CAPITOLO DICIASSETTE
I cucubuth accerchiarono Dee. A decine avevano affollato Covent Garden; molti altri si erano allineati sui tetti degli edifici circostanti, e i loro ululati bestiali riecheggiavano ancora per la città.
Il capo dalla testa rasata spalancò le braccia, scoprendo i tatuaggi neri che serpeggiavano sulla sua pelle. — E adesso che hai intenzione di fare, dottore?
Dee si infilò una mano nel soprabito e toccò l’elsa della spada di pietra appesa sotto il braccio. Si era fabbricato un fodero con due cinture di pelle. Non aveva idea di cosa sarebbe successo se l’avesse usata davvero. Portava Excalibur da secoli, eppure aveva soltanto una conoscenza vaga dei suoi poteri. E la limitata esperienza con Clarent gli suggeriva che era ancora più potente della sua lama gemella. Certo, ora che si erano fuse, dovevano esserlo ancora di più… oppure si erano annullate a vicenda?
Il Mago valutò rapidamente le opzioni. Se avesse brandito la spada, era certo che avrebbe illuminato il cielo di Londra per chilometri, raggiungendo perfino i Regni d’Ombra vicini. Ma se non usava né la spada né i suoi poteri, i cucubuth lo avrebbero catturato e condotto al cospetto dei suoi padroni. Ed era l’ultima cosa che desiderava: doveva ancora arrivare al suo cinquecentesimo compleanno. Era troppo giovane per morire.
— Ti conviene venire con le buone, dottore — disse il cucubuth nell’antica lingua della Sassonia orientale.
Dee strinse la presa sull’elsa della spada. Il contatto gelido gli intorpidì le dita. Pensieri strani e bizzarri lampeggiarono ai margini della sua mente.
Cucubuth in armature di pelli e cuoio… vampiri in maglia di ferro… che guadavano fino a riva smontando da strette imbarcazioni metalliche e combattevano su una spiaggia, lottando contro belve irsute con un occhio solo…
Il suono che squarciò la notte era così acuto da oltrepassare quasi la soglia dell’udito umano: una singola nota prolungata.
I cucubuth caddero come se fossero stati colpiti da qualcosa. Quelli più vicini a Dee piombarono giù per primi, e poi, in una lunga onda increspata, le creature si rovesciarono a terra, con le mani premute sulle orecchie, contorcendosi in agonia.
Virginia Dare sbucò dalle tenebre, con il flauto sulle labbra, e sorrise a Dee.
Il Mago fece un profondo inchino, un gesto antiquato che un tempo si usava alla corte della grande Elisabetta. — Sono in debito con te.
Virginia fece un sospiro. — Ho ricambiato il favore di quando mi hai salvato la vita a Boston.
Uno dei cucubuth cercò di afferrare Dee per la caviglia, ma il Mago lo scansò con un calcio. — Dovremmo andare — disse.
Alcune delle creature si stavano già rimettendo faticosamente in piedi, ma un’altra serie di note acute del flauto di Virginia le fece ripiombare a terra.
Avanzando leggera sopra la massa di corpi che si contorcevano, la coppia si allontanò da Covent Garden.
Dee si fermò all’ingresso di King Street e si voltò a guardare. Il selciato della piazza brulicava di creature, alcune delle quali cominciavano a perdere le sembianze umane, svelando musi e zampe bestiali. — Un gran bel trucco — commentò, affrettando il passo per raggiungere Virginia, che aveva continuato a camminare suonando il flauto. — Quanto durerà l’incantesimo?
— Non molto. Più le creature sono intelligenti, più l’incantesimo è duraturo. Ma su bestie primitive come queste… dieci, venti minuti.
La strada era cosparsa di cucubuth che si contorcevano dal dolore, con le mani premute sulle orecchie. Due piombarono giù da un tetto proprio di fronte a Dee e a Virginia, incrinando le lastre del marciapiede. La donna li scavalcò senza neanche rallentare il passo. Dee preferì aggirarli; sapeva che una semplice caduta non poteva danneggiare le creature.
— Ho imparato questa melodia da un tedesco — spiegò Virginia tra una nota e l’altra. — Lui la usava per i ratti.
— Cosa ti ha convinto a schierarti dalla mia parte? — chiese il Mago.
— Mi hai promesso un mondo — rispose Virginia Dare. — E ti conviene mantenere la promessa. Il pifferaio mi ha insegnato anche altre melodie e, credimi, non ti farebbe piacere sentirle.
Dee accennò una risata. — Diamine, sembra quasi una minaccia…
— Lo è — replicò Virginia, quindi sorrise. — A dire il vero, è più di una minaccia. È una promessa.