati lungo il pendio, dovevano temere l’inseguimento dei nostri dall’alto e, poiché non mancava molto al tramonto, avevano protratto l’operazione fin quasi a notte, nella speranza di chiudere la faccenda. Fu così che, con una decisione dettata dalla necessità del momento, Pompeo occupò una piccola altura, distante dal nostro fortino quanto bastava a rimanere fuori tiro dai proiettili lanciati dalle macchine da guerra. Qui si attestò, fortificò la posizione e vi raccolse tutte le truppe.
52. Si combatté contemporaneamente in altri due punti. Pompeo aveva infatti attaccato molti altri fortini per disperdere le nostre forze e per impedire che dai presidi più vicini potessero essere inviati soccorsi. Nel primo, Volcacio Tullo sostenne con tre coorti l’assalto della legione, respingendola; nell’altro, i Germani, lanciatisi fuori dalle nostre fortificazioni, dopo aver fatto strage di nemici, si ritirarono senza perdite nelle loro linee.
53. Così, in una sola giornata93, si svolsero sei battaglie, tre presso Durazzo e tre presso le fortificazioni. Facendo un conto complessivo, calcolavamo a circa duemila uomini le perdite dei pompeiani, tra i quali molti richiamati e centurioni, e tra questi Valerio Fiacco, figlio di quel Lucio che era stato pretore in Asia94; furono prese anche sei insegne militari. Le nostre perdite non ammontarono a più di venti uomini in tutti gli scontri. Ma non vi fu neppure un soldato, di quelli del fortino, che non riportasse delle ferite; quattro centurioni dell’ottava coorte persero la vista. Volendo presentare una prova della fatica e dei rischi che avevano corso, contarono davanti a Cesare circa tremila frecce scagliate contro il fortino e gli fu presentato lo scudo del centurione Sceva sul quale furono trovati centoventi fori. Cesare, per i meriti acquisiti verso di lui e la repubblica, gli fece un donativo di duecentomila sesterzi e lo promosse da centurione dell’ottava centuria a centurione primipilo – risultava infatti che in gran parte grazie al suo impegno il fortino si era salvato – premiò poi la coorte con doppia paga e una larga distribuzione di frumento, vesti, cibi e decorazioni militari.
54. Pompeo, dopo aver aggiunto durante la notte nuove imponenti fortificazioni, fece innalzare nei giorni successivi delle torri, e dopo aver elevato le sue fortificazioni fino a quindici piedi95 d’altezza, riparò quella parte del campo con le vinee, e dopo cinque giorni96, approfittando di una notte piuttosto nuvolosa, ostruite tutte le porte del campo e aggiunti altri sbarramenti, in silenzio, alla terza vigilia97, fece uscire l’esercito e si ritirò all’interno della vecchia linea di fortificazioni.
55. (56.) Dopo aver ricevuto, come è stato narrato, per mezzo di Cassio Longino e Calvisio Sabino, la sottomissione dell’Etolia, dell’Acarnania e degli Anfilochi, Cesare riteneva di dover sondare l’atteggiamento dell’Acaia98 e procedere nell’avanzata. Inviò quindi Quinto Caleno con Sabino, Cassio e le loro coorti. Alla notizia del loro arrivo, Rutilio Lupo, che occupava l’Acaia per ordine di Pompeo, inizia a fortificare l’Istmo99, per impedire a Fufio l’ingresso in Acaia. Caleno accolse la resa volontaria di Delfi, Tebe e Orcomeno100, occupò alcune città con la forza, altre cercava di conquistarle al partito di Cesare, inviando delle delegazioni. Fufio era occupato quasi completamente in queste faccende.
56. (55.) Tutti i giorni Cesare schierava l’esercito a battaglia nella pianura, per vedere se Pompeo aveva intenzione di misurarsi in uno scontro campale, fin quasi a spingere le legioni sotto il suo accampamento; la prima linea distava dal vallo solo quel tanto che bastava per restare fuori tiro dai proiettili lanciati a mano o con le macchine da guerra. Dal canto suo Pompeo, per non perdere la sua fama e la stima degli uomini, schierava l’esercito davanti al suo accampamento, in modo che il terzo ordine si trovasse sul vallo e l’intero schieramento rimanesse sotto la protezione dei proiettili scagliati dall’alto.
57. Mentre questo accadeva in Acaia e nei pressi di Durazzo, poiché risultava che Scipione era arrivato in Macedonia, Cesare, che non aveva dimenticato il suo antico proposito, gli manda Clodio, loro comune amico, che proprio da lui gli era stato inizialmente presentato e raccomandato e che Cesare aveva deciso di accogliere tra i suoi intimi. Gli affida una lettera e un messaggio, che diceva in sostanza come Cesare avesse tentato finora in ogni modo di trattare la pace, ma riteneva di non aver concluso nulla per colpa di coloro che aveva scelto come intermediari, perché temevano di presentare a Pompeo le sue proposte in un momento poco opportuno. Ma Scipione godeva presso Pompeo di un tale prestigio che non solo poteva esprimere liberamente il suo parere, ma anche in larga misura criticarlo e riportarlo sulla retta via quando sbagliava; era inoltre a pieno titolo comandante di un esercito, e quindi, oltre all’autorità, aveva anche le forze necessarie a costringerlo. Se avesse operato in tal senso, tutti sarebbero stati grati a lui solo della tranquillità dell’Italia, della pace delle province e della salvezza dell’impero. Clodio riferisce le proposte che gli erano state affidate e, nei primi giorni fu ascoltato, a quanto pareva, favorevolmente, ma poi non fu più ricevuto, perché Scipione, come poi si seppe a guerra finita, era stato aspramente rimproverato da Favonio. Clodio se ne tornò quindi da Cesare senza aver nulla concluso.
58. Cesare, per meglio bloccare la cavalleria pompeiana davanti a Durazzo e impedire il foraggiamento, chiuse con delle fortificazioni due vie d’accesso che erano, come abbiamo detto, molto strette, e vi fece costruire dei fortini101. Quando Pompeo si rese conto che con la cavalleria non si otteneva nessun vantaggio, dopo pochi giorni la fece rientrare, trasportandola via mare, all’interno della linea fortificata. Il foraggio mancava ormai del tutto, tanto che nutrivano i cavalli con foglie strappate dagli alberi e tenere radici di canna pestate, poiché tutti i seminati che si trovavano all’interno della linea di fortificazione erano stati consumati. Erano costretti a far portare il foraggio da Corcira e dall’Acarnania, dopo una lunga navigazione e, poiché non bastava, dovevano aggiungervi dell’orzo e sostenere con questi mezzi la cavalleria. Ma quando da ogni parte non solo l’orzo, il foraggio e l’erba tagliata cominciarono a mancare, ma anche le foglie degli alberi, con i cavalli magri e senza forze, Pompeo pensò di dover tentare una sortita.
59. Militavano nelle file della cavalleria di Cesare due fratelli allobrogi, Roucillo ed Eco, figli di Abducillo102, che era stato per molti anni capo del suo popolo, uomini di straordinario valore, del cui ottimo e validissimo aiuto Cesare si era servito in tutte le guerre di Gallia. Per questi motivi aveva affidato loro, in patria, le più alte cariche e si era adoperato per farli nominare in via eccezionale membri del senato; aveva inoltre assegnato loro terreni in Gallia, tra quelli presi ai nemici, e grandi donativi in danaro, rendendoli da poveri ricchissimi. Per il loro valore, essi non solo erano tenuti in gran conto da Cesare, ma godevano anche della benevolenza dell’esercito; ma, sicuri del favore di Cesare e pieni della stolta arroganza propria dei barbari, disprezzavano i commilitoni, frodavano sulla paga dei cavalieri e sottraevano a proprio beneficio tutto il bottino. Indignati per questo comportamento, i cavalieri si presentarono tutti insieme da Cesare e si lamentarono apertamente delle loro malefatte, aggiungendo alle altre accuse che essi maggioravano il numero degli effettivi di cavalleria per sottrarre la paga.
60. Cesare, ritenendo che quello non fosse il momento opportuno per punirli e molto concedendo al loro valore, differì l’intera questione; li rimproverò privatamente per l’illecito guadagno che facevano sui cavalieri e li esortò a riporre ogni speranza nel suo favore e ad aspettarsi per il futuro quanto le sue passate sollecitudini facevano loro sperare. L’episodio, tuttavia, produsse in tutti grande avversione e disprezzo nei loro confronti, e questo lo avvertivano tanto nei rimproveri che gli venivano mossi, quanto nel proprio personale giudizio e nella propria coscienza. Spinti dalla vergogna e ritenendo forse di non essere stati assolti, ma che il giudizio fosse stato rimandato ad un altro momento, decisero di separarsi da noi e tentare in altro modo la fortuna, cercando nuove amicizie. Messisi d’accordo con alcuni loro clienti, che avevano il coraggio di commettere un tale delitto, tentarono dapprima di uccidere il prefetto di cavalleria Gaio Voluseno – come si seppe poi a guerra finita – per passare a Pompeo con qualche merito; visto però che l’impresa sembrava troppo difficile e non si presentava l’occasione per compierla, preso in prestito quanto più denaro potevano con la scusa di voler risarcire i loro commilitoni, restituendo quanto avevano rubato, comprati numerosi cavalli, passarono dalla parte di Pompeo insieme a quelli che avevano partecipato al loro piano.
61. Poiché erano di nobile origine, largamente equipaggiati, e si erano presentati con un folto seguito e molti cavalli, erano ritenuti uomini coraggiosi ed erano stati tenuti in gran conto da Cesare, e poiché si trattava di un fatto nuovo e fuori dell’ordinario, Pompeo li condusse in giro in tutti i suoi posti di guardia, facendone mostra. Mai prima, infatti, era accaduto che qualcuno, fante o cavaliere, passasse dalla parte di Cesare a quella di Pompeo, mentre quasi ogni giorno i pompeiani disertavano e andavano ad unirsi a Cesare: lo facevano anzi in massa tutti i soldati arruolati in Epiro e in Etolia e in tutte le regioni occupate da Cesare. Ma i due, che erano perfettamente al corrente di tutti i particolari, se in qualche punto del campo di Cesare le fortificazioni non erano ultimate o se gli esperti trovavano che in qualche punto lasciassero a desiderare, e avevano inoltre osservato i tempi di ogni operazione e le distanze tra i vari punti, la maggiore o minore diligenza del servizio di guardia, a seconda del carattere e della solerzia di ciascuno di coloro cui erano assegnati i vari compiti, riferirono ogni cosa a Pompeo.
62. Ricevute queste informazioni, Pompeo che, come si è detto, aveva già preso la decisione di compiere una sortita, ordina ai soldati di confezionarsi dei ripari di vimini per gli elmi e di raccogliere materiale per costruire un terrapieno. Dopo questi preparativi, fa imbarcare di notte su delle scialuppe e sulle navi da carico un gran numero di soldati armati alla leggera, di arcieri e tutto il materiale per costruire il terrapieno e, dopo la mezzanotte, conduce sessanta coorti prelevate dal campo maggiore e dai posti di guardia verso la zona della linea fortificata adiacente alla costa, che era la più lontana dal campo maggiore di Cesare. Invia nello stesso luogo le navi sulle quali, come abbiamo detto, aveva imbarcato il materiale per il terrapieno e i soldati armati alla leggera, insieme a tutte le navi da guerra alla fonda presso Durazzo, ciascuno con compiti ben precisi. Cesare aveva affidato quella zona delle fortificazioni al questore Lentulo Marcellino103 con la IX legione, al quale aveva affiancato, poiché non stava troppo bene in salute, Fulvio Postumio, perché lo aiutasse.
63. Era stato scavato in quel punto un fossato profondo quindici piedi ed era stato elevato contro il nemico un vallo di dieci piedi d’altezza con un terrapieno della stessa larghezza104. A seicento piedi105 di distanza da questo, era stato costruito un altro vallo rivolto dalla parte opposta con una fortificazione un po’ più bassa. Nei giorni precedenti infatti, Cesare, temendo che i nostri venissero accerchiati con le navi, aveva fatto costruire in quel luogo una doppia palizzata, per poter resistere nel caso di un attacco su due fronti. Ma, a causa dell’ampiezza dei lavori e della quotidiana fatica, dato che la linea fortificata comprendeva un circuito di diciassette miglia106, non c’era stato il tempo di portarla a termine. Non era stato quindi ancora ultimato il vallo trasversale, situato dalla parte del mare, che doveva collegare le due fortificazioni. La conoscenza da parte di Pompeo di questo particolare, rivelatogli dai disertori allobrogi, mise i nostri in grave difficoltà. Come infatti le nostre coorti che avevano montato la guardia presso la costa si furono allontanate, ecco arrivare improvvisamente, all’alba, l’esercito di Pompeo. Contemporaneamente, le truppe trasportate via mare, gettavano proiettili sul vallo esterno e riempivano il fossato col materiale per il terrapieno, mentre i legionari mettevano in grave apprensione i difensori della fortificazione interna accostando scale e macchine da guerra di ogni tipo e lanciando proiettili, mentre un numero enorme di arcieri si spargeva da ogni lato. D’altra parte, le protezioni di vimini che i nemici avevano sovrapposto agli elmi, li difendevano validamente dal lancio di pietre, che erano gli unici proiettili a nostra disposizione. Quindi, mentre i nostri venivano incalzati con ogni mezzo e resistevano a stento, fu notato nella linea delle fortificazioni il difetto di cui si è parlato prima e le truppe trasportate via mare, sbarcate tra le due palizzate, dove le fortificazioni non erano state completate, assalirono i nostri alle spalle e, cacciatili da ambedue le fortificazioni, li costrinsero a volgere in fuga.
64. Alla notizia di questo assalto, Marcellino invia dal campo delle coorti in aiuto ai nostri che si trovavano in difficoltà. Queste, visti i fuggitivi, non riuscirono né a dar loro coraggio con il proprio arrivo e nemmeno a resistere loro all’assalto nemico. Allo stesso modo, qualsiasi rinforzo venisse inviato, contagiato dal panico dei fuggitivi, non faceva che aumentare la paura e il pericolo; infatti, la massa stessa degli uomini intralciava la ritirata. In quella battaglia, un aquilifero gravemente ferito e sul punto di perdere le forze, visti i nostri cavalieri gridò: «Quest’aquila, che da vivo ho difeso per tanti anni con grande cura, la restituisco morendo a Cesare con la stessa fedeltà. Non lasciate, vi prego, che accada quanto non è mai accaduto all’esercito di Cesare, che perdiamo l’onore delle armi, e riportatela a lui sana e salva». Così l’aquila fu salvata nonostante fossero stati uccisi tutti i centurioni della prima coorte, tranne il primo dei principes 107.
65. I pompeiani, dopo aver fatto strage dei nostri, si avvicinavano ormai all’accampamento di Marcellino, non senza creare una notevole apprensione tra le coorti, mentre si vedeva arrivare Marco Antonio, comandante del più vicino presidio, che, informato dell’accaduto, discendeva la collina con dodici coorti108. Il suo arrivo trattenne i pompeiani e confortò i nostri, dando loro modo di riprendersi dal panico. Non molto tempo dopo, Cesare, avvertito con segnali di fumo di fortino in fortino, come si faceva di solito, prelevate alcune coorti dai presidi, arrivò sul posto. Egli, verificato il danno, essendosi reso conto che Pompeo, uscito dalla linea fortificata, aveva intenzione di allestire un campo vicino al mare per poter foraggiare liberamente e accedere più agevolmente alle navi, mutati radicalmente i suoi piani, visto che non aveva raggiunto lo scopo, diede l’ordine di trincerarsi accanto a Pompeo.
66. Quando la linea di fortificazione fu portata a termine, le truppe di ricognizione di Cesare si accorsero che alcune coorti, quasi una legione, si trovavano dietro un bosco e venivano condotte verso un vecchio accampamento. Questa era la posizione del campo: nei giorni precedenti, quando la IX legione di Cesare aveva affrontato i pompeiani e, come abbiamo detto, li aveva chiusi con le fortificazioni, si era accampata in quel luogo, e il campo si trovava vicino a un bosco a una distanza di più di trecento passi109 dal mare. In seguito Cesare, cambiato per alcuni motivi il suo piano, aveva spostato l’accampamento poco oltre e, pochi giorni dopo, Pompeo aveva occupato il campo abbandonato e, dato che aveva intenzione di tenervi parecchie legioni, lasciato intatto il vallo interno, vi aveva aggiunto una fortificazione più ampia, di modo che l’accampamento minore, incluso nel maggiore, fungeva da fortino e da rocca. Sull’angolo sinistro del campo, la fortificazione si spingeva fino al fiume110 per circa quattrocento passi, per permettere ai soldati di procurarsi l’acqua più liberamente e senza rischi. Ma anche Pompeo, cambiato piano per certe ragioni che non è il caso qui di ricordare, aveva abbandonato la posizione. Il campo era rimasto così per parecchi giorni, ma tutte le fortificazioni erano rimaste intatte.
67. Gli esploratori riferirono a Cesare che la legione aveva occupato il campo. La manovra fu confermata da alcuni fortini posti più in alto, che l’avevano notata. Il luogo distava circa cinquecento passi111 dal nuovo accampamento di Pompeo. Cesare, sperando di poter schiacciare quella legione e desiderando rifarsi del danno subito in quella giornata, lasciò due coorti al lavoro, per dare l’impressione che si continuava nelle opere di fortificazione, mentre lui, prendendo una diversa direzione, quanto più nascostamente possibile, condusse contro la legione di Pompeo e il campo minore le altre trentatré coorti disposte su due linee112, tra le quali era compresa la IX legione priva di molti centurioni e con un ridotto numero di effettivi. La sua prima aspettativa non fu delusa. Piombò infatti sul campo prima che Pompeo se ne potesse accorgere e, per quanto le fortificazioni del campo fossero imponenti, tuttavia, assaliti prontamente i pompeiani sul fianco sinistro, dove si trovava lui stesso, li scalzò dal vallo. A sbarrare l’accesso alle porte vi era un cavallo di Frisia113. Qui ci fu un breve scontro tra i nostri che tentavano di entrare e gli avversari che difendevano l’accampamento, con Tito Puleione, ad opera del quale, come abbiamo detto, era stato tradito l’esercito di Antonio, che si batteva con grande coraggio davanti a tutti. Tuttavia i nostri, grazie al loro valore, ebbero la meglio e, spezzato il cavallo di Frisia, irruppero prima nell’accampamento maggiore e poi anche nel fortino incluso nel campo maggiore, dove si era rifugiata la legione respinta, uccidendo molti che tentavano di resistere.
68. Ma la Fortuna, così determinante in tutti i casi della vita e a maggior ragione in guerra, produce in pochi istanti i più radicali mutamenti: come allora accadde. Le coorti dell’ala destra di Cesare, non conoscendo i luoghi, si misero a seguire quella parte di fortificazione che, come abbiamo detto, va dall’accampamento al fiume, cercandovi una porta e pensando che quella fosse la fortificazione del campo. Quando si accorsero che raggiungeva il fiume, abbattute le fortificazioni che nessuno difendeva, saltarono all’interno, seguite da tutta la nostra cavalleria.
69. Frattanto Pompeo, dopo un periodo di tempo abbastanza lungo, informato degli avvenimenti, mosse in soccorso dei suoi con cinque legioni prelevate dai lavori. Contemporaneamente, mentre la sua cavalleria si avvicinava alla nostra, i nostri, che avevano occupato l’accampamento, avvistavano l’esercito di Pompeo schierato e battaglia; ed improvvisamente tutto cambiò. La legione pompeiana, rafforzata dalla speranza di un immediato aiuto, si sforzava di resistere dalla porta decumana114 e anzi contrattaccava. La cavalleria di Cesare, che s’inerpicava attraverso stretti passaggi sui terrapieni, temendo per la propria ritirata, dava inizio alla fuga. L’ala destra, che era rimasta tagliata fuori dalla sinistra, accortasi del panico dal quale era stata presa la cavalleria, per non rimanere chiusa all’interno delle fortificazioni, si ritirava per la stessa strada dalla quale era entrata, e molti soldati, per non capitare nelle strettoie, si precipitavano nelle fosse delle fortificazioni alte dieci piedi115, ed essendo rimasti schiacciati i primi, gli altri cercavano di salvarsi e trovare una via di scampo passando sui loro cadaveri. I soldati dell’ala sinistra, come videro dal vallo arrivare Pompeo e i loro fuggire, temendo di rimanere bloccati in uno spazio ristretto, con il nemico all’esterno e all’interno, pensavano di ritirarsi dalla stessa parte da cui erano entrati; tutto era confusione, panico e fuga: mentre Cesare afferrava con le proprie mani le insegne e ordinava di fermarsi, alcuni abbandonavano i cavalli e continuavano a piedi la fuga, altri, per la paura, abbandonavano persino le insegne, e neppure uno si fermava.
70. In una situazione così disastrosa, solo una circostanza ci fu di aiuto, evitando la completa distruzione dell’esercito: il fatto che Pompeo, temendo un’imboscata, perché, io penso, non si aspettava una simile opportunità, dato che aveva visto poco prima i suoi fuggire dall’accampamento, non osò per un po’ di tempo accostarsi, e la sua cavalleria, trattenuta nelle strettoie occupate dai soldati di Cesare, non poteva mettersi prontamente all’inseguimento. Fu così che contrattempi tanto insignificanti ebbero per tutte e due le parti un peso tanto rilevante. Infatti, la linea fortificata che dal campo conduceva al fiume, quando il campo di Pompeo era ormai espugnato, impedì la vittoria che Cesare aveva ormai ottenuto, e la stessa circostanza, ritardando l’inseguimento, salvò i nostri.
71. Nei due combattimenti di quella giornata Cesare perse novecentosessanta soldati e illustri cavalieri romani, come Tuticano Gallo, figlio del senatore, Gaio Felginate di Piacenza, Aulo Granio di Pozzuoli, Marco Sacrativiro di Capua, cinque tribuni dei soldati e trentadue centurioni. Ma gran parte di loro cadde nei fossati e sulle fortificazioni, schiacciata dalla massa dei commilitoni terrorizzati e in fuga, senza aver riportato ferite; andarono perdute trentadue insegne militari. Per quella battaglia Pompeo fu acclamato imperator. Mantenne il titolo e con questo nome si lasciò in seguito salutare, ma non ne fece uso di solito nella corrispondenza, né fece ornare d’alloro i fasci dai quali era preceduto. Ma Labieno, avendo ottenuto da lui che gli si consegnassero i prigionieri, quando gli furono portati davanti, per ostentazione, com’è ovvio, e per guadagnare una stima maggiore alla sua figura di disertore, chiamandoli commilitoni e chiedendo loro, tra gli insulti, se era abitudine dei veterani darsi alla fuga, li fece uccidere al cospetto di tutti.
72. Questi avvenimenti esaltarono a tal punto la fiducia e lo spirito dei pompeiani, che non pensavano più alla maniera di condurre la guerra, ma credevano già di aver vinto. Non riflettevano sul fatto che l’inferiorità numerica dei nostri soldati, la posizione sfavorevole e le strettoie di un campo, che era già stato occupato, il terrore di un attacco su due fronti, dentro e fuori dalle fortificazioni, la separazione dell’esercito in due parti, di cui una non poteva recare aiuto all’altra, erano state causa della sconfitta. Non aggiungevano altre considerazioni, come la mancanza di qualsiasi scontro diretto, e il fatto che non c’era stata battaglia e le perdite maggiori, i nostri, se le erano procurate da soli, per la calca e le strettoie, non per opera del nemico. Non rammentavano infine le vicissitudini che solitamente si verificano in guerra, quanto spesso cause insignificanti come un sospetto infondato, un improvviso spavento, o uno scrupolo religioso avessero prodotto gravi danni, quante volte, per un errore del generale o la colpa di un tribuno, l’esercito avesse subito un rovescio. Ma invece, come se avessero vinto per merito del loro valore e la situazione non potesse cambiare, celebravano, con messaggi inviati al mondo intero, per lettera o a voce, la vittoria di quella giornata.
73. Cesare, costretto ad abbandonare il piano precedente, ritenne di dover cambiare completamente la conduzione della guerra. Quindi, ritirati contemporaneamente tutti i presidi e abbandonato l’assedio, raccolto l’esercito in un sol luogo, tenne un discorso ai soldati: li esortò a non preoccuparsi troppo di quanto era accaduto, né a spaventarsi per questo; confrontassero quest’unico insuccesso, e neanche troppo grave, con le tante battaglie vinte. Bisognava ringraziare la Fortuna, poiché avevano preso l’Italia senza colpo ferire, avevano pacificato la Spagna contro genti bellicosissime comandate da generali straordinariamente abili ed esperti, avevano in loro potere le vicine province ricche di frumento. Dovevano infine ricordare come, passando in mezzo alle flotte nemiche, con non solo i porti, ma anche tutte le coste presidiate, erano sbarcati tutti sani e salvi. Se non tutto andava per il verso giusto, bisognava risollevare le sorti con l’impegno. Il danno che avevano subito, poteva essere imputato a chiunque altro, ma non a lui. Egli li aveva fatti combattere in posizione favorevole, aveva conquistato il campo nemico, aveva schiacciato e vinto la resistenza degli avversari. Ma se era stato il loro turbamento o un errore o anche la sorte ad impedire una vittoria già conquistata e ottenuta, bisognava ora fare ogni sforzo per riparare col valore al rovescio subito. Se lo avessero fatto, il danno si sarebbe trasformato in vantaggio, come era accaduto a Gergovia, e coloro che prima avevano avuto paura di combattere si sarebbero spontaneamente offerti per la battaglia.
74. Dopo questo discorso, bollò d’infamia e rimosse parecchi vessilliferi. Tutto l’esercito concepì un tale risentimento per il rovescio subito e un tale desiderio di cancellare l’infamia, che nessuno aveva bisogno di aspettare gli ordini dei tribuni o dei centurioni; ciascuno s’imponeva come pena fatiche ancora più dure e tutti al tempo,stesso ardevano dal desiderio di combattere, mentre addirittura alcuni ufficiali superiori, mossi da ragioni tattiche, ritenevano che si dovesse rimanere sul posto e ingaggiare una battaglia decisiva. A questo Cesare opponeva il fatto che non poteva fidarsi abbastanza dei soldati ancora turbati e riteneva che fosse necessario far passare un po’ di tempo per rinfrancare gli animi, ed era preoccupato per i rifornimenti di frumento, una volta che si fossero allontanati dalla linea fortificata.
75. Quindi, senza indugiare, se non il tempo necessario per curare feriti e malati, fece partire dal campo di Apollonia, all’inizio della notte, tutte le salmerie, con l’ordine di non fermarsi prima di aver concluso la marcia116. Fu inviata una legione di scorta. Sbrigate queste faccende, trattenne al campo due legioni, fece uscire le altre da parecchie porte alla quarta vigilia117, mandandole avanti per lo stesso cammino e, dopo poco, sia per osservare l’uso militare sia perché la sua partenza apparisse del tutto normale, ordinò di dare il segnale e, uscito immediatamente, raggiunse la retroguardia, scomparendo in breve alla vista del campo. Pompeo tuttavia, scoperta la sua manovra, non tardò ad inseguirlo e con lo scopo di raggiungerli durante la marcia, impacciati e ancora atterriti, portò l’esercito fuori dall’accampamento, mandando avanti la cavalleria a ritardare la marcia della retroguardia, senza riuscire a raggiungerla, perché Cesare, che procedeva speditamente, aveva troppo vantaggio. Ma quando si arrivò al fiume Genuso118, le cui sponde erano di difficile accesso, la cavalleria, che li aveva raggiunti, impegnava la retroguardia in uno scontro. A questa Cesare oppose i suoi cavalieri tra le cui file aveva inserito quattrocento soldati delle prime linee, i quali riportarono un tale successo che, impegnato un combattimento di cavalleria, respinsero tutti i nemici, uccidendone molti e rientrando incolumi nelle file.
76. Al termine della tappa giornaliera che aveva fissato, Cesare, dopo aver fatto attraversare all’esercito il fiume Genuso, si fermò nel suo vecchio campo di fronte ad Asparagio, trattenne tutte le truppe nel vallo e mandò la cavalleria a foraggiare, ma con l’ordine di ritirarsi immediatamente attraverso la porta decumana. Allo stesso modo Pompeo, conclusa la marcia della giornata, si fermò nel suo vecchio accampamento di Asparagio. I suoi soldati, poiché erano liberi dal lavoro, essendo le fortificazioni intatte, erano stati lasciati andare, alcuni a far legna e foraggio piuttosto lontano, altri, dato che la decisione della partenza era stata presa all’improvviso, e gran parte delle salmerie e dei bagagli era stata lasciata al campo precedente, erano indotti dalla sua vicinanza ad andarli a riprendere e, lasciate le armi sotto le tende, si allontanavano dal vallo. Poiché i pompeiani non erano pronti ad inseguirlo, cosa che Cesare aveva previsto, verso mezzogiorno, dato il segnale della partenza, portò fuori l’esercito e, raddoppiato per quel giorno il turno di marcia, si allontanò da quel luogo di otto miglia119, mentre Pompeo non poté fare altrettanto, dato che le sue truppe erano disperse.
77. Il giorno dopo, Cesare, mandate avanti come prima, al principio della notte, le salmerie, uscì dal campo egli stesso alla quarta vigilia, di modo che, se vi fosse stata necessità di combattere, con l’esercito privo di impacci, avrebbe potuto affrontare l’inattesa eventualità. Lo stesso fece nei giorni successivi. Con queste precauzioni riuscì a non subire nessun danno, malgrado la profondità dei fiumi e le estreme difficoltà del cammino. Pompeo infatti, dopo il ritardo del primo giorno e l’inutile fatica dei giorni successivi, per quanto allungasse le marce e si ostinasse ad inseguire il nemico che aveva accumulato un notevole vantaggio120, il quarto giorno desistette dall’inseguimento e pensò di dover cambiare piano.
78. Per deporre i feriti, dare lo stipendio ai soldati, rinsaldare le alleanze, lasciare dei corpi di guardia nelle città, Cesare doveva raggiungere Apollonia. Ma dedicò a queste faccende il tempo strettamente necessario, data la sua fretta. Era in pensiero per Domizio e muoveva verso di lui con la massima rapidità, spinto dalla preoccupazione, per evitare che Pompeo lo precedesse. Il suo piano generale era motivato da queste considerazioni: se Pompeo muoveva anche lui su Domizio, allontanandosi dal mare e dai rifornimenti che arrivavano a Durazzo, senza grano né vettovaglie, sarebbe stato costretto a misurarsi con lui ad armi pari; se fosse passato in Italia, egli si sarebbe congiunto con l’esercito di Domizio e sarebbe partito in aiuto dell’Italia, passando attraverso l’Illirico; se Pompeo tentava di prendere d’assalto Apollonia e Orico, respingendolo da tutto il litorale, egli avrebbe messo l’assedio a Scipione, costringendo Pompeo a venirgli in aiuto. Cesare mandò quindi dei messaggeri a Gneo Domizio per fargli sapere quali erano le sue intenzioni, lasciò tre coorti a presidiare Apollonia, una a Lisso e tre ad Orico, depose i feriti ancora ammalati e si mise in marcia attraverso l’Epiro e l’Atamania121. Anche Pompeo, che faceva congetture sui piani di Cesare, ritenne di dover muovere rapidamente alla volta di Scipione, per portargli aiuto nel caso che Cesare avesse deciso di puntare su quell’obbiettivo, e per assalire personalmente le truppe di Domizio, nel caso che Cesare non si fosse voluto allontanare dalla costa e da Orico, perché aspettava le legioni e la cavallerìa dall’Italia.
79. Per questi motivi ciascuno di loro cercava di affrettarsi, sia per portare aiuto ai suoi, sia per non perdere l’occasione di sconfiggere gli avversari. Ma la sosta ad Apollonia era costata a Cesare una deviazione, mentre Pompeo poteva puntare direttamente sulla Macedonia attraverso la Candavia122. Accadde inoltre un altro improvviso inconveniente: Domizio, che aveva tenuto per parecchio tempo l’accampamento accanto a quello di Scipione, se ne era allontanato per rifornirsi di frumento, dirigendosi verso Eraclea123, cosicché sembrava che la Fortuna lo gettasse proprio contro Pompeo. In quel momento Cesare non era al corrente della situazione. Intanto, i messaggi inviati da Pompeo per tutte le città e province avevano diffuso enormemente la fama dello scontro avvenuto a Durazzo, gonfiando in maniera spropositata l’evento, per cui si diceva che Cesare, sconfitto, era in fuga dopo aver perduto quasi tutto l’esercito. Questa notizia rendeva insicure per lui le strade e sottraeva alla sua alleanza non poche città. Di conseguenza, i diversi messaggi inviati per vie diverse da Cesare a Domizio e da Domizio a Cesare, non potevano in nessun modo arrivare a destinazione. Ma alcuni Allobrogi del seguito di Roucillo ed Eco, che come abbiamo detto avevano disertato passando nel campo di Pompeo, incontrati durante la marcia gli esploratori di Domizio, o per l’antica familiarità, perché avevano condotto insieme la campagna di Gallia, o per vantarsi, raccontarono tutta la vicenda come si era svolta, e li informarono della partenza di Cesare e dell’avanzata di Pompeo. Grazie alle loro informazioni, Domizio, con un vantaggio di circa quattro ore, evitò il pericolo grazie al nemico e venne incontro a Cesare ad Eginio124, città situata proprio di fronte alla Tessaglia.
80. Congiunto il suo esercito a quello di Domizio125, Cesare giunse a Gomfi126, che è la prima città della Tessaglia per chi viene dall’Epiro. Pochi mesi prima, i suoi abitanti avevano inviato di loro iniziativa ambasciatori a Cesare, per offrirgli il loro incondizionato appoggio, e gli avevano richiesto un presidio militare. Ma la fama dello scontro di Durazzo era già arrivata, come abbiamo detto prima, gonfiata in molti particolari. Quindi Androstene, pretore della Tessaglia, preferendo esser compagno alla vittoria di Pompeo che alleato di Cesare nelle avversità, raccolse in città dalle campagne una moltitudine di servi e liberi, chiuse le porte e mandò a dire a Pompeo e Scipione di muovere in suo aiuto: le fortificazioni della città erano sicure, se avessero ricevuto tempestivi soccorsi, ma non potevano resistere a un lungo assedio. Scipione, dopo aver saputo della partenza degli eserciti da Durazzo, aveva portato le sue legioni a Larisa127; Pompeo non si trovava ancora vicino alla Tessaglia. Cesare, fortificato il campo, ordinò di preparare scale e gallerie coperte per un assalto improvviso, e dei graticci. Terminati i preparativi, nell’esortare i soldati spiega loro quanto vantaggio avrebbero ricavato, per alleviare la loro totale mancanza di tutto il necessario, dalla presa di una città così ricca e ben fornita, spaventando al tempo stesso le altre città con il suo esempio, e questo sarebbe dovuto accadere rapidamente, prima che arrivassero i soccorsi. Quindi, approfittando dello straordinario ardore dei soldati, il giorno stesso del suo arrivo128, assalì verso l’ora nona129 la piazzaforte difesa da mura altissime, espugnandola prima del tramonto e abbandonandola al saccheggio dei soldati; subito dopo levò il campo e giunse a Metropoli130 prima che vi arrivasse la notizia della presa della città.
81. Gli abitanti di Metropoli, che avevano in un primo momento preso la stessa decisione di quelli di Gomfi, indotti dalle medesime dicerie, chiusero le porte e schierarono sulle mura uomini in armi, ma quando seppero quanto era accaduto a Gomfi per bocca dei prigionieri che Cesare aveva fatto condurre sotto le mura, aprirono le porte. Furono lasciati tutti rigorosamente incolumi e non vi fu nessuna città della Tessaglia che, confrontando la sorte di Metropoli con quella di Gomfi, non si mettesse agli ordini di Cesare, tranne Larisa, che era occupata dalle numerose truppe di Scipione. Egli, trovata una posizione adatta nella pianura per rifornirsi di grano, che era già quasi maturo, stabilì di aspettarvi l’arrivo di Pompeo e di concentrarvi tutte le operazioni di guerra131.
82. Dopo pochi giorni Pompeo giunse in Tessaglia e in un discorso davanti all’assemblea generale dell’esercito ringrazia i suoi soldati ed esorta quelli di Scipione a partecipare alla spartizione del bottino e dei premi, perché la vittoria è ormai sicura. Dopo aver riunito tutte le legioni in un unico campo, divide con Scipione gli onori del comando: dispone un servizio di trombettieri anche presso di lui e ordina di innalzare per lui un altro pretorio. Con l’accrescimento delle truppe di Pompeo e il congiungimento di due grandi eserciti, si rafforza in tutti l’antica fiducia e aumentano le speranze nella vittoria, al punto che, ad ogni indugio, avevano l’impressione di ritardare il loro ritorno in Italia; e se talvolta Pompeo agiva con maggiore lentezza o circospezione, dicevano che la vittoria era questione di una giornata, ma che a lui piaceva comandare e considerare come schiavi i consolari e i pretori. E discutevano già apertamente delle cariche e dei sacerdozi, fissavano uno dopo l’altro gli anni di consolato, mentre altri mettevano gli occhi sulle case e sui beni di quanti militavano nel campo di Cesare; in consiglio si accese tra di loro una grave disputa, se nei prossimi comizi pretori bisognasse tener conto della candidatura di Lucilio Irro, benché fosse assente, dato che Pompeo lo aveva mandato in missione presso i Parti; i suoi amici imploravano il senso di lealtà di Pompeo, perché accogliesse le richieste di colui che era partito, perché Irro non si vedesse deluso per sua decisione, mentre gli altri non erano d’accordo sostenendo che a parità di rischi e fatiche, nessuno doveva passare davanti a un altro.
83. Domizio, Scipione e Lentulo Spintere, nelle loro quotidiane discussioni a proposito del sacerdozio di Cesare132, erano scesi ormai apertamente ai più pesanti insulti: Lentulo cercava di far valere la sua anzianità, Domizio vantava il favore e la considerazione che aveva nell’Urbe, Scipione confidava nella parentela con Pompeo. Acuzio Rufo accusò inoltre presso Pompeo Lucio Afranio, di aver tradito l’esercito, perché riteneva che la guerra di Spagna non fosse stata condotta con sufficiente energia133. Lucio Domizio espose in consiglio una proposta secondo la quale, a guerra finita, bisognava redigere tre liste per iscrivervi i membri dell’ordine senatorio che con loro avevano partecipato alla guerra, giudicando uno per uno quelli che erano rimasti a Roma o, pur trovandosi nella zona pompeiana, non avevano collaborato alle operazioni militari: una sarebbe stata la lista di quelli che venivano riconosciuti innocenti, un’altra la lista dei condannati a morte, la terza quella di coloro che andavano multati. Insomma, tutti si davano da fare per procurarsi cariche o ricompense in danaro o per perseguire i nemici, e non si curavano affatto di discutere le strategie per vincere, ma di come approfittare della vittoria.
84. Fatte le provviste di grano, risollevato il morale delle truppe, lasciato passare abbastanza tempo dalla battaglia di Durazzo, Cesare, per saggiare l’animo dei suoi soldati, pensò che fosse giunto il momento di appurare le intenzioni e la volontà di Pompeo di accettare lo scontro campale. Portò quindi l’esercito fuori dal campo schierandolo a battaglia ma mantenendosi, in un primo momento, sulle sue posizioni, piuttosto lontano dal campo di Pompeo; poi, nei giorni successivi, allontanandosi dal suo accampamento, portava le sue schiere fin sotto le colline occupate dai pompeiani. La manovra aveva l’effetto di rafforzare di giorno in giorno il morale delle truppe. Cesare manteneva per la cavalleria la disposizione di cui abbiamo precedentemente parlato: poiché era nettamente inferiore di numero, vi aveva inserito dei soldati giovani, armati alla leggera con armi adatte ad un combattimento rischioso, presi dalle file degli antesignani, i quali, con l’esercizio quotidiano, dovevano impratichirsi in questo tipo di combattimento. Si ottenne con questo che mille cavalieri osavano tener testa alla carica di settemila cavalieri pompeiani, anche in campo aperto, se se ne presentava la necessità, senza spaventarsi troppo del loro numero. Infatti, durante quegli stessi giorni, combatté una vittoriosa battaglia equestre, nella quale rimase ucciso l’allobrogo Eco, uno dei due che, come abbiamo detto, aveva disertato presso Pompeo.
85. Pompeo, che aveva posto il campo sulla cima di un colle, schierava l’esercito alla base della montagna, aspettando sempre, come sembrava, che Cesare si spingesse su posizioni sfavorevoli. Egli, ritenendo che non fosse in nessun modo possibile trascinare Pompeo a battaglia, pensò che la cosa migliore per lui era muovere il campo e spostarsi continuamente, allo scopo di provvedersi più facilmente di grano, muovendo il campo e toccando sempre luoghi diversi, e far nascere contemporaneamente, durante il tragitto, qualche occasione di combattere, stancando con le marce quotidiane l’esercito di Pompeo che non vi era abituato. Stabilito questo piano, quando era già stato dato il segnale della partenza e le tende erano già state piegate, si accorse che l’esercito di Pompeo, schierato a battaglia, si era allontanato dal vallo più di quanto non facesse di solito, sicché sembrava possibile combattere in una posizione meno sfavorevole. Allora Cesare, mentre il suo esercito si trovava già davanti alle porte, «Bisogna rimandare la partenza per il momento», disse, «e pensare alla battaglia, come abbiamo sempre desiderato. I nostri animi siano pronti a combattere: difficilmente ci si presenterà in seguito un’altra occasione». E immediatamente porta fuori le truppe senza bagagli.
86. Anche Pompeo, come poi si seppe, per le insistenze di tutti i suoi, aveva deciso di dar battaglia. E infatti nei giorni precedenti aveva detto anche in consiglio che l’esercito di Cesare sarebbe stato sgominato prima ancora di venire allo scontro. Poiché molti se ne meravigliavano, disse: «So che vi sto dicendo una cosa quasi incredibile, ma seguite il mio piano, per affrontare la battaglia con maggior fiducia. Ho convinto i nostri cavalieri, ed essi mi hanno assicurato che lo avrebbero fatto, ad assalire, quando ci si troverà a distanza ravvicinata, l’ala destra di Cesare dal fianco scoperto e, dopo aver preso alle spalle lo schieramento, sgominare l’esercito preso dal panico prima che noi lanciamo contro il nemico un solo proiettile. In questo modo metteremo fine alla guerra senza rischi per le legioni e quasi senza colpo ferire. La manovra non è difficile, visto che la nostra cavalleria è molto forte». Annunciò nello stesso tempo che si preparassero per l’indomani e, poiché si presentava l’occasione di combattere che avevano sempre ricercato, vedessero di non deludere le sue aspettative e quelle degli altri.
87. Dopo di lui parlò Labieno che, disprezzando le truppe di Cesare, esaltò il piano di Pompeo: «Non credere, Pompeo», disse, «che questo sia lo stesso esercito che ha vinto la Gallia e la Germania. Ho partecipato a tutte le battaglie e non parlo temerariamente di cose che non conosco. Di quell’esercito non ne rimane che una piccolissima parte; molti sono morti, come era ovvio che accadesse dopo tanti scontri, molti sono stati consunti in Italia dalle febbri autunnali, molti sono tornati a casa, molti sono stati lasciati sul continente. Non avete saputo che con i soldati che sono rimasti in Italia per motivi di salute, si sono costituite a Brindisi intere coorti? Le truppe che vedete sono state messe insieme con le leve degli ultimi anni, fatte in Gallia Citeriore e molti provengono dalle colonie Transpadane. Ma comunque, il nerbo dell’esercito è caduto nelle due battaglie di Durazzo». Dopo aver così parlato, giurò che non sarebbe ritornato al campo se non vincitore ed esortò gli altri a fare lo stesso. Elogiandolo, Pompeo fece lo stesso giuramento e, degli altri, nessuno esitò a giurare. Dopo questi discorsi tenuti in consiglio, tutti si separarono pieni di speranza e di gioia; e già pregustavano la vittoria, perché sembrava loro che in un’occasione così importante e da un generale tanto esperto non potessero venir fatte affermazioni prive di fondamento.
88. Cesare, avvicinandosi al campo di Pompeo, notò che il suo esercito era schierato in questo modo134: all’ala sinistra vi erano le due legioni consegnate da Cesare per senatoconsulto quando erano cominciati i dissensi, delle quali una era la I, l’altra la III. Il centro dello schieramento era occupato da Scipione con le legioni siriache. La legione della Cilicia, insieme alle coorti ispaniche trasferite da Afranio, erano disposte all’ala destra. Queste erano le truppe che secondo Pompeo costituivano il nerbo dell’esercito. Le altre le aveva distribuite tra il centro e le ali ed erano in tutto centodieci coorti. Erano circa quarantacinquemila uomini, più duemila richiamati, provenienti dai beneficiari dei vecchi eserciti, che egli aveva distribuito in tutto l’esercito. Le altre sette coorti le aveva lasciate di guarnigione al campo e negli altri fortini che erano nelle vicinanze. L’ala destra era protetta da un corso d’acqua dalle rive difficilmente accessibili, per questo egli aveva rafforzato l’ala sinistra con tutta la cavalleria, tutti gli arcieri e i frombolieri.
89. Cesare, mantenendo il solito schieramento, aveva disposto la X legione all’ala destra e la IX alla sinistra, benché notevolmente assottigliata dai combattimenti di Durazzo; aggiunse a questa la VIII, cosicché a mala pena riusciva, da due, a mettere insieme una legione, e ordinava loro di sostenersi reciprocamente. Aveva, schierate, ottanta coorti, con un totale di ventiduemila uomini; sette coorti le aveva lasciate come presidio al campo. Aveva posto Antonio al comando dell’ala sinistra, Publio Silla della destra e Gneo Domizio del centro. Quanto a lui, si pose di fronte a Pompeo. Appena si fu reso conto dello schieramento che abbiamo indicato, temendo di venire circondato sull’ala destra dalla massa della cavalleria, prelevò rapidamente dalla terza linea una coorte per ciascuna legione, formando con queste una quarta legione da opporre alla cavalleria, alla quale spiegò cosa voleva che si facesse, ricordando che la vittoria di quella giornata dipendeva dal valore di quelle coorti. Ordinò anche alla terza linea di non muoversi senza un suo ordine: avrebbe dato lui, col suo vessillo, il segnale dell’attacco.
90. Nell’esortare l’esercito alla battaglia, secondo l’uso militare, e nell'’enumerare i benefici che continuamente gli aveva offerto, ricordò dapprima, e i soldati ne potevano essere testimoni, con quanto impegno aveva cercato la pace, quante trattative avesse avviato, nei colloqui, per mezzo di Vatinio, con Scipione, per mezzo di Aulo Clodio, in quanti modi avesse tentato sotto Orico, con Libone, di ottenere uno scambio di ambasciatori. Egli non aveva mai abusato del sangue dei soldati né aveva voluto privare la repubblica di uno dei suoi due eserciti. Dopo questo discorso, fece dare il segnale di tromba ai soldati che non desideravano altro e ardevano dal desiderio di combattere.
91. Vi era nell’esercito di Cesare un richiamato, Crastino, che l’anno prima era diventato sotto di lui primipilo della X legione, un uomo di straordinario valore. Quando fu dato il segnale, egli gridò: «Seguitemi, voi che siete stati del mio manipolo e fate per il vostro generale quanto avete promesso. Non rimane che questa sola battaglia; quando sarà terminata, avremo recuperato, lui la sua dignità, noi la nostra libertà». E nello stesso tempo, guardando Cesare disse: «Oggi farò in modo, generale, che vivo o morto dovrai ringraziarmi». Dopo queste parole si slanciò per primo dall’ala destra seguito da circa centoventi volontari scelti.
92. Tra i due schieramenti era stato lasciato lo spazio sufficiente per la carica di ambedue gli eserciti. Ma Pompeo aveva precedentemente ordinato ai suoi di ricevere l’assalto di Cesare senza muoversi ed aspettare che il suo schieramento si disperdesse; si diceva che era stato consigliato in tal senso da Gaio Triario, e questo allo scopo di spezzare il primo impeto e l’urto dei soldati, lasciando che lo schieramento perdesse di compattezza, per poi assalire, a ranghi serrati, il nemico già disperso; sperava inoltre che, trattenendo i soldati sul posto, l’impatto dei giavellotti sarebbe stato minore che se vi fossero andati loro incontro sulla linea di lancio; sarebbe inoltre accaduto che i soldati di Cesare sarebbero rimasti senza fiato e rotti dalla stanchezza, dopo aver corso per una distanza doppia del previsto. Ma a noi sembra che la manovra di Pompeo sia priva di senso, perché vi è in tutti noi una certa interiore eccitazione e uno slancio innato che si accende nel desiderio di combattere. Un generale non deve reprimerla, ma esaltarla; non per niente, fin dai tempi più antichi, è invalso l’uso di far squillare da ogni parte i segnali d’attacco e levare tutti insieme il grido di guerra; si è ritenuto che questo servisse a spaventare il nemico e incitare le proprie truppe.
93. Ma quando fu dato il segnale e i nostri soldati, che erano balzati avanti con i giavellotti pronti per il lancio, si accorsero che i pompeiani non rispondevano all’attacco, istruiti dall’esperienza e addestrati nelle precedenti battaglie, rallentarono di propria iniziativa lo slancio e si fermarono quasi a metà percorso, per non trovarsi senza forze addosso al nemico e, dopo aver sostato per un po’ di tempo, ripresero la corsa, lanciarono i giavellotti e subito, secondo gli ordini di Cesare, misero mano alle spade. I soldati di Pompeo non furono da meno. Ricevettero il lancio dei giavellotti e sostennero l’urto delle legioni senza modificare lo schieramento e, dopo aver scagliato i giavellotti, vennero alle spade. Nello stesso momento, dall’ala sinistra di Pompeo, la cavalleria, secondo gli ordini ricevuti, carica tutta insieme, mentre si riversava l’intera massa degli arcieri. La nostra cavalleria non sostenne il loro assalto, perdendo un poco terreno, e allora, con tanto maggiore accanimento, la cavalleria di Pompeo cominciò ad incalzare, a dividersi in torme e a circondare il nostro schieramento sul fianco scoperto. Come Cesare se ne accorse, diede il segnale alla quarta linea che aveva formata con sei coorti. Queste si slanciarono prontamente in avanti e, attaccando, si scontrarono con tanta violenza contro la cavalleria pompeiana che nessuno di loro resistette, e non solo volsero le spalle e arretrarono, ma presto, incalzati, si diressero in fuga verso le cime più alte dei monti. Dopo la rotta della cavalleria, tutti gli arcieri e i frombolieri, abbandonati, inermi e senza protezione, vennero uccisi. Trascinate dal loro stesso slancio le coorti aggirarono l’ala sinistra dei pompeiani, che ancora combattevano e resistevano senza rompere lo schieramento, e la attaccarono alle spalle.
94. Nello stesso momento, Cesare diede l’ordine d’attacco alla terza linea, che fino a quel momento non si era mossa e aveva mantenuto la sua posizione. Alla sostituzione dei soldati stanchi con forze fresche e intatte, mentre gli altri li assalivano alle spalle, i pompeiani non poterono resistere, e si diedero tutti alla fuga. Non si era dunque ingannato Cesare nel ritenere che la vittoria sarebbe stata determinata dalle coorti che erano state collocate nella quarta linea da opporre alla cavalleria, come egli stesso aveva dichiarato nell’esortare i soldati. Erano stati loro infatti a respingere dapprima la cavalleria, loro a far strage degli arcieri e dei frombolieri, loro ad accerchiare sul fianco sinistro lo schieramento di Pompeo e a causare inizialmente la fuga. Ma Pompeo, come vide respinta la sua cavalleria e si accorse che quella parte dello schieramento nella quale riponeva maggiore fiducia era stata presa dal panico, perduta la fiducia anche negli altri, si allontanò dal campo di battaglia, recandosi direttamente, a cavallo, all’accampamento, e ai centurioni che aveva posto di guardia alla porta pretoria, ad alta voce, perché i soldati potessero udirlo: «Custodite l’accampamento», disse, «e difendetelo con tutte le forze se dovesse accadere il peggio. Io passo in rassegna le altre porte e rinsaldo i posti di guardia». Detto ciò, si ritirò nel pretorio135, senza credere più nella vittoria e tuttavia in attesa dell’esito della battaglia.
95. Quando i pompeiani in fuga furono ricacciati nel vallo, ritenendo che non si dovesse dar tregua ai nemici atterriti, Cesare esortò i soldati ad approfittare del favore della sorte e prendere d’assalto l’accampamento. Essi, benché affaticati dal gran caldo – la battaglia si era infatti protratta fino a mezzogiorno136 – pronti tuttavia a qualunque fatica, obbedirono. Il campo era strenuamente difeso dalle coorti che vi erano state lasciate di presidio e anche con maggiore accanimento dai Traci137 e dai barbari delle truppe ausiliarie. Infatti, i soldati che vi si erano rifugiati dal campo di battaglia, spaventati e distrutti dalla fatica, abbandonate per lo più armi ed insegne, pensavano più a continuare la fuga che a difendere l’accampamento. Quelli che si erano attestati sul vallo non poterono resistere a lungo alla massa dei proiettili che li investiva e, coperti di ferite, abbandonarono la posizione e tutti, immediatamente, guidati dai centurioni e dai tribuni militari si rifugiarono sugli altissimi monti che si levavano nei pressi dell’accampamento.
96. Nell’accampamento di Pompeo si poterono vedere pergole ben costruite, una gran profusione di argenteria, le tende pavimentate di zolle fresche, la tenda di Lucio Lentulo e molte altre coperte di edera e molti altri segni che denunciavano un eccesso di lusso e di fiducia nella vittoria, tanto che fu facile capire come non avessero alcun dubbio sull’esito di quella giornata, essi che ricercavano comodità non necessarie. Eppure questi rinfacciavano il lusso al poverissimo e pazientissimo esercito di Cesare, cui era sempre mancato il necessario. Pompeo, mentre i nostri già facevano irruzione al di là del vallo, trovato un cavallo, strappatesi le insegne di generale, si precipitò fuori dall’accampamento per la porta decumana e, a briglia sciolta, puntò direttamente su Larisa. Ma non vi si fermò e, con la stessa velocità, trovati alcuni dei suoi che fuggivano, senza fermarsi nemmeno di notte, accompagnato da trenta cavalieri raggiunse il mare e si imbarcò su una nave frumentaria, lamentandosi continuamente, a quanto si diceva, di essersi tanto ingannato nelle sue aspettative e che proprio quegli uomini, dai quali aveva sperato la vittoria, sembrava quasi lo avessero tradito dando inizio alla disfatta.
97. Impadronitosi dell’accampamento, Cesare pretese dai soldati che non si lasciassero sfuggire l’opportunità di concludere la faccenda, occupati com’erano a far bottino. Ottenuto ciò, si diede a chiudere il monte con una linea fortificata. I pompeiani, poiché sul monte non vi era acqua, diffidando della posizione, abbandonato il monte, cominciarono a ritirarsi tutti insieme per le sue balze verso Larisa. Accortosi della manovra, Cesare divise le sue truppe: ordinò a una parte delle legioni di rimanere nell’accampamento di Pompeo, rimandò un’altra parte nel proprio accampamento, portò con sé quattro legioni e mosse incontro ai pompeiani per un cammino più agevole e, dopo aver compiuto un’avanzata di sei miglia, schierò a battaglia le truppe. Quando i pompeiani se ne accorsero, si fermarono su un monte, ai piedi del quale scorreva un fiume. Cesare rivolse ai soldati un discorso per incoraggiarli e, benché fossero stremati da un’intera giornata di ininterrotta fatica e fosse già quasi notte, fece elevare una fortificazione che sbarrasse l’accesso al fiume dalla montagna, perché i pompeiani non potessero rifornirsi d’acqua durante la notte. Terminato il lavoro, gli avversari, inviata una legazione, iniziarono a trattare la resa. Alcuni membri dell’ordine senatorio, che si erano uniti a loro, cercarono scampo nella fuga durante la notte.
98. All’alba, Cesare ordinò a tutti coloro che si erano fermati sulla montagna di portarsi dalle alture al piano e di consegnare le armi. Essi obbedirono senza protestare e, con le mani tese, prostrati a terra in lacrime gli chiesero di risparmiarli; con parole di conforto, egli ordinò loro di alzarsi e, dopo aver parlato brevemente della propria mitezza per calmare la loro paura, lasciò a tutti salva la vita, raccomandando ai propri soldati di non far violenza a nessuno e di non toccare le loro cose. Compiuto questo dovere, ordinò che dal campo lo raggiungessero le altre legioni e che quelle che aveva condotte con sé vi ritornassero per riposarsi, e il giorno stesso giunse a Larisa.
99. In quella battaglia le perdite non ammontarono a più di duecento uomini, ma morirono circa trenta centurioni, uomini valorosi. Fu ucciso, mentre combatteva con grande coraggio, anche Crastino, di cui prima abbiamo fatto menzione, con un colpo di spada in pieno viso. E non fu vano quanto aveva detto al momento di gettarsi nella mischia. Cesare riteneva infatti che il valore dimostrato da Crastino in quella battaglia era stato veramente straordinario e giudicava che egli avesse ben meritato la sua riconoscenza. Pareva che le perdite dell’esercito pompeiano ammontassero a circa quindicimila uomini, ma se ne arresero più di ventiquattromila – perché si consegnarono a Silla anche le coorti che erano state lasciate di presidio nei fortini – molti inoltre si rifugiarono nelle città vicine e dal campo di battaglia furono portate a Cesare centottanta insegne e nove aquile. Lucio Domizio, mentre dall’accampamento cercava di rifugiarsi sulla montagna e, per la stanchezza, gli mancavano le forze, fu ucciso dalla nostra cavalleria.
100. Nello stesso periodo Decimo Lelio giunse a Brindisi con la flotta e, con la stessa manovra eseguita tempo prima da Libone, come abbiamo narrato, occupò l’isola situata davanti al porto di Brindisi. Allo stesso modo Vatinio, che comandava a Brindisi, con delle imbarcazioni pontate e opportunatamente equipaggiate attirò le navi di Lelio e prese nelle strettoie del porto una quinqueremi che si era spinta troppo lontano e due navi più piccole, e in seguito dispose presidi di cavalleria per impedire ai marinai di rifornirsi d’acqua. Ma Lelio, che poteva profittare di una stagione più favorevole alla navigazione, si faceva portare acqua da Corcira e da Durazzo con le navi da carico, senza lasciarsi scoraggiare nel suo proposito e, prima che si sapesse dello scontro avvenuto in Tessaglia, né la vergogna di aver perduto le navi, né la mancanza di quanto era indispensabile, poterono scacciarlo dal porto e dall’isola.
101. Quasi nello stesso periodo, Cassio giunse in Sicilia con le flotte di Siria, Fenicia e Cilicia, ed essendo la flotta di Cesare divisa in due parti, una metà a Vibo, al comando del pretore Publio Sulpicio e l’altra metà a Messina al comando di Marco Pomponio, Cassio piombò a Messina con le navi, prima che Pomponio venisse a sapere del suo arrivo e, avendolo sorpreso in grande confusione, senza vigilanza e nel disordine, col favore di un forte vento lanciò contro la flotta di Pomponio delle navi da carico piene di resina, pece, stoppa ed altri materiali infiammabili, incendiando tutte le sue trentacinque navi, di cui venti erano pontate. Il fatto produsse un tale spavento che, per quanto Messina fosse presidiata da una legione, la città fu difesa a stento e, se proprio in quel momento non fosse giunta con una staffetta di cavalleria la notizia della vittoria di Cesare, erano in molti a ritenere che l’avremmo perduta. Ma dopo quell’annuncio, arrivato in un momento così opportuno, la piazzaforte fu difesa. Allora Cassio puntò sulla flotta di Sulpicio a Vibo e, visto che per il timore di quanto era accaduto a Messina i nostri avevano tirato in secco circa quaranta navi, mise in atto lo stesso stratagemma; con il favore del vento, Cassio lanciò le navi da carico preparate per appiccare il fuoco, e la fiamma, appiccatasi alle due estremità della flotta distrusse cinque navi. Poiché per la forza del vento il fuoco serpeggiava diffondendosi, i soldati, che provenivano dalle vecchie legioni ed erano stati lasciati di guardia alle navi per motivi di salute, non sopportarono la vergogna e, di propria iniziativa, si imbarcarono e salparono e, assalita la flotta di Cassio, presero due quinqueremi, una delle quali era quella di Cassio che, raccolto da una scialuppa, riuscì a fuggire; furono inoltre affondate due triremi. Non molto dopo si seppe della battaglia avvenuta in Tessaglia, tanto che vi dovettero credere anche i pompeiani; prima di allora credevano infatti che si trattasse di false notizie, messe in giro dai legati e dai sostenitori di Cesare. Informato dell’accaduto, Cassio si allontanò con la flotta da quei luoghi.
102. Cesare, tralasciata ogni altra incombenza, ritenne di dover inseguire Pompeo dovunque si fosse rifugiato, per impedirgli di mettere insieme altre truppe e ricominciare la guerra, ed avanzava ogni giorno di quanta strada poteva fare con la cavalleria, seguito a tappe più brevi da una legione. Ad Amfipoli138 era stato emanato a nome di Pompeo un editto che ordinava a tutti i giovani della provincia, greci e cittadini romani, di presentarsi a prestare giuramento. Ma non si poteva sapere se Pompeo lo avesse fatto per sviare i sospetti, al fine di nascondere il più a lungo possibile il suo progetto di fuga, o se avesse intenzione di occupare con le nuove leve la Macedonia, se nessuno lo inseguiva. Egli restò all’ancora una notte e, convocati da Amfipoli coloro con cui aveva legami di ospitalità, raccolto il danaro per le spese necessarie, quando seppe dell’arrivo di Cesare, si allontanò di lì e in pochi giorni raggiunse Mitilene139. Dopo essere stato qui trattenuto dal cattivo tempo e aver aggiunto alle sue altre navi veloci, passò in Cilicia e di là a Cipro. Qui venne a sapere che, con il consenso di tutti gli abitanti di Antiochia140 e dei cittadini romani che vi esercitavano il commercio, erano state prese le armi per allontanarlo e che erano stati mandati in giro messaggeri per vietare ai pompeiani in fuga, che si diceva si fossero rifugiati nelle città vicine, l’accesso ad Antiochia; se avessero tentato di entrare, avrebbero messo a repentaglio la loro vita. La stessa cosa era capitata a Rodi a Lucio Lentulo, che era stato console l’anno prima, all’ex console Publio Lentulo e a molti altri che, seguendo Pompeo nella fuga, erano giunti sull’isola, ma era stato proibito loro l’accesso al porto e alla città ed avevano ricevuto dei messi con l’ordine di allontanarsi, per cui avevano dovuto salpare contro la loro volontà. La fama dell’arrivo di Cesare aveva già raggiunto quelle città.
103. A queste notizie, Pompeo, abbandonato il progetto di recarsi in Siria, prese danaro dalle compagnie degli appaltatori delle imposte e da alcuni privati e, caricata sulle navi una gran quantità di monete di bronzo per le spese militari e duemila armati, scelti in parte tra gli schiavi delle compagnie e in parte confiscati ai commercianti, facendo scegliere quelli che ciascuno di loro riteneva più idonei a questo compito, giunse a Pelusio141. Caso volle che qui si trovasse il re Tolomeo, ancora ragazzo, con un grande esercito, in guerra con la sorella Cleopatra che, pochi mesi prima, con l’aiuto di parenti ed amici, aveva scacciato dal trono; l’accampamento di Cleopatra non era molto distante dal suo142. Pompeo gli fece chiedere, per i vincoli di ospitalità e amicizia che lo avevano legato a suo padre, di lasciarlo entrare ad Alessandria e sostenerlo nella sfortuna con le sue forze. Ma i messi che lui aveva inviato, compiuta la missione, cominciarono a parlare troppo liberamente con i soldati del re e ad esortarli affinché offrissero a Pompeo i loro servigi, e a non disprezzarlo nella sua avversa fortuna. Vi erano tra questi molti ex soldati di Pompeo, che dal suo esercito erano passati in Siria ed erano stati portati ad Alessandria da Gabinio e, a guerra finita, erano stati lasciati presso Tolomeo, il padre del giovane re.
104. Gli amici del re, che data la sua giovane età avevano la reggenza, messi al corrente di queste conversazioni, per paura, come poi andarono dicendo, che Pompeo, sobillato l’esercito regio, si impadronisse di Alessandria e dell’Egitto, o per disprezzo della sua sorte, dato che di solito nella sfortuna gli amici si trasformano in nemici, si mostrarono molto disponibili con i suoi messi e lo invitarono a recarsi dal re; ma, dopo essersi consultati segretamente, mandarono Achilla143, prefetto regio, un uomo di straordinaria audacia, e il tribuno militare Lucio Settimio144 ad assassinare Pompeo. Egli, dopo aver ricevuto il loro cordiale saluto, indotto dal fatto che aveva una certa conoscenza di Settimio, che era stato suo ufficiale nella guerra contro i pirati, salì con pochi dei suoi su una piccola imbarcazione e qui venne ucciso da Achilla e Settimio145. Per ordine del re fu preso anche Lentulo, che fu ucciso in carcere.
105. Al suo arrivo in Asia, Cesare veniva a sapere che Tito Ampio146 aveva tentato di portar via il tesoro del tempio di Diana ad Efeso e che aveva fatto venire tutti i senatori della provincia, perché fossero testimoni del prelevamento della somma, ma, interrotto dall’arrivo di Cesare, era fuggito. Fu così che Cesare salvò in due circostanze il tesoro di Efeso. Risultava inoltre, dopo aver confrontato le date, che il giorno in cui Cesare aveva vinto, nel tempio di Minerva ad Elide147, una statua della Vittoria, collocata proprio davanti a quella di Minerva e fino a quel momento rivolta verso di lei, si era rivolta verso le porte d’ingresso del tempio. Lo stesso giorno, ad Antiochia, in Siria, per due volte fu udito un tale clamore di soldati e squilli di trombe, che i cittadini erano corsi in armi sulle mura. Lo stesso era accaduto a Tolemaide148. A Pergamo, nella cella segreta del tempio149, dove solo i sacerdoti hanno accesso – che i greci chiamano adyta – si udì un suono di tamburi. A Traile150, nel tempio della Vittoria, dove avevano consacrato una statua di Cesare, si mostrava una palma spuntata in quei giorni dal pavimento tra le connessure delle pietre.
106. Cesare, fermatosi pochi giorni in Asia, come seppe che Pompeo era stato avvistato a Cipro, supponendo che egli si dirigesse in Egitto per i legami che aveva con quel regno e per le altre opportunità offerte da quella regione, con la legione che aveva condotto con sé dalla Tessaglia e un’altra che aveva richiamato dall’Acaia, al comando del legato Quinto Fufio, con ottocento cavalieri, dieci navi da guerra rodie e poche altre provenienti dall’Asia, giunse ad Alessandria. Le legioni contavano solo tremiladuecento effettivi: gli altri, stremati dalle ferite riportate in battaglia e dalla marcia lunga e faticosa, non avevano potuto seguirlo. Ma Cesare, confidando nella fama delle sue gesta, non aveva esitato a partire pur con un così limitato contingente, ritenendo che qualsiasi luogo sarebbe stato abbastanza sicuro per lui. Ad Alessandria venne a sapere della morte di Pompeo e, appena sbarcato, ode le grida dei soldati che il re aveva lasciato a difesa della città e vede la folla accorrere ostile contro di lui, perché era preceduto dai fasci. Tutti parlavano di questa azione come di un’offesa alla maestà del re. Sedato questo tumulto, si verificarono nei giorni successivi frequenti assembramenti di folla e molti soldati furono uccisi per le strade in diversi punti della città.
107. Resosi conto della situazione, Cesare ordinò che gli venissero inviate altre legioni dall’Asia, formate con le ex milizie pompeiane. Lui era bloccato dai venti etesii151, che soffiano totalmente contrari ai naviganti che vogliono uscire dal porto di Alessandria. Riteneva intanto che le controversie tra i due re fossero di competenza del popolo romano e sue, in quanto console, e tanto più toccava a lui occuparsene, in quanto proprio durante il suo precedente consolato, con una legge e un senatoconsulto, era stata stretta l’alleanza con Tolomeo padre152: fece sapere quindi che egli desiderava che il re Tolomeo e sua sorella Cleopatra congedassero gli eserciti che avevano e risolvessero la questione in sua presenza secondo la legge, piuttosto che tra di loro con le armi.
108. Data la giovane età di Tolomeo, la reggenza del regno era affidata al suo aio, un eunuco di nome Potino153. Questi cominciò dapprima a lamentarsi e ad indignarsi con i suoi che il re fosse stato chiamato in giudizio; poi, avendo trovato un certo seguito tra i sostenitori del re, richiamò segretamente ad Alessandria l’esercito che si trovava a Pelusio e mise a capo di tutte le truppe quello stesso Achilla di cui si è detto prima, al quale, sobillato dai suoi ed esaltato dalle promesse del re, comunicò per lettera e tramite suoi emissari quali erano le sue intenzioni. Nel testamento di Tolomeo padre erano stati designati come eredi il maggiore dei due figli maschi e la maggiore delle due figlie. Nel medesimo testamento Tolomeo, in nome di tutti gli dèi e dell’alleanza stipulata con Roma, aveva scongiurato il popolo romano di far rispettare le sue volontà. Una copia del testamento era stata portata a Roma dai suoi ambasciatori, perché fosse depositata nell’erario – ma poiché a causa dei disordini politici, non vi si era potuta depositare, era stata lasciata in casa di Pompeo – l’altra copia, identica alla prima, era stata portata, sigillata, ad Alessandria.
109. Mentre si discuteva della faccenda in presenza di Cesare, ed egli desiderava vivamente, da comune amico e arbitro, comporre la controversia tra i sovrani, viene improvvisamente annunciato che l’esercito regio con tutta la cavalleria muoveva su Alessandria. Le truppe di Cesare non erano affatto così numerose da poter fare affidamento su di esse in una eventuale battaglia fuori dalla città. Non restava che mantenere la posizione all’interno della piazzaforte e cercare di conoscere le intenzioni di Achilla. Ordinò tuttavia a tutti i soldati di tenersi in armi e invitò il re a mandare come ambasciatori ad Achilla i suoi amici più influenti per fargli conoscere le sue volontà. Furono inviati Dioscoride e Serapione154, che erano stati ambedue ambasciatori a Roma e avevano goduto di grande prestigio presso Tolomeo padre, i quali si presentarono ad Achilla. Quando furono al suo cospetto, senza neanche ascoltare o sapere per quale motivo erano stati mandati, li fece afferrare e uccidere; uno dei due, ferito, fu preso dai suoi e portato via come morto, l’altro fu effettivamente ucciso. Dopo questa azione, Cesare fece in modo di tenere in suo potere il re, ben sapendo quale alto prestigio avesse presso gli Egiziani la funzione regale e perché la guerra apparisse più come il frutto dell’iniziativa di pochi privati malfattori che di una decisione del re.
110. Le truppe che erano con Achilla non sembravano disprezzabili né per numero né per qualità dei soldati né per esperienza militare. Contavano infatti ventimila armati, provenienti dai soldati di Gabinio, che si erano assuefatti al licenzioso tenore di vita di Alessandria e avevano dimenticato il nome e la disciplina del popolo romano, avevano preso moglie, e molti di loro avevano dei figli. A questi si aggiungeva una banda di predoni e pirati delle province di Siria e Cilicia e delle regioni vicine. Vi si erano inoltre uniti molti condannati a morte e all’esilio. Alessandria era un rifugio sicuro ed offriva stabili condizioni di vita per tutti i nostri schiavi fuggitivi, purché, dato il nome, si arruolassero. Se qualcuno di loro veniva ripreso dal padrone, gli altri soldati, tutti insieme, glielo strappavano di nuovo, perché, colpevoli dello stesso delitto, difendevano i compagni come se fossero stati essi stessi in pericolo. Secondo un’antica consuetudine dell’esercito di Alessadria, avevano preso l’abitudine di chiedere la morte dei favoriti del re, saccheggiare i beni dei ricchi, assediare la reggia per ottenere aumenti di stipendio, espellere o accogliere nel regno ora l’uno ora l’altro. C’erano inoltre duemila cavalieri. Erano tutti divenuti veterani nelle varie guerre di Alessandria, avevano riportato sul trono Tolomeo padre, avevano ucciso i due figli di Bibulo155, avevano fatto guerra agli Egiziani. Questa era la loro esperienza militare.
111. Achilla, fidando in queste truppe e disprezzando lo scarso numero dei soldati di Cesare, occupava Alessandria, tranne quella parte della città che era sotto il controllo militare di Cesare, sebbene avesse tentato al primo attacco di irrompere nella casa che egli occupava. Ma Cesare aveva sostenuto l’assalto con le due coorti schierate nelle strade. Nello stesso tempo si combatté nei pressi del porto e questo ampliò di molto il teatro dello scontro. Infatti, mentre gruppi staccati combattevano in parecchie vie, i nemici tentavano di prendere in forze le navi da guerra. Di queste, le cinquanta che erano state mandate in aiuto di Pompeo, erano tornate in patria dopo la battaglia che si era svolta in Tessaglia, ed erano tutte quadriremi e quinqueremi equipaggiate ed armate di tutto punto. Ve ne erano poi ventidue, che si trovavano di solito di presidio ad Alessandria, tutte pontate. Se il nemico le avesse prese, tolta di mezzo la flotta di Cesare, avrebbe controllato il porto e tutto il mare, impedendo l’arrivo di rifornimenti e rinforzi per Cesare. Si combatté quindi con l’accanimento che la situazione richiedeva, dal momento che gli uni vedevano in quella battaglia la possibilità di una rapida vittoria e gli altri la propria salvezza. Ma vinse Cesare ed incendiò tutte quelle navi156 e le altre che erano nei cantieri, perché non poteva presidiare con così pochi effettivi una zona tanto vasta, e rapidamente sbarcò le sue truppe presso il Faro.
112. Il Faro157 è una torre altissima, costruita con meravigliosa perizia, su un’isola dalla quale prende il nome. Quest’isola, posta di fronte ad Alessandria, ne chiude il porto; ma gli antichi re gettarono un molo lungo novecento passi158 che, con uno stretto passaggio ed un ponte, la congiunge alla città. Sull’isola vi sono delle abitazioni private di Egiziani: un villaggio grande come una città; qualunque nave, in qualsiasi punto, per imprudenza o per cattivo tempo deviasse un poco dalla sua rotta, erano soliti saccheggiarla come pirati. D’altra parte, senza il consenso degli abitanti di Faro, nessuna nave può entrare nel porto, data la strettezza dell’imboccatura. Proprio con questo timore, mentre i nemici erano impegnati nella battaglia, Cesare, sbarcate le truppe, prese Faro e vi stabilì una guarnigione. L’operazione gli permise di ricevere senza pericolo per mare frumento e rinforzi. Inviò infatti emissari in tutte le province vicine e fece venire aiuti159. Nelle altre zone della città si combatté senza raggiungere un risultato definitivo e nessuna delle due parti fu respinta – questo a causa dello spazio ristretto – né subì grandi perdite; durante la notte Cesare cinse con una linea di fortificazioni le postazioni che ne avevano bisogno. In quella zona della città era situata una piccola parte della reggia, nella quale egli aveva abitato fin dal suo arrivo, e il teatro unito alla reggia, che fungeva da roccaforte e dava accesso al porto e ai cantieri regi. Nei giorni seguenti egli rafforzò queste difese, per ottenere un muro di protezione e non essere costretto ad attaccare battaglia contro la sua volontà. Frattanto, la figlia minore del re Tolomeo160, nella speranza di impadronirsi del trono ormai vacante, dalla reggia raggiunse Achilla e cominciò a condurre la guerra insieme a lui. Ma ben presto sorse tra loro una controversia circa il comando, la qual cosa fece aumentare le largizioni ai soldati; infatti ciascuno dei due cercava di guadagnarsi il loro favore con grande prodigalità. Mentre questo accadeva tra i nemici, Potino, aio del re fanciullo e reggente del regno, che si trovava nella parte della città controllata da Cesare, mandava dei messi ad Achilla per esortarlo a persistere nell’impresa e a non perdersi d’animo. Quando i messaggeri furono denunziati e catturati, Cesare lo fece uccidere. Questo fu l’inizio della guerra d’Alessandria.