CAPITOLO QUARANTA
Quando scese la notte, il paesaggio preistorico si animò di voci: ululati e strida, barriti, latrati e richiami di ogni tipo.
— Mi sono appena resa conto del perché tutti questi animali si sono estinti — disse Scathach. Era seduta a gambe incrociate all’ingresso di una grotta, con una pila di sassi al suo fianco. — Probabilmente sono morti di sfinimento. Ma non dormono mai?
— Io dormirei volentieri… se tu me lo permettessi — brontolò Jeanne. La guerriera francese era distesa in un letto di paglia, all’interno della grotta. Avevano intrecciato una coperta d’erba e di rami, e Jeanne se la tirò su fino al mento e chiuse gli occhi. — Ora dormo — annunciò, e quasi nello stesso istante il suo respiro assunse un ritmo rilassato.
Scathach si accostò a sistemarle meglio un ramo sulle spalle. In quel buio pesto, tolse uno scarafaggio enorme da una foglia e lo posò a terra, fuori dalla grotta. Il grosso insetto zampettò via nella notte, ma fu subito catturato da un animale simile a una piccola volpe. Scathach scosse la testa: in quel luogo e in quell’epoca, tutte le creature viventi erano o prede o predatori.
Cogliendo un lieve odore stantio nell’aria, raccolse un sasso e lo scagliò nella notte. Qualcosa uggiolò e corse via nell’erba alta.
— I Canis Dirus sono tornati — disse sottovoce.
Alle sue spalle, Jeanne cominciò a russare molto piano.
Scathach sorrise. Le dava un immenso piacere sapere che Jeanne si era addormentata sentendosi al sicuro. Doveva essere una sensazione simile alla fiducia assoluta che un bambino prova nei confronti di un genitore. Poi il suo sorriso scomparve: lei non aveva mai provato niente di simile per i propri genitori. Erano stati quasi degli estranei, distaccati e distanti. Anche se li aveva chiamati Madre e Padre, erano rimasti titoli vuoti; non c’era nessuna emozione dietro quelle parole. Era stata vicina alla nonna e allo zio, ma era sempre stata più vicina a sua sorella.
Aoife delle Ombre: quello sì che era un nome al quale aveva evitato di pensare per anni.
Qualcosa si mosse nell’erba e Scatty scagliò un altro sasso, facendo precipitare la creatura nel sottobosco.
Scathach pensava di rado ai suoi genitori, ormai. Erano vivi entrambi – l’avrebbe saputo, altrimenti – e abitavano in un Regno d’Ombra remoto creato su modello del mondo perduto di Danu Talis; non ci andava da secoli. Una volta di più si ritrovò a pensare che, per quanto la cosa sembrasse improbabile, Nicholas e Perenelle Flamel erano diventati i genitori che non aveva mai avuto.
Si accigliò, cercando di ricordare la prima volta che li aveva incontrati. Era quasi sicura che fosse successo a Parigi, verso la metà del Quattordicesimo secolo, poco dopo che la coppia aveva acquistato il Libro di Abramo il Mago. Era certa di averli incrociati in Spagna, mentre cercavano di tradurre il Codice, e di sicuro si trovava a Parigi nel 1402, per il funerale di Perenelle. Nel corso dei secoli si era imbattuta in loro innumerevoli volte. Gli aveva salvato la vita – e loro avevano salvato la sua in più di un’occasione – e così, quasi per caso, erano diventati la sua famiglia. Quando aveva bisogno di un consiglio, si rivolgeva a Perenelle, e quando le servivano dei soldi, li chiedeva a Nicholas.
Nei vari decenni, anche altri elementi si erano aggiunti alla sua nuova famiglia – Jeanne era come una sorella – ma il problema di avere degli homines per amici era che invecchiavano e morivano, e negli ultimi secoli aveva preferito evitarli. L’ultima volta che aveva avuto qualcosa di simile a una cerchia di amici era stato in Germania, quando aveva formato un gruppo goth-punk con tre vampiri del suo stesso clan. Per un po’ se l’erano spassata. Dormivano di giorno, cantavano e si divertivano di notte, e nelle ore che precedevano l’alba davano la caccia ai nix, i folletti acquatici. Da quando insegnava arti marziali a San Francisco aveva molti studenti. L’ultimo venerdì del mese si incontravano al sushi bar per una serata karaoke, ma era solo per mantenere le apparenze, ed erano più dei conoscenti che degli amici veri e propri.
E lei non soffriva di solitudine. No davvero…
Ma gli ultimi giorni le avevano ricordato quanto le piacesse la compagnia degli homines. Era entusiasta di poter usare le sue capacità come si deve, anziché solo nel dojo. Aveva millenni di addestramento nelle arti marziali; doveva impiegarli per proteggere i suoi amici e tenerli al sicuro. Era una cosa che la faceva sentire desiderata e necessaria.
L’avventura di Parigi le era servita a rendersi conto che era il momento di assumere di nuovo un ruolo più attivo nel mondo. Si era ripromessa che, alla fine di tutta quella storia, avrebbe fatto quello che aveva sempre fatto per gli homines: proteggere chi aveva bisogno di protezione e punire chi se lo meritava.
In quel momento, tuttavia, sospettava di non essere più in grado di mantenere quella promessa.
Si era già trovata in situazioni difficili in passato – era rimasta intrappolata in più di un Regno d’Ombra e si era battuta in condizioni d’inferiorità terrificanti, contro i mostri più diversi e una volta perfino contro un intero esercito – eppure non aveva mai dubitato di riuscire a spuntarla e a tornare a casa. I Regni d’Ombra avevano tutti un ingresso e un’uscita: non bisognava fare altro che trovare l’uscita. I nemici si potevano combattere o trarre in inganno, si potevano sconfiggere oppure convincere.
Ma stavolta era diverso.
C’erano nemici a volontà nel Pleistocene, e nessuno di essi si sarebbe lasciato ingannare o convincere. Gran parte della flora era velenosa o non commestibile, tutta la fauna era famelica. E c’erano troppi animali.
Dopo l’incontro con le tigri dai denti a sciabola, Scathach e Jeanne avevano visto leoni, orsi giganteschi e mandrie infinite di bisonti. Vasti e assordanti stormi di condor sorvolavano i cieli. Al calare della notte, avevano individuato il primo dei lupi: creature dalle zampe lunghe che le seguivano nell’erba alta.
— Lupi? — aveva chiesto Jeanne.
— Canis dirus, per la precisione. Sono gli antenati del lupo moderno, e sono altrettanto micidiali. Per ognuno che vedi, ce ne saranno almeno una dozzina nascosti.
— Ne vedo quattro.
— Be’, allora siamo tenute d’occhio da un branco bello grosso.
Per la prima volta nella sua lunga vita, Scathach stava cominciando a considerare l’ipotesi di trovarsi nei guai. E in guai seri. Quella era una situazione in cui nemmeno la sua velocità e i suoi talenti speciali le erano di aiuto. Scagliò un altro sasso nel buio, lo sentì andare a segno e ne scagliò un altro nella direzione in cui intuiva che la creatura sarebbe scappata: un lupo guaì, spaventato.
— Non sbaglio un colpo — bisbigliò.
Si trovavano lì soltanto da qualche ora e stavano già attirando l’attenzione dei grandi predatori. Scathach non dubitava di poterli battere, e Jeanne era una guerriera abile quasi quanto lei, ma prima o poi una di loro due si sarebbe ferita. E anche se erano entrambe immortali, non erano invulnerabili: se la ferita era grave, sarebbero morte. Il colpo d’artiglio di una tigre, un morso, perfino un graffio potevano infettarsi alla svelta. Certo, il suo metabolismo l’aiutava a guarire… ma doveva nutrirsi. Il problema era che in quell’ambiente non c’era nessuno a cui ricorrere per nutrirsi, a parte Jeanne… e non le avrebbe mai fatto una cosa del genere.
Scathach apparteneva a un clan vampiro che non si nutriva di sangue; aveva altri bisogni. E sebbene sentisse l’esigenza di nutrirsi di rado – molto di rado – prima o poi la fame l’avrebbe assalita. Anche Jeanne avrebbe avuto bisogno di cibo; era vegetariana, ma chi poteva sapere quale cibo fosse sicuro mangiare in quell’epoca e in quel luogo?
L’Ombra trasse un respiro profondo, inalando l’aria pulita della sera, e si piegò all’indietro puntellandosi sulle braccia tese per scrutare i dintorni. Un leone ruggì poco lontano, e qualcosa di più piccolo squittì allarmato.
Aveva vissuto più di quanto si sarebbe mai immaginata, aveva visto civiltà sorgere, crollare e risorgere. Aveva attraversato le epoche migliori e peggiori della storia degli homines. Nel corso della sua lunga vita, aveva commesso anche degli errori e, sebbene non fosse nella sua natura chiedere scusa, c’erano cose che potendo avrebbe cambiato. Il suo rimpianto più grande era di avere addestrato Cuchulain; aveva preso un ragazzo e lo aveva trasformato in un guerriero, e questo alla fine lo aveva ucciso. Forse prima avrebbe dovuto rivolgersi a un Antico Signore per renderlo immortale. Buffo. Non pensava a Cuchulain da secoli; il suo ricordo era troppo intrecciato con quelli di Aoife, ed erano ricordi che facevano male.
Se qualcuno le avesse mai dato l’occasione di rivivere la propria vita da capo, non avrebbe mai e poi mai litigato con la sua gemella. Quando i suoi genitori e suo fratello avevano deciso di ignorarla, Aoife era sempre stata dalla sua parte; Aoife l’aveva sempre amata senza condizioni.
Scathach si avvicinò le ginocchia al petto e vi posò il mento sopra, stringendo le braccia intorno alle caviglie. Era da molto tempo che non pensava alla sorella; si chiese se fosse ancora sulla Terra. Pensava di sì. Di tanto in tanto, le erano giunte voci di una guerriera pallida e dai capelli rossi, o si era imbattuta in storie in cui la scambiavano per lei, mescolando le leggende a tal punto che nemmeno lei riusciva più a distinguerle.
Scrutando il paesaggio, Scatty si rese conto che aveva ottime probabilità di morire in quel posto. Ogni volta che pensava alla morte, se la immaginava in una battaglia drammatica, in uno scontro enorme e glorioso per il quale il suo nome sarebbe stato ricordato per generazioni. Non le piaceva l’idea di morire lì, lontana da tutti e tutto, uccisa da una megafauna preistorica. Un pensiero improvviso le fece drizzare la schiena: una volta le avevano detto che sarebbe morta in un luogo esotico. Be’, che c’era di più esotico del Pleistocene?
Scathach piegò la testa e guardò in su. Il cielo era sereno, le stelle così limpide e luminose da fare perfino un po’ di luce a terra. Si mise a cercare le costellazioni. Nel corso dei secoli si erano spostate, ma bastava individuare la stella polare, e poi avrebbe potuto trovare…
Un gigantesco lupo grigio balzò fuori dal buio, con le fauci spalancate, la pelliccia imbrattata di saliva.
Scatty si lasciò cadere sulla schiena e sferrò un colpo con entrambe le gambe, prendendo la belva in pieno petto, sollevandola in alto e scagliandola via lontano, nella notte. La creatura piombò in mezzo all’erba con un unico uggiolato di sorpresa, quindi ringhiò, si rimise sulle zampe e fuggì via.
L’Ombra rimase distesa sulla schiena a scrutare il cielo notturno. C’era qualcosa che non andava, nelle stelle.
Alzandosi lentamente, lasciò l’ingresso della grotta per scrutare meglio la volta celeste. Un’ampia scia di luce che somigliava quasi alla Via Lattea inondava il cielo, ma c’era qualcosa che non tornava nella sua forma in generale. Avrebbe dovuto essere un arco, ma era troppo diritta. E ovunque guardasse, la stella polare era introvabile.
— Dove diavolo…?
E poi a oriente sorse la luna, grande e gialla, e salì decisa in cielo, riversando una luce candida su tutto il paesaggio. C’era un chiarore tale che si distinguevano i crateri sulla sua superficie.
Un secondo più tardi, sorse la seconda luna.
Seguita da una terza.
E da una quarta.