CAPITOLO SETTE

Quando Josh tornò zoppicando a casa, zia Agnes lo aspettava sulla porta. Il viso magro della donna era fermo in un cipiglio severo e le labbra sottili erano scomparse del tutto. — Hai buttato il telefono in terra e sei scappato via come una furia — lo rimproverò non appena salì il primo gradino. — Esigo una spiegazione, giovanotto.

— Non ne ho. Sophie era… — Josh esitò. — Sophie mi stava chiamando.

— Non dovevi buttare il telefono in terra.

— Mi dispiace. — Il ragazzo trasse un respiro profondo, deciso a non dire altro. Era preoccupato per la sorella; l’ultima cosa di cui aveva bisogno era una sgridata della zia.

— I telefoni costano…

Josh si infilò in casa. — Vado a finire di parlare con papà.

— Non c’è più. Mi ha detto di dirti che ti richiama dopo. La linea era pessima… ed è peggiorata molto dopo che hai gettato il telefono in terra — disse zia Agnes. — Vostra madre ha detto che nessuno di voi due ha il permesso di uscire di casa finché non ha parlato con voi. È molto arrabbiata — concluse in tono minaccioso.

— Lo immagino — mormorò Josh. Attraversò l’ingresso e si diresse alle scale.

— E dov’è tua sorella? — chiese zia Agnes.

— Non lo so.

L’anziana donna piegò le braccia e scrutò il nipote, con gli occhi socchiusi. — Vuoi dire che se n’è andata così, senza neanche fermarsi a salutare?

— Dev’essere successo qualcosa di importante — replicò Josh, appiccicandosi un sorriso in faccia, anche se dentro stava male.

— Non so cosa vi ha preso, a voi due. Stare via di casa per giorni… senza neanche prendersi la briga di telefonare… I giovani d’oggi non hanno più nessun rispetto.

Josh iniziò a salire le scale.

— E tu dove credi di andare, adesso?

— Nella mia stanza. — Josh sapeva di doversi allontanare dalla zia prima di dire qualcosa di cui poi si sarebbe pentito.

— Be’, puoi anche restarci, giovanotto. Ho la sensazione che riceverete una punizione coi fiocchi, tutti e due! Dovete imparare un po’ di rispetto per gli anziani.

Josh si sforzò di ignorarla e continuò a salire le scale. Raggiunse la sua stanza, chiuse la porta e si sedette con le spalle al muro. Poi strinse gli occhi e fece un respiro profondo, cercando di placare la nausea che aveva nello stomaco.

Sophie era sparita. Era in pericolo.

Aoife l’aveva portata via e lui non aveva idea del perché, anche se sapeva che non poteva essere nulla di buono. Possibile che la vampira lavorasse per gli Oscuri Signori? Perché aveva preso Sophie, e poi perché era scappata?

Nonostante la preoccupazione e la stanchezza, Josh non riuscì a trattenere un sorriso amaro. Quando era corso fuori di casa, Aoife non era spaventata, ma arrogante, e quando le aveva chiesto di restituirgli la sorella, era stata svelta a dire no. Ma poi qualcosa le aveva fatto paura. Forse il modo in cui la sua aura dorata aveva iniziato a plasmarsi in un’armatura?

Il ragazzo si guardò le mani. Erano di carne e ossa, con i palmi graffiati e un po’ lividi per la caduta e con le unghie scheggiate e sporche. Ma poco prima erano avvolte in guanti dorati. Ricordava come l’oro fosse fluito dalle sue mani ai pezzi del bastone, trasformandoli in sbarre di metallo. Quando aveva colpito la macchina, avevano squarciato il vetro e il metallo senza difficoltà; ma nell’istante in cui li aveva scagliati dietro l’auto in corsa e si erano staccati dalle sue mani, erano tornati di legno. Ripensò alla storia di re Mida, il sovrano greco che trasformava in oro tutto ciò che toccava. Forse possedeva un’aura d’oro come la sua.

E poi il sorriso di Josh scomparve. Aveva perso Sophie. Avrebbe dovuto continuare a correre; forse sarebbe riuscito a raggiungerli. Forse, se in qualche modo fosse riuscito a concentrare la sua aura, avrebbe potuto fare qualcosa… anche se in realtà non sapeva cosa. Giurò a se stesso che l’avrebbe ritrovata.

Sfilò lo zaino da sotto il letto. Poi si alzò e cominciò ad aprire i cassetti, tirando fuori vestiti e ficcandoli nel sacco: calzini e biancheria intima, un paio di jeans di ricambio, un paio di magliette. Si tolse i panni sporchi che indossava da Parigi, li gettò nel cesto di vimini ai piedi del letto e iniziò a cambiarsi. Prima di infilarsi la maglietta rossa della sua squadra di football preferita – i San Francisco 49ers – si tolse la busta di stoffa che portava appesa al collo, si sedette sul bordo del letto e l’aprì.

La busta custodiva le due pagine che aveva strappato dal Codice, la settimana prima. Secondo Nicholas Flamel, le pagine contenevano l’Invocazione Finale, quella di cui Dee aveva bisogno per far ritornare gli Oscuri Signori.

Josh scosse la busta e fece cadere le due pagine sul letto, poi le mise l’una di fianco all’altra. Misuravano all’incirca quindici centimetri in larghezza e ventidue in altezza, e sembravano fatte di corteccia pressata e fibre vegetali. L’ultima volta che le aveva osservate veramente, erano sul pavimento della libreria, in mezzo alle macerie, e lui e Sophie erano ancora confusi e storditi per tutto quello a cui avevano appena assistito. Quando le aveva guardate allora, avrebbe giurato che le parole si stessero muovendo, ma adesso invece erano immobili.

Entrambe le pagine erano coperte di una grafia spigolosa. Josh aveva visto delle incisioni simili su antichi manufatti nell’ufficio del padre, e pensò che somigliassero molto alla scrittura dei Sumeri. Una lettera – forse la prima – era colorata in splendide sfumature rosse e dorate, mentre il resto era in inchiostro nero, ancora molto nitido nonostante gli innumerevoli secoli trascorsi.

Il ragazzo raccolse una pagina e la tenne sollevata alla luce. Strizzò gli occhi per lo stupore.

Le parole si stavano davvero muovendo. Strisciavano lentamente, spostandosi e ridisponendosi da sole sulla pagina, formando altre parole, frasi, paragrafi in lingue infinite. Alcune lettere erano quasi riconoscibili – vide dei pittogrammi e delle rune, e riuscì a distinguere qualche carattere greco – ma per la maggior parte gli erano del tutto estranee.

Gli saltò all’occhio una frase in latino: magnum opus. Sapeva che significa “grande opera”. Sfiorò le parole con il dito indice e… nell’istante in cui toccò la pagina, provò una fitta improvvisa di calore nello stomaco; il dito cominciò a fumare, emanando un caldo bagliore arancione.

Poi Josh notò che, mentre tutte le altre lettere intorno a quella semplice frase cambiavano in una dozzina di altri caratteri e lingue, le dieci sotto il suo polpastrello restavano immobili. Non appena sollevò la mano, scomparvero. Fece scorrere delicatamente le dita sulle pagine e osservò sbigottito come intere frasi mutassero e si riplasmassero al suo contatto. Quanto avrebbe voluto che almeno uno dei suoi genitori fosse lì! Loro sarebbero stati in grado di tradurre alcune di quelle antiche lingue. C’erano tracce di latino e di greco sparse nel testo, e riconobbe anche qualche geroglifico egiziano e uno dei glifi quadrati dei Maya.

Memore dell’ammonimento dei Flamel sull’uso della propria aura, Josh sollevò con prudenza la mano, e il testo rifluì nel caos. Infilò di nuovo le pagine nella busta di stoffa cucita a mano, che si rimise al collo: la sentì calda al contatto con la pelle. Non sapeva di preciso cosa avesse appena scoperto, ma ricordava bene che quando Flamel aveva toccato la pagina, la settimana prima, le parole non avevano smesso di muoversi. Fletté le dita: la cosa aveva sicuramente a che fare con la sua aura. Scalciò le scarpe malridotte sotto il letto, poi aprì l’armadio, tirò fuori gli scarponi da trekking che usava per le escursioni con il padre e li indossò. Quindi si infilò lo zaino su una spalla e schiacciò l’orecchio sulla porta della camera, in ascolto.

Riusciva a sentire la zia, giù in cucina… l’acqua che bolliva sul fuoco… la porta del frigo che si apriva… il tintinnio di un cucchiaino su una tazza… la radio sintonizzata sulla stazione nazionale.

Scostò la testa di scatto. La cucina era praticamente sul retro della casa; era impossibile che riuscisse a sentire tutte quelle cose. E poi si accorse del ciuffetto di flebile vapore dorato che si era raccolto nel palmo della sua mano. Se lo avvicinò al viso e rifletté sulla prova fisica della sua aura. Somigliava al ghiaccio secco che aveva visto a lezione di chimica, solo che aveva un debole bagliore dorato e profumava di arance.

Mentre lo guardava, il vapore si riassorbì nella carne e scomparve. Josh serrò il pugno e strinse forte. Aveva visto Sophie creare un guanto d’argento intorno alla mano, e in strada, pochi minuti prima, gli era successa la stessa cosa, in automatico. Ma cosa sarebbe successo se si fosse concentrato di proposito per vedere la sua mano sinistra racchiusa nel guanto di un’armatura?

Subito la sua pelle scintillò, luccicando di pagliuzze dorate. Una debolissima traccia dorata comparve intorno alla mano. Un attimo dopo si solidificò: indossava un guanto di metallo rivettato con le dita culminanti in unghie dorate. Josh strinse il pugno. Il guanto si chiuse, producendo il suono del metallo che cozza sul metallo.

— Josh Newman!

La voce di zia Agnes fuori dalla porta lo fece sobbalzare. Si era concentrato così tanto sul guanto che non l’aveva sentita salire le scale. L’aura si dissolse e il guanto evaporò in riccioli di fumo dorato.

Agnes bussò alla porta. — Non hai sentito che ti chiamavo?

Josh sospirò. — No.

— Ho fatto il tè. Scendi prima che si raffreddi. Ci sono anche i muffin freschi, li ho appena sfornati.

— Fantastico. — Josh sentì un brontolio allo stomaco; i muffin di zia Agnes erano i migliori del mondo. — Mi sto cambiando. Scendo subito. — Aspettò finché non udì i passi strascicati della zia che si allontanava, le pantofole che strusciavano sulla moquette. Poi si guardò di nuovo la mano e sorrise a un pensiero improvviso. Se era capace di plasmare la propria aura senza addestramento, significava che era più potente di Sophie.

Sistemandosi lo zaino su tutte e due le spalle, socchiuse la porta e si mise in ascolto con i sensi amplificati. Riusciva perfino a sentire la zia versare il tè in una tazza, percepiva il profumo del tannino del tè nero appena infuso e l’odore più intenso dei muffin caldi. Gli brontolò di nuovo lo stomaco e gli salì l’acquolina in bocca: gli sembrò quasi di sentire il sapore del burro. Forse poteva fermarsi almeno per un boccone… ma avrebbe dovuto sedersi a tavola con la zia, che avrebbe voluto sapere tutti i particolare degli ultimi cinque giorni. Era già passata un’ora da quando era tornato, e non poteva permettersi di perdere tempo.

Scese in punta di piedi le scale, socchiuse la porta d’ingresso e sgattaiolò fuori nell’aria fresca del mattino di San Francisco. — Scusa, zietta — mormorò, chiudendo piano la porta.

Si sarebbe infuriata, una volta scoperta la sua fuga. Probabilmente avrebbe chiamato i suoi genitori, e lui non aveva idea di quale spiegazione avrebbe potuto dargli.

Una cosa però la sapeva: non aveva intenzione di tornare a Pacific Heights senza Sophie.

I segreti di Nicholas Flamel l'immortale - 4. Il Negromante
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