Libro sedicesimo

 

1. (65-66 d.C.) Non molto tempo dopo, la sorte si prese gioco di Nerone, a causa della sua leggerezza e delle promesse di Cesellio Basso, un cartaginese dalla mente confusa, il quale da un sogno avuto durante il riposo notturno trasse una speranza certa. Sbarcato a Roma, ottenne pagando un’udienza dall’imperatore e gli riferì che in un suo terreno era stata scoperta una grotta di grande profondità, che conteneva una quantità immensa d’oro, non sotto forma di monete, ma in blocchi grezzi ed antichi. A terra giacevano verghe pesantissime, da un’altra parte si ergevano colonne; cose nascoste per tanto tempo, destinate ad accrescere la ricchezza del presente. Secondo le sue congetture, la fenicia Didone, fuggendo da Tiro, poteva aver nascosto quelle ricchezze dopo aver fondato Cartagine, affinché quella ricchezza smodata non corrompesse quel popolo nuovo oppure i sovrani della Numidia, a lei ostili per altre ragioni, non fossero indotti a muoverle guerra dalla cupidigia dell’oro.

 

2. Nerone, senza sincerarsi sull’attendibilità della persona o su la veridicità del fatto, e senza inviare persone incaricate di accertare se le cose riferite erano vere, dà grande rilievo alla notizia, e manda a prelevare quel bottino già pronto una triremi e rematori scelti onde accelerare il trasporto. In quei giorni non si parlò d’altro, il popolo con credulità, le persone serie con diverso atteggiamento. Per caso si celebravano in quei giorni per la seconda volta i giochi quinquennali e ne derivavano per i poeti e gli oratori molti argomenti per celebrare il principe. La terra infatti non produceva soltanto le messi e oro miscelato ad altri metalli, ma con novella fecondità fruttificava e gli dèi porgevano ricchezze spontaneamente. E inventavano altre fandonie simili con facondia non inferiore all’adulazione, sicuri della benevola disposizione e della credulità di Nerone.

 

3. E intanto aumentavano gli sprechi per quella speranza infondata, si consumavano le ricchezze accumulate quasi ve ne fossero altre cadute dal cielo con le quali largheggiare per molti anni. E già si attingeva da queste e l’attesa delle nuove ricchezze era tra le cause dell’impoverimento pubblico. Basso intanto, dopo aver scavato nel terreno suo e nei campi attorno, affermava che la grotta promessa si trovava ora qua ora là; lo seguivano i soldati e una moltitudine di contadini assunti per quel lavoro, fino a che si ridestò dalla sua demenza, si meravigliò perché in precedenza le sue immaginazioni non erano mai state smentite dai fatti e allora per la prima volta s’era ingannato, fino a che per la vergogna e per la paura si uccise. Alcuni invece narrano che sia stato messo in prigione e poi rilasciato, dopo aver subito la confisca di quanto possedeva in sostituzione del tesoro regale.

 

4. Il Senato intanto, per distrarre il popolo dalla cattiva figura, nell'imminenza delle gare lustrali, offre all’imperatore la vittoria nel canto e la corona dell’eloquenza, per attenuare la vergogna del suo istrionismo.

Ma Nerone dichiarò che non c’era bisogno di favoritismi né dell’autorità del Senato, poiché, messo alla pari con i competitori da giudici imparziali avrebbe ottenuto egualmente la lode meritata. Incominciò recitando una poesia composta da lui, poi, mentre il pubblico reclamava che rendesse note tutte le sue opere – dissero proprio così – entrò sul palcoscenico, osservando tutte le norme delle gare di cetra: non sedersi se era stanco, non tergersi il sudore se non con la veste che indossava, in modo che non si vedesse alcuna secrezione della bocca o del naso. Alla fine, piegò il ginocchio, con la mano fece un gesto di ossequio al pubblico e rimase in attesa del giudizio della giuria, simulando ansia. E la plebe romana, abituata a incoraggiare anche la mimica degli istrioni, fa echeggiare il teatro di applausi ritmici e regolari. Avresti creduto che fossero davvero soddisfatti o forse lo erano, noncuranti della vergogna.

 

5. Ma c’era chi era venuto dai municipi lontani e dall’Italia ancora custode degli antichi costumi e chi, inesperto della degenerazione di Roma, era arrivato dalle lontane province con incarichi di ambasciatore o per interessi privati, e non sopportava quello spettacolo né la fatica disonorevole degli applausi; e, poiché le sue mani inesperte cedevano e disturbavano quelli che invece erano pratici, venivano colpiti dalle verghe dei soldati, ritti sulle gradinate per impedire che per un solo istante le acclamazioni fossero meno entusiastiche o cadesse il silenzio della stanchezza. È certo che molti cavalieri rimasero schiacciati nel tentativo di passare attraverso corridoi strettissimi a causa della folla che gli piombava addosso e altri, per esser rimasti di continuo immobili su i sedili, furono presi da malattie gravissime. Ma la paura più forte era d’aver mancato di assistere allo spettacolo, perché c’erano molti che, sia apertamente sia di nascosto, prendevano nota dei nomi dei presenti e ne scrutavano il volto, il compiacimento che dimostravano o la noia. Sicché alle persone di bassa condizione venivano appioppati castighi immediatamente, contro quelle altolocate sul momento si dissimulava il risentimento, ma lo si faceva scontare in seguito. Si racconta che Vespasiano, che cedeva al sonno, fu scosso dal liberto Febo e salvato dall’intervento di personalità influenti, scampando così al pericolo imminente in vista dei più alti destini.

 

6. Verso la fine dei giochi morì Poppea, che era incinta, colpita da un calcio del marito in preda a un’ira improvvisa. Non sono incline a credere si sia trattato di veleno, benché alcuni lo abbiano scritto, ispirati da odio più che da certezza; dato che Nerone desiderava avere figli ed era follemente innamorato della moglie. Il corpo di lei non fu distrutto dal fuoco, com’è il costume romano, ma, secondo la consuetudine dei sovrani stranieri, fu imbalsamato e sepolto nel mausoleo dei Giulii. Tuttavia furono celebrate esequie solenni a spese dello Stato e Nerone stesso dai rostri pronunciò l’elogio della sua bellezza e del fatto che era madre d’una bambina divina nonché altri doni della fortuna, che per lei tenevano luogo di virtù.

 

7. La morte di Poppea, pubblicamente compianta, fu però un lieto evento per chi ricordava l’impudicizia e la crudeltà di lei e provocò una nuova ondata di odio contro Nerone. Questi proibì a C. Cassio di partecipare al funerale e fu il primo segno della sua disgrazia; che peraltro non fu differita a lungo, anzi coinvolse anche Silano, l’uno e l’altro immuni da reati tranne che Cassio per le ricchezze avite e l’austerità della condotta, Silano per la nobiltà della stirpe e per una giovinezza morigerata si distinguevano. Nerone dunque con un suo messaggio al Senato comunicò che bisognava allontanarli entrambi dallo Stato, rimproverando Cassio d’aver tenuto tra le statue degli antenati l’effigie di C. Cassio, sotto la quale figurava la dedica: «Al capo del partito», il che significava diffondere il germe della guerra civile e suscitare rivolta contro la casa dei Cesari; e non soltanto si serviva del ricordo di quel nome ostile per suscitare discordia, ma in più s’era associato L. Silano, giovane di nascita nobile, ma di carattere intollerante, per fare di lui il promotore di rivoluzione.

 

8. Quindi investì Silano stesso, con le accuse medesime che avevano colpito lo zio di lui, Torquato, e cioè di distribuire cariche quasi fosse a capo dell’impero, e di mettere liberti suoi a capo degli uffici di contabilità, di corrispondenza e di suppliche. Accuse al tempo stesso infondate, false; dato che Silano per paura era molto prudente e terrorizzato dalla fine dello zio era estremamente vigile. Poi vennero chiamati a deporre a titolo di informatori uomini che dovevano accusare Lepida, la moglie di Cassio, di rapporti incestuosi con il figlio del fratello e di empie cerimonie. Furono travolti nel caso, come complici, Volcacio Tuliino e i senatori Marcello Cornelio e Calpurnio Fabato, cavaliere romano; essi però presentarono appello a Nerone, e questi, impegnato com’era a compiere altri immani delitti, se li dimenticò, come imputati poco importanti; così sfuggirono alla condanna imminente.

 

9. Cassio e Silano furono condannati all’esilio per decreto del Senato; su Lepida avrebbe deciso l’imperatore. Cassio fu deportato nell’isola di Sardegna e si contava sul fatto che era molto vecchio. Silano, imbarcato per esser portato a Nasso, fu fatto deviare su Ostia, poi fu recluso in un municipio delle Puglie, di nome Bari. Qui, mentre sopportava con la pazienza del saggio la sorte immeritata fu raggiunto dal centurione incaricato di ucciderlo; questi cercava di persuaderlo a tagliarsi le vene, ma egli rispose che l’animo suo era determinato a morire, ma non voleva togliere all’esecutore la gloria del suo compito. Il centurione, vedendo che, benché inerme, era molto forte e fremente d’ira più che di paura, ordinò ai soldati di immobilizzarlo. Silano non mancò di difendersi e di colpirli, benché a mani nude, fino a che, colpito dalle ferite del centurione, cadde come in battaglia.

 

10. Non meno coraggiosamente affrontarono la morte L. Vetere, la suocera Sestia e la figlia Pollitta, che il principe detestava come se per il solo fatto d’essere in vita gli rimproverassero l’uccisione del genero di Vetere, Rubellio Plauto. Lo spunto a rivelare il suo disegno perverso fu offerto a Nerone dal liberto Fortunato, il quale rovinò il padrone e poi passò ad accusarlo, con la complicità di Claudio Demiano, imprigionato da Vetere per i delitti compiuti quando era proconsole in Asia. Per compensarlo della denuncia di Vetere, Nerone lo assolse. Quando la cosa fu nota all’imputato, e cioè che sarebbe stato messo faccia a faccia con un liberto, se ne andò in un terreno di sua proprietà a Formia; e qui segretamente i soldati lo circondano. Era con lui la figlia, esasperata dal lungo dolore e dal pericolo incombente, da quando aveva assistito all’assassinio del marito Plauto; aveva raccolto la testa insanguinata di lui, aveva conservato la veste macchiata di sangue; vedova disadorna e in lutto perenne si nutriva quel tanto per non morire. Allora, dietro consiglio del padre, si recò a Napoli e poiché non riusciva a ottenere udienza da Nerone, ne bloccava la porta, gli gridava che ascoltasse un innocente, non consegnasse a un liberto un uomo che era stato suo collega nel consolato, ora con voce flebile da donna, ora con minacce e grida più forti di quel che può una voce femminile. Ma il principe si mostrò insensibile sia alle preghiere sia al furore.

 

11. Allora essa annunciò al padre che bisognava abbandonare ogni speranza e accettare il destino. Intanto giunge notizia che il Senato preparava il processo e una sentenza di morte. Né mancò chi suggerì a Vetere di nominare Cesare erede della maggior parte del patrimonio, così almeno una parte sarebbe rimasta ai nipoti1; ma egli rifiutò, per non disonorare con un estremo atto servile un’esistenza vissuta da uomo quasi libero; perciò largì agli schiavi quanto denaro aveva e ordinò loro di prendersi tutto quello che ciascuno avrebbe potuto portar via e di lasciare in casa soltanto tre lettucci per i momenti estremi. Poi nella stessa camera, con lo stesso pugnale si recidono le vene e rapidamente, ciascuno avvolto nelle rispettive vesti per pudore, si fanno portare in bagno, il padre con lo sguardo fisso sulla figlia, la nonna sulla nipote, quest’ultima guardandoli entrambi, a gara invocando rapido il trapasso alla propria anima languente, per poter lasciare i propri cari ancora in vita, benché in punto di morte. La sorte rispettò l’ordine naturale e perì per prima la più vecchia, poi chi la seguiva nell’età. Furono processati quando erano già sotto terra e condannati a subire la pena secondo il costume avito2 ma Nerone intervenne e concesse loro che scegliessero la morte; alle morti ormai compiute si aggiungeva lo scherno.

 

12. Fu bandito da Roma Publio Gallo, cavaliere romano, perché era amico di Fenio Rufo e in buoni rapporti con Vetere; al liberto che l’aveva accusato fu concesso come premio un posto in teatro tra i dipendenti dei tribuni. I mesi che seguivano l’aprile, detto Neronio, furono cambiati il maggio in Claudio, il giugno in Germanico. Cornelio Orfito, autore della proposta, disse che il nome Giunio era stato abolito perché c’erano stati due Torquati, uccisi a causa dei loro delitti, che avevano reso infausto il nome Giunio.

 

13. (65 d.C.) Quell’anno funestato da tanti delitti, gli dèi vollero segnalarlo anche per procelle e malattie. La Campania fu devastata da un uragano di vento che rase al suolo ville, messi, alberi e spinse la sua violenza fino alle vicinanze dell’Urbe; qui invece una pestilenza spopolava la razza dei mortali, senza che apparisse visibile alcun turbamento dell’atmosfera. Le case erano piene di corpi esanimi, le strade di funerali; non c’era sesso né età che sfuggisse al pericolo; servi e liberi perivano improvvisamente, tra i lamenti delle mogli e dei figli i quali, mentre li vegliavano, mentre li piangevano, venivano arsi sullo stesso rogo. La scomparsa di senatori e cavalieri, benché frequente, suscitava minor compianto, perché la sorte comune li sottraeva alla ferocia dell’imperatore.

Nello stesso anno si fecero leve nella Gallia Narbonese, in Africa e in Asia per colmare i vuoti delle legioni dell’Illirico, dalle quali si congedavano gli invalidi per età o malattia. Nerone versò quattro milioni di sesterzi come sovvenzione alla città di Lione per le gravi perdite e per la ricostruzione degli edifici distrutti; in precedenza i Lionesi avevano offerto la stessa somma per l’incendio di Roma.

 

14. (66 d.C.) Sotto il consolato di C. Svetonio e Lucio Telesino, Antistio Sosiano, esiliato per aver composto carmi ingiuriosi contro Nerone, come ho già detto, quando apprese in quanto onore fossero tenuti gli accusatori e incline l’imperatore alle esecuzioni, irrequieto e pronto a cogliere le occasioni fece amicizia con Panimene. Costui era esule nella stessa località e famoso per l’arte dei Caldei e legato a loro con molte amicizie; data l’identità della situazione si concilia la sua simpatia, convinto, non a torto, che gli pervenissero frequenti messaggi e richieste di consultazioni; anzi, viene a sapere che riceveva uno stipendio annuo da P. Anteio. Non ignorava che Anteio era malvisto da Nerone per il suo affetto verso Agrippina e che le sue ricchezze rappresentavano un incentivo alla cupidigia dell’imperatore, cosa che aveva già provocato la morte di molti. Di conseguenza, intercettate le lettere di Anteio, si appropria anche di scritti sui quali erano tracciati segretamente da Pammene il giorno natalizio e il suo futuro, scopre altresì quanto era stato elaborato riguardante la nascita e la vita di Ostorio Scapula, scrive all’imperatore che, se gli avesse concesso una breve sospensione dell’esilio, gli avrebbe portato notizie importanti, relative alla sua incolumità, poiché Anteio e Ostorio aspiravano al potere e scrutavano il destino proprio e il suo. Furono inviate navi veloci e Sosiano rapidamente portato a Roma. Appena fu rivelata la sua denuncia, Anteio e Ostorio furono considerati dannati più che imputati, tanto che nessuno avrebbe osato apporre la firma al testamento di Anteio3, se non si fosse presentato a farlo Tigellino, dopo aver ammonito Anteio di non perder tempo a redigerlo. E questi, dopo aver bevuto il veleno, non sopportandone la lentezza, affrettò la morte tagliandosi le vene.

 

15. In quel momento Ostorio si trovava in una sua proprietà vicina ai confini della Liguria. Vi fu mandato un centurione con l’incarico di affrettarne la fine. La ragione di tanta fretta consisteva nel fatto che Ostorio, molto noto per meriti militari e insignito della corona civica in Britannia, per la straordinaria vigorìa e l’esperienza nel maneggio delle armi aveva suscitato in Nerone il timore che lo aggredisse, pauroso com’era sempre e ancor più ora a seguito della congiura recentemente scoperta. Il centurione, dopo aver chiuso ogni uscita onde non potesse fuggire, rivelò a Ostorio gli ordini dell’imperatore. Questi rivolse contro se stesso quel coraggio di cui tante volte aveva dato prova contro i nemici; e poiché dalle vene, benché recise, sgorgava poco sangue, ricorse alla mano d’uno schiavo, gli fece impugnare ben fermo il pugnale e, attirata a sé la destra di lui, gli si gettò contro con la gola.

 

16. Anche se io rievocassi guerre contro lo straniero e morti offerte alla patria, in tanta monotonia di vicende la sazietà prenderebbe me stesso e mi aspetterei noia negli altri; questi si asterrebbero dal leggere la fine di cittadini, anche se onorata ma dolorosa e senza tregua; e ora questa passività da schiavi e tanto sangue versato inutilmente in patria mi opprimono l’animo e lo serrano di angoscia. Ma a mia difesa null’altro chiedo a coloro ai quali questi eventi saranno noti il non aver disprezzato chi tanto supinamente moriva. L’ira degli dèi contro Roma fu tale che non è lecito, dopo avervi accennato una volta, passar oltre, come per una sconfitta militare o l’occupazione d’una città. Almeno questo sia concesso ai posteri di uomini illustri, che, come le loro esequie si distinguono dai sepolcri comuni, così nel racconto delle loro ultime ore abbiano degna memoria.

 

17. In pochi giorni fecero parte della stessa schiera Anneo Mela, Ceriale Anicio, Rufrio Crispino, e T. Petronio; i primi due cavalieri romani di censo senatorio. Quest’ultimo era stato Prefetto del Pretorio, aveva ottenuto le insegne consolari e, deportato recentemente in Sardegna per il reato di congiura, ricevette l’ordine di darsi la morte e si uccise. Mela, nato dagli stessi genitori di Gallione e di Seneca, s’era astenuto dal sollecitare cariche pubbliche per la singolare ambizione di eguagliare il potere dei consolari, anche essendo semplice cavaliere romano; e anche perché riteneva che il modo più spiccio per arricchire fosse quello dei procuratori che amministravano gli interessi dell’imperatore. Era il padre di Anneo Lucano e la cosa aveva molto aumentato la sua celebrità. Quando questi fu ucciso, si dedicò con molto impegno a inventariare i beni di lui, ma si tirò addosso una denuncia da Fabio Romano, uno degli amici intimi di Lucano. Fu inventato un accordo di cospirazione tra padre e figlio, in base a false lettere di Lucano. Nerone vi gettò un’occhiata poi, bramoso di quelle ricchezze, dette ordine che Mela gli fosse portato. Ma Mela adottò il mezzo più diffuso di togliersi la vita, si tagliò le vene, dopo aver redatto un breve scritto, nel quale lasciava in eredità una somma ingente a Tigellino e al genero di lui Cossuziano Capitone, per poter salvare quanto restava.

Allo scritto aggiunse che si lamentava dell’ingiustizia della sua morte, che non c’era il minimo motivo di condanna per lui, mentre Rufrio Crispino e Anicio Ceriale, ostili all’imperatore, vivevano ancora. Si ritenne che questi scritti fossero inventati, dato che Crispino era già morto e Ceriale era destinato a morire. Questi infatti non molto tempo dopo si dette la morte, destando negli altri minore commiserazione, perché lo si ricordava autore d’una denuncia di congiura contro Caio Cesare.

 

18. Quanto a Petronio, dovrò rifarmi un poco addietro4. Questi trascorreva le giornate dormendo e dedicava le notti ai suoi interessi e ai piaceri; come gli altri erano diventati famosi per l’attività, lui lo era per l’indolenza; tuttavia non era considerato un crapulone e scialacquatore, come per lo più quelli che sperperano i loro beni, ma un gaudente raffinato. Le sue parole, i suoi atti quanto più erano noncuranti e ostentavano una certa negligenza di sé, tanto più piacevano per l’apparente naturalezza. Tuttavia, come proconsole in Bitinia, e poi in qualità di console, dette prova di energia e si mostrò all’altezza dei suoi compiti. Poi, ricaduto nei suoi vizi o forse nell’apparenza di essi, fu accolto tra i pochi intimi di Nerone, arbitro di eleganza sì che, in tanta dovizia di piaceri, l’imperatore non reputava nulla gradevole e delicato se non quello che anche Petronio aveva approvato. Di qui l’odio di Tigellino, che vedeva in lui un rivale, più esperto nell’arte del piacere; aizza dunque la crudeltà di Nerone, alla quale ogni altra passione cedeva, accusa Petronio di amicizia con Scevino, attraverso l’accusa d’uno schiavo corrotto, dopo che ogni mezzo di difesa gli era stato sottratto e la maggior parte dei suoi schiavi era stata messa in catene.

 

19. In quei giorni per caso l’imperatore si era recato in Campania e Petronio, giunto a Cuma, venne trattenuto colà; né sopportò più a lungo l’alternativa di timore e speranza. Tuttavia, non si tolse la vita rapidamente; tagliate le vene, a suo capriccio le fece legare, poi aprire di nuovo mentre conversava con gli amici, non però di argomenti austeri o con i quali avrebbe raggiunto la fama di forza d’animo. Li ascoltava non parlare dell’immortalità dell’anima o dei precetti dei saggi, ma di poesie leggere e licenziose. Distribuì ad alcuni degli schiavi donativi, ad altri nerbate; sedette a mensa, cedette al sonno, come se quella morte imposta sembrasse fortuita. Non scrisse neppure pagine in onore di Nerone o di Tigellino né adulò qualche altro potente, come facevano quasi tutti in punto di morte, ma elencò tutte le azioni vergognose dell’imperatore, i nomi dei giovinetti suoi amanti e delle donne e le turpitudini di ciascuno di quei rapporti; firmò con il suo suggello e mandò tutto a Nerone. Poi però spezzò l’anello, affinché non servisse a procurar danno ad altri.

 

20. Nerone si domandava in qual modo fossero state note le sue degenerazioni notturne e gli venne in mente Silia, nota per aver sposato un senatore, da lui fatta partecipe di ogni sua libidine e molto intima di Petronio. La mandò in esilio per non aver taciuto le cose che aveva viste e tollerate. Offrì all’avversione di Tigellino l’ex pretore Minucio Termo, perché un suo liberto aveva riferito fatti relativi a Tigellino, con il fine di incriminarlo; il liberto scontò con atroci torture, il suo padrone con una morte immeritata.

 

21. Soppressi tanti uomini insigni alla fine Nerone bramò stroncare la virtù stessa, uccidendo Trasea Peto e Barea Sorano. Li odiava entrambi da tempo, ma vi erano maggiori motivi contro Trasea, perché, come ho ricordato, era uscito dal Senato quando fu letto il rapporto riguardante Agrippina, e perché aveva dato prova di scarso interesse ai giochi Giovenali, mentre a Padova, sua città natale, nei ludi istituiti dal troiano Antenore aveva cantato in abito da attore tragico. Inoltre, il giorno in cui il pretore Antistio veniva condannato a morte per aver composto versi offensivi contro Nerone, Trasea propose, ed ottenne, una sentenza più mite; e quando furono decretati onori divini a Poppea, volontariamente si astenne dal partecipare al funerale. Reati che non lasciava fossero trascurati Capitone Cossuziano; il quale, oltre al suo animo bramoso di fare del male, era anche ostile a Trasea, per l’autorità del quale era stato battuto, in quanto questi aveva sostenuto gli inviati dei Cilicii, che lo avevano querelato per ottenere risarcimento.

 

22. A queste accuse altre ne aggiungeva: che al principio dell’anno Trasea sfuggiva la solennità del giuramento, non assisteva alla cerimonia dei voti, benché appartenesse al collegio quindecemvirale dei sacerdoti; non aveva mai offerto sacrifici per la salute dell’imperatore e per la sua voce celestiale; un tempo era assiduo e instancabile, tanto che interveniva, come sostenitore o come oppositore, alle più insignificanti delibere del Senato, ora invece da tre anni non s’era fatto vedere nella Curia e anzi, recentemente, quando tutti erano accorsi per la condanna di Silano e di Vetere, aveva preferito occuparsi degli affari privati dei suoi clienti. Era un comportamento da dissidente, da fazioso; se fossero stati in molti ad agire come lui, sarebbe scoppiata la guerra civile. «Come un tempo la cittadinanza, avida di conflitti, parlava di Cesare e di Catone, così oggi di te, Nerone, e di Trasea; e per di più egli ha seguaci o meglio satelliti, che non condividono ancora l’ardire delle sue opinioni, ma si adeguano al suo contegno, al suo volto, e si mostrano severi e malinconici, per far vedere che disapprovano i tuoi piaceri. A lui solo non importa nulla della tua incolumità, né si cura della tua arte. Disdegna i successi del principe; e non è neppure sazio dei suoi lutti e dei suoi dolori. Il rifiuto di credere alla divinità di Poppea equivale a non giurare in nome del divo Augusto e del divo Cesare. Egli mostra disprezzo per la religione, ignora le leggi. Le notizie diurne del popolo romano vengono lette avidamente nelle province e nell’esercito perché si vuol sapere che cosa Trasea s’è astenuto dal fare. O passiamo ad altro sistema politico, se è migliore, oppure sia tolto il capo, il promotore a quelli che desiderano rivolgimenti. Questa setta ha generato i Tuberoni e i Favonii, nomi detestati anche all’antica repubblica5; per rovesciare l’impero, rivendicano la libertà; se ci riescono, attaccheranno la stessa libertà. A che scopo hai soppresso Cassio, se vuoi tollerare che crescano e si rafforzino gli emuli di Bruto? Infine, non tocca a te scrivere sul conto di Trasea; lascia che decida il Senato.» Nerone elogia Cossuziano, già incline a infierire e gli pone a fianco Marcello Eprio, uomo di aspra eloquenza.

 

23. Quanto a Barea Sorano, il cavaliere romano Ostorio Sabino aveva già chiesto di sostenere l’accusa da quando era proconsole in Asia e il suo comportamento improntato a equità ed efficienza aveva provocato il malumore dell’imperatore: s’era assunto, infatti, l’incarico di sgomberare il porto di Efeso e s’era astenuto dal punire i cittadini di Pergamo che avevano impedito ad Aerato, un liberto di Nerone, di portar via statue e pitture. L’accusa però verteva sulla sua amicizia con Plauto e le sue manovre, intese ad attirare i favori della provincia al fine di provocare mutamenti politici. Per la condanna fu scelto il momento in cui era giunto a Roma Tiridate per ricevere il conferimento del potere regio su l’Armenia, affinché l’attenzione fosse rivolta alla politica estera e un delitto compiuto in patria passasse inosservato; o forse per mettere in evidenza, con l’eccidio di uomini insigni, la potenza dell’imperatore, quasi fosse un gesto da re.

 

24. Mentre dunque tutta la cittadinanza s’era riversata ad accogliere l’imperatore e ammirare il re, Trasea ricevette l’ordine di non recarsi a incontrare Nerone. Non si perse d’animo, ma gli scrisse chiedendo di che cosa lo si accusava e affermando che si sarebbe giustificato se gli avessero notificato i reati che gli venivano addebitati. Nerone ricevette la lettera con impazienza, nella speranza che Trasea l’avesse scritta dominato dalla paura e, disonorando il proprio nome, avesse celebrato la gloria dell’imperatore. Ma dato che ciò non era avvenuto, ancor più gli fecero paura la vista e lo spirito di libertà di quell’uomo incolpevole. E ordinò che si convocasse il Senato.

 

25. Trasea allora consultò i suoi amici intimi: avrebbe fatto bene a tentare una difesa o disdegnarla? Gli porsero consigli contrastanti: alcuni furono d’avviso che dovesse presentarsi in Senato, sicuri com’erano del suo coraggio; certo non avrebbe detto nulla che non servisse ad accrescere la sua gloria. Soltanto i vili e i pavidi occultano nel segreto le loro ultime ore. Il popolo avrebbe visto un uomo che andava incontro alla morte, il Senato avrebbe udito parole d’un coraggio sovrumano, quasi fossero pronunciate da un dio; forse persino Nerone sarebbe rimasto turbato da quel prodigio. E se poi fosse rimasto fermo nella sua ferocia, certamente i posteri avrebbero saputo distinguere la memoria d’una morte onorata da quella di chi per viltà muore senza parlare.

 

26. Al contrario, quelli che erano d’avviso che restasse a casa in attesa, su Trasea la pensavano come gli altri, ma temevano scherni e ingiurie; meglio sottrarsi a insulti e parole offensive. Pronti all’assassinio non erano soltanto Cossuziano ed Eprio: ce n’erano altri che forse per ferocia avrebbero alzato le mani per colpirlo e i migliori li avrebbero seguiti per paura. Risparmiasse a quel Senato, di cui aveva costituito l’ornamento, l’infamia d’un simile comportamento turpe e lasciasse incerto che cosa avrebbero deliberato i senatori se avessero avuto sotto gli occhi Trasea in veste di imputato. Sperare che Nerone si vergognasse delle sue infamie non era possibile; era molto più fondato il timore che infierisse contro la moglie, la figlia, gli altri suoi congiunti. Andasse dunque incontro alla morte incontaminato, intemerato ed emulasse la fine di coloro sulle orme e nel culto dei quali aveva trascorso l’esistenza. Assisteva alla riunione Rustico Aruleno, giovane di forti sentimenti, il quale per amor di gloria offrì di opporre il veto alla deliberazione del Senato, nella sua qualità di tribuno della plebe. Ma Trasea frenò il suo ardire: che non prendesse un’iniziativa inutile per l’imputato e funesta per lui. Quanto a sé, aveva vissuto abbastanza e non si sarebbe discostato dalla norma di vita alla quale s’era attenuto per tanti anni: egli invece era all’inizio della carriera e non doveva compromettere il suo avvenire. Prima doveva riflettere quale strada imboccare nell’affrontare la vita pubblica in un tale momento. Quanto alla opportunità o meno di presentarsi in Senato, ci avrebbe pensato egli stesso.

 

27. Ma il mattino seguente due coorti pretorie in armi occuparono il tempio di Venere Genitrice. Una squadra di uomini in toga, vistosamente armati, si misero all’ingresso del Senato mentre varie formazioni di militari erano disseminate per le piazze e le basiliche. I senatori entrarono nella Curia in mezzo a quell’apparato minaccioso e ascoltarono dalla voce del questore il messaggio dell’imperatore. In esso si rimproveravano, senza fare nomi, quei senatori che trascuravano i loro doveri e con l’esempio inducevano gli equestri all’indolenza: c’era forse da meravigliarsi se costoro non si presentavano a Roma dalle province lontane, quando c’erano molti che, investiti del consolato e dei sacerdozi, preferivano dedicarsi a curare i loro giardini? Gli accusatori afferrarono questo argomento come un’arma.

 

28. Cossuziano fu il primo a parlare, poi Marcello con più forza gridò che era in gioco l’interesse dello Stato e che la clemenza dell’imperatore era sopraffatta dalla protervia dei sudditi. Fino a quel giorno i senatori erano stati troppo indulgenti e avevano lasciato si prendessero gioco di loro impunemente Trasea, un disertore, il genero Elvidio Prisco, esaltato quanto lui, Paconio Agrippino, erede dell’odio paterno contro gli imperatori, Curzio Montano, autore di versi detestabili. Egli, disse, pretendeva che in Senato fosse presente Trasea il consolare, durante le preci il sacerdote, al giuramento il cittadino, a meno che Trasea contro le istituzioni e i riti degli avi nostri non abbia indossato apertamente la veste del traditore, del nemico. Si comporti da senatore, una buona volta; lui, che suol proteggere gli oppositori dell’imperatore, proponga che cosa vorrebbe correggere, modificare; avrebbero tollerato meglio le sue obbiezioni sui casi singoli che non il suo silenzio, che implicava una condanna totale. Forse non gli andava a genio che sul mondo intero regnasse la pace, che si fossero ottenute tante vittorie senza perdite? A un uomo come lui, triste per la prosperità pubblica, che considera piazze, teatri, templi come altrettanti deserti, che minaccia di voler andare in esilio, non dev’essere permesso di soddisfare la sua ambizione perversa. Per lui non valevano nulla le deliberazioni del Senato, non le magistrature, Roma stessa non è Roma. Tronchi dunque ogni rapporto con quella città verso la quale da tempo ha deposto l’affetto e di cui ora rifiuta anche la vista.

 

29. Mentre Marcello pronunciava queste accuse e altre simili, torvamente minaccioso, il volto e gli occhi in fiamme, pervase il Senato non quella mestizia ormai consueta per la frequenza dei pericoli, ma un nuovo e più profondo terrore alla vista di tanti soldati e tante armi. Al tempo stesso, si ripresentava alla loro memoria la figura venerabile di Trasea e c’era chi commiserava anche Elvidio, condannato a pagare il fio d’una parentela innocente. E ad Agrippino che cosa si poteva rimproverare se non la triste sorte del padre, lui pure innocente, caduto per la crudeltà di Tiberio?

Montano per la verità era un giovane onesto e non c’era nulla di offensivo nelle sue poesie: veniva mandato in esilio solo per aver dato prova d’ingegno.

 

30. Ostorio Sabino intanto, accusatore di Sorano, prese a parlare e si diffuse sulla sua amicizia con Rubello Plauto e sull’epoca in cui, proconsole d’Asia, Sorano aveva agito per il vantaggio proprio più che per l’utilità pubblica, promuovendo sedizioni nel popolo. Reati ormai d’antica data; ma ce n’erano di più recenti, che associavano la figlia all’imputazione del padre, per aver dato denaro ai Magi: la cosa in effetti era accaduta per l’affetto filiale di Servilia – così si chiamava la fanciulla – la quale, con l’imprudenza dell’età aveva consultato i Magi sulla salvezza dei suoi e per sapere se Nerone si sarebbe placato e se il processo in Senato non avrebbe prodotto nulla di atroce. Fu chiamata in Senato e davanti al tribunale dei consoli stettero l’uno di fronte all’altra il vecchio padre e la figlia non ancora ventenne, già vedova desolata perché da poco le era stato esiliato lo sposo; non osava alzare gli occhi in viso al padre, di cui sembrava avesse aggravato la situazione.

 

31. L’accusatore le domandò se avesse venduto i suoi monili di sposa e si fosse tolta dal collo la collana per raggranellare la somma necessaria a pagare i Magi, ella prima si accasciò a terra in un lungo pianto silenzioso, poi, abbracciando i gradini dell’altare e l’ara stessa, disse: «Non ho invocato divinità malefiche né ho compiuti riti empi, né ho pronunciato altre preghiere se non per impetrare che tu, Cesare, e voi, Padri, vogliate lasciare la vita al mio ottimo padre. Ho dato i gioielli e le vesti e i distintivi del mio grado come avrei dato il sangue e la vita, se me l’avessero chiesta. Provvedano loro, questi che non avevo mai visti prima, a dire quale nome abbiano, quale arte esercitino; non ho mai accennato all’imperatore se non come a un dio. Tuttavia non ne era al corrente il mio infelicissimo padre e, se colpa c’è, l’ho commessa io sola».

 

32. Mentre parlava, la interruppe Sorano, dichiarando che ella non s’era recata nella provincia insieme a lui, e, data l’età, non aveva potuto conoscere Plauto né era coinvolta nei reati attribuiti al marito; separassero dunque lei, colpevole soltanto di troppo affetto, da lui che era pronto a subire qualsiasi sorte. E al tempo stesso si sarebbe gettato tra le braccia della figlia che gli si precipitava incontro, se i littori interponendosi non glielo avessero impedito. Poi vi fu la deposizione dei testimoni; e quanta compassione aveva suscitato la perfidia dell’accusa, altrettanto sdegno provocò la deposizione di P. Egnazio. Questi era un cliente di Sorano e in quell’occasione era stato pagato per rovinare l’amico; ostentava l’autorità della scuola stoica, esperto nel rappresentare nel volto e nel contegno l’immagine dell’uomo onesto, ma, al contrario, nell’animo perfido, simulatore, nascondeva avidità e turpitudine: vizi promossi dal denaro. Egli dunque offrì un esempio di quanto sia necessario stare in guardia non solo da coloro che sono immersi nelle frodi e nei delitti, ma anche da chi sotto la veste di buoni costumi è mentitore e amico infedele.

 

33. Eppure, quella stessa giornata offrì un esempio di onestà: Cassio Asclepiodoto, che per l’ingente patrimonio era il più altolocato in Bitinia, come aveva dimostrato un’immensa considerazione verso Sorano fino a che era in auge, non lo abbandonò ora che era in disgrazia. Fu spogliato di tutti i suoi averi e mandato in esilio, prova dell’indifferenza degli dèi verso il bene e il male. A Trasea, a Sorano, a Servilia fu concessa la scelta della morte; Elvidio e Paconio furono espulsi dall’Italia. Montano fu assolto per riguardo al padre, a patto che non entrasse nella vita pubblica. Agli accusatori, Eprio e Cossunziano, furono dati cinque milioni di sesterzi ciascuno, a Ostorio un milione e duecento mila oltre alle insegne di questore.

 

34. Trasea si trovava nei suoi giardini quando gli fu inviato il questore del console e già tramontava il giorno. Aveva attorno a sé un gruppo numeroso di uomini e donne illustri, tutti intenti ad ascoltare Demetrio, maestro della dottrina cinica e, per quanto era possibile congetturare dall’espressione del volto e dalle parole, quando le voci si udivano con maggior chiarezza, quando lo interrogava su la natura dell’anima e sul distacco dello spirito dal corpo; fino a che arrivò Domizio Ceciliano, un amico intimo, e riferì quel che il Senato aveva deliberato. I presenti proruppero in lacrime e lamenti, ma Trasea li esortò a ritirarsi immediatamente, per non esporsi anche loro a pericoli, associandosi alla sorte del condannato. E poiché Arria, seguendo l’esempio della madre6, voleva dividere la stessa sorte del marito, egli l’ammonì a non lasciare la vita e non privare la figlia dell’unico sostegno.

 

35. Poi si avviò verso il portico. Qui incontrò il questore, e sembrava quasi lieto poiché aveva saputo che a suo genero Elvidio era stato imposto soltanto di allontanarsi dall’Italia. Appresa la deliberazione del Senato, fa entrare in camera Elvidio e Demetrio e tende loro ambe le braccia, e come ne sgorga il sangue, ne spruzza il pavimento; poi chiama presso di sé il questore e gli dice: «Libiamo a Giove Liberatore! Guarda, giovane e gli dèi tengano lontano l’infausto presagio, ma tu sei nato in tempi in cui conviene rafforzare l’animo con esempi di fortezza». Poi, gravemente tormentato dalla lentezza della morte, volti gli occhi a Demetrio...

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
Storici Latini
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